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Autore: hiccup    20/10/2012    3 recensioni
David Karofsky tentò il suicidio in un pomeriggio di novembre, tornato dall’allenamento pomeridiano con la sua squadra di football al liceo. I genitori non erano in casa quando il giovane compì il gesto. Il padre, tuttavia, rientrò appena in tempo per impedirne la morte.
David Karofsky venne trasportato all’ospedale d’urgenza e riprese conoscenza tredici ore dopo. [...]
Genere: Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Dave Karofsky
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
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Nickname autore sul forum e su EFP: mizucup (forum) hiccup (EFP)
Titolo: I want to break free
Genere: Introspettivo
Rating: Giallo
Avvertimenti: Temi delicati
Personaggio secondario: David Karofsky
Personaggi (se ce ne sono altri): I genitori di David
Prompt: Libertà
Introduzione:
“ David Karofsky tentò il suicidio in un pomeriggio di novembre, tornato dall’allenamento pomeridiano con la sua squadra di football al liceo. I genitori non erano in casa quando il giovane compì il gesto. Il padre, tuttavia, rientrò appena in tempo per impedirne la morte.
David Karofsky venne trasportato all’ospedale d’urgenza e riprese conoscenza tredici ore dopo. ”
Note: Le citazioni in corsivo a destra vengono dalla canzone “I want to break free” dei Queen :’3 Spero di non aver combinato un pasticcio...

Buona lettura!






I want to break free.








David Karofsky tentò il suicidio in un pomeriggio di novembre, tornato dall’allenamento pomeridiano con la sua squadra di football dell liceo. I genitori non erano in casa quando il giovane compì il gesto. Il padre, tuttavia, rientrò appena in tempo per impedirne la morte.
David Karofsky venne trasportato all’ospedale d’urgenza e riprese conoscenza tredici ore dopo.






It's strange but it's true
Hey, I can't get over the way you love me like you do
But I have to be sure
When I walk out that door
Oh how I want to be free, baby
Oh how I want to be free
Oh how I want to break free








Socchiuse le palpebre e mise a fuoco l’ambiente che lo circondava: una stanza piuttosto spoglia, con pareti bianche, un forte odore di disinfettante e i fastidiosi bip di un elettrocardiogramma.
Ospedale, pensò chiudendo e aprendo più volte gli occhi.
Realizzò di essere disteso su un letto, di avere un ago di dimensioni colossali conficcato nella tenera carne dell’avambraccio e una serie di elettrodi appiccicati fastidiosamente al petto. Provò a muovere le dita ma trovò i muscoli addormentati e avvertì un lieve formicolio alle braccia e alle gambe.
Deglutì e la sua gola urlò bisognosa di acqua, voltò appena il capo per osservare meglio il suo ritmo cardiaco ma gemette e per una frazione di secondo la vista gli si appannò per poi tornare normale.
Un dolore lancinante al collo.
E ricordò tutto quanto ciò che era successo meno di...  quanto tempo era passato?
Non fece nemmeno in tempo a rievocare tutte le immagini di quello che era successo che un’infermiera dal volto bonario entrò ed emise un urletto sorpreso al vederlo cosciente, correndo poi subito fuori. Probabilmente corse a chiamare il medico o peggio, i suoi genitori.
David Karofsky abbandonò il capo all’indietro, contro quel cuscino troppo soffice e si lasciò scappare un sospiro.
Cos’aveva fatto?




Dave si rifiutò di parlare.
Semplicemente non aveva nulla da dire, non voleva dire nulla. Non se la sentiva perché ogni singolo respiro faceva ancora male.
Non rispose a nessuna delle domande dei medici e a quelle disperate dei suoi genitori. Ignorò i piagnistei di sua madre e la voce grossa di suo padre. Volevano la verità loro. Ma non sapevano.
Dave non parlò.




Quando gli presentarono la dottoressa Smith, Karofsky pensò realmente di essere finito in una sorta di purgatorio.
Non aveva la minima intenzione di parlare con qualcuno – non l’avevano ancora capito? - figurarsi se avrebbe parlato con quella psicologa di mezz’età che, non appena entrata nella stanza d’ospedale ed essersi seduta, l’aveva fissato con occhi trasudanti di pietà.
La pietà, pensò David serrando la presa sul ginocchio ricoperto dal lenzuolo candido e mordendosi l’interno della guancia, il sentimento peggiore al mondo. Non aveva bisogno di pietà, lui.
La psicologa non riuscì a estorcergli nulla durante la prima seduta e nemmeno durante le due che seguirono.

“Il ragazzo ha le labbra sigillate, signori,” la sentì riferire un giorno ai suoi genitori, “più di così non saprei che cosa fare. Mi dispiace”.






David era dell’idea che se avesse cercato di ignorare le cose che erano successe e limitandosi al silenzio più totale, tutto sarebbe migliorato nel giro di pochi giorni.
Nonostante la fermezza del suo pensiero fu costretto a ricredersi velocemente: iniziò a rifiutare il cibo, a trascorrere intere giornate fissando il soffitto neutro, le ore scandite dalle visite di controllo e dalle sedute con quella dottoressa idiota. 
Spesso, nel bel mezzo della notte, si svegliava di soprassalto con un enorme peso nel petto. Un peso che lo spaventava.
Aveva paura, un terrore folle che lo portava a mordersi il labbro a sangue quando il pensiero tornava a quel pomeriggio, alla fine apparente della sua vita sociale, a tutte quelle chiamate senza risposta, agli sguardi dei suoi compagni di squadra e a quella parola scritta in rosso sul suo armadietto.
Fag.
Quando la realtà iniziava a farsi sfocata e slabbrata, si premeva i palmi sulla fronte, serrando forte gli occhi, tentando di scacciare tutte quelle immagini e quei frammenti di ricordi dolorosi.
Ma gli sguardi di derisione lo seguivano ovunque: si sentiva osservato, spiato, squadrato, giudicato.
E aveva paura, Dave Karofsky. Si sentiva sbagliato, diverso, imprigionato.
Eppure sapeva che alla fin fine di sbagliato fondamentalmente non c’era nulla.
Lo sapeva ma quel masso pesava ogni giorno di più sul petto e non aveva la minima idea di quello che avrebbe potuto fare.

E all’alba, dopo una nottata d’incubi, era certo solo di una cosa: quella realtà lo stava asfissiando sempre più.





Forse un modo per sistemare le cose definitivamente c’era.
Come si dice? Ogni cosa richiede un prezzo.
Ebbene, lui voleva la sua libertà.






La dottoressa Smith si stupì non poco quando il medico le disse della richiesta di una seduta con David Karofsky, il ragazzo del tentato suicidio.
Aveva quasi pensato di rinunciarci; in otto giorni non era riuscita a fargli uscire nemmeno una sillaba dalle labbra e, nonostante la sua esperienza decennale, si era rassegnata al primo caso d’insuccesso della sua carriera.
Per questo si stupì. E si sorprese ulteriormente quando, entrando nella stanza del giovane, lo vide tormentarsi le mani in grembo, combattuto tra due cose che ancora lei non sapeva.
“Vorrei parlarle” disse David con voce rauca. Fu appena un sussurro ma lei lo udì e annuì, sedendosi e guardandolo in attesa.
“Tutto quello che vuoi, caro”.






Sono gay.

Le parole parvero rimbalzare sulle pareti bianche di quella dannata stanza e rimbombarono per qualche secondo nella scatola cranica del giovane. Erano due parole semplici ma dalle conseguenze pesanti, lo sapeva Dave.
Ciò nonostante l’aveva detto.
L’aveva detto avvertendo il peso al petto diminuire.
L’aveva detto deciso a non tornare indietro.
L’aveva detto con tutta la libertà del mondo per la prima volta nella sua vita. Nessun giro di parole solo la verità. Libera verità.

“C-come?” annaspò sua madre, osservandolo con sguardo interrogativo e confuso. Lei e suo marito si erano immobilizzati all’istante come se il giovane avesse detto loro che il mondo avrebbe potuto sparire da un momento all’altro.

“Sono gay” ripetè Dave respirando a fondo.

Davey, ti pare il momento di scherzare?” l’incalzò sua madre “devi essere confuso, forse sono quegli antibiotici che ti danno i medic-“

“No, non sono le medicine e non sono confuso” ribadì lui secco e la donna si portò una mano alle labbra dischiuse, capendo che il figlio non stava scherzando.

“Dave...”

“Mi dispiace avervi mentito” confessò il ragazzo cautamente “ma ho capito di non essere più in grado di tenermi tutto questo dentro” aggiunse scandendo bene le sillabe.
Sua madre soffocò un singulto e premette le labbra insieme, portandosi una ciocca di capelli dietro l’orecchio con un gesto stizzito.

“D-da quanto?” Dave sussultò alla voce di suo padre che non aveva ancora detto nulla e si affrettò a rispondere.

“Da qualche anno”

“Perché non ce l’hai mai de-” la voce dell’uomo venne sovrastata da quella della moglie.

“Via, Paul, che cosa stai dicendo? E’ tuo figlio! E’ nostro figlio, dannazione! Ed è un... un...” la donna si bloccò trattenendo un singhiozzo.

“Dillo, mamma,” mormorò David serrando la mandibola “dillo pure” ripetè.

“Uno scherzo della natura” disse livida in volto. Nonostante David si fosse preparato a sentirselo dire, non avrebbe mai pensato che avrebbe fatto così male.

“Harriet...” iniziò Paul cercando di fermare la moglie che lo ignorò e si avvicinò al letto del figlio.

“David, non puoi essere serio. Ti rendi conto che è una cosa anormale? Abbiamo sbagliato a crescerti noi, Dave? Cosa abbiamo sbagliato? Che cos’ho sbagliato?” esclamò con voce strozzata “a volte si può essere confusi e forse sei ancora stordito dopo l’incidente,” disse poi calmandosi leggermente e prendendogli una mano tra le sue.
“Vero?” aggiunse poi con tono quasi di scongiura.
David guardò la supplica negli occhi della madre e sentì una fitta al cuore. Scosse il capo e allontanò la mano da quelle della donna.

“Non avete sbagliato nulla. Non c’è nulla che non vada in me” disse e vide il volto di sua madre tendersi in una maschera di disgusto.

“Non fare lo stupido! E’ come una malattia! E’ malsano e... e... abominevole! Non c’è amore quello tra due uomini, non può esistere! Hai capito, Dave? Mi hai sentito?” urlò scoppiando in lacrime tanto che sia Dave che suo padre sussultarono.

“Non lascerò che tu diventi come... come quelli. Oh, so che tipo di persone sono. E tu non sei così. Sei un bel ragazzo, Dave, e hai tutto una vita davanti. Magari tutto questo si può curare, che ne dici? Ho sentito parlare da Jane di istituti speciali dove queste cose vengono curate da specialisti. Possiamo ancora correggere tutto quanto, Davey” spiegò con tono sottile, sperando di riportarlo sui suoi passi. “Noi ti vogliamo bene e non vogliam-“

Ma ti senti?
La donna si bloccò a quelle parole, le guance arrossate e bagnate di lacrime, e osservò lo sguardo sconvolto del ragazzo.

“Io non voglio cambiare! Perché non mi sono aperto a voi prima? Guardati. Mi sento bene così e non intendo fare quello che dici tu,” esclamò David “sono così, non è una malattia. Non mi puoi cambiare. Se tu non lo vuoi accettare, non m’interessa. E’ la mia vita, decido io chi devo essere!” sputò quelle parole con rabbia.
Perché, maledizione! non era giusto.

“Voglio essere libero di fare quello che voglio. Non voglio nascondermi dietro una maschera com’è successo negli ultimi anni. Chiedo solo la libertà di essere chi sono realmente. Perché non volete capire? E’ un crimine forse?” si ritrovò ad urlare per l’ira che pareva ribollirgli nelle vene. E non se ne pentì.
Sua madre singhiozzò arretrando di due passi. Lo guardò e tirò su col naso rumorosamente.

“Avrai la tua libertà” disse con voce tremula “ma non ti aspettare più nulla da me, David. Io ho sempre voluto un figlio. Non un mostro
Fu come se l’avessero schiaffeggiato; il ragazzo boccheggiò sentendo tutte le sue forze abbandonarlo, disintegrandosi.
Mostro.
Sua madre lo guardò con incredulo odio un’ultima volta prima di voltarsi e uscire dalla stanza d’ospedale. Paul, prima di uscire seguendo la moglie, guardò il figlio con uno sguardo strano. Uno sguardo di muto consenso.







Dave non ricordò di aver mai pianto così tanto come allora. Lasciò che le lacrime gli scorressero dagli occhi lungo le gote e non si curò di soffocare i singhiozzi.
L’aveva fatto.
Aveva detto tutto.
Nessun peso, nessun rimorso.
Aveva solo bisogno di sfogarsi con libertà, ora, perché le emozioni erano troppe.
Avrebbe pensato più tardi a sua madre, a suo padre, alla scuola, ai suoi compagni di squadra e ai suoi amici.
In quel momento si sentì vuoto, leggero. Svuotato tutti i segreti, le occhiate nascoste, le bugie.


Si sentì libero per la prima volta nella sua vita.


















*








Note:
Questa storia ha partecipato al contest "You wanna be a secondary character like me!", classicficandosi al quinto posto.
Uhm... niente di speciale ma ci sono affezionata comunque ^^'' Mi è piaciuto davvero molto scriverla e correggerla perchè c'era qualche strafalcione di troppo :')
Che altro dire? Spero piaccia anche a voi :3
Se doveste notare errori et simila, fatemelo sapere. Thank u
Alla prossima

hiccup
  
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