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Autore: Alex e Finger    22/10/2012    2 recensioni
— Non mi sono mai sentito così poco Mentore come vicino a lui. —
— Diceva che sei così disposto ad imparare. Diceva che gli ricordavi Ishak, in qualcosa, anche se siete profondamente diversi. —
Lo sguardo di Ezio scivolò verso il tumulo e si velò per un attimo, mentre percepiva gli occhi di lei fissi sul suo viso.
— Perché mi cercavi? —
Ràhel si prese un attimo prima di rispondere, come se stesse raccogliendo le forze.
— Perché lo amavo. E perché sento che in questo breve tempo, anche tu lo hai amato. Vorrei parlarti di lui. —
Genere: Generale, Storico | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Ezio Auditore, Nuovo personaggio, Sofia Sartor, Yusuf Tazim
Note: Missing Moments | Avvertimenti: Spoiler!
Capitoli:
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Istanbul,

Rabî Ath-Thânî 884

(Luglio 1479)

 

 

 

 

 

 

 

 

 








 


 

uella borsa aveva un aspetto dannatamente appetitoso. Rivestita di broccato verde, si reggeva sulla spalla del suo nobile proprietario grazie a due sottili cordicelle dorate; era grande quanto il suo cappello e dal modo con cui gli cadeva sul fianco Yusuf era pronto a scommettere che pesasse più della sua testa. Si disse che con tanto denaro avrebbe potuto svaligiare il fırıncı (fornaio) di quartiere e mangiare simit (dolce tipico, a base di sesamo e miele) fino allo svenimento. Lo stomaco gli mandò un segnale inequivocabile e con una smorfia contrariata il ragazzo pensò alla colazione abbondante che Imran gli aveva messo davanti neanche un’ora prima.

Terminata la preghiera, i nobili si erano riversati come un gregge belante nel portico esterno della piccola Santa Sofia. Yusuf si aggiustò meglio nell’ombra della colonna che lo separava dal cortile e fissò a lungo il nobiluomo che aveva puntato. Questi s’intrattenne scherzosamente con alcuni amici e poi si attardò a discutere con un soldato che portava il tipico copricapo pennato da Giannizzero di prim’ordine. Yusuf aveva imparato da poco a distinguere i ranghi tra le fila dell’Impero e solo perché Dönek aveva detto che gli sarebbe tornato utile; ma un pezzo grosso come Qays Bin Husn lo conoscevano anche i lattanti.

Il Gran Giannizzero era scortato da altri quattro rappresentati dell’arma Imperiale più il giovanissimo Murat, che, solo undicenne e da poche settimane, era entrato come ajami (recluta) nell’orta (L’equivalente di un reggimento militare) del fratello maggiore Qays. Addobbato come un principino, l’armatura lo faceva sembrare il doppio di quello che era, autorizzando il passerotto ad atteggiarsi falcone.

Yusuf distolse lo sguardo dal giovane Murat e tornò a studiare scrupolosamente il resto della sorveglianza, sparpagliata nel portico ma abbastanza lontana dal suo punto d’interesse perché gli fosse permesso di agire indisturbato: sarebbe sgattaiolato tra quei grassi gatti da salotto come un piccolo uccellino, approfittando della confusione per arrivare alla borsa e infilarci la mano senza essere visto. Dopodiché sarebbe uscito dall’edificio esattamente come vi era entrato…

 

Atterrò con un gemito nel piccolo cimitero, ruzzolando nell’erba e sbattendo il fianco contro una lapide che si ritrovò poi in mezzo alle gambe. Nella caduta si era graffiato le ginocchia e i gomiti.

Onu yakalar oğlan! (“Catturate quel ragazzino!”) — era una frase che conosceva fin troppo bene.

Yusuf era arrivato solo a sfiorare coi polpastrelli il sontuoso velluto interno della borsa. Gli occhi vispi di Murat lo avevano colto letteralmente con le mani nel sacco e il giovane Bin Husn aveva dato l’allarme, gridando per richiamare l’attenzione del fratello e degli altri Giannizzeri.

Nel portico era scoppiato un gran caos, ma Yusuf aveva estratto prontamente il pugnale e reciso di netto le cordicelle dorate che assicuravano la borsa al suo proprietario, che era balzato in avanti con un grido semplificandogli la manovra. Dopodiché si era arrampicato sul colonnato come una scimmia, mentre alle sue spalle aveva immaginato una dozzina di armi da fuoco puntate su di lui. Era stato Qays a sparare il primo colpo, che aveva fatto saltare una tegola vicino alla sua caviglia, dando a Yusuf l’urgenza di buttarsi, alla cieca, dal tetto dal portico.

Nel violento atterraggio aveva perso la borsa, che aveva volteggiato in aria e riversato il suo contenuto sul prato del cimitero, a pochi passi da lui.

Yusuf imprecò.

Aveva rischiato la vita per una copia del Corano, aperto dove il segnalibro di stoffa era volato via, altri testi dalle copertine spesse come pelli animali e vari ammennicoli. Con lo stomaco che gli vorticava per l’amarezza, afferrò quello che ricordava vagamente un piccolo portamonete e lasciò il cimitero di corsa.

 

 

 

— Perché ci hai messo tanto? — gli domandò Dönek quando vide la sua ombra allungarsi accanto alla propria.

Yusuf si lasciò cadere prima seduto e poi completamente sdraiato sulla banchina. — Lascia stare, — sospirò stremato.

Dönek lo colpì sul fianco con una gomitata.

— Ahi! — sbraitò Yusuf rispondendogli con una ginocchiata.

— Ma se ti ho appena toccato. —

— Sì, ma mi faceva già male! —

— E io che ne so se non me lo dici? —

Yusuf sbuffò e si tirò su, ma solo perché il legno arroventato dai raggi del sole aveva cominciato a fargli sudare la schiena. — Ho borseggiato uno alla Piccola Santa Sofia. —

— Hai aspettato la fine della preghiera? — gli chiese Dönek senza mostrare un grande interesse. Aveva già capito che come minimo Yusuf si era fatto beccare di nuovo.

Il più giovane annuì. — C’erano tanti di quei ricconi… ti saresti divertito, — disse facendosi ombra sugli occhi per guardarlo in faccia, ma Dönek non gli rispose e sembrò meditare.

— La prossima volta assicurati che Qays Bin Husn sia dall’altra parte della città. —

Yusuf spalancò la bocca dimenticandola aperta. — Come lo sai? —

— C’è una cosa che si chiama origliare, Yusuf, e lo fanno tutti i bravi ladri a cui non piace improvvisare, — disse Dönek con quell’aria da saputello che lo imbestialiva.

Yusuf incrociò le braccia e sbuffò ancora. Poi, e sperando che l’altro non lo sentisse, borbottò a bassa voce: — Comunque è stato Murat a vedermi. Ha avvertito lui le altre guardie e io sono scappato sul tetto. Mi hanno sparato e sono dovuto saltare nel cimitero… —

Dönek scoppiò in una fragorosa risata. — Aspetta, hai detto Murat? Ma chi, il bambizzero? Davvero, Yusuf, non la pianti mai di sorprendermi! Ahahah! —

Mentre quello se la rideva di gusto, Yusuf tratteneva a stento l’istinto di spingerlo in acqua.

— La borsa però sono riuscita a prenderla. —

Dönek tornò improvvisamente serio e i due si fissarono.

— Fa’ vedere. —

Adesso sembra molto interessato, pensò Yusuf con una smorfia. — Dentro c’erano solo libri, cianfrusaglie e… —

Dönek fece un’espressione contrariata. — Che libri? Si possono sempre rivendere, — disse interrompendolo.

Un attimo di silenzio.

— E le cianfrusaglie? — chiese poi.

Yusuf si strinse nelle spalle e scosse la testa.

— Tutto qui? — Dönek si avvicinò. — Passi sotto al naso di Qays Bin Husn rischiando la vita e questo è tutto quello che rubi? Ma dove ho sbagliato? — sospirò lasciandosi cadere sulla banchina. — Se avessi io la tua stazza… Quanto talento sprecato… —

— E questi, — concluse Yusuf.

Dönek si tirò su di colpo, mentre Yusuf riversava il contenuto del piccolo portamonete sulla propria mano.

— …dadi? — mormorò Dönek, scambiando con l’altro un’occhiata perplessa.

— Sì, dadi… — ripeté Yusuf. In faccia avevano la stessa delusione, ma quella di Dönek mutò rapidamente in qualcosa che somigliava alla curiosità.

— Dei signori dadi, — disse prendendoli dalla sua mano e Yusuf lo lasciò fare.

Dönek se li rigirò tra le dita e poco dopo, con una scrollata di capelli, disse: — Sono truccati. —

— Truccati? Che significa? — chiese Yusuf.

Ma quello non rispose. Si voltò dando le spalle al Corno d’Oro e, inginocchiandosi, lanciò i dadi sulla banchina. Le pietruzze color rosso d’alizarina cozzarono sulle assi e si fermarono dopo pochi balzi, vicino alle ginocchia del ragazzo. Yusuf contò i puntini sulle dita di una mano e dell’altra ma non arrivò a farne la somma perché Dönek riprese i dadi con sé. Li tirò ancora, e ancora una volta Yusuf provò a contare il risultato, ma Dönek fu più svelto. Il gesto di prendere e lanciare i dati divenne spasmodico, sul volto di Dönek si delineava un sorriso malato. Alla fine di un ultimo lancio il ragazzo catturò i dadi tra le mani e rimase immobile.

— Siamo ricchi… — mormorò.

Yusuf, già spazientito, sbuffò e si alzò in piedi. — Sono degli stupidi dadi, Dönek. —

Il ragazzo più grande lo afferrò per il pantalone e lo tirò di nuovo giù, seduto al suo fianco. Si guardò attorno e poi, trattenendo Yusuf vicino a sé, aprì la mano e gli mise i dadi sotto al naso.

— Conta, avanti. —

Imbarazzato, Yusuf rispose dopo un tempo troppo lungo: — Undici. —

— Bravo, ora conta di nuovo. —

Dönek scosse un po’ il palmo e i dadi saltellarono tra le sue dita.

— Quattro. —

— Ancora. —

— Undici. —

— Di nuovo, dai! —

Yusuf gonfiò il labbro superiore, perplesso.

— Undici. —

Dönek gli sorrise. — E adesso? —

— Undici! — gridò Yusuf, voltandosi a guardare l’amico e dimenticando aperta la bocca.

— Questi dadi sono stati truccati per un gioco che si chiama Azzahr Asil, l’azzardo nobile, — cominciò Dönek accarezzandoli col pollice. — Il gioco è molto semplice e anche molto veloce, fatto per le scommesse rapide che piacciono tanto ai nobili, appunto. Scegli un numero da due a dodici e lanci i dadi. Se il tuo numero esce prima di quello che ha scelto il tuo sfidante, hai vinto. —

— Ma cosa hanno di diverso da tutti gli altri dadi? E perché esce sempre l’undici? —

— Dentro questi dadi è stata scavata una piccola camera d’aria che compromette l’equilibrio tra le facce in ogni lancio, e così aumenta la probabilità che esca un numero piuttosto che un altro! A quanto pare l’undici è quel numero, ma non esce sempre e l’hai notato. Sono stati truccati volutamente in questo modo un po’ imperfetto per, paradosso dei paradossi, sabotare il trucco. Se l’undici uscisse sempre o al primo colpo qualcuno s’insospettirebbe. Invece così possono sembrare dadi normali per una media di ben… — contorcendo il viso in una smorfia fece un rapido calcolo.

— Quattro mani, — dichiarò in fine.

— Non capisco. —

— Non importa. Ora vieni. — Dönek si alzò sollevandolo di peso e, senza mollargli i pantaloni, lo costrinse a seguirlo.

— Dove stiamo andando? — chiese Yusuf quando furono in strada. Si liberò con uno strattone prima che la foga dell’altro lo facesse inciampare e sbucciare qualcos'altro.

— Fidati di me, — rispose Dönek lanciandogli un’occhiata.

Yusuf conosceva quello sguardo.

Dönek aveva di nuovo lo sguardo del gatto che andava a mangiare nella ciotola del cane.

 

 

 

Nel 1454 l’Impero Ottomano e la Persia Sefavide si erano spartiti il piccolo entroterra dell’Armenia. In quell’anno il Sultano Maometto II aveva invitato la comunità a stabilire un patriarcato nella capitale e così, sul confine tra il Distretto storico di Faith e quello rurale di Bağcılar, era nato il quartiere armeno: Samatya. 

Col passare del tempo le imposizioni dell’Impero sulle minoranze si erano fatte più incisive e questo aveva portato ad uno scisma all’interno della stessa comunità: attorno al Sulu Monastiri, un antico complesso monastico greco dove si era instaurato il patriarcato, la popolazione era dimagrita riducendosi ad un’élite di politici e religiosi. In periferia, nella zona litorale che affacciava sul Mar di Marmara, invece, aveva stagnato negli anni la povera gente. Qui si trovavano il trafficato porto dei pescatori e l’allegro mercato del pesce, ma vi si rifugiavano volentieri evasori, ladri e criminali d’ogni sorta.

Ovviamente Yusuf tutto questo non poteva saperlo, e le strade di Samatya, alla luce del sole, gli sembrarono vivaci come il Gran Bazar. Camminava stretto al fianco di Dönek, faticando per tenere il passo delle sue gambe lunghe, e si guardava attorno con gli occhi grandi e le orecchie intasate dalla confusione di suoni. La lingua di cui coglieva solo tante parole confuse era ridondante e piena di consonanti sdrucciolevoli. Nell’aria c’era l’odore penetrante e un po’ dolciastro di una qualche spezia sconosciuta. I vestiti degli uomini erano lunghi come quelli delle donne, colorati di bianco e rosso o verde o blu. La maggior parte degli adulti aveva il capo scoperto, ma alcuni, notò Yusuf con una risatina, portavano cappelli buffi come il fornaio del suo quartiere.

Si erano lasciati alle spalle l’area cittadina e i bei vestiti per addentrarsi in una zona dalle case arroccate, che imitava molto l’ambiente attorno al Foro di Arcadio, nel quartiere di Costantino. Quando raggiunsero il grande mercato, dopo quasi un’ora di cammino serrato, sopraggiunse la puzza nauseabonda di pesce. Si addentrarono nel labirinto di bancarelle prendendo quelle che Dönek dava l’idea di conoscere come vantaggiose scorciatoie, ma più di una volta sbucarono nel retrobottega di qualche pescatore che, scambiandoli per ladri, impugnava il coltellaccio da pesce e li scacciava con insulti che capiva solo lui.

Yusuf si fermò di colpo. — Ma quello è il Marmara Deniz (Mar di Marmara)! — eruppe, decifrando la striscia azzurra sopra i tetti delle casupole, e capì che i piedi gli facevano male perché senza accorgersene avevano attraversato mezza città.

Dönek tornò indietro e lo afferrò per il braccio, tirandoselo addosso. — Non abbiamo tutto il giorno, stupido! Il posto è lontano e tu devi tornare a casa prima che faccia buio. —

Yusuf si liberò con uno strattone e piantò i talloni a terra. — E io che ne so se non me lo dici? — sbottò facendogli il verso.

Il ragazzo irrigidì la mascella. — Cammina, o ti lascio qui. —

Yusuf allungò la mano. — Se vuoi andare da qualche parte allora ci vai senza i miei dadi, — disse. Alla faccia perplessa dell’altro rispose: — Sai com’è, le chiappe erano le mie a Santa Sofia. —

Dönek alzò gli occhi al cielo. — Non fare il bambino, Yusuf! —

— No, infatti, sono serio! Serio come un adulto. Ridammeli. — Le quattro dita della mano tesa si chiusero più volte.

— Scordatelo. —

— Ridammeli! —

— Vieni a prenderli. —

E fu la guerra.

 

Si rotolarono sul terriccio ciottoloso del mercato per lungo tempo, menandosi e mordendosi senza che nessuno intervenisse. Anzi: i venditori di pesce si stendevano sui banconi per assistere alla scena e ridevano così forte da far tremare tutta la bancarella. La gente si fermava ai lati della strada e i bambini gridavano incitando le scommesse, giocandosi i denti da latte sul vincitore.

La foga della lotta aveva infastidito un gruppo di religiosi, che come si accorsero di loro interruppero subito lo spettacolo. Ci vollero due uomini per separarli.

La pelle e il sangue di uno nelle unghie o sulle nocche dell’altro. Avevano i vestiti e i capelli pieni di polvere; lividi, morsi e sbucciature ovunque.

Kokmuş katır (mulo puzzolente)! — sbraitò Yusuf scalciando, ma la presa del religioso sulle sue braccia era salda come la mascella di un cane con un osso in bocca e faceva dannatamente male.

Aptal maymun (stupida scimmia)!  — ringhiò Dönek in risposta, sputando a terra subito dopo.

Erano i loro soprannomi, ormai.

Si fissarono l’un l’altro col fiato grosso, grondanti di sudore, e sembrò che si fossero tranquillizzati, ma all’improvviso, tra le risate dei religiosi e del pubblico, Dönek cominciò a dimenarsi come un ossesso per guadagnarsi la libertà. Le pupille nere grandi come ciottoli, bianco come se avesse visto un fantasma. Quando il religioso lo lasciò con un’imprecazione, non riuscendo più a trattenerlo, il ragazzo ruzzolò a terra e poi scappò via di corsa, aprendosi un varco nella polvere e nella folla.

Yusuf lo guardò sparire dietro le bancarelle e solo allora i lividi cominciarono a fare davvero male. Il religioso alle sue spalle lo rimise in piedi e mentre gli scompigliava i capelli disse qualcosa di divertente in una strana lingua, rivolgendosi ai compagni. Poi gli diede una pacca sul sedere e Yusuf scappò come un puledrino.

 

Ora che Dönek lo aveva abbandonato a se stesso, in una zona della città a lui completamente estranea, Yusuf cominciava ad avere paura. Aveva corso molto, con gli occhi gonfi e arrossati dalle lacrime che il caldo si era portato subito via, e finché i piedi non avevano cominciato a pulsargli dentro le scarpe di canapa. Aveva trovato un posticino appartato, nell’ombra di una baracca sulla spiaggia, e ne aveva fatto la sua tana, dove riposare e leccarsi un po’ di ferite.

Neanche un’ora dopo Dönek ricomparve e lo trovò che si succhiava il mignolo dentro un vecchio scafo.

Quando lo vide, Yusuf si levò lentamente il dito di bocca con aria pentita.

— Ti ho rotto un’unghia? — chiese il ragazzo.

Yusuf annuì e tirò su col naso. — Sei un bastardo… —

Dönek si massaggiò la spalla scoperta, dove una testata dell’altro aveva fatto sbocciare un livido grande quanto un garofano. — Non possiamo andare in quel posto conciati così. Ti riaccompagno indietro, — disse.

Yusuf si alzò e zoppicò verso di lui. — Sei lo stesso un bastardo… — mormorò superandolo.

Mentre s’incamminavano Dönek lo prese sottobraccio.

— Mi fai male, — obbiettò Yusuf con una smorfia.

Quello si scansò. — Scusa. —

 

 

 

A sua madre non piaceva vederlo con addosso tutti quei tagli. Forse l’annoiava doverglieli pulire tutte le volte e sempre gli stessi negli stessi punti, ma solo perché Yusuf si divertiva da matti a grattare via le crosticine. Guardava il sangue formare una bolla, la schiacciava con il dito e, per nascondere il misfatto, dava una leccatina.

Ma quella sera, quando Imran finì di strofinargli la schiena e lavargli i capelli, Yusuf ebbe a mala pena la forza di fare le scale e sdraiarsi a letto. Sua madre salì a portargli la cena in camera, ma si fermò sulla soglia con la scodella tra le mani. Poco dopo entrò senza produrre alcun rumore e sistemò le imposte in modo tale che trapelasse un po’ della frescura notturna. Lasciò un bacio sulla fronte del figlio e spense il lume.

 

La mattina seguente, e per la prima volta dopo tempo immemorabile, Yusuf si svegliò molto tardi.

Negli ultimi minuti di dormiveglia fece una lotta estenuante con il lenzuolo, che non ne voleva sapere di sgrovigliarglisi dalle caviglie, mentre il caldo lo trascinava via dal piacevole torpore del sonno. Spazientito al massimo, sedé di colpo sul letto con gli occhi ancora chiusi e i capelli tutti arruffati e umidicci. Non era neanche uscito di casa e già puzzava di sudore.

Imprecando, piantò i talloni a terra e andò a chiudere la finestra nell’abbaino che sua madre doveva aver dimenticato aperta quand’era passata di lì. Lasciandolo dormire, Imran era salita nella sua soffitta solo per mettergli degli abiti puliti in cima alla cesta. Yusuf si spogliò gettando a terra quelli sporchi e si rivestì con calma; dopodiché lasciò la sua stanza.

Una volta in cucina, alla ricerca disperata di qualcosa da mettere sotto i denti, trovò un biglietto proprio nella prima dispensa dove aveva infilato il naso. Era di sua madre, che si burlava di lui per essere così ingordo e prevedibile. Poi gli chiedeva di raggiungerla al Gran Bazar con il traghetto e portarle i due yaprak dolma (involtini di riso) che aveva preparato quella mattina e lasciato in caldo nel fagotto accanto al forno. Avrebbero pranzato insieme, come al solito.

Leggendo l’ultima riga Yusuf immaginò la sua voce:
 

Benim için küçük savaşçı bal ısıtmak simit,

anne

(“Un simit caldo al miele per il mio piccolo guerriero,

mamma”)

Il ragazzo prese il fagotto del pranzo in una sacca e volò in strada come una cavalletta, cominciando a sentire profumo di sesamo e miele già due passi dopo la porta.

 

 

 

— Con tutti i simit che ti mangi comincio a pensare che tua madre l’abbia comprato, il fornaio! —

Anche quel giorno Talip era di buon umore. Il vecchio traghettatore era un uomo simpatico, che aveva una battuta nuova ad ogni traversata e diversa per tutti i suoi avventori. Ma Yusuf non era un cliente qualunque: lui e Imran prendevano il suo traghetto tutte le mattine per attraversare il Corno d’Oro e raggiungere il quartiere Imperiale, dove la donna lavorava. Avevano instaurato una bella amicizia che andava avanti da quando la famiglia si era trasferita a Costantinopoli qualche anno prima. Yusuf aveva sperato fino all’ultimo di trovarlo alla banchina di Galata, altrimenti avrebbe dovuto noleggiare la barca di uno sconosciuto.

Con la bocca piena di pasta di grano, Yusuf gli diede il buongiorno e pagò il tributo, saltando a bordo e sistemandosi agilmente tra i banchi. Si mise la borsa col pranzo sulle ginocchia e diede un altro morso al simit.

— Se continui così non potrò più caricarti, Yusuf, o affonderemo, — lo canzonò Talip. Appoggiò il remo alla banchina per fare leva e la barchetta prese il largo.

— Allora è un miracolo se non siamo già affondati, — rispose il giovane lottando con un filone di miele.

Talip si accarezzò il pancione da birra, così grosso che Yusuf ci sarebbe entrato due volte. — Io sono vecchio, ma soprattutto sposato da trent’anni. —

— Hai figli, Talip? — chiese tra un morso e l’altro.

— No. —

Il ragazzo inghiottì e poi alzò gli occhi per guardarlo. — Perché? —

L’uomo remava fissando un punto indistinto tra le mura del Topkapi, arroccato come una fortezza sulla punta più esposta della costa opposta. — La mia famiglia è tributaria, Yusuf, e se avessi dei figli l’Impero verrebbe a prenderli per farli combattere nel suo esercito. —

Ora Yusuf masticava con più calma.

Con un sorriso tutto nuovo Talip indicò la sacca sulle sue ginocchia.

Yaprak dolma, — disse Yusuf. — Ne vuoi uno? Tanto a me non piacciono. —

— Sicuro che Imran non si arrabbierà? —

Yusuf si strinse nelle spalle. — Nella tua pancia o qui fuori, affondiamo comunque. —

— Hai il senso dell’umorismo di tua madre. Dammi qua: morivo di fame. —

 

Il proprietario della sartoria non gli era mai piaciuto, e uno dei tanti motivi era che trattava sua madre come una stupida. Nonostante lavorasse per lui da tempo immemore col massimo dell’efficienza, le dava gli ordini col tono di un addomesticatore di scimmie e le riservava i compiti più umili e banali. Quando l’acquisto o la vendita di qualche stoffa richiedeva dei conti difficili, arrotondava le cifre sgangherando il prezzo, e questo creava inevitabilmente una clientela magra e amareggiata. Era perciò un pessimo commerciante senza il minimo senso pratico, e non un uomo cattivo, ma terribilmente frustrato da un lavoro che non lo soddisfaceva.

Quella volta Yusuf entrò nella bottega senza salutarlo e la cosa lo fece imbestialire.

Al termine di una lunga litigata con sua madre, l’uomo si liberò del proprio cappello da sarto e lo mise in testa a Yusuf, che Imran teneva di fronte a sé con due mani sulle spalle. Dopodiché lasciò la bottega quasi correndo, probabilmente per non tornarci mai più.

 

— Mi dispiace per quello che è successo, mamma. —

Imran sospirò e strinse più forte la sua mano, mentre camminavano nella confusione del Gran Bazar. — Kadir bey (suffisso cerimoniale riconosciuto dal Sultano) era un uomo molto triste, e solo perché ha sempre lavorato troppo. Ora avrà il tempo di vivere un po’ e trovarsi una donna che lo sopporti. —

Yusuf si grattò la testa pensieroso. — Quindi adesso la bottega è tua? —

Imran annuì. — E tu dovrai darmi una mano. —

— Mamma! —

— Hai portato il pranzo? —

Lui annuì. — Ma ho dato il mio involtino a Talip. Perché continui a farli? Lo sai che non mi piacciono e quando li fai impuzzolisci tutta la casa, — si lamentò storcendo il naso. — Hai pure dimenticato la finestra aperta.‘Sta notte è bravo chi riesce a prendere sonno… — borbottò.

Imran si fermò a leggere il prezzo di alcune spezie. — Rischiavi di dormire troppo. —

— Certo, ero stanco! —

— E come mai? — chiese con tranquillità.

Yusuf tacque. Doveva aspettarselo.

Mentre attendeva una risposta, che tardò ad arrivare, la donna acquistò del curry e dello zahtar.

— Ero con un amico. —

Imran mise le spezie nella sacca di Yusuf e poi prese nuovamente il figlio per mano. — Davvero? Perché non me lo fai conoscere una volta? Come si chiama? —

Yusuf si torturava un lembo dei pantaloni. — È timido, non penso che l’idea gli piacerebbe. — 

— Tu sii gentile e invitalo a casa nostra; lascia che sia lui a decidere. —

— D’accordo, ma solo se prometti che non cucinerai mai più i yaprak dolma! —

Trascorsero il pomeriggio al porto di Neorion, nel quartiere Imperiale. Imran mangiò il suo involtino e al tramonto Talip li riaccompagnò a Galata. Quando attraccarono alla banchina l’uomo l’aiutò a scendere e si complimentò con sua madre per l’ottima cucina. Arrivarono a casa e Imran accese subito il fuoco per la cena: quella donna non poteva stare senza far nulla.

Yusuf salì di corsa nella sua soffitta e spalancò la finestra nell’abbaino. Si affacciò in strada e una folata rinfrescante di vento serale gli scompigliò i capelli.

Un ragazzo poco più grande di lui passò lì sotto in corsa.

Nazim kokmak (Nazim puzza)! — urlò Yusuf, riconoscendolo.

Sizin kıçını (il tuo sedere)! — rispose il figlio del fabbro e scomparve dietro l’angolo.

Yusuf si sistemò più comodo e aspettò. D’un tratto vide passare una signora anziana avvolta in un lungo burqa azzurro. Fece una perfetta imitazione del verso della gallina e si nascose. La donna si fermò per guardarsi intorno, ma prima che potesse riprendere il suo cammino Yusuf chiocciò di nuovo e di nuovo la vecchiarda si guardò intorno.

Dalla cucina sua madre gli gridò di smetterla. — Altrimenti ti metto in pentola! — aggiunse.

Il ragazzo sbuffò e accostò la finestra.

 

Dopo cena Yusuf si sistemò tra i cuscini del piccolo salotto e iniziò a leggere Il secondo viaggio di Sinbad il Marinaio facendo compagnia a sua madre. Imran finì di pulire i piatti, gli scoccò un bacio sulla testa e poi sedette accanto a lui per aggiustare i conti della bottega.

Quando Simbad arrivò nella valle dei serpenti giganti e un Roc (figura mitologica medio-orientale molto ricorrente, simile ad una grande aquila) oscurò il sole, qualcuno bussò alla porta.

Il ragazzo non mosse un muscolo: era in guerra con se stesso perché leggere quegli stupidi racconti stava cominciando a piacergli e voleva sapere che diavolo si sarebbe inventato ‘sta volta quel Sinbad per sfuggire agli artigli di una colossale aquila gigante…

Imran si alzò e quando la porta fu aperta qualcuno irruppe nella casa, abbracciandola e sollevandola da terra.

Yusuf sbirciò da sopra le pagine: era suo padre, o almeno l’uomo che diceva di esserlo.

 

Si chiamava Yalìm e non sapeva altro di lui; a parte, forse, che faceva un lavoro molto strano che lo teneva molto impegnato. Era un assassino nel senso buono del termine: apparteneva cioè ad un gruppo di uomini e donne che combattevano per la libertà della gente. Era perciò una specie di guerriero, perché aveva l’abitudine di sparpagliare per casa le sue armi con la scusa di doverle usare all’improvviso se qualcuno avesse saputo che viveva lì.

Già, ma Yalìm non viveva lì. Yusuf e sua madre vivevano lì. Quell’uomo non si svegliava la mattina accanto alla sua donna e non faceva colazione con loro. Non aiutava la mamma con la spesa e non sbatteva i cuscini dalla polvere. Non lasciava i simit al miele già pagati dal fornaio per suo figlio, non li accompagnava dall’altra parte del Corno d’Oro e probabilmente non conosceva Talip. Yalìm era perciò un ospite, per il quale bisognava aggiungere un po’ di riso in pentola o togliere il letto quando se ne andava.

E tutte le volte se ne andava allo stesso modo.

Yalìm posò la mamma dopo averla baciata almeno una dozzina di volte e fatta volteggiare tra le sue braccia fino al capogiro. Solo allora lo notò.

— Yusuf! — 

Venne verso di lui e s’inginocchiò sui cuscini, scompigliandogli i capelli. Sbirciando tra le righe esultò: — Ah, Sinbad! Era il mio preferito quando avevo la tua età. —

Yusuf ammiccò e finse di continuare a leggere.

— Hai fame, Yalìm? — chiese Imran avviandosi in cucina.

L’uomo si alzò e andò verso di lei. — Ti ringrazio, aşkım (amore), ma sono solo passato a salutare il piccolo. Domani all’alba parto con gli altri. — Le cinse la vita e appoggiò la fronte contro la sua.

Lo sguardo di sua madre diceva: e a me non saluti?

Yusuf chiuse il libro e augurando la buonanotte salì nella sua stanza.

Sì, mamma: ora ti saluta.

 

Quella notte Yusuf non fu capace di prendere sonno e fissò tutto il tempo il muro contro il suo letto.

Non solo per colpa di Yalìm non era riuscito a sapere come se la sarebbe cavata Sinbad, ma la sua comparsa lo aveva anche costretto ad andare a letto vergognosamente presto. Inoltre sua madre non era riuscita a finire i conti importanti per la bottega che aveva “ereditato”, quindi l’indomani sarebbe stata carica di lavoro e questo l’avrebbe sfinita.

D’un tratto la porta si socchiuse con un cigolio e Yusuf si paralizzò, trattenendo anche il respiro. Poco dopo sentì il peso di un corpo incredibilmente caldo e massiccio affossare il materasso del letto e sdraiarsi dietro di lui, avvolgendolo.

— Lo so che sei sveglio. —

Il ragazzo rimase immobile.

— Se la prossima volta vuoi imbrogliarmi ricordarti che solo i morti non respirano. —

Yusuf buttò fuori l’aria come se stesse sbuffando. — La mamma dorme? — domandò premendo il naso sulla parete, della quale poteva quasi distinguere le venuzze.

Evet (esatto). — Il fiato dell’uomo gli riscaldava la nuca.

— Di già? — si stupì Yusuf.

— Era molto stanca, — disse Yalìm con uno strano sorriso. — Tu sai perché? — gli chiese.

— Oggi ha litigato con il proprietario della sartoria. —

— Le ha fatto del male? —

— No, si è arrabbiato per una cosa stupida… —

Lui sospirò. — L’avevo avvertita che quell’uomo era fuori di testa. —

— Però è stato gentile, mi ha regalato il suo cappello. —

— Davvero? —

— E alla mamma ha regalato tutta la bottega. —

— Non ci credo. —

— Yalìm? —

— Dimmi. —

— Sinbad come uccide il Roc? —

Lui si prese un secondo per riflettere. — Stavi leggendo il secondo viaggio, giusto? Vediamo se mi ricordo… Non lo uccide, fa una cosa molto più astuta. I Roc scendono nella valle per prendere il cibo da portare ai loro nidi, che sono fatti di diamanti. Sinbad si fa catturare e condurre fino al suo nido, dove racimola tutto quello che può, e alla fine si fa salvare dai suoi uomini. Non dire alla mamma che te l’ho detto. —

Yusuf soffocò una risata. — D’accordo. —

Nel silenzio sentirono dei passi leggerissimi sulle scale. Poi la porta si aprì.

Imran lo chiamò e Yalìm si alzò dal letto per raggiungerla.

— Sono qui fuori. Dicono che dovete partire subito, — sussurrò lei.

— Saad… Perdonalo, è fatto così. — L’uomo la baciò in fronte. — Ora torna a dormire, ci rivedremo presto. —

Baba (papà)! — Yusuf si sollevò di colpo.

— Cosa c’è, Yusuf? — domandò Yalìm.

Imran gli strinse la mano.

Il ragazzo esitò. — Conosci Talip? —

L’uomo scosse la testa, smarrito. — No, non lo conosco. —

Mentre scendevano le scale Yusuf lo sentì chiedere a Imran chi fosse questo Talip. Se sua madre diede a Yalìm una risposta, il ragazzo non riuscì a coglierla. Quindi volò fuori dalle coperte e si affacciò alla finestra. Vide due uomini in strada e uno sul tetto proprio di fronte al suo abbaino. Il cappuccio a becco d’aquila si voltò d’un tratto verso di lui e Yusuf si nascose dietro l’imposta della finestra, continuando a tenere il gruppo sott’occhio.

Yalìm comparve sull’ingresso e si unì agli altri Assassini, calandosi il cappuccio sulla testa, senza proferire parola. Poi la notte fece di tutti e quattro un sol boccone. 

 

 

 

 



 

  
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