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Autore: Flick Ic    21/10/2012    2 recensioni
Da quando ero arrivata qua sapevo che c’era qualcosa di marcio nella mia apparenza, ed era l’unica parte di me che la gente riusciva a vedere.
Il principio di un dramma psicologico.
Genere: Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Da quando ero arrivata qua sapevo che c’era qualcosa di marcio nella mia apparenza, ed era l’unica parte di me che la gente riusciva a vedere.
Le espressioni non erano state un problema: la lingua la conoscevo già e la perfezionai in sì e no due mesi.
Non erano i lineamenti: essendo un incrocio tra le razze non li avevo così marcati; non era neanche il profumo diverso, meno forte con una leggera nota di gelsomino. Nulla di tutto questo mi aveva creato molte difficoltà; mi ero inserita piuttosto bene, non credo fosse nemmeno il cibo e come mangiassi.
Era l’etichetta che mi portavo dietro a contraddistinguermi, erano le mie abitudini a scoprirmi. Sarei potuta benissimo passare per un’occidentale nonostante gli occhi a mandorla e la pelle chiara, ma il giorno che entrai nella mia classe e mi inchinai, sapevo che quello non me lo sarei mai levata da dosso, quella sensazione opprimente di essere omologata a tutto il resto dell’Asia.
Era inutile avere uno dei miei genitori italiano; loro sapevano che mio padre era orientale, e lo ero anche io. Lo ero in tutto.
Mi ero trasferita in Italia da meno di un anno e sapevo che nonostante la gentilezza, tutti avrebbero sempre continuato a pensare a me come ad un’estranea.
Da dove venivo non era così.
Un giorno, nell’autobus mi trovai seduta affianco ad un bambino di circa cinque o sei anni che giocava con una macchinina in braccio alla madre. Non sembrava essersi accorto della mia presenza e per un po’ lo guardai mentre faceva salire e scendere quel piccolo oggetto dal braccio della donna. Quando si rese conto di essere osservato, con lo sguardo meno innocente ed ingenuo del mondo mi scrutò per un paio di minuti, finiti i quali sputò: -Cosa sei?-
Diedi per scontato che volesse sapere da dove venissi e cercando di essere più gentile possibile sorrisi e risposi: -Sono coreana-
Il bambino si girò verso la madre tornando a maneggiare il suo giocattolo. Pensai che avesse perso il suo interesse per me e, decisamente più rilassata, mi voltai. Lui sussurrò ma io sentii distintamente.
-Coreana come i vermi-
Il sangue mi si congelò. La donna imbarazzata accennò una risatina e, dopo essersi alzata, scelse un altro sedile all’interno del mezzo.
Questo è un segreto strisciante e viscido che mi portai dietro per anni, era quella la mia etichetta.
Io, la coreana, prima di entrare in una casa mi levavo le scarpe accantonandole in un angolo, quando mi porgevano qualcosa la prendevo con entrambe le mani, avevo i capelli troppo lisci, mi ostinavo a mangiare per terra e con le bacchette, m’inchinavo, se presa di sprovvista biascicavo parole incomprensibili e quando scrivevo il mio nome, lo facevo utilizzando gli ideogrammi.
Fu in quel momento che iniziò a maturare il marcio in me; tutti mi sorridevano, ma in fila nei negozi mi passavano sempre davanti; ciò che compravo era buono ma la maggior parte delle volte era leggermente rancido e quando cucinavo per qualcuno, tutti prima di mangiare controllavano silenziosamente dentro al piatto.
E’ così che iniziò il mio degrado. Pur sapendo parlare due lingue allo stesso modo, iniziai a confonderle: non ricordavo più dove iniziasse una e finisse l’altra, i confini si fusero e diventò sempre tutto più grigio, più scuro.
Non volevo profumare come loro, non volevo parlare come loro, non volevo pensare come loro, non volevo essere come loro.
Ero io, da sola. Estraniata da chiunque.
 
                                                 Salve, sono Jihyon, vivo in Italia ma sono Coreana.
                                                                        Coreana, come i vermi.
 
   
 
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