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Autore: Aniel_    17/10/2012    10 recensioni
Rise Dean, rise di amarezza e di tristezza, perché era stanco e aveva bisogno di qualcuno. Aveva bisogno di un amico.
«Potresti mandarmi un angelo» azzardò, guardando il cielo, «l'angelo più carino che hai.»
Genere: Introspettivo, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Castiel, Dean Winchester, Sam Winchester, Un po' tutti
Note: AU, Cross-over | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Nessuna stagione
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Fandom: Supernatural.
Pairing: Castiel/Dean
Rating: G
Beta: vampiredrug (falafella ♥)
Genere:  introspettivo, sentimentale
Warning: one shot, pre-slash (o slash? Ognuno vede ciò che vuole vedere!)
Summary: Ohana significa famiglia e mentre Dean cerca di tenere insieme i pezzi della propria, Castiel scopre cosa vuol dire combattere per la persona che si ama.
Note: ho dovuto optare per un Sam bambino e un Dean adulto (intorno ai vent'anni) per far scorrere al meglio la storia. Concedetemi questo piccolo adattamento, ne ho avuto bisogno per il fine della trama stessa. Ringrazio davvero dal profondo del cuore la falafella che ha avuto la pazienza di leggere tutto questo delirio e il gruppo adorabile Slash Fan che mi hanno aiutata a trovare il titolo perfetto. 
 
DISCLAIMER: I personaggi non mi appartengono. Ahimé...no. #sadness

"Ohana"
 

Scappare perché si è diversi. Scappare per non morire.
Castiel non aveva avuto molte alternative: era diverso, era sbagliato, era cattivo e quelli come lui, semplicemente, non potevano sopravvivere. Sentì la sentenza di Michael rimbombare all'interno di un cerchio di fuoco che avrebbe dovuto trattenerlo, ma da cui alla fine si sarebbe liberato.
Perché Castiel era diverso dagli altri angeli.
Era sbagliato in confronto a coloro che bramavano solamente l'approvazione del Padre.
Era cattivo perché desiderava, ardentemente, qualcosa di più.
Spiegò le ali e si lasciò cadere dal regno dei cieli, percependo l'aria gelida accarezzargli il viso. Chiuse gli occhi nell'attesa di un impatto ancora troppo lontano.
 

[...]

 
Dean Winchester amava e odiava Kanuai, una piccola isoletta delle Hawaii dimenticata da Dio. La amava perché era sempre stata la sua casa, la odiava perché in quello spazio ristretto era costretto a vivere una vita monotona, regolare e, a tratti, frustrante. Ma non aveva il tempo di lamentarsi.
In realtà, non aveva il tempo di fare praticamente nulla che non fosse correre a casa alla prima occasione e assicurarsi che Sam, il suo fratellino minore, stesse bene.
«Pianeta terra chiama Winchester...ehi? Sei tra noi?» lo strattonò Jo per un braccio, riportandolo alla realtà, «il tavolo cinque sta aspettando da venti minuti. Ma dove hai la testa si può sapere?»
Dean scosse il capo e ostentò il sorriso migliore che riuscisse a tirar fuori. Apparentemente funzionò perché il viso della ragazza si rilassò istantaneamente.
«Sì Jo, sto bene» rispose, ammiccando. «Sono solo stanco.»
La ragazza sbuffò fingendosi infastidita, portandosi una ciocca ribelle di capelli biondi dietro l'orecchio. «Hai fatto le ore piccole anche ieri notte?»
«No» ribatté stizzito, prima di abbassare il tono della propria voce, avvicinandosi all'amica fin quando non si ritrovò ad un soffio dalle sue labbra, «ma potremo farle quando stacchiamo...stasera...noi due...le ore piccole.» aggiunse, lascivo.
Jo avvampò ma non si scompose. Dean era forse fin troppo consapevole dell'ascendente che aveva su quella ragazzina e di quanto Jo lo desiderasse dal primo momento in cui aveva messo piede nel locale della madre.
A dire il vero, Dean aveva sempre riscosso un certo successo: i capelli biondicci baciati dal sole, la pelle abbronzata e perfetta, il fisico statuario, occhi verdi luminosi e accecanti, erano particolari che non passavano affatto inosservati agli occhi delle ragazze e Dean sarebbe stato un fesso a non approfittarne.
«Non cederò mai alle tue avance, Winchester» rispose Jo, impettita, lanciandogli addosso uno strofinaccio. «A quel tavolo ci penso io. Tu pulisci gli altri e poi puoi andare a casa. E per l'amor del cielo Dean, domani cerca di essere più puntuale! Non ti coprirò più con mia madre, spero di essere stata chiara.»
Dean sorrise e l'afferrò per la vita, schioccandole un sonoro bacio sulla guancia.
Dopotutto la vita a Kanuai non era poi così male.
 

[...]

 
Quando Castiel aprì gli occhi avvertì un dolore sordo attraversarlo da parte a parte: era ferito, disteso sulla riva del mare, le ali scure come la notte tremavano a contatto con l'acqua. Rotolò su un fianco e tossì, cercando la forza di rialzarsi e magari prendere il volo; ma la stanchezza era troppa e un freddo innaturale scosse le sue membra intorpidite dall'impatto con il suolo.
Dopo l'ennesimo tentativo andato in fumo, semplicemente si arrese, lasciando che il proprio corpo sprofondasse nella sabbia salmastra. Fece per chiudere gli occhi quando udì un respiro pesante farsi sempre più vicino; spalancò le palpebre e ripiegò le ali su se stesse per renderle invisibili agli occhi di possibili nemici.
Ma quello che vide non era affatto un nemico.
Un piccolo esemplare di essere umano lo osservò con sospetto e preoccupazione, stringendosi i lembi di un giubbotto di pelle troppo grande per lui al petto.
«Ehi, tu» gridò, a debita distanza, «stai bene?»
Castiel fece forza nuovamente sulle braccia e si mise seduto, inclinando il capo. Era un essere umano molto piccolo, non poteva avere più di otto anni di vita.
«No.» sbottò, più duro di quanto intendesse.
Il bambino stirò le labbra in una sottile linea di carne, confuso. Accorciò le distanze di qualche passo. «Hai bisogno di aiuto?» domandò, con la voce squillante e cristallina dei bambini di quell'età.
«Non ho bisogno di niente» ribatté Castiel, tirandosi in piedi velocemente.
Il bambino indietreggiò spaventato ma non se ne andò. «Sembri triste. Anche mio fratello fa quella faccia quando è triste. Dean aveva quella faccia quando mamma e papà sono andati in cielo.»
Castiel aggrottò la fronte. Non aveva idea di chi fosse quello strano bambino né di chi stesse parlando e nonostante la cosa non lo toccasse minimamente non riuscì a voltare le spalle ed andarsene. Aveva una luce negli occhi quel ragazzino, una luce vivida e accecante che lo attirò immediatamente.
«I tuoi genitori sono morti?»
Il bambino chinò il capo e annuì. «Dean dice che la mia mamma ora è un angelo che mi protegge.»
«Questo non è possibile» rispose aspro Castiel «quando gli umani muoiono non diventano altro che polvere. Non diventano angeli. Tuo fratello ti ha raccontato una menzogna.»
Una luce calda - diversa, incandescente, arrabbiata- si accese negli occhi del bambino, che accorciò le distanze raggiungendolo con poche falcate e guardandolo da sotto in su. «Mio fratello non dice le bugie, e tu non lo conosci.» tuonò, e a Castiel venne da sorridere di fronte all'impudenza di quel piccolo umano.
«Comunque» continuò il bambino «io mi chiamo Sam Winchester, come quello del cartone dove le persone sono gialle. Tu come ti chiami?»
«Castiel.»
«E di cognome?»
L'angelo inclinò il capo. «Castiel.» ripeté.
Sam parve sorpreso. «Ti chiami Castiel Castiel? Che strano.» osservò, strizzando le palpebre, prima di afferrargli una mano e trascinandolo verso la strada, «andiamo Castiel Castiel, andiamo a casa. Mio fratello dice che ho bisogno di un amico...vuoi essere mio amico?»
Castiel si guardò intorno, consapevole che avrebbero mandato qualcuno a cercarlo e riportarlo a casa. Forse restare in incognito poteva rivelarsi una buona mossa.
Annuì e lasciò che Sam lo scortasse verso casa.
 

[...]

 
Dean tirò fuori il cellulare e controllò l'ora: le 23:23. Sam sarebbe dovuto tornare a momenti, riaccompagnato dalla mamma psicopatica di quella sua amica psicopatica di nome Ruby. Ma per quanto detestasse sia la madre che la figlia non gli avevano mai dato alcuna preoccupazione, si erano rivelate, anzi, un valido aiuto durante le giornate lavorative sfiancanti che lo trattenevano lontano da casa.
Chiuse gli occhi, lasciandosi cullare dal dondolio ipnotico dell'amaca: quelli erano i momenti che preferiva, gli piaceva respirare la pace e la tranquillità in un posto come la sua casa che di tranquillo aveva ben poco.
Schiuse gli occhi lentamente e vide una stella cadente attraversare il cielo: bellissima, luminosa, viva.
«Io...» disse, umettandosi le labbra - maledetto me e l'alcol che ingerisco neanche fossero vitamine!- «...io non sono uno che prega, ma...sono stanco. Tutta questa storia dell'assistente sociale per Sam, e la casa, e le bollette. Io sono solo...stanco.» fece una pausa, strofinandosi il palmo sulle labbra.
«Potresti farmi tornare indietro nel tempo? Così convincerei i miei di non prendere la macchina quel 2 novembre. Oppure mandami tu qualcuno...ho bisogno di aiuto.» rise Dean, rise di amarezza e di tristezza, perché era stanco e aveva bisogno di qualcuno. Aveva bisogno di un amico.
«Potresti mandarmi un angelo» azzardò, guardando il cielo, «l'angelo più carino che hai.»
Prima ancora che riuscisse a realizzare cosa avesse appena chiesto, il cellulare prese a squillare rumorosamente, rompendo il silenzio della sera.
«Sì?» rispose prontamente.
«Dean? Sono Lilith, la madre di Ruby. Non so come sia potuto succedere ma Sam è sparito. Immagino che sappia trovare da solo la strada di casa, no? Io non posso proprio andare a cercarlo.»
Dean sgranò gli occhi in preda al panico. «Cosa? Come sarebbe a dire "è sparito"? Quando è successo?»
«Ehm...circa mezz'ora fa.»
Il ragazzo balzò in piedi e si precipitò dentro casa, cercando convulsamente le chiavi della macchina. «E me lo dici solo adesso?» urlò, lanciando il telefono in un punto imprecisato della stanza.
Quando aprì la porta, però, si ritrovò di fronte quell'impiastro del suo fratellino abbarbicato al braccio di un perfetto estraneo: capelli neri, pelle nivea, una toga stracciata e consunta e due occhi di un blu elettrico talmente innaturale che Dean non seppe se esserne affascinato o spaventato.
«Dean, questo è il mio nuovo amico. Lo possiamo tenere?»
La vocetta stridula di Sam lo riportò alla realtà, allontanando la sua attenzione dagli occhi troppo blu per essere umani di quel ragazzo. Afferrò il fratello per il braccio e lo trascino senza troppe cortesie dentro casa.
«Che cosa ti è saltato in testa, eh Sammy?» urlò frustrato «ero in pensiero, non sapevo dove fossi! Non farlo mai più, mi hai capito?» aggiunse, scuotendolo per le spalle.
Gli occhi di Sam si riempirono di una patina spessa di lacrime «ma Dean...io...»
«Niente Dean, Sam! Se la signorina Milton fosse stata qui...hai idea di cosa sarebbe potuto accadere? Quella donna aspetta solo un mio passo falso, solo uno, per portarti via da me! Allora? Vuoi che ti portino via?»
Sam abbassò il capo, sconfitto, mentre le lacrime avevano iniziato a rigargli il volto. Scosse il capo, incapace di rispondere.
Dean sospirò e si voltò verso lo sconosciuto, che fino a quel momento si era limitato a restare immobile come uno stoccafisso sul ciglio della porta.
«Beh amico, grazie di aver riportato il mio fratellino a casa» disse, più per spezzare quel silenzio imbarazzate che per vera gratitudine.
«A dire il vero è stato Sam a portarmi qui.» puntualizzò lo sconosciuto, sondando con lo sguardo lo spazio attorno a sé.
Era un tipo strano.
Un tipo decisamente strano.
«Va bene...adesso puoi andare.» lo esortò, accingendosi a chiudere la porta, ma l'altro prontamente stroncò il tentativo poggiando un palmo sulla superficie lignea.
«Io resto.» sbottò lo sconosciuto e Dean strizzò le palpebre, allibito.
Di cosa si trattava esattamente? Tentativo di estorsione? Omicidio? Furto con scasso? Cosa diavolo voleva quello strano tizio da loro?
Sam afferrò il fratello per un braccio. «No Dean, Castiel Castiel deve restare con noi. È il mio nuovo amico. Si prenderà lui cura di me quando sarai a lavoro!» piagnucolò.
Quello era assurdo.
Dean non avrebbe mai lasciato il fratellino nelle mani di quella specie di babysitter psicopatico. Mai.
«Troveremo qualcun altro» replicò, fermo, afferrando lo sconosciuto - o Castiel Castiel o come diavolo si chiamasse- per il polso e spingendolo con poca grazia verso l'esterno.
Sam gridò. «No fermati, è come noi. È un povero orfanello, non ti importa niente dell'ohana
Dean si voltò, spalancando gli occhi, mantenendo la presa salda sul polso dell'altro che mostrava una strenua resistenza. «Cinque minuti! Cinque fottutissimi minuti! È qui da poco tempo, Sam!»
«Beh, anche io! Papà diceva che ohana significa famiglia.»
Qualcosa nel petto del ragazzo esplose e improvvisamente sentì la gola secca. Inconsciamente allentò la presa sull'altro, accarezzando il suo polso con il polpastrelli, con dolcezza. Con lo sguardo perso nel vuoto, indietreggiò accompagnandolo dentro casa.
«Ohana vuol dire famiglia» continuò il più piccolo, «famiglia vuol dire che...»
«...che nessuno viene abbandonato.» continuò Dean, al suo posto.
«O?»
«O dimenticato. Sì, lo so, lo so. Odio quando usi l'ohana contro di me!» sbottò infastidito, alzando gli occhi al cielo prima di puntarli sul ragazzo, «e tu, dormirai nella stanza degli ospiti, di fronte alla mia. Niente scherzi, sono stato chiaro?»
Il ragazzo dagli occhi blu annuì lentamente. «Perché mai dovrei fare degli scherzi?» domandò, incerto.
Dean scosse il capo, esausto, e prese Sam tra le braccia. Una volta averlo relegato a letto, assicurandosi che niente e nessuno minacciasse il suo riposo, prese un cambio pulito dai propri cassetti e raggiunse il ragazzo nella camera degli ospiti.
«Qui ci sono dei vestiti puliti» esordì, lanciandoglieli «potresti dirmi il tuo nome dato che ti sei praticamente autoinvitato a casa mia?»
Lo sconosciuto lo sondò con lo sguardo e Dean si sorprese ad annaspare in cerca d'aria. «Castiel» rispose, con un voce roca e bassa che fece rotolare un lungo brivido sulla spina dorsale del padrone di casa.
«Castiel, eh? Quante volte?»
«Solo una.»
«Ok. Quindi Castiel...?» domandò, allungando a dismisura la "e", in attesa che quello strambo tipo gli rivelasse il suo cognome.
«Castiel.» ripeté invece l'altro.
«Quindi ti chiami Castiel Castiel?»
«No. Solo Castiel.»
Ok, qui non ne caverò un ragno dal buco. Meglio riprovarci domani.
«Va bene...allora, buonanotte Castiel.»
«Buonanotte Dean.»
Dean Winchester non riuscì a chiudere occhio per tutta la notte, certo che l'indomani, Jo, lo avrebbe fatto fuori nel modo più violento possibile.
 

[...]

 
Castiel si rigirò per ore in quello che gli umani chiamano "letto". Lo trovava comodo, un ottimo luogo di riposo per le sue povere ali stanche e ferite. Ignorò il cambio che Dean gli aveva gentilmente lasciato accanto al letto e si diresse verso una piccola libreria nella stanza.
Gli angeli non avevano bisogno di dormire, quindi avrebbe potuto approfittare della notte per comprendere un po' meglio il comportamento umano attraverso la lettura. Sfogliò per ore libri di storia, di letteratura e di poesia, cogliendo inesattezze e incongruenze in ogni dove, fin quando non si sorprese a leggere una storia che non riuscì a comprendere. Confuso e curioso lasciò la stanza degli ospiti e si affacciò nella camera da letto di Dean, il quale dormiva beato, abbarbicato al cuscino.
Un piccolo rivolo di saliva colava dalle sue labbra dischiuse sino al mento e Castiel ebbe l'insana voglia di allungare una mano e asciugarlo, con la sola intenzione di poterlo toccare.
Era stupido, ma gli sarebbe piaciuto restare tutta la notte lì, sulla soglia, a guardarlo.
Ma consapevole che disturbare Dean non avrebbe portato altro che guai, indietreggiò e si diresse passivamente verso la stanzetta del piccolo Winchester, addormentato anche lui. Lo scosse appena, con gentilezza, e attese che gli occhi verdi del bambino, lucidi e arrossati, facessero capolino su di lui.
«Castiel Castiel...non riesci a dormire?» domandò, stropicciandosi gli occhi e tirandosi su a sedere.
L'angelo annuì e gli porse il libro che aveva trovato. «Io...non riesco a capire, Sam.»
Sam sbadigliò e prese a sfogliare il libro, soffermandosi su una pagina in particolare. «Questo è il brutto anatroccolo. Vedi, è triste perché si è perso e nessuno lo vuole. Ma in questa pagina la sua famiglia lo sente piangere e lo trova. Ora il brutto anatroccolo è felice perché ha capito qual è il suo mondo.» spiegò, con la voce impastata dal sonno.
Castiel inclinò il capo e strinse la copertina tra le mani. Era forse anche lui come il brutto anatroccolo? Doveva solo trovare la sua famiglia? Qualcuno che lo accettasse?
«Posso continuare a leggerlo qui, Sam?» domandò impacciato mentre si lasciava scivolare sul pavimento con le spalle contro il muro.
Il piccolo Sam Winchester annuì. «Certo. Buonanotte.»
Castiel passò il resto della nottata leggendo, cullato dal respiro sereno e regolare del bambino.
La mattina seguente l'angelo guardò con sospetto i vestiti che Dean gli aveva consigliato di indossare. Non aveva mai visto nulla di simile, dato che in Paradiso gli angeli si limitavano ad indossare delle toghe immacolate. Indeciso sul da farsi, si sfilò del tutto la toga sporca e consunta e scese le scale che portavano al piano inferiore; lì notò Sam seduto a tavola mentre divorava la colazione e Dean sullo stipite della porta d'ingresso, intento ad intrattenere una discussione con una donna dai capelli rossi. Si sporse per ascoltare meglio.
«Signorina Milton, sì è vero, Ellen mi ha licenziato ma troverò un altro lavoro. Per favore!» stava pregando Dean, a bassa voce.
«Dean mi dispiace ma dobbiamo pensare a quello che è meglio per Sam e se lei non riesce a tenersi neppure un lavoro non posso fare altrimenti. Ho le mani legate, mi dispiace.» rispose la donna, scuotendo il capo.
«No, no, no, per favore. Mi stia a sentire, va bene? Gli orari di quel posto erano troppo pesanti e non riuscivo a dedicarmi completamente a Sam e...cosa, cosa sta guardando?» chiese Dean, perplesso.
Castiel notò che la donna lo stava osservando, con un cipiglio pericoloso sul viso. «Dean, c'è un uomo completamente nudo sulle sue scale.» osservò, indicandolo.
Dean si voltò terrorizzato e serrò le palpebre, prima di schiaffarsi una mano sul viso. «Posso...posso spiegare.»
La donna lo interruppe con un cenno e sospirò. «Non mi interessano le sue relazioni sentimentali, Dean. Ma il suo amico non può girare in quelle condizioni, non con Sam in giro per casa! Mi dispiace, Dean, ma non passerò sopra al fatto che lei è disoccupato. Quando tornerò voglio sperare che abbia trovato un nuovo lavoro e che il suo amico sia diventato un cittadino modello. Sono stata chiara?»
«Cristallina.»
Castiel non riuscì a comprendere cosa accadde dopo: Dean salì le scale e lo afferrò per il braccio, trascinandolo nella propria stanza, e scagliandolo senza troppe cortesie contro il muro. Gli occhi ridotti a fessure e il respiro pesante, era così vicino che l'angelo inspirò il suo profumo completamente, fino in fondo.
Dean aveva un buon odore.
«Non so che cazzo hai in mente ma se mi portano via Sam per colpa tua, giuro su Dio che non finirà bene per te!» tuonò, stringendogli le spalle.
Castiel avrebbe potuto scostarlo da sé con un battito di ciglia, ma non lo fece. Si limitò ad abbassare il capo, sconfitto. «Mi dispiace Dean, non sapevo come indossare quei vestiti che mi hai dato.» rispose, sinceramente.
La presa ferrea sulle sue spalle si allentò e Dean lo guardò stranito. «Come se fossero i primi vestiti che indossi, andiamo!» ironizzò.
«Non ho mai indossato nulla del genere.»
«Sei strano.»
«Lo so.»
Il ragazzo indietreggiò fin quando non sfiorò il proprio letto e si fece cadere stremato a sedere; puntellò i gomiti sulle proprie ginocchia e adagiò la testa sui palmi ai lati del viso.
Sembra un bambino, appurò Castiel. Con quell'espressione di beata innocenza stampata in volto iniziò a cogliere piccoli particolari che non aveva notato la sera precedente: gli occhi verdi, brillanti, così simili a quelli del fratello, una spruzzata di lentiggini sul viso e sugli zigomi, le rughe d'espressione. Quel suo fissarlo con una certa insistenza mise Castiel a disagio.
Capì di aver fatto qualcosa di sbagliato, riusciva a leggerlo negli occhi dell'altro. «Non so cosa devo fare.» azzardò infine, quando il silenzio si fece troppo pressante.
Dean si umettò le labbra con la lingua e chinò lo sguardo. «Potresti metterti i boxer, sai, tanto per dirne una» ribatté il ragazzo, e quello che vide sul suo volto fu...rossore?
Forse Dean era malato. Castiel aveva letto in un libro di medicina della libreria di casa che gli umani si ammalano spesso.
«Credo che tu stia male, Dean. Forse dovresti prendere una medicina.» osservò, sperando di convincerlo. Non voleva che si ammalasse.
L'altro scosse il capo, più volte, prima di nascondere il viso tra le mani e riemergere pochi istanti dopo. «Senti, credo che sia chiaro che qui c'è qualcosa che non va. Magari hai preso una botta in testa e non ricordi nemmeno le cose basilari del vivere civile. Un'amnesia! Sì, si tratta sicuramente di un'amnesia. Posso portarti da un dottore così vediamo di accertarcene.»
Castiel avanzò di pochi passi e Dean scattò in piedi come una molla, aumentando la distanza tra loro. «Ma...sei tu che hai uno strano rossore sul viso e so che può essere causato da ipertensione e alcolismo. Perché dovrei vedere io un medico?» osservò l'angelo.
Dean Winchester era uno strano umano.
«Ascoltami molto molto attentamente» scandì Dean, indicandolo con l'indice della mano destra «tu hai qualcosa che non va, se a livello fisico o psicologico non mi importa, ma non puoi restare qui, va bene? Non hai un amico da cui andare o una famiglia da cui tornare?»
«Io non ce l'ho una famiglia, Dean.» rispose.
Dean aggrottò la fronte, sorpreso. «Tutti hanno una famiglia.»
«Tu ce l'hai?»
«Sì...siamo io e Sam. Sempre io e Sam contro il mondo. La nostra famiglia è piccola e disastrata, ma restiamo pur sempre una famiglia.» rispose, addolcendo il tono, «perché tu pensi di non avere una famiglia?»
Castiel soppesò la questione: aveva molti fratelli e sorelle in Paradiso ma non poteva dare loro la stessa accezione umana di famiglia. Lui era un guerriero, come tutti gli altri. Quello che per gli umani è un focolare domestico, per lui era una guarnigione di compagni d'armi.
Non un briciolo di affetto né di complicità. Solo soldati. Vuoti e senza sentimenti.
«Perché sono sempre stato solo.» fu la risposta più logica che riuscì a dare senza esporsi.
Qualcosa nel viso di Dean cambiò radicalmente: il rossore completamente estinto, le labbra piegate all'insù in un sorriso che, paradossalmente, trasmise all'angelo un grande senso di frustrazione e tristezza.
«È strano?» gli domandò, allarmato. Non poteva permettere che Dean sospettasse qualcosa.
Il ragazzo lo raggiunse e sospirò. «No, non è strano» lo tranquillizzò, dirigendolo verso il letto, «ora vediamo di metterti qualcosa addosso, va bene? A Kanuai è considerato disdicevole andare in giro completamente nudi» aggiunse, strizzando le palpebre.
Castiel non staccò gli occhi di dosso dal viso corrucciato e concentrato di Dean nemmeno per un secondo mentre questi lo vestiva, uno strato dietro l'altro, senza dire una parola.
Castiel si decise a spezzare nuovamente quel silenzio opprimente. «Dean, chi era quella donna con i capelli rossi?» domandò mentre l'altro gli infilava a forza una maglietta grigia.
«Anna Milton, l'assistente sociale. Mi sta con il fiato sul collo da settimane. Lei crede che non sia in grado di prendermi cura di Sam.»
L'angelo sentì qualcosa contrarsi dolorosamente nel suo petto e ancora una volta l'impulso di toccarlo si fece irrefrenabile: allungò una mano e sfiorò quella del ragazzo, abbandonata sul ginocchio, carezzandola lentamente con i polpastrelli.
«Sam è felice con te» mormorò «e sono sicuro che non te lo porteranno via.»
Le labbra di Dean si stirarono in un sorrisino imbarazzato. «Grazie Cas.»
Cas non era il suo nome, ma se ne innamorò istantaneamente perché aveva un bel suono, specialmente se pronunciato dalle labbra di Dean.
 

[...]

 
Il giorno seguente fu per Dean uno dei peggiori che avesse mai affrontato: nessun impiego disponibile, nemmeno l'ombra di un lavoro part-time, improvvisamente Kanuai era satura di giovani impiegati e ragazzine tutto fare.
Pessima, pessima giornata.
E se la sua ricerca di un nuovo lavoro era miseramente fallita, il tentativo di Sam di fare di Castiel un cittadino modello lo era di più. Solo che, al tempo stesso, era stata anche comica.
Castiel non era riuscito nemmeno ad aiutare una vecchietta ad attraversare la strada, il resto era stato semplicemente esilarante.
Non che Dean potesse permettersi il lusso di divertirsi, con Anna Milton ad incombere su di lui come una spada di Damocle e un imbranato dagli occhi blu incapace di vestirsi da solo.
Si lasciò cadere stancamente sulla sabbia, affondandovi mani e piedi come quando era bambino e sua madre Mary, bella come il sole estivo, lo aiutava a costruire castelli di sabbia. Si domandò perché la sua vita dovesse essere così difficile, perché non riuscisse a risolvere i suoi problemi e quelli di Sam. Si sentiva inutile, Dean. Inutile e patetico. Patetico e triste.
«Dean!» urlò Sam, correndo verso di lui, il viso terrorizzato «Dean! Lo devi aiutare. Gli stanno facendo male...lo devi aiutare!»
«Chi Sam?» gli chiese, allarmato «che cosa è successo?»
Il bambino scosse il capo, facendo ondeggiare i lunghi capelli castani. «Due uomini stanno facendo male a Castiel Castiel. Dicono che lo vogliono portare via!»
La tristezza venne soppiantata immediatamente dal panico mentre Dean intimava al fratellino di restare lì e non muoversi e iniziava a correre verso i due sconosciuti che si erano accaniti su Castiel. Già a una certa distanza riuscì a focalizzarne i tratti: uno era più tarchiato, con i capelli color miele e quello che sembrava un lecca lecca tra le labbra, l'altro invece era più alto, biondo, il corrispettivo umano di uno spaventapasseri. Entrambi impugnavano degli strani coltelli argentati e li puntavano verso il corpo di Castiel che, sanguinante, rispondeva agli attacchi senza riuscire tuttavia a scappare.
«Ehi!» gridò Dean, una volta raggiunti, scagliandosi alla cieca contro lo spaventapasseri e atterrandolo, «chi cazzo siete voi?»
Lo spaventapasseri ghignò e un istante dopo Dean si sentì sollevato da terra da una forza invisibile e scaraventato lontano. Accadde tutto troppo in fretta perché potesse rendersene conto, ma quell'idiota del suo fratellino aveva raggiunto Castiel, frapponendosi tra lui e gli altri due, le braccia spalancate e gli occhi lucidi.
«Non fategli male. È mio amico...per favore, non fategli male.» li implorò, ma Castiel afferrò il bambino e lo spinse lontano, puntando un pugnale argentato verso l'uomo più basso e ferendolo alla mano. Con uno scatto repentino, inumano, riuscì a ferire anche l'altro alla spalla, costringendoli a una ritirata.
Dean, intontito dagli eventi, si precipitò immediatamente verso Sam: era spaventato, piangeva, un taglio sottile solcava la sua guancia destra, ma nulla di grave. Sarebbe potuta andare molto peggio.
E in effetti, andò realmente così.
Quando Dean alzò lo sguardo venne pietrificato sul posto dall'espressione furente dell'assistente sociale, la quale aveva osservato la scena a distanza.
«Cas, resta qui con Sam» ordinò all'altro, accingendosi a raggiungere la donna.
«Senta» arrancò, deglutendo «non è...non è come sembra. Quei...loro sono...saltati fuori dal nulla e...non stavamo...»
La donna chinò il capo e serrò le palpebre. «Lo so che lei ci ha provato, Dean. Ma bisogna considerare quello che è meglio per Sam, anche se questo per lei vuol dire perderlo. Tornerò domani a prendere il bambino. Mi dispiace.»
Dopo la notizia dell'incidente d'auto dei suoi genitori, quelle furono le parole più dolorose che Dean avesse mai sentito.
Quella sera Dean mise a letto Sam con un sorriso sulle labbra, incitandolo ad essere forte, assicurandogli che sarebbe andato tutto bene, promettendogli che si sarebbero rivisti. Si accoccolò con lui in quel letto troppo piccolo fino a quando il respiro pesante e sereno di Sam si mescolò alle lacrime silenziose di un fratello maggiore che stava per perdere ogni cosa.
Si asciugò le lacrime e lasciò la cameretta del fratello: aveva bisogno di bere, bere fino ad addormentarsi e sperare che si trattasse solo di un incubo. Afferrò distrattamente una bottiglia di gin e fu in quel momento che lo vide: Castiel stava fissando la porta, con un libro stretto tra le mani, le ferite ancora aperte sul suo volto e nonostante tutto Dean aveva l'impressione che non fossero quelle a fargli davvero male.
«Io...ho trovato questa» esordì Castiel, sfogliando le pagine, e tirando fuori una vecchia fotografia.
Dean la prese tra le mani e la osservò: sua madre e suo padre sorridevano felici e lui aveva Sam tra le braccia. Sicuramente Sam doveva averla conservata.
«Questa è la mia famiglia» rispose, prima di realizzare quanto fossero sbagliate le sue parole, «era la mia famiglia» si corresse.
Bevve un lungo sorso di gin e si sedette sul divano, poggiando la fotografia sul tavolo poco lontano.
«Non c'è più nessuna famiglia, Cas. Domani mi porteranno via mio fratello» continuò, fissando un punto imprecisato della stanza, «ma se vuoi restare noi due possiamo...possiamo andare avanti, insieme. Possiamo...essere da soli insieme.»
Alzò il capo e vide che la distanza che separava il ragazzo dalla porta era ormai effimera: voleva andarsene e lui non poteva trattenerlo.
«Ohana significa famiglia, famiglia significa che nessuno viene abbandonato. Ma se vuoi andartene, puoi farlo» l'ultima parola fu accompagnata dallo scatto secco della porta che si chiudeva.
Anche Castiel se n'era andato.
Era rimasto solo.
Bevve un altro sorso e fissò il pavimento. «Io mi ricorderò di te» mormorò, ignorando il muro di cemento andato in pezzi che stava per riversarsi dai suoi occhi non come lacrime, ma come macigni di dolore, «io ricordo tutti quelli che se ne vanno.»
 

[...]

 
Castiel camminò a lungo senza conoscere la meta. Non poteva averne una ora che aveva perso Dean, ora che aveva perso la prima famiglia di cui avesse mai fatto parte.
Era tutta colpa sua.
Dean avrebbe perso Sam per colpa sua.
E stargli accanto significava metterlo in pericolo e Castiel questo non poteva sopportarlo. In appena due giorni si era affezionato a quell'umano, amandone ogni sfumatura, come se lo conoscesse da una vita, come se fosse stato mandato dall'alto per salvarlo.
Ma non c'era riuscito, Castiel. Non aveva combinato altro che disastri.
Sfogliò il libro che Sam gli aveva regalato: anche lui, come il brutto anatroccolo, si era smarrito. Aveva trovato una famiglia ed era stato costretto ad abbandonarla per non metterla in pericolo.
Si accovacciò per terra in mezzo al nulla, stringendosi le ginocchia al petto, solo e con l'unica compagnia di un paio di pagine stropicciate di un libro per bambini.
Quando riaprì gli occhi erano passate diverse ore: si era addormentato. Gli angeli non dormono, eppure lui si era addormentato.
Aveva sempre saputo di essere diverso, dopotutto.
«Castiel» sussurrò una voce, che lo costrinse a scattare come una molla.
«Balthazar» rispose, cercando il pugnale nella tasca posteriore del jeans.
«Lo ha preso Gabriel» lo informò, arrancando pochi passi verso di lui «che cosa stavi facendo?»
Gli occhi di Castiel si posarono sul libro ai suoi piedi. «Aspettavo.»
«Che cosa?»
«Una famiglia.»
Balthazar inclinò il capo, confuso. «Dobbiamo tornare, Castiel. La sentenza è stata emessa e...mi dispiace ma dobbiamo portarti indietro.»
Castiel scosse il capo, più volte, e poi semplicemente iniziò a correre.
Raggiunse la casa di Dean dopo pochi minuti, sperando di trovarlo, ma l'unico che parve sorpreso di vederlo fu Sam, che lo accolse con un sorriso stampato in volto. «Castiel Castiel, forse non mi portano via. Forse mio fratello ha trovato un lavoro. Forse...»
Castiel gli tappò la bocca con una mano e lo sollevò di peso, dirigendo entrambi verso il piano superiore. «Sam, mi stanno dando la caccia...e ti faranno del male se ti metti in mezzo. Per favore, resta qui.» disse, senza alcuna logica, mentre il rumore sordo di vetri infranti lasciava intendere che Balthazar e Gabriel lo avessero trovato.
«Resta qui.» ripeté, prima di lasciarlo.
Fu una battaglia stentata perché gli ordini dovevano essere stati chiari: riportarlo indietro, vivo. Balthazar e Gabriel non avevano nulla di personale contro Castiel, ma gli ordini erano gli ordini e come tali andavano rispettati. Quando una molotov di fuoco santo esplose vicino Gabriel, questi sparì urlando di dolore mentre le fiamme iniziavano ad espandersi e prendere terreno.
Castiel, ferito ma ancora abbastanza in forze, recuperò Sam dalla propria stanzetta e lo condusse fuori dall'abitazione in fiamme.
Questo Dean non glielo avrebbe mai perdonato.
 

[...]
 

Dean seguì il camion dei vigili del fuoco come un carro funebre, maledicendosi istante dopo istante. Era stato un idiota. Non avrebbe dovuto lasciare Sam da solo e senza appigli.
Se gli è successo qualcosa, io... scosse il capo e allontanò la peggiore delle ipotesi; si costrinse a restare calmo e raggiungere casa il più in fretta possibile.
Quando vide il suo fratellino tra le braccia di Anna Milton sospirò sollevato, ma il sollievo gli morì in gola quando la donna lo strappò via dal suo contatto visivo, adagiandolo sui sedili posteriori dell'auto aziendale.
«La prego, non lo faccia» la implorò, gli occhi che iniziavano a pizzicare.
«Sa che non ho scelta.»
«No, lei non capisce. È mio fratello, ho promesso che me ne sarei preso cura. Sam ha bisogno di me!» urlò con tutto il fiato che aveva nei polmoni.
Non poteva permettere che glielo portassero via.
Non poteva.
«È di questo che ha bisogno?» urlò la donna, di risposta, indicando la casa ridotta ormai ad un cumulo di macerie, «la verità è che lei ha bisogno di Sam più di quanto suo fratello abbia bisogno di lei.»
Non poteva essere vero.
Sam era il suo fratellino e non voleva lasciarlo andare.
La portiera opposta dell'auto si aprì e Sam  scivolò fuori, correndo velocemente verso la piccola foresta dietro la loro casa.
Dean ebbe il tempo di notare la sagoma di Castiel muoversi verso la stessa direzione, ma si limitò a rincorrere Sam perché al momento nient'altro aveva più importanza.
«Sam!» lo chiamò, cercando di farlo uscire allo scoperto, «Sammy?»
Uno scalpitio di passi lo fece voltare, speranzoso, ma stavolta tutto quello che vide furono un paio di occhi blu tristi e affranti e qualcos'altro di decisamente strano. Si stropicciò gli occhi, convinto che si trattasse di un gioco di luci o del fumo dell'incendio, ma quando li riaprì capì all'istante cosa aveva di fronte.
Ali.
Grandi ali soffici e scure come la notte.
Ali che sbucavano dalla schiena piegata all'ingiù di Castiel.
«Che...che cosa sei tu?» domandò, spalancando gli occhi.
«Sono un angelo, Dean. Mi dispiace tanto» rispose «te lo avrei detto. I miei fratelli vogliono portarmi indietro e io sono scappato e...ho portato via Sam dopo...dopo...»
«Dopo cosa, Castiel?»
«Dopo che ho appiccato l'incendio. Non era mia intenzione, Dean...è stato un incidente.»
Dean sentì la rabbia montare minuto dopo minuto.
«È colpa tua.»
«Dean...»
«È tutta colpa tua. Mi porteranno via Sam per colpa tua.» realizzò, sopraffatto e intontito.
Si lasciò cadere in ginocchio mentre un capogiro gli offuscava la vista. Era strano che il suo corpo reagisse così al dolore emotivo, ma quando vide Castiel cadere accanto a lui, tossendo, e una fitta nebbia avvolgerli, capì che l'emotività non c'entrava un bel niente.
Un uomo alto, di colore, con due enormi ali nere li trascinò all'interno di un capanno poco lontano, pregno anch'esso della strana nebbia soffocante. L'uomo rise, divertito, e disse qualcosa che a Dean parve tanto un "dicevano che sarebbe stato difficile prenderti, a quanto pare si sbagliavano."
Castiel non parlava, probabilmente sul punto di svenire; Dean gli afferrò una mano sperando che si svegliasse e che spiegasse quelle maledettissime ali portandoli via, ma questi non reagì. Approfittando di un briciolo di lucidità e dello sconosciuto voltato verso la foresta, spinse Castiel fuori dal capanno, da una finestra lasciata socchiusa. Vide il viso dell'angelo prendere colore e riprendersi mentre lui sentiva i sensi scivolare via velocemente.
La finestra si chiuse emettendo uno scatto secco e Dean non riuscì a fare altro che poggiare un palmo sulla superficie vitrea e mormorare «non lasciarmi qui».
Poi tutto divenne buio.
 

[...]

 
Quando Castiel si riprese completamente si scoprì tra le grinfie di Balthazar e Gabriel. Ancora sopraffatto dall'incantesimo che Uriel - un angelo della guarnigione- aveva scagliato su lui e su Dean, non riuscì a ribellarsi e scappare via.
Doveva farlo.
Doveva salvare Dean.
«Castiel Castiel?» domandò Sam, nascosto dietro un albero, con il viso rigato dalle lacrime.
«Sam? Va' via, non dovresti essere qui» lo ammonì, esausto, mentre i suoi fratelli lo trascinavano via.
«Dov'è mio fratello?» domandò, e il cuore di Castiel venne stretto da una morsa così dolorosa da farlo annaspare.
Doveva salvare Dean.
Doveva farlo anche per Sam.
«Tuo fratello se n'è andato» rispose Gabriel, gelido, spingendo il bambino da parte e continuando la propria avanzata.
Il singhiozzare disperato di Sam, accasciato a terra, accese qualcosa nella mente dell'angelo.
«Ohana» mormorò.
«Cosa?» domandò Balthazar, piegandosi in avanti.
«Ohana significa famiglia, famiglia significa che nessuno viene abbandonato. O dimenticato.» recitò a memoria, tirandosi ritto in piedi, «fratelli» continuò «aiutatemi a salvare Dean.»
«Scusami?» chiese ironico Gabriel, rivelando un sorriso sghembo.
«Non accettate le regole dei cieli esattamente come me. Possiamo ricominciare, possiamo...aiutatemi. Io voglio salvare Dean, devo farlo.»
«Perché?»
«Perché Dean è la mia famiglia.»
Castiel conosceva i suoi fratelli, sapeva come convincerli. Dopotutto, non erano poi così diversi da lui.
«Va bene» rispose Balthazar, facendo spallucce, più umano di quanto Castiel credesse possibile.
«Va bene?» chiese di rimando l'altro angelo, «mandiamo a puttane tutto il tentativo di recupero solo perché lui te l'ha chiesto gentilmente?»
«Andiamo Gabe, non fingere che questi due giorni non siano stati i più esaltanti della nostra millenaria esistenza! Avevo già intenzione di non tornare più ai piani alti. Vorrei fingere la mia disfatta e restare qui e sappiamo tutti e due che anche tu ci hai fatto un pensierino.»
Le labbra di Gabriel tremarono appena. «Vivere qui?»
«Vivere e basta, Gabriel!» ribatté Balthazar, esaltato dall'idea «per la prima volta abbiamo la possibilità di scegliere. Perché non farlo adesso?»
Gabriel rimase in silenzio per pochi minuti, poi sospirò sconfitto. «Uriel è sempre stato un gran figlio di puttana, meriterebbe una lezione» osservò, prima di puntare lo sguardo su Castiel e aggiungere, «noi ci occupiamo di Uriel. Tu porta via il tuo umano.»
Per la prima volta in vita sua Castiel ringraziò Dio dei fratelli che si era ritrovato accanto in quell'assurda missione suicida.
Accerchiarono la capanna in silenzio e non appena Gabriel e Balthazar attaccarono Uriel, Castiel ne approfittò per irrompere al suo interno e prendere Dean tra le braccia: respirava a fatica, aveva bisogno di ossigeno e aria pulita.
Non riuscì a fare altro: spiegò le ali e spiccò il volo con la persona che amava tra le braccia.
 

[...]

 
Quando Dean riaprì gli occhi sentì una mano gentile accarezzargli il viso. Inizialmente pensò in maniera confusa a sua madre, ma quelli posati su di lui erano occhi molto più blu, brillanti come non li aveva mai visti, e quelle che lo circondavano, cullandolo, erano delle bellissime e morbide ali.
«Sei tornato indietro per me» mormorò.
Castiel si chinò, poggiando la fronte sulla sua. «Nessuno viene abbandonato» rispose.
Dean sorrise: quel moccioso di un angelo imparava in fretta.
Raggiunsero casa in pochi battiti d'ali e Dean mollò la presa dalle spalle di Castiel solo per poter riabbracciare Sam. Tuttavia notò troppo movimento: decine di uomini con le ali li avevano circondati, uno in particolare - così luminoso che Dean fu costretto a serrare le palpebre- raggiunse Castiel, con un cipiglio pericoloso stampato in volto.
Non si parlarono.
Intrattennero una conversazione fatta di sguardi che Dean non riuscì a cogliere.
«Verrò» disse improvvisamente il suo angelo, facendo un passo avanti, «lo farò.»
L'angelo luminoso annuì.
«Posso...posso salutare?» domandò Castiel, e dopo un rapido cenno di assenso, Dean sentì il viso dell'altro premere contro il suo collo e le sue braccia stringere forte sia lui che Sam.
«Chi siete voi?» chiese l'angelo luminoso, con una voce calda e profonda che fece mancare l'aria nei polmoni di Dean.
«Questa è la mia famiglia» rispose Castiel, accarezzando la fronte di Sam «l'ho trovata per conto mio. È piccola e disastrata, ma bella.» i suoi occhi si agganciarono a quelli di Dean, in un muto addio, «sì, molto bella.»
No.
Dean non voleva che se ne andasse.
Erano una famiglia, lo erano di nuovo. In quel momento pregò il cielo, pregò in un miracolo, pregò affinché Dio non gli portasse via il suo angelo.
«Non puoi portarlo via, Michele» tuonò una voce familiare alle loro spalle mentre Anna Milton li superava, osservando l'angelo luminoso con astio. «È caduto. È quasi umano. Non puoi averlo...sono le regole.»
«Solo perché sei caduta, questo non significa...» replicò Michele, furente.
Anna lo interruppe. «Significa che devo prendermi cura di quelli come me. Dio ha deciso così.»
Qualcosa vibrò nello sguardo di Michele, ma pochi istanti dopo l'intera schiera di angeli era sparita.
Dean, stretto ancora a Castiel e Sam, lanciò un'occhiata confusa all'assistente sociale. «Lei è un angelo?» chiese, sbigottito.
«Lo sono stata, tanto tempo fa. Adesso sono umana e devo prendermi cura di quelli come me. Quindi anche di Castiel.»
«Cas» rispose l'angelo, riemergendo dal collo di Dean.
«Cosa?» chiese Anna, strizzando le palpebre.
«Cas. Io mi chiamo Cas.» la corresse.
Dean rise, per la prima volta in vita sua davvero felice.
 
Le conseguenze erano state piuttosto semplici: una casa nuova in cui vivere, una vita diversa, una supervisione semi angelica, e una famiglia disfunzionale assolutamente nuova.
Avrebbe solo dovuto insegnare a Cas a fare la lavatrice e preparare la cena, ma potevano farcela.
Ohana significa anche questo si disse, tirando fuori dal forno l'ennesima cena bruciacchiata da buttare via.

FINE

 
 

   
 
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