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Autore: Morganica    16/10/2012    0 recensioni
" -Ora chiudi gli occhi. E fuggi da ciò che non è mai stato destinato ad essere tuo."
Ciò che si sente e ciò che si dice, dov'è il confine tra reale ed irreale, tra quanto la mente può percepire o semplicemente inventare?
Breve introduzione a questa mi prima storia che mi piacerebbe portare avanti e migliorare, per questo commenti e recensioni di ogni genere e natura saranno più che gradite.
Detto questo, buona lettura.
Genere: Dark, Drammatico, Mistero | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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-Shh! 
Non fiatare, non parlare, non respirare. Potrebbe sentirci.

La mano che serra la bocca è bianca, diafana così tanto da rendere la luce del sole quasi riflessa come fosse una superficie d’acqua.
La voce che intima di tacere è un sussurro ed è bloccata da una stretta che le pressa sulla bocca.
Sono le sue stesse labbra che parlano a se stessa, la confusione l’agguanta come se una mano coperta da uno spesso strato di pelle nera stringesse dalla vita in una morsa senza via d’uscita ed incapace di lasciare tracce facili da ritrovare
Una lacrima le riga il viso, scivola dalla guancia fino alle mani che ancora le serrano le labbra con foga crescente. 
Nulla sembra scomporre la potenza che attanaglia il suo viso, eppure nessun muscolo facciale si stava muovendo a parlare, c’era solo quel pianto lungo e silenzioso in quella posa accovacciata accanto a quanto rimaneva di un albero scisso di netto dall’impeto di un fulmine.
Il suo tronco è ampio, le copre la schiena e la terra è così vicina al suo viso da sentirne l’odore, percepirne l’umidità, la sua consistenza.
Cosa stava accadendo? E’ questo ciò che si domanda nel silenzio della sua mente che prevalica su quella realtà talmente dilatata da essere deformata. Gli occhi non vedevano più come prima, le lenti degli occhiali cadono a terra e come se la peggiore delle bestie fosse davanti a lei il piede rapido calpesta la struttura ed i suoi vetrini che si spezzano sotto la violenza del colpo inferto.
Le iridi si spalancano nel gesto insensato che però riesce a percepire così dettagliatamente. Normalmente non avrebbe visto nulla, o ben poco, una miopia troppo profonda la costringeva a quegli occhiali da un’età che non sapeva datare. 
Ora? Cos’era accaduto a quella parte di sé? Cosa stava succedendo?
La domanda che la mente grida ma la bocca reprime, troppo impegnata a dar spazio ad altro, ad un’altra voce che non sembra più la propria.

-Non ho bisogno di nulla, non delle tue mancanze. 
Maya guarda il mondo. 
Osserva questo bosco ed il suo respiro.
Lo senti?

Una pausa quasi teatrele si estende. Maya annaspa sulle sue stesse mani che il viso stringono.
Una violenza sul proprio corpo, inferta dalla sua pelle contro la sua pelle, labbra che intimavano alla sua stessa voce di tacere. Era pazzia? Cos’era se non quello?
Chiunque avrebbe assistito alla scena l’avrebbe detto, ma non lei, non la ventenne che continuava a dimenarsi contro quel fantasma dentro se stessa.
Era divenuta un’ospite indiesiderata delle ossa che erano cresciute con lei, della pelle che aveva occupato, del viso che le aveva permesso d’esprimere i suoi sentimenti, i suoi pensieri.
Ha poco tempo per pensare, ancor meno per rispondere infatti non ci riesce finendo per udire nuovamente quella voce che irrompe dalle sue labbra ma che propria non è.

- Io sì.

Le mani dalla bocca s’incrociano sotto il mento a stringere la mandibola in una morsa che permetteva appena alla bocca di esprimere quegli ordini. Un tono che nessuno avrebbe potuto riconoscere come legittima proprietà della ragazza, un’espressione di dolore e paura che rendeva assurdo quel parlare così distante da lei.
Una lotta all’ultimo respiro, nell’annaspare d’ogni cellula. Veloce come un virus, lento come un’agonia, un dualismo nella tortura difficile da strappare dalla scena. 
A parlare è ancora Lei rendendo la bocca una meta irraggiungibile nell’incapacità di tirare le redini da parte di Maya.

-Ora chiudi gli occhi. E fuggi da ciò che non è mai stato destinato ad essere tuo.

La voce s’abbassa di tono graffiando la gola per la guttoralità che acquista in quell’espressione. Il panico scivola in un ghigno che prende il sopravvento su quelle lacrime che ancora non s’interrompono.
Gli occhi si chiudono a lungo, mentre i denti si mostrano a quella raduna così ad est di Belfast da rendere il rumore dell’impeto delle scogliere come un sottofondo piacevole ad un addio quanto ad un nuovo prologo.
La schiena si schiaccia in avanti, le mani strappano fili d’erba e la terra impregna le mani e le dita della sua consistenza.
Era dolore quello che percepiva? Lo si poteva definire tale se nessuna terminazione nervosa ormai rispondeva al suo desiderio? Neppure delle lacrime riesce più a disporre, le dita sono una sensazione lontana, il vento sulla pelle lo è.
La materialità, la fisicità diventa un ricordo.
Un gemito profondo.
Uno stormo d’uccelli abbandona l’albero spettatore della di quel passaggio di testimone doloroso quanto definitivo.
Solo quiete. 
Lento lungo e denso è l’abbraccio del silenzio. 
Non è il vagito a sancire con la natura la nuova nascita, ma una risata, profonda ed acuta che sale a librarsi ben oltre il canto degli uccelli che si era alzato poco prima.
Ora la foresta sembra essere in attesa di quell’alzarsi che non manca di giungere. Le mani tastonano il terriccio che invade le narici di quel primo respiro.
Le ciglia chiare battono velocemente a riconoscere il moto di ogni centimetro della pelle.
Un passo e poi l’altro, riprendere a camminare non è un tappa lenta ma un celere prendere confidenza e stendere i muscoli.
Nella posizione eretta il mondo sembra più facile da osservare, Deirdre lo sa, lo ricorda ancora, come non fa fatica a muovere le mani a mandare indietro i capelli che il vento le agita.
Sono biondi terribilmente chiari e simili alla pelle che scorge a coprirle il corpo.
Sa già che avrà nostalgia delle sue calde e scure carni, del corvino dei suoi capelli ricci, epppure Maya era stata quella giusta.
Il mezzo per la rinascita.
La natura irlandese riprende il suo moto mentre Deirdre scopre come stare salda su quelle gambe tanto fini.
Gli scogli sono la sua meta. E’ l’odore di quel mare che la richiama superando il vociare dell’erba sotto i suoi piedi, delle fronde che la sfiorano in quel suo farsi strada lentamente.
Socchiude gli occhi finchè l’acqua non le raggiunge la vita rendendo l’abito tanto inutile quanto seconda pelle su di sé. 
Il mare meritava un sacrificio, la natura meritava un ringraziamento quella sua nuova vita doveva godere di un’ offerta. 
La lunga treccia della ragazza viene recisa poco sotto le spalle lasciando i capelli feriti da un taglio instabile.
Maya aveva perso il suo corpo, la sua anima eppure in quella mutilazione un suo singhiozzo fa eco nella mente ancorata alle cellule della nuova ospitata…
Un ghigno che osserva la matassa chiara dondolare con le onde del mare si mostra vittorioso sulla vita spezzata e su quella vigorosa e nuova che avrebbe potuto ora godere dopo quel sonno durato cinquecento anni…



  

  
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