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Autore: transatlanticism    18/10/2012    1 recensioni
Yoshi mi aiutò molto e divenne subito mia amica. Mi aveva presentata a praticamente mezza città; mi aveva fatto assaporare ogni sorta di cibo e mi aveva proposto di dormire sul futòn, cosa che rifiutai categoricamente, abituata com’ero ad un comodissimo materasso in lattice; mi aveva aiutata ad integrarmi nella scuola di Lingue in cui lavoravo. Yoshi mi presentò il direttore della Base NATO, il quale, prendendomi in simpatia, mi aveva proposto lo stesso lavoro in Inghilterra. La mia amica ne fu contentissima e mi disse che a lei non sarebbe dispiaciuto se io l’avessi lasciata sola: mi consigliò vivamente di vivere la mia vita e di trovare l’uomo giusto per me, non come aveva fatto lei.
Salutare Tokyo, e con lei la mia ancora di speranza Yoshi, fu veramente triste.
Probabilmente avrei dovuto abituarmi al traffico e alla gente che camminava frenetica nelle strade principali, agli odori dei McDonald in ogni angolo anziché quelli del pesce e delle spezie. Ma sì, avrei lavorato lì con tutta la speranza di poter incontrare qualcuno che avesse potuto aiutarmi ad ambientarmi come aveva fatto Yoshi.
Solo non pensavo che quella persona avesse potuto essere tanto famosa quanto semplice.
Genere: Commedia, Romantico, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago
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From Tokyo with love
愛をもって、東京から




«Ho solo affrontato un viaggio di otto ore, che sarà mai» ripetevo all’infinito a me stessa.
Insomma, dato lo stress per il jetlag e la stanchezza che oramai aveva preso il sopravvento sul mio corpo non potevo far altro che illudere me stessa.
Salutare Tokyo e con lei la mia ancora di speranza Yoshi, nonché unica anima gentile che mi si avvicinò al terzo giorno in cui mi trasferii in Giappone e mi rese partecipe della vita orientale, fu veramente triste. In nove mesi in cui avevo imparato una nuova cultura e migliorato la lingua giapponese mi sentii del tutto cresciuta.
Esattamente un anno prima, appena finita l’università di Lingua e Letteratura straniera, non mi diedi pace finché non trovai un lavoro all’estero. Sicuramente fare l’interprete in Italia non mi avrebbe aiutata granché, così cercai ogni lavoro possibile in ogni posto del mondo. Mai mi sarei aspettata di poter coronare il mio sogno di andare a vivere in Giappone, ma per mia fortuna accadde: una mattina estiva in cui mi ero rintanata in casa per sistemare un po’ la mia stanza disordinatissima, mia madre era entrata in camera allegra e mi aveva consegnato una lettera bianca chiusa ermeticamente. Mi fece strano sapere che una donna ficcanaso come lei non l’avesse aperta, a dirla tutta. Da un po’ di tempo non faceva altro che controllare qualsiasi cosa facessi per essere sicura che trovassi un lavoro «adatto al lavoro di studio» che avevo affrontato, come diceva lei.
Mi ero seduta sul letto curiosa e mia madre era rimasta poggiata sulla porta con lo sguardo sognante.
«Questa è la volta buona» aveva sussurrato emozionata.
Scrutai per bene quel piccolo rettangolino bianco e sorrisi leggendo «Ambasciata Nazionale del Giappone» - ovviamente nell’omonima lingua – e urlai andando ad abbracciare la donna che fino a quel momento mi aveva sostenuta in tutto e per tutto.
E non potei evitare di strappare quel foglietto ripiegato con cura in cui c’era scritto che mi avevano accettata in una base NATO per insegnare la lingua italiana ai suoi impiegati.
Qualche settimana dopo mi ritrovai in viaggio diretta verso Tokyo.
Tre giorni dopo il mio arrivo, stanca morta e stralunata per gli strani usi della popolazione Giapponese, una donna sulla quarantina mi si avvicinò e cordialmente mi chiese se avessi bisogno di aiuto.
Col panico le risposi che andava tutto bene, benché inizialmente mi fu difficile comprendere quel che mi chiese. E fidatevi: la pronuncia di un professore universitario era totalmente diversa dall’originale, quindi avrei dovuto abituarmi da me a capire cosa mi stessero chiedendo.
«Sono sicura che non vada bene, invece» disse fissandomi ancora quella donna.
Sospirai. «Io… non so dove dirigermi» confidai infine.
La donna rise un po’ e mi si presentò. «Yoshi Matsui» socchiuse gli occhi e chiese il mio nome.
«Sofia Martini» risposi imbarazzata. Probabilmente stavo facendo la figura della stupida.
Quella mi porse la mano e strinse la mia, sorridendomi ancora cordiale.
«Di dove sei?» chiese ancora.
«Italia» risposi balbettando. Era un paradosso, ve lo giuro. Non riuscivo a capacitarmi della gentilezza di quella donna, nonostante sapessi che in Oriente tutti fossero cordiali. Probabilmente l’abitudine di vivere in un luogo come quello in cui avevo vissuto l’infanzia.
«Oh, sei la nuova insegnante?» domandò ancora, aspettando che il mio cervello elaborasse la risposta.
Annuii. «Piacere, sono una tua alunna»
 
Yoshi mi aiutò molto e divenne subito mia amica. Mi aveva presentata a praticamente mezza città, mi aveva confessato di aver amato un altro uomo che non fosse suo marito, l’Ufficiale Militare più importante della Base, ma che lui non ne era a conoscenza. Mi aveva fatto assaporare ogni sorta di cibo e mi aveva proposto di dormire sul futòn, cosa che rifiutai categoricamente abituata com’ero ad un comodissimo materasso in lattice. Mi aveva aiutata ad integrarmi nella scuola di Lingue in cui lavoravo e, soprattutto, mi era stata vicina nei momenti di crisi in cui avrei voluto volentieri tornarmene a casa nella calda Italia meridionale.
E sì: quando la pioggia e il maltempo stancano è lì che la tua vera patria manca. Solo in quel caso.
Ma mi abituai anche a quello, per fortuna.
Yoshi mi presentò il direttore della Base NATO, il quale, prendendomi in simpatia, mi aveva proposto lo stesso lavoro in Inghilterra. La mia amica ne fu contentissima e mi disse che a lei non sarebbe dispiaciuto se io l’avessi lasciata sola: mi consigliò vivamente di vivere la mia vita e di trovare l’uomo giusto per me, non come aveva fatto lei.
E la salutai una sera, regalandole l’ultimo abbraccio che solo una persona gentile come lei avrebbe potuto rendere ancor migliore.
 
«Miss Martini?» sentii esclamare alla mia destra.
Un uomo paffuto con la barba bianca aveva in mano un foglio con su scritto il mio nome.
Mi avvicinai cautamente a lui provando in ogni modo a sembrare quantomeno intelligente.
«Sono io» balbettai. Dio, non essere mai stata in Inghilterra nonostante la mia Laurea non mi aiutava granché. Riuscivo a parlare, certo, ma non ero abituata all’accento e la parlata troppo veloce.
L’uomo sorrise cordialmente – com’è che solo in Italia non succede questo? – e mi aiutò a prendere le valigie, trasportandole su un taxi parcheggiato appositamente per noi.
«Fatto un bel viaggio, miss?»
Arrossii. Miss? Com’erano cordiali lì.
«Sì, la ringrazio. Solo un po’ stancante»
«Però, mi hanno detto che viene dal Giappone» sorrise.
Perfetto, ora sembravo anche una giapponese? Cos’è, i nove mesi nella capitale del Giappone mi avevano resa particolarmente orientale? Capisco il mio avere gli occhi sottili e appena piegati all’insù verso la parte finale dell’occhio, ma non penso di aver avuto mai l’aspetto di una giapponese.
«Oh, no. In realtà sono italiana» lo informai.
Sorrise ancora e si buttò nel traffico londinese.
Mi mancava già il luogo che avevo appena abbandonato, nonostante i nuvoloni non mi avessero abbandonata. Eppure sapevo che, in un modo o nell’altro, sarebbe stata un’avventura diversa.
Probabilmente avrei dovuto abituarmi al traffico e alla gente che camminava frenetica nelle strade principali, agli odori dei McDonald in ogni angolo anziché quelli del pesce e delle spezie. Ma sì, avrei lavorato lì con tutta la speranza di poter incontrare qualcuno che potesse aiutarmi ad ambientarmi come aveva fatto Yoshi.
Solo non pensavo che quella persona avesse potuto essere tanto famosa quanto semplice e modesta.
  
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