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Autore: S t r a n g e G i r l    22/10/2012    6 recensioni
Niente magie, niente maledizioni in queste storia.
I nostri amati personaggi tutti calati in vesti mai viste. Una Au dai contorni scuri e gotici.
Lui, vittima sacrificale. Lei, la sua carnefice.
Esiste anche in un universo di assassini il lieto fine?
Questa storia era stata postata tempo addietro sotto il nome di ''Fighting for a chance''.
Genere: Avventura, Introspettivo, Mistero | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Akane Tendo, Ranma Saotome, Ryoga Hibiki
Note: AU, OOC | Avvertimenti: nessuno
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You see all my light and you love my dark.

First. Butcher.


In una città lontana, molti anni fa, viveva un uomo che causò molta sofferenza.
Uccideva giovani uomini e li affettava come fossero carne da macello per poi venderli alle persone affamate.
Fritz Haarmann.
Tagliava a pezzi gli uomini.
Il Macellaio.
Ne faceva bistecche.
Fritz Haarmann.
Li vendeva come fossero carne.
Il Macellaio.
Alle persone affinché li mangiassero.
I giovani scomparivano all'improvviso e mangiavano le loro bistecche con delizia e fame.
Andavano da Fritz Haarmann per avere altra carne ma non sapevano che stavano mangando carne umana. [Macabre.]


Presi con indifferenza la fotografia, quasi strappandola dalle mani grinzose e scheletriche di Haranobu, e la osservai di sfuggita.
< E' questo l'obiettivo? > chiesi, alzando gli occhi per incontrare i suoi.
Faticavo ancora ad abituarmi a quella patina lattiginosa che offuscava le sue iridi che, un tempo probabilmente, erano state di un grigio tempestoso.
Lui annuì grave, prendendomi poi sottobraccio.
Insieme ci avviammo verso l'altare preparato per la cerimonia.
Spoglio e appena abbozzato in una roccia porosa, era incastrato in una nicchia profonda e bassa del sotterraneo.
I primi tempi in quel luogo erano stati davvero duri per me: mi mancava la luce tiepida del sole sul viso, l'aria pungente tra le ciocche scomposte dei capelli, casa mia, il verde dell'erba del mio giardino, l'azzurro limpido del fiume gorgogliante che scorreva placido dietro al mio villaggio.
Mi sentivo un uccellino intrappolato in una gabbia troppo piccola, con spazio appena sufficiente a dispiegare le ali.
Haranobu era stato comprensivo e gentile in quel periodo di smarrimento.
Guidò i miei passi incerti su un terreno sconnesso e ignoto, infondendomi una sicurezza che non possedevo più e da cui cercavo disperatamente di fuggire in ogni modo umano possibile.
Mi salvò dai miei demoni, regalandomene altri in cambio.
Raccolse le macerie del mio essere e, al loro posto, eresse un nuovo, magnifico e lugubre palazzo.
La giovane contadina che ero stata un tempo era svanita: le cicatrici sul mio corpo erano i segni evidenti della sua morte.
Quella che ero adesso aveva solo i lineamenti del viso della vecchia Akane Tendo.
< Cos'ha fatto? > gli domandai, guardandolo indossare la veste da rituale.
Si voltò appena e il rosso cupo del tessuto si riflettè sul bianco nebuloso dei suoi occhi.
< Rivalità tra famiglie. Un classico. Costui ha ferito gravemente la figlia di un anziano capo villaggio e lui desidera vendetta. > rispose Haranobu con tono piatto.
All'inizio rimanevo sbigottita dal distacco che mostrava nei confronti del compito che assegnava a noi discepoli.
Sembrava che per lui la vita non avesse valore. Le persone diventavano carne da macello ogni giorno, mi diceva con un mezzo sorriso inquietante.
Lui era semplicemente colui che muoveva il braccio del macellaio.
Ed in quel caso il macellaio ero io.
S'inginocchiò di fronte l'altare, ne baciò la sommità con le labbra screpolate e si rialzò con fatica, sorreggendosi ad un pilastro di granito.
< Ora và, figlia mia. > sussurrò, sfiorandomi la fronte con la bocca.
Annuii chinando appena la testa, in segno di rispetto, e mi allontanai a passo svelto per i lunghi corridoi scarsamente illuminati, scavati nel terreno.
Odoravano di stantio, di muffa, di chiuso, di una vita da talpe.
Un’esistenza incolore, monotona, cieca, che non mi ero scelta, ma ero stata costretta a intraprendere.
A metà strada incrociai il comandante, che mi fermò con una stretta gelida sul polso < Dove corri? > sorrise, scoprendo i candidi canini appuntiti.
Indossava la divisa ufficiale, quella che teneva da conto per i compiti di un certo livello: gli omicidi dei nobili e di altra feccia umana d’alto rango.
< Ho un nuovo bersaglio. > risposi, senza accennare al saluto rispettoso che gli indirizzavano gli altri sottoposti.
Le regole mi erano sempre state strette. Mi soffocavano come un cappio al collo che si stringeva ad ogni nuovo tipo di ribellione.
Creavo risse e discussioni per qualunque cosa e perciò Haranobu era stato costretto ad esentarmi dall’osservanza delle leggi: era stata l’unica mossa possibile per non perdermi e, al contempo, mantenere un equilibrio stabile.
Ero la sola nell’intera gilda ad avere quella specie di privilegio e le invidie nei miei confronti crescevano giorno dopo giorno.
Per difendermi dai tiri mancini che mi venivano giocati di continuo dai miei “fratelli”, quindi, non avevo che un'arma: l’indifferenza.
Ogni giorno in più, ogni mattina in cui riuscivo ad aprire gli occhi e ad alzarmi dalla branda era una benedizione.
Ryoga assentì col capo e mi lasciò il braccio < Torna presto. > mi disse, continuando a sorridere e scostandosi poi di lato per lasciarmi passare.
I suoi sorrisi mi turbavano sempre: erano qualcosa di spontaneo e dolce, qualcosa che non era fatta per essere imprigionata due metri sotto la superficie del suolo. Qualcosa che, tuttavia, aveva il potere di scaldarmi appena, come un timido sfiorarsi di mani impacciate tra due innamorati.
Fuoriluogo. Fuoriviante. Inappropriato.
Scossi il capo e, mentre raggiungevo l'uscita secondaria del sotterraneo che portava in una cava abbandonata da decenni, ripresi in mano la foto del nuovo obiettivo e m'impressi bene a mente i tratti salienti del suo volto.
Fronte bassa, sopracciglia e capelli scuri, bizzarramente legati in un codino alquanto ridicolo, occhi azzurri come il cielo d'aprile, bocca carnosa e generosa che lasciava intravedere una dentatura perfetta, viso ovale, mento a punta.
Il classico volto del figlio del manovale di paese.
Sbuffai e accelerai, ansiosa di metter piede all'esterno.
All'ultimo corridoio prima dell'uscita, svoltai a destra, rinfilando la foto un po' sgualcita nella tasca posteriore dei pantaloni, e mi diressi velocemente nell'armeria.
Prelevai la balestra, il pugnale d'argento elegantemente lavorato - che incastrai nello stivale - e la spada che Maiko aveva forgiato per me, incastonando nell'elsa l'ametista che un tempo apparteneva alla collana che mia madre mi regalò il giorno che morì.
Feci un cenno brusco alle sentinelle a guardia della botola e, facendo leva sulle snelle braccia, mi issai su con un agile salto, ritrovandomi all'interno della cava abbandonata.
Senza perdere altro tempo mi precipitai all'esterno, venendo investita da un fascio di luce così abbagliante, per i miei occhi ormai abituati alla scarsa illuminazione del sotterraneo, che dovetti socchiudere le palpebre.
Sentii le pupille ridursi bruscamente alle dimensioni di un granello di sabbia e imprecai, alzando il bavero della casacca nera fino agli occhi.
Odiavo la luce.
Per agire preferivo l'oscurità, il rassicurante mantello delle tenebre che celava la mia identità e i segni che avevano lasciato gli sforzi di cancellarla.
Gettai uno sguardo al cielo e mentalmente calcolai che doveva esser quasi il crepuscolo.
Ottimo.
Il tempo di arrivare al villaggio del bersaglio e sarebbe stata notte.
Ghignai e alzai anche il cappuccio, confondendomi con le ombre del bosco.

***

< Buonanotte, Ranma. >
< 'Notte, vecchio. > risposi a mezza bocca dal bagno, in cui mi ero chiuso qualche minuto prima col preciso intento di immergermi nell'acqua bollente della vasca e non uscirne finchè non fosse diventata fredda assorbendo tutti i miei torbidi pensieri.
La giornata era stata piuttosto stressante e avevo bisogno di starmene un po' per conto mio a riflettere e torturare me stesso per auto-punirmi.
Ormai nel villaggio ero considerato alla stregua un criminale e allo stesso modo mio padre.
Mi guardavano come se portassi un marchio addosso, mi evitavano per le strade come un appestato e, alle volte, mi sputavano passandomi accanto.
Dovevo ringraziare quel farabutto di Daisetsu della situazione in cui vivevo.
Serrai le mani nell'acqua calda, facendone schizzare un po' sul pavimento, e digrignai i denti, rievocando l'immagine del corpo inerme di Ukyo riverso a terra.
Era stato un incidente, un maledetto, fottutissimo incidente!
Eravamo insieme alle cascate e lei era così bella con quel vestito leggero che le accarezzava le curve generose del corpo che mi ero lasciato distrarre dalla sua risata spensierata, perdendo di vista per un solo, fulgido, istante le sue fragili caviglie.
Si era appena rimessa dopo quella brutta frattura scomposta, maledizione!
Dovevo saperlo che era troppo presto per farla uscire!
Lei, però, aveva insistito così tanto che non avevo saputo dirle di no.
Avrei dovuto essere attento, molto più attento! Avrei potuto...avrei potuto...
Scagliai un pugno contro il muro del bagno dalla frustrazione, creandovi un'ammaccatura contornata da una fitta ragnatela di crepe.
Immagini confuse si accavallarono nella mia mente, spingendo per avere la precedenza ed invadermi la vista di ricordi dolorosi.
Saltava da un masso all'altro del fiumiciattolo come una ninfa ed io mi ero incantato a guardarla dalla riva, così quando scivolò non riuscii ad afferrarla prima che battesse la testa contro un masso.
Quando l'avevo riportata al villaggio di corsa, suo padre, Daisetsu, aveva sparso la notizia che ero stato io a farle del male volontariamente perchè geloso del matrimonio da lui combinato.
Che assurdità!
Io e Ukyo eravamo cresciuti insieme come fratelli.
Era bella - Dio, se lo era!- e non sarei mai riuscito a torcerle nemmeno un capello e tanto meno a figurarmi una vita con lei, nonostante il bene che le volevo!
Ucchan - così la chiamavo io - sapeva benissimo quali erano i miei sentimenti nei suoi confronti e le mie priorità di vita e, sebbene fosse innamorata persa - glielo leggevo negli occhi ogni volta che mi guardava - non aveva mai fatto alcuna pressione nè si era mai lamentata.
L'unico che contestava il tempo che trascorrevamo insieme era Daisetsu, geloso della sua unica figlia e animato da antichi rancori verso mio padre che riversava addosso a me.
Sospirai, asciugandomi e vestendomi con foga, desideroso solo di mettermi a dormire...e svegliarmi tra un anno, possibilmente in un posto diverso da questo schifosissimo villaggio dove, ormai, mi era impossibile vivere dignitosamente.
M'infilai nel futon con i capelli ancora umidi e la testa pronta ad esplodere come una bomba ad orologeria.
Mi rilassai al contatto con le fredde coperte e spensi la candela, poggiando il capo sulle mani incrociate dietro la nuca.
Sul soffitto le ombre degli alberi del bosco accanto casa danzavano in una folle ballata terrificante.
Chiusi gli occhi e rividi nuovamente il corpo di Ucchan immerso nell'acqua ghiacciata, venire sballottato dalla corrente contro massi spigolosi.
L’acqua era rosa pallido attorno a lei, i suoi capelli sembravano fili d’alghe nere e le labbra petali scoloriti, lividi, gelati.
I medici erano riusciti a salvarla. Un miracolo, a detta loro, che l’aveva però relegata ad una vita da paraplegica.
Le mie viscere si contorsero con uno spasmo.
Era piena di vita, Ukyo, sempre con un sorriso impresso sulle labbra generose che metteva allegria a chiunque.
Ora dove l'avrebbe trovato un motivo per sorridere nella vita che le si prospettava?
Ed io come avrei potuto ancora avvicinarmi a lei e guardarla senza venir divorato dai miei stessi sensi di colpa?
Una gelida brezza sfiorò il mio braccio, che avevo lasciato fuori dal futon, facendomi rabbrividire.
Eppure mi sembrava di aver chiuso la finestra...
Non ebbi nemmeno il tempo di formulare il pensiero che una lama fredda mi mozzò il respiro, premendo sulla gola.
< Sei Ranma Saotome? > chiese una voce profonda e infinitamente triste, che sembrava provenire da ogni muro.
Scattai a sedere ma la lama venne spinta ancora più a fondo, incidendo un poco la pelle del collo da cui colò un rivolo di sangue.
Annuii.
< Perdonami, ma sono stata incaricata d'ucciderti. > asserì la voce, che doveva quindi appartenere ad una donna.
Mi domandai chi fosse.
Non l'avevo nemmeno sentita aprire la finestra!
< Chi sei? > chiesi < Dimmi almeno il nome della persona la cui mano trancerà il filo della mia vita! >
Il coltello non si spostò di un millimetro dalla mia gola, ma lei rimase in silenzio più di un minuto buono, prima di decidersi a rispondere.
< Akane. > sussurrò infine, allontanando la lama per sferrare un colpo deciso, probabilmente alla nuca.
Aspettavo quel momento e, così, balzai in avanti, avvertendo lo spostamento d'aria provocato dalla coltellata che mi mancò di un soffio.
Con lo sguardo cercai nella stanza la figura della donna che stava cercando di uccidermi e ne intravidi solo gli occhi che, alla luce lunare, scintillavano come pietre preziose.
Caldi come una tazza di cioccolata in una notte di pieno inverno.
Impulsivamente e scioccamente desiderai immergermici.
Lei ringhiò come un cane rabbioso a cui viene sottratto l'osso e si avventò contro di me.
Decisi di contrattaccare e mi lanciai nella sua direzione, veloce quanto lei.
I suoi occhi esprimevano stupore, ma non si fermò ed il mio destro cozzò contro l'elsa di una spada che non avevo visto prima e che, probabilmente, aveva appena sfoderato.
Cercai di individuare altri tratti della sua figura, ma sembrava fatta di tenebra.
Bocca, viso, mani e gambe composti di particelle d’ombra.
Senza aspettare che decidesse di attaccare nuovamente, presi io l'iniziativa e mi scagliai ancora contro Akane, scartando all'ultimo per colpirla in basso.
Lei riuscì a individuare il mio colpo, ma la lama della spada fu troppo lenta e così le sferrai un pugno sul ginocchio destro, che le cedette all'istante.
Si accasciò a terra, imprecando e reggendosi la gamba, osservando attorno a sè in cerca della mia presenza.
Le saltai alle spalle, silenzioso come un gatto, e le circondai il collo con un braccio, tentando di soffocarla.
< Mi spiace, Akane, ma stasera non sarò io a morire. > profetizzai, stringendo di più la morsa.


Questa storia, tempo fa, era stata postata sotto il nome di "Fighting for a chance".
Di tutte quelle su Ranma che avevo scritto, era quella a cui ero più affezionata, ma non l'avevo conclusa, anche a causa di problemi d'account.
Adesso ve la ripropongo, sperando di ritrovare strada facendo tutti coloro che mi avevano sostenuto. Prometto di dare una conclusione, stavolta, alle vicende di questi Ranma ed Akane così assurdi.
Ci leggiamo la settimana prossima.

Strange.
   
 
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