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Autore: Cassie chan    16/10/2012    6 recensioni
“Divertiamoci così, tu e il tuo cuore infranto, ed io e i miei patetici tentativi di vedere sempre il meglio.”
In un pomeriggio d’autunno a Parigi, si rintrecciano i fili spezzati del destino di Pansy Parkinson e Blaise Zabini. Ma se sei già diventata carta danzante nel fuoco di un altro, forse nemmeno il destino può farci nulla. --- One shot spin off di “Have a little fairy tale”, gli eventi però sono abbastanza comprensibili, non è necessario averla letta.
Genere: Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Blaise Zabini, Dean Thomas, Pansy Parkinson
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago
- Questa storia fa parte della serie 'THE "HAVE A LITTLE FAIRY TALE" SAGA. '
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In sua difesa può dirsi di averci almeno provato.
Quella frase è già una tacita e velata accusa: lei non deve nemmeno azzardarsi a giustificarsi. Quella piccola ed innocente scusa che sta inventando, le ricorda fin dove le cose sono andate avanti senza che lei se ne accorgesse. O meglio, senza che lei si desse pena di fingere di non essersene accorta.
Perché se ne è accorta, eccome. Ha la bocca che brucia da quanto non se ne è accorta.
Ma fin quando è del corpo che si parla, Pansy Parkinson può dirsi che è una donna e che ha degli istinti sani e naturali come quelli di chiunque altra. Può dirsi che, comunque, a ragion veduta doveva soddisfare un sano appetito del suo sangue e che, in questo senso, ogni azione è lecita. Serpeverde fino al midollo, le direbbe.
Fin quando lei parla di pelle, fin quando parla del sesso, Pansy Parkinson è al sicuro.
Ma poi, quando non è più solo la bocca a bruciare, ma anche quella molesta cavità tra i polmoni che non osa nemmeno chiamare cuore, dovrebbe fingere con perizia salvifica di non accorgersi di nulla.
Fare finta che il cuore non bruci.
Lo saprebbe fare, eccome. È una vita che fa l’attrice nella parte di sé stessa. Gesti ad effetto, parole studiate, un contrito segno sul capo. Infine, ultimo inchino e riposo sul proscenio seminascosto agli occhi del pubblico.
Poi le viene in mente di dire, con la voce che le trema: “Mi dispiace…  io ci ho provato…” e tutto il palcoscenico brucia, assieme a lei, al suo cuore, a quello che ci sta attorno e in mezzo, a quello che ci si sta persino fuori. Arrivando ad ardere senza sosta il ragazzo che le sta di fronte.
Lui finge un sorriso scanzonato, buffo, ferito. Le dà un buffetto sulla guancia e mormora annoiato: “Lo sapevo da tempo… ci siamo divertiti… non c’è bisogno di spiegazioni…”.
Pansy si metterebbe il cuore in pace, se il cuore sapesse chiamarlo così. Direbbe un “ciao”, se le sognasse di essere persino gentile, magari persino un “a presto”. Scrollerebbe le spalle, raccoglierebbe le sue cose e con orgoglio, scapperebbe via lontana.
Invece vede le mani di Dean che tremano, mentre le stringe a pugno. Quella cosa dentro, non smette un secondo di avvampare, dandole la macabra premonizione che diventerà cenere di lì a poco.
Non vuole parlare, non vuole dire nulla che non sia un “ciao”, o al limite un “a presto”.
Le labbra invece sussurrano fiocamente: “Va sempre così… lui chiama ed io…”.
“… tu corri…” finisce lui, chiudendosi un pugno con l’altra mano e portandoselo alle labbra. Misura a grandi passi la stanza, lei lo osserva ad occhi chiusi con una parte della sua mente, mentre gira attorno al letto dove lei è ancora seduta. Sente il suono dei suoi passi, sono ticchettii sordi di un orologio invisibile.
Quando i passi si fermano, riapre gli occhi.
Dean, allora, gli chiude lui, non la guarda nemmeno, gli sta di fronte come si sta di fronte ad un passante in una strada affollata. Senza vederlo davvero.
La voce è greve e pesante, non è la sua. Pansy si guarda attorno, incerta. Forse non sta parlando davvero lui. Ci sono solo loro due, però. Lei seduta tra le lenzuola sfatte, che non parlerebbe mai ancora. Lui in piedi al centro della stanza, che non parlerebbe mai ancora. Ed invece dice: “Vai da lui e smettila di scocciarmi…”.
Improvvisamente, Pansy vorrebbe spiegargli, vorrebbe raccontargli del destino, di quella leziosa idea per cui, quando sei di qualcuno, non cessi mai di esserlo davvero. Vorrebbe raccontargli di fili rossi spezzati e di incanti svaniti, della dimensione di tutta la sua vita che non esiste se non sa che, da qualche parte, esiste anche lui, l’altro, quello che adesso non c’è. Vorrebbe parlargli del richiamo che è come la luna per la marea, l’estate per un uccello, la pioggia per un albero.
Le parole, però, non le sono state fornite alla nascita. Gliele sono state date due o trecento, asettiche, con cui deve dire tutto quello che c’è da dire in una vita.
E crede di averle pure dimenticate, quelle due o trecento, magari arse dal cuore che brucia, lo stesso che le chiede ossessivo di essere assecondato. Le sussurra di baciare Dean, illudendola che un bacio possa spiegare tutto, blandendola con la promessa che sarebbe solo una carineria da addio, ordinandole di prenderselo quel bacio, perché è suo diritto.
Non sapere quale sia questo diritto, la immobilizza. Non riesce nemmeno a pensare di muoversi.
Dean, improvvisamente, la afferra per un gomito, la trascina per il salotto e la spinge di malagrazia fuori dalla porta. L’aria, all’esterno, le soffia sul viso acre, acidula. Odora di vento bruciato e castagne secche, le narici pungono del contrasto con quella rarefatta e molle dell’interno dell’abitazione di Dean. La strada e le case hanno il colore bruno dell’autunno marcio di un normale pomeriggio, a Parigi, nel mese di ottobre.
La mano sullo stipite della porta, Dean la guarda mentre ancora non fa un passo. Ha quello sguardo, quello della prima volta che l’ha vista. Repulsione, odio, disgusto. Sputa le parole come se fossero veleno, come se l’avesse ancora nel sangue, come se fosse ancora dentro di lei, come se non fossero passate solo due ore da quando l’ha baciata e ha fatto l’amore con lei sul tappeto dell’ingresso. Anzi… forse la guarda così proprio per questo, perché se la sente ancora addosso, lei e il suo costoso profumo di violetta, lei e le sue sigarette al gelsomino, lei e il suo vestito rosso che adesso le vorrebbe strappare di dosso, senza alcun sottotesto erotico.
Solo per non vederglielo addosso.
Pansy non riesce nemmeno a crederci che possa guardarla così, non può guardarla così. Ma quello a cui non crede maggiormente, è che lei non riesca a guardarlo così a sua volta. Riesce a consentirgli che lui la guardi così, senza che nulla in lei muti davvero. Ha l’espressione di pietra, disinteressata, indifferente di sempre. Dovrebbe fare una smorfia inorridita, roteare gli occhi, artefare il viso affinché sembri in preda ai conati di vomito. Riesce solo a farsi scivolare addosso lo sguardo, riesce solo a non rispondergli con il viso, riesce solo a dargli l’impressione che non stia accadendo nulla, continuando a non fare assolutamente nulla.
Dentro, il cuore schizza in petto, incendiando vene ed arterie e propagando il fuoco ovunque.
Dean chiude la porta, non guardandola più.
Le dice solo con voce dolciastra: “Zabini è il tuo destino… goditelo…”.
 
Sono a Parigi.
Blaise.
Tanto è bastato perché si sciogliesse ogni legaccio che poteva tenerla avvinta alla più normale decenza. Il gufo nero era stato già un segnale, già un indizio. Era planato in camera di Dean, descrivendo un arco elegante ed ampio in modo da non essere nemmeno per un secondo ignorato, così che lei già capisse che non era uno dei messaggi dell’Ambasciata destinati o a lei, o a Dean stesso. Il messaggio le si era aperto in grembo mentre ancora rideva, mentre ancora Dean le agitava davanti un lembo del vestito gettato su una poltrona, mentre ancora le diceva che il rosso le stava meglio che ad una Grifondoro.
Automaticamente, lei aveva ripensato al vestito che indossava la Granger la sera del suo compleanno due anni prima: si era chiusa le spalle, lo stomaco si era stretto in una morsa, aveva represso il sorriso.
Se sono felice, qualcuno me lo porterà via.
Se ammetto, poi, che lui mi faccia felice… io stessa me lo porterò via.
Aveva aperto il messaggio, grata che la carta potesse distrarla. La pergamena era graffiata dalla punta della piuma, come se fosse pelle lesa da infiniti tagli. Ed ogni cosa si era dissolta nel buio.
Cammina affrettata fino all’albergo chiusa nel trench beige, e si alza persino il collo anche se non fa freddo. Il sole illumina le strade bagnate di pioggia, è tutto immerso in una decadente luce ambrata che le dà la malinconia giusta per non smettere di camminare, per sentire dentro che si seda quello sciocco muscolo incandescente. Urta deliberatamente i babbani che camminano allegri sugli Champs Elysee, indicando vetrine e facendosi foto. Quando li sente quasi stringersi a cerchio attorno a lei, togliendole il fiato, prende a correre, i capelli scuri nel vento caldo. Le fanno schifo, le fa senso ogni mano che cerchi di toccarla.
Sguscia via come una lumaca fuori dalla sua casa.
Nell’ascensore  a vetri, si guarda allo specchio: ha le labbra rosse, troppo rosse. Troppo rosso. Fruga nella borsetta, cerca qualcosa, caccia via oggetti che non le servono, non trova nulla di ciò che cerca.
Un rossetto: rosso anch’esso.
Un rosso vermiglio di melagrana, spaccato al cuore, come un rubino incandescente. Ha ancora il cartellino del prezzo attaccato, l’ha usato solo una volta quel pomeriggio, per farselo baciare via da Dean Thomas.
Esce dall’ascensore, la mano chiusa a pugno sul petto.
Getta il rossetto nel primo cestino che trova.
 
 
Ha sempre capito quando Blaise stava male. Ad Hogwarts, quando accadeva qualcosa a lui o a Draco, le sembrava che il cielo sulla Sala Grande cambiasse colore, si caricasse di elettricità, tremasse inconsapevole.
Quando Blaise apre la porta, non ha bisogno di vedere gli occhi azzurri colmi di lacrime represse, e non ha nemmeno bisogno di dare uno sguardo ai lunghi capelli neri, che spettinati ricadono sulle spalle.
Sente solo che quel calore seccante si ghiaccia all’improvviso, sente solo che tutto va a posto, sente solo che ha smesso di sentirsi estranea al suo stesso corpo.
Blaise ha le labbra fredde, congelate, bianche come un bucaneve sbocciato per errore: Pansy si aggrappa al collo della sua camicia e lo bacia senza fargli chiudere la porta, come se temesse che lui la guardi meglio. Blaise ride e piange nella sua bocca, chiude la porta con un piede, la stringe per la vita.
Nel buio, brancola verso di lei come un affamato nel deserto, ne cerca il corpo sotto il vestito, cerca bottoni ed asole. Poi si rende conto che ha un abito addosso, che deve sfilarglielo ed allora la lascia andare per un momento, concedendole che si tolga di dosso il trench pesante e lo lasci cadere per terra.
Sebbene la sola fonte di chiarore sia una lama di luce che proviene dalla porta chiusa, Pansy conosce ogni tratto di Blaise, conosce la smorfia degli occhi chiari mentre attende che si spogli, conosce le labbra sottili serrate che si mangiano tra loro, conosce le spalle contratte e le mani lungo i fianchi.
Il vestito le cade dalle spalle come una pelle vecchia, lo spinge via con il piede, la luce della porta lo colpisce come il crudele faro di un porto lontano. Gli occhi le bruciano, come le bruciava prima quella cosa dentro.
Un vestito rosso.
Cosa fa Dean quando sta male?
Blaise la cinge di nuovo alla vita, la bacia lungo il collo, lei reclina la testa all’indietro, gli accarezza distrattamente i capelli lisci che le solleticano il mento.
Dean che cosa fa, quando sta male? Pansy si lambicca il capo, si morde il labbro, diventa cieca e sorda. Poi, dopo gli occhi, riprende a bruciarle anche la bocca. Teme che Blaise se ne accorga, cerca le sue labbra fredde, lo attira con prepotenza verso di lei. Dean ride quando sta male. E peggio sta, e più sorride.
Tre mesi fa entrò in ufficio, senza rivolgerle nessuno dei soliti appellativi scherzosi. Non se ne accorse, ma tutti i suoi sensi si misero in allerta, come uno stupido cagnaccio da caccia alla ricerca di una preda. Dean non parlava, non riempiva il silenzio della stanza che sapeva di carta ed inchiostro. Se ne stava seduto alla scrivania, guardando i fogli che normalmente avrebbe degnato d’attenzione solo quando lei lo avesse minacciato di fargli venire la gonorrea con una fattura. Leggeva i fogli e basta, li leggeva e non parlava. Pansy sollevò lo sguardo che, di solito, avrebbe tenuto incollato al suo lavoro fino all’ora di pranzo. E lui lo alzò nello stesso momento, aveva un mare di scintille nel nocciola degli occhi. E sorrideva, un sorriso storto, sghembo, che gli arrivava a malapena agli occhi plumbei. “Mia madre… è morta ieri sera…”. Pansy si strinse nelle spalle, chiuse gli occhi, non disse nulla. Da due anni, bastava che lui aprisse bocca e lei si sentiva in dovere di rovesciargli addosso ogni frecciata con cui si poteva colpire la razza umana. Non disse nulla, strinse le mani in grembo sotto il tavolo. “Grazie…” disse lui ancora, sorridendole. Ore dopo, ancora, quella strana caverna nel petto la riscaldava tiepida.
Riderebbe anche lei, adesso, se potesse, se sapesse. Riderebbe perché lei che pensa alla morte della madre del mezzosangue Thomas, mentre sta per fare l’amore con il suo Blaise dopo due anni in cui non si vedono, ha in sé qualcosa di effettivamente comico e grottesco. Trattenersi quella specie di risata in gola, le fa bruciare le corde vocali come se stesse urlando. Le esce fuori un singulto tremulo, un gemito trattenuto.
Blaise si stacca da lei, la guarda, il buio non potrà mai renderli ciechi. Sa che lui le scruta ogni piega del viso, sa che non conosce quel lamento che è rimbombato nel silenzio, sa che hanno mescolato piacere e dolore così tante volte, da conoscere ogni emissione di fiato.
Blaise, però, non riconosce quel suono, non l’ha mai sentito. È la prima volta che lo sente in lei.
“Non è nulla…” sussurra Pansy, la prima parola che gli dice, dopo due anni, è la negazione di un altro. Gli stringe il viso tra le mani, gli accarezza i capelli sulla nuca, si inarca contro il suo corpo. Blaise sa che non è così, sa che c’è qualcosa dentro quel nulla, sa che improvvisamente in lei c’è un pezzo stonato.
Lo ignora, aggrappandosi al bisogno, le bacia le dita una ad una, tralascia il sospiro di lei che assomiglia al sollievo. È sollevata perché lei riesce sempre a convincere Blaise, potrebbe dirgli adesso che fuori sta nevicando fuoco e lui le crederebbe. Ha sempre affidato vita, anima e destino a lei, e non se n’è mai pentito.
Dean, invece, non le crede mai.
Le mani di Pansy, mentre sfilano la camicia di Blaise, tremano, le cade il tessuto dalle dita, scivola al suolo come una foglia morta. Il pensiero si è insinuato in fondo allo stomaco, senza darle preavviso, preme contro i polmoni, rende l’aria che respira incandescente. Dean non le crede mai. Mai, qualsiasi cosa lei dica. Si sono baciati la prima volta alle festa di Natale dell’Ambasciata, dieci mesi prima. Le chiacchiere alcoliche dei colleghi, il vischio sotto cui non doveva capitare, lei che incrocia le braccia e dice che non se ne parla proprio, non vuole prendersi qualche malattia. Gli incitamenti, le risate attorno, cori quasi da campo di Quidditch. Dean che prima ride, mentre la guarda. Sbuffa poi, guardando gli altri invitati. Le solleva il mento con due dita, si sporge su di lei, la stringe con il braccio libero. Le sue labbra che sono calde, roventi. La sua bocca che diventa un fiore di fuoco nella sua. La scossa tellurica che frana sulla pelle della schiena, il desiderio di volerne ancora quando si stacca. Urlare: “Thomas, la prossima volta tieniti la lingua in bocca,  cortesemente!”. Risate. Lui che sorride: “Ti è piaciuto così tanto da parlare già della prossima volta?”. Glielo dice in un orecchio, nessuno ascolta, lei trema come la cera di una candela. “Non dire sciocchezze… mi farò dei gargarismi con l’acido appena arrivo a casa…”. Rispondere affrettata. Lui le accarezza le labbra con un dito, sorride quando lei inconsciamente le dischiude ancora. Non sorride tracotante, arrogante, presuntuoso. Sorride come sorride lui, come sorride sempre.
“Continua a crederci, piccola… magari un giorno te ne convinci sul serio…”.
Glielo dice di nuovo la sera di Capodanno, quando la bacia ancora e lei urla che le fa schifo che la tocchi.
Glielo dice di nuovo a gennaio, quando lei, senza esitare, gli dice di nuovo che prova solo schifo per lui.
Glielo dice ancora a marzo, quando lei gli garantisce che non le importa della troietta con cui si vede.
Glielo dice ad aprile, quando lo bacia davanti alla sua ragazza, replicando che è stato solo perché quella le sta sulle scatole. E glielo ripete ogni sera da maggio in poi, quando fanno l’amore e lei dice che è solo sesso e che è stata l’ultima volta. Glielo ha detto anche quel pomeriggio. 
“Blaise è il mio destino… è sempre stato così…”.
“Continua a crederci, piccola… magari un giorno te ne convinci sul serio…”.
E lei ci crede, davvero. Ci ha sempre creduto e sempre ci crederà. Lo stomaco le brucia come se ci si fosse sciolto dentro un vulcano inesploso. Spinge Blaise verso il letto, lui la libera dalla biancheria e lei fa altrettanto. Sono pelle contro pelle, bocca contro bocca, nel buio che ha la compassionevole misericordia di nasconderle i pensieri. Ormai sono annacquati residui di parole. Quando Blaise sarà in lei, spariranno.
Tornerà quel rassicurante senso di gelo interno, si placherà il fuoco, andrà a dormire la fiamma.
Blaise lascia che lei rimanga su di lui, lascia che lei conduca, lascia che sia lei a decidere cosa vuole e come lo vuole. Pansy tira indietro la testa, i capelli le accarezzano la schiena nuda, tingendola di notte scura. Un tiepido raggio di sole le colpisce infingardo il petto, scappando dal tendaggio pesante della stanza.
È un raggio di sole morente, oro rosso del tramonto, disegna una piccola trama di luce nell’incavo tra i seni. Senza accorgersene, chiude il pugno sul petto, sullo stomaco che brucia. E il sole incendia anche quello che rimaneva di gelido dentro di lei. Ansima di dolore, Blaise non se ne accorge, entra rapido in lei, la rovescia sulle lenzuola, la toglie dalla luce. Quando arrivano a quel punto, quando l’eccitazione lo sconvolge, quando la mente non va più dietro al corpo, quando è molto triste, Blaise la prende senza esitare, non lascia nemmeno spazio a che lei parli o gema, non si ferma e, rapido, si impossessa di lei.
La prima volta che avevano fatto l’amore, le era sembrato un sogno: qualcuno che la togliesse da sé stessa, dal possesso estremo che aveva della sua anima, dalla gelosia che nutriva per qualsiasi cosa le appartenesse.
Blaise era il solo che sapeva assecondare il suo desiderio di voler appartenere a qualcuno.
Non l’avrebbe mai confessato, ovvio. Era come un cucciolo che si raccoglie in strada, mordeva ed abbaiava, e poi voleva essere presa in braccio e portata al caldo.
Nel sesso, Blaise le ridava tutto quello che lei gli dava nel resto del tempo: dipendevano nel bisogno, lui e lei, l’uno dell’altra. Bisogno che era oltre l’amore, l’amicizia. Oltre ogni cosa. Oltre ogni cosa.
Pansy gli è grata di annullarla ancora. È grata a Blaise di cancellarla e di nasconderla da sé stessa. È grata per quel gelo che, fulmineo, inizia a salire dalle gambe strette attorno al suo bacino.
Avanza, portandosi via il caldo, avanza. E lei, prima di conoscere piacere e gioia, conosce pace.
Ammanta di pace la carezza che fa sulla nuca di Blaise, mentre lui si spinge più a fondo dentro di lei.
Blaise non la bacia mai quando è in lei, non la accarezza più, si dimentica di lei. Gli è grata.
Dean non si scorda mai di lei, nemmeno per un momento. Pansy trasale, è benzina sulle braci addormentate nel petto, Blaise viene dentro di lei, scivola sul suo corpo disteso, gravando con il suo peso su di lei. Gli è sempre piaciuto schiacciarla contro di sé, sentirla sua, avere la percezione che di lì, non potesse scappare.
Dean no, lui è uno stupido sciocco romantico che vuole lasciarla libera. Non cessa mai di guardarla negli occhi. E se lei sfugge il suo sguardo, le volta il viso verso di lui. “Sei con me, adesso… se non ci sei, meglio che ti alzi e te ne vai…” le dice, le ricorda sempre. Quando sta per scoppiare, la attira in un bacio lungo, denso, vischioso di promesse. Non smette di guardarla negli occhi, la bacia ad occhi aperti. La prima volta, quando è successo, Pansy ha pianto, si è sentita così male da avere paura di andare a pezzi. È rimasta seduta sul letto, abbracciandosi scioccamente le ginocchia. È rimasto accanto a lei, immobile, seduto anche lui. Arrabbiato, deluso, sconvolto. Ma non se n’è andato. “Vuoi stare con me solo quando andiamo a letto assieme? Mi va bene. Divertiamoci così, tu e il tuo cuore infranto, ed io e i miei patetici tentativi di vedere sempre il meglio. Va bene, facciamolo sto gioco… ma me lo devi. Mi devi di stare con me, davvero, in quel momento. Altrimenti vattene via. Non ho voglia di farmi un manichino ogni volta. Per tutto il resto del tempo, non vuoi stare con me… e te lo lascio fare. Ma se non vuoi stare con me almeno in quel momento… sono io che non te lo lascerò fare”. Non ha detto di sì, non ha detto di no. Ma non se n’è andata.
Lei non se n’è mai andata.
Blaise le sta addosso, le impedisce di respirare. Ma anche se il cuore non ha ossigeno, brucia lo stesso. Teme che lo senta anche lui, si divincola dalla sua stretta. Blaise, senza capire, si stende di fianco accanto a lei. Le tocca la guancia, Pansy piange e guarda il soffitto nero. Piange anche lui, l’abbraccia.
“Tra un mese io e Daphne ci sposiamo…”.
E Pansy vorrebbe davvero aprire bocca per vendetta, per volontà di ferirlo. Vorrebbe davvero che tutto non si sciolga dentro, come se fosse piena di denso miele.
Lo stesso miele di certi pomeriggi a Parigi, quando Dean guarda fuori dalla finestra di casa sua e diventa liquido di luce bronzo.
Vorrebbe non sentire quelle parole nelle sue orecchie, quelle parole che non sono mai esistite tra le due o trecento che lei conosce. Sono spuntate come funghi in un sottobosco, adesso spargono spore brucianti nel suo corpo, senza che lei le possa ignorare.
Le sono sembrate sempre spore velenose, perché hanno l’effetto di alienarla da sé stessa. Forse per quello, la sua natura per difendere sé stessa, non le aveva mai conosciute. Adesso, però, ci sono.
Adesso è impossibile fingere che non se ne sia accorta. Singhiozza, Blaise non capisce.
È sconvolto perché non la capisce. Pansy è sconvolta perché non la capisce.
In quella mancata comprensione l’uno dell’altra, sta il senso di tutto.
“Mi sono innamorata…” il cuore appicca il fuoco a tutto il suo corpo, forse ha la febbre.
“E allora?” chiede Blaise, anche lui quella parola non la conosce, non la capisce e non gli interessa. Si sono innamorati decine di volte negli anni, ma tra lei e lui non è amore. È ogni cosa. Potrebbe persino dire di essere innamorato di Daphne. Ma lei, Pansy, è ogni cosa. Che c’entra l’essere innamorati? Anzi magari aiuta, dovrebbe accogliere quella notizia con gioia, godere del suo contentino, magari sposarsi pure, come farà lui, lasciare che qualcuno si prenda cura di lei a tempo pieno, così non pretendono nulla di più l’uno dall’altra.
Blaise per un momento, è persino immensamente felice, avviluppato nel loro destino.
Tutto può continuare per sempre.
Possono restare in vita mangiando le briciole di quello che li danno gli altri, così da sopravvivere fino a quando si hanno di nuovo.
E poi lei parla ancora. Non è innamorata come intende lui, è un’altra parola. Non sa nemmeno pensarla quella parola su di lei e su un altro che non sia lui.
Pansy si rimette seduta, si copre con il lenzuolo, piange. Fioriscono le parole che voleva dire poco prima a Dean, ma nascono capovolte, rovesciate. O forse, allora, sarebbero state storte e adesso si sono raddrizzate.
Non lo sa. Non le importa.
“Non lo voglio più questo destino tra le mani… quello di appartenere a me stessa, sempre… e di appartenere a te, ugualmente sempre, qualsiasi cosa succeda…”.
Blaise rimane immoto, fissa il punto buio dove dovrebbe esserci lei.
Pansy ha le parole che inciampano l’una sull’altra: sembra una bambina piccola che fa fatica a ragionare. Ma, proprio per questo, proprio perché usa parole nuove, Blaise capisce che non è già più lì.
Non ha mai sentito dirle quelle parole. Non sapeva nemmeno che le conoscesse. 
Voglio solo che sia lui, per sempre… e perché lo voglio, non perché è scritto così, perché ci credo al punto da convincermi davvero… Blaise, io non so che cosa mi succede… sei tu, sono io, siamo noi… eppure riesco solo a pensare che lui non c’è… che non è qui… e vado a fuoco dentro questo pensiero…”.
“Che cosa vuoi dire? Io non… non ti capisco…”.
Non può capirla. Non la riesce a capire.
Pansy ripensa improvvisamente a Draco, che ha rischiato tutto, persino sé stesso, per stare con la Granger.
E le serpi sono sempre dannatamente gelose di sé stesse.
Sacrificare, adesso, su una pira infuocata tutto… anche sé stessa, anche Blaise che, in fondo, è sempre stato una parte enorme di sé stessa al punto che non sa dove finisce lui ed inizia lei… distruggersi tutta, pur di stare con Dean, pur di sfiorarlo ancora, pur di baciarlo ancora, pur di sentirsi dire che il rosso le sta meglio che ad una Grifondoro… deve essere impazzita, magari il calore nel petto è solo il principio di una malattia mortale. Magari, perderà anche lei. Esattamente come Draco.
Draco. Se lo ricorda ancora adesso dopo due anni.
I Mezzosangue li hanno restituiti a sé stessi, li hanno convinti che possono essere amati essendo null’altro che loro. E per una serpe, così dannatamente gelosa di sé stessa, è la più grande delle lusinghe, niente reggerebbe al confronto. Neanche il destino.
Con la loro dannata gentilezza di roccia, prima ti dicono che avranno sempre sufficiente luce, calore e bene per tutti e due. Basta che ti lasci amare. Ed un giorno sei così pieno di maledettissimo calore, luce e bene, da pensare che hai una malattia mortale. Te l’hanno fatto nascere, senza che tu potessi anche solo fingere di non essertene accorto. E a quel punto, è troppo tardi per rificcarti a forza dentro il fato, non quando mentre sei ancora distesa nuda accanto al tuo destino, già ripensi a quando farai di nuovo l’amore con lui, che non permetterà per nessun motivo al mondo che tu te ne vada da te stessa. Perché vuole sempre e solo te stessa.  
Pansy si rialza, veloce, improvvisamente di fretta. Si riveste come se ne andasse della sua vita. Vuole la luce del sole, spera che non sia già tramontato, si accontenterà di quella della luna, basterà anche un lampione.
Blaise non la ferma. Pansy apre la porta, le pupille si restringono, non lo guarda ancora.
“Mi dispiace… io ci ho provato…” dice alla porta che si chiude.
Nell’ascensore, davanti allo specchio, stende sulle labbra il rossetto recuperato dal cestino.
 
Place de l’Opera, a mezzogiorno: gente che corre, che sbatte l’una sull’altra. Si fa rapire gli occhi dalle statue dorate che brillano di luce sulla facciata dell’edificio. Ha gli occhi sempre pieni di scintille da giorni, odia il buio, quando cala la sera vorrebbe solo che ritornasse immediatamente il sole.
“Ti ho portato il libro che avevi dimenticato a casa mia…”.
Pansy si volta, i capelli neri spiccano sul rosso del cappotto leggero. Dean non sorride, chissà se sta male, chissà se sta bene, chissà che cosa sente. In quel caldo cantuccio dentro, sente che adora non sapere che cosa sta pensando. Specie quando solleva il mento e gli dice con espressione altezzosa: “Blaise se ne è andato…”.
“Mi dovrebbe interessare?” replica lui scocciato, schioccando la lingua. Sta imparando qualcosa da lei, allora.
Ma il guizzo negli occhi scuri non lo riesce a nascondere. Male, Thomas. Così mi rendi tutto troppo facile. Quel gioco vorrebbe continuarlo per sempre: lasciare che il desiderio la sconvolga, eppure trattenersi mentre si imprime nella memoria ogni minima piega della sua espressione.
Pansy, dopo un po’, incrocia le braccia e riprende innervosita: “Considerato che è colpa tua che se ne è andato, dovresti farti un esame di coscienza… non fanno così i Grifoni, come te, Thomas? Vi prendete a pugni il petto in segno di rimorso, no? Quindi inizia subito… se non mi fossi innamorata di te, adesso sarei la mantenuta di un riccone che mi ha sempre amato… ed invece adesso, nella migliore delle ipotesi, sarò la moglie di un Mezzosangue che guadagna troppo poco per comprarmi un solitario decente… minimo mi devi un risarcimento danni…”.
Dean socchiude gli occhi, non sorride ancora. Pansy lo guarda senza respiro, perché non sorride? Sta male? Non la vuole più? Il pezzo di ghiaccio ardente che ha in petto, prende a battere come un forsennato.
Quando Dean finalmente apre bocca, Pansy crede di aggrapparsi ad ogni parola come se fosse l’ultima.
“Facciamo che ti amo pazzamente per i prossimi ottant’anni… va bene come risarcimento?”.
Lo conosci anche tu allora le regole di questo gioco, Thomas. Buono a sapersi.
È un pensiero già diluito nel sangue, che scivola via come una sciocca abitudine adolescenziale che non riesce a dismettere. Diventa donna, dismettendo orgoglio, deponendo difese, abbandonando diffidenza.
Diventa donna, quando non ce la fa più ad aspettare ed allora sorride lei, piegando la testa di lato.
Lui diventa il suo uomo, quando le sorride finalmente, scuotendo la testa incredulo.
Avranno anni, almeno ottanta, di beata incredulità l’uno nei confronti dell’altra.
Pansy sente che il cuore ancora brucia, ma forse fa meno male. Anzi, non fa male. Fa solo bene.  
“Diciamo che possiamo iniziare da lì…” concede magnanima.
Dean le si avvicina, fermandosi di fronte a lei.
“Meglio iniziare subito allora…” sussurra sulle sue labbra, prima di stringerla per la vita e baciarla a lungo.
Sono nello stesso incendio, adesso.
 
 
“Mettimi subito giù! Dean! Giuro che ti schianto se ti azzardi di nuovo a farmi girare come uno stramaledetto Giroscopio!”.
“Continua a crederci, piccola… magari un giorno te ne convinci sul serio…”. 
 

   
 
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