Serie TV > Glee
Ricorda la storia  |      
Autore: micRobs    24/10/2012    9 recensioni
Nick/Jeff | AU (Medico/Pompiere), Angst, Happy Ending | Rating Giallo (per le tematiche, direi)
Dal testo: "A Nick non piaceva la terapia d'urgenza.
Preferiva di gran lunga il silenzio e la routine dei reparti, con i pazienti in degenza e gli anziani che gli sorridevano cordiali ogni mattina, la signora che gli offriva i cioccolatini lasciati dai suoi figli, le chiacchiere concitate dell'orario di visita. Purtroppo, però, lui non era un medico, bensì uno specializzando stacanovista e incapace di dire no a chi gli chiedeva un favore e quindi capitava spesso che si ritrovasse incastrato in infiniti turni al pronto soccorso, tra ambulanze, barelle e paramedici."
[...]
"«Quanti ne sono? Sono tutti così gravi?»
Il ragazzo riuscì a scorgere la stanchezza nella voce del primario, sebbene il suo ruolo e la situazione le impedissero di vacillare.
«Sei in totale» rispose subito il paramedico. «Questi sono quelli che stanno meglio.»"
#Aehm
Genere: Angst, Malinconico, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Jeff Sterling | Coppie: Nick/Jeff, Sebastian/Thad
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A
Pairing: Nick/Jeff
Genere: Generale, Introspettivo, Angst, Sentimentale, Malinconico, Romantico.
Avvertimenti: AU, un po’ di Fluff, Happy ending.
Parole: 3636 (secondo Word). Lo ammetto: un po’ è stato voluto dal caso, un po’ da me e Silvia.
Rating: Giallo (per le tematiche trattate)
Note d’Autore: Seconda shot scritta per il Niff Month, con il prompt “AU, Pompiere!Jeff e Medico!Nick, lieto fine”. Fingo di non sapere di chi sia il prompt oppure lo dico apertamente? Facciamo che io continuo a tenere l’aura di mistero e poi sarai TU a dirlo. *manda amore*
Vi giuro che non doveva andare così, che non doveva accadere questo e che la storia non doveva avere tutti quei generi che vedete lì sopra. Doveva essere una cosa molto più soft e easy, ma non ho proprio idea di come siamo giunti a questo. Un grazie a Sere che l’ha letta in anteprima e uno a Denise per il suo prezioso parere da esperta.
Note di betaggio: Quella cosina meravigliosa della mia Vals che ha avuto il buon cuore di non uccidermi quando le ho detto cosa avevo in mente per questa shot.
 
 
 

Alla mia Jeff,
you know what that was for.

 
 
 

A therapeutic chain of events

 
 

Il brusio metallico della macchinetta automatica stonava con il silenzio asettico che regnava in quel luogo. Nick sospirò, prima di sollevare lo sportellino trasparente e scaldarsi le mani con la plastica tiepida del bicchiere di caffè.
L'orologio a parete annunciava che mancavano cinque minuti alle quattro del mattino. Il che voleva dire che erano quasi ufficialmente dodici ore che aveva iniziato il turno e che ne mancavano altre tre prima di finirlo.
Erano sempre così le notti al pronto soccorso. Il tempo sembrava scorrere all'indietro e non sapevi mai se preferire le giornate in cui la calma piatta, che regnava tra le corsie, dilatava le ore all'infinito, oppure quelle più frenetiche ma che prevedevano comunque accadesse qualcosa di grave per interrompere la sterile monotonia dell'ospedale.
A Nick non piaceva la terapia d'urgenza.
Preferiva di gran lunga il silenzio e la routine dei reparti, con i pazienti in degenza e gli anziani che gli sorridevano cordiali ogni mattina, la signora che gli offriva i cioccolatini lasciati dai suoi figli, le chiacchiere concitate dell'orario di visita. Purtroppo, però, lui non era un medico, bensì uno specializzando stacanovista e incapace di dire no a chi gli chiedeva un favore e quindi capitava spesso che si ritrovasse incastrato in infiniti turni al pronto soccorso, tra ambulanze, barelle e paramedici.
Mandò giù la propria bevanda in un paio di sorsi e rabbrividì appena nel percepire il liquido caldo scivolargli lungo l’esofago.
Era stata una nottata piuttosto tranquilla, a dire il vero. Un paio di mamme spaventate dalla febbre alta dei propri bambini, un'appendicectomia d'urgenza, tre casi di intossicazione alimentare. Niente di eccessivamente grave o eclatante, insomma. Nulla che, comunque, necessitasse dell'intervento di un primario o di uno specialista: uno specializzando volenteroso e brillante poteva occuparsene senza difficoltà e Nick aveva quindi trascorso quelle ore tenendosi costantemente impegnato e pensando solo e unicamente a svolgere con attenzione i propri compiti.
Purtroppo, però, è risaputo che basta una minima perturbazione ad alterare la condizione di equilibrio di un sistema e Nick seppe, nell'esatto momento in cui il suo cercapersone suonò, che la pace per quella notte era ufficialmente terminata.
 
«Cosa abbiamo?»
La voce della dottoressa Martin, primario di ortopedia, fu il primo suono comprensibile che captarono le orecchie di Nick quando il ragazzo raggiunse l'ingresso del pronto soccorso.
«Sebastian Smythe, ventiquattro anni, era alla guida quando la sua auto è stata schiacciata da un fuoristrada. Il conducente era ubriaco» Snocciolò, pratico, il paramedico, mentre spingeva una barella su cui un ragazzo, con il viso e le spalle immobilizzate, cercava in tutti i modi di alzarsi.
«Era con me, l’ho perso di vista per un attimo» stava dicendo, mentre continuava ad agitarsi «Dov’è? Thad, cazzo!»
«Che ferite ha riportato?» Di nuovo, la voce della dottoressa Martin si fece sentire, ferma e sicura.
Nick si mosse velocemente, aiutando a trasferire il ragazzo su un lettino mentre il paramedico esponeva la situazione. «Contusioni al torace di lieve entità, comunque i parametri vitali sono stabili» spiegò.
«Pronti? Al tre» si preparò a sollevare il corpo del ragazzo. «Uno, due, tre.»
Il lamento di dolore che ricevettero in risposta a quell’azione bastò a fargli comprendere che probabilmente i traumi non erano così lievi come credevano.
«Robinson, portalo a fare una lastra al torace e di’ a Cameron di raggiungermi di sotto» decise il primario. «Duvall, tu con me.»
Nick annuì, seguendola fuori dalla sala in cui si erano spostati e ritrovandosi improvvisamente nel caos più completo.
«Stacy Davison, quarantadue anni, parametri vitali stabili nel tragitto, respiro corto ma condizioni generali buone.»
«Portatela nella due, per ora» la indirizzò la dottoressa. «E qualcuno chiami, Cameron.»
Nick afferrò la cartella medica che gli stava porgendo la donna, «Posso andare io, se-»
«No, Nicholas, tu mi servi qui» lo interruppe lei, preparandosi ad accogliere la terza barella su cui giaceva un uomo privo di coscienza.
«Quanti ne sono? Sono tutti così gravi?»
Il ragazzo riuscì a scorgere la stanchezza nella voce del primario, sebbene il suo ruolo e la situazione le impedissero di vacillare.
«Sei in totale» rispose subito il paramedico. «Questi sono quelli che stanno meglio.»
La dottoressa sospirò, guardandosi un attimo intorno e prendendosi un labbro tra i denti. «Mi servono letti, plasma e specializzandi» quasi ringhiò. «E dove diavolo è Cameron Monaghan?»
«Esattamente dietro di te.»
Il dottor Monaghan, chirurgo d’urgenza, comparve alle sue spalle in quel momento, già intento a studiare la cartella di un paziente.
«Che abbiamo?» domandò.
«Incidente stradale, sei feriti in totale: tre lievi qui e altri tre in arrivo» Sciorinò l’altra. «Nicholas, quante postazioni sono disponibili?»
«Due, Mercedes sta liberando la terza» rispose prontamente il ragazzo.
Era in quei momenti che metteva in discussione la sua scelta di diventare medico. Diviso tra la voglia di fare qualcosa di concreto e la paura di vedere fino a che punto fosse grave la situazione. Nick sapeva che il peggio doveva ancora arrivare e che quella notte avrebbe rimpianto di essersi offerto per il turno. Sapeva anche però che la sua presenza lì poteva fare la differenza e che la dottoressa Martin, sua mentore e seconda madre, aveva piena fiducia in lui e nelle sue capacità.
«Perfetto» ragionò la donna. «Traumi nella uno e nella due; ci sono Mitchell, Donovan e i ragazzi del quarto: tu dagli un’occhiata, io prendo gli altri.»
L’uomo annuì, «ti mando Steve, magari» disse, prima di sparire dietro una porta sulla destra nel momento esatto in cui le sirene di un’ambulanza invadevano l’ambiente.
«Thad Harwood, ventiquattro anni, ferita profonda all’addome, è andato in arresto quando siamo arrivati.»
«Alla tre, adesso» lo indirizzò la dottoressa. «Nicholas, vai con loro.»
Il ragazzo annuì, facendo strada alla barella e preparandosi poi a trasferire il ragazzo sul lettino. «Uno, due, tre.»
Quel momento in cui non puoi mostrarti debole, in cui si decide davvero chi è tagliato per quel ruolo, per quella vita. L’emergenza, il sangue freddo, i nervi saldi: se non li hai, non sopravvivi.
Nick lo sapeva perfettamente. Aveva scelto di diventare medico, di aiutare e mettere la propria vita al servizio degli altri, per sentirsi al posto giusto al momento giusto. Per fare la differenza.
«È in fibrillazione, la pressione è scesa» constatò, senza alzare lo sguardo dal corpo del ragazzo su cui una tirocinante stava tamponando una ferita che perdeva parecchio sangue, «mi serve il carrello, defibrilliamo.»
Sangue freddo, attenzione, nervi saldi. Coraggio, Nick.
Prese le lastre dal carrello e le posò sul torace del ragazzo in un movimento meccanico che ormai conosceva troppo bene. «Scarica a cento, libera.»
Il corpo del ragazzo sobbalzò quando la scarica lo raggiunse ma, nonostante ciò, i parametri rimasero invariati e il bip prolungato dell’apparecchio continuava a riempire le loro orecchie di ansia e paura.
«Andiamo, Thad» mormorò più a se stesso che al ragazzo. «Di nuovo, carica a duecento. Libera.»
Nel momento esatto in cui la seconda scarica raggiunse il torace del ragazzo, i valori iniziarono a stabilizzarsi e il battito a salire nuovamente. L’allarme che rientrava e il bip che tornava alla sua canonica regolarità.
«Sta salendo» si sentì in dovere di annunciare Nick, mentre posava le lastre sul carrello. «Chiamate il dottor Stump.»
 

*°*°*°

 
Nick lasciò la terapia d’urgenza un’ora e mezza più tardi, quando le condizioni dei pazienti si erano in generale stabilizzate e la dottoressa Martin gli aveva annunciato che poteva anche andare a casa. Lui aveva provato a ribattere e a convincerla del fatto che fosse sveglio abbastanza per proseguire il turno, ma lei era stata irremovibile.
«È un gioco di squadra» gli aveva detto, «e tu sei stato determinante stanotte, ma io devo saper riconoscere quando un mio giocatore è fuori fase, Nicholas.»
Sospirò, controllando per l’ennesima volta la flebo ad una signora addormentata e leggendo distrattamente la sua cartella. Trauma cranico. Parametri stabili.
Non sempre si riusciva ad essere così fortunati, considerò, gettando uno sguardo all’elettroencefalogramma della donna. Dopodiché, lasciò la camera e si avviò all’uscita.
La dottoressa aveva ragione: aveva seriamente bisogno di farsi una bella dormita, ricaricare le batterie e rimettersi in sesto.
Quando però girò l’angolo per arrivare nell’atrio, si sorprese di non trovarlo vuoto come immaginava: seduto su una delle sedie di plastica azzurra, infatti, un ragazzo con una malconcia giubba rossa si reggeva un braccio con sguardo perso nel vuoto.
Nick aggrottò la fronte, studiando la figura che aveva di fronte e soffermandosi sui vari dettagli che mano a mano gli saltavano agli occhi. I capelli biondi e spettinati, il pantalone sporco e in tinta con la giacca aperta davanti, il casco posato su una sedia accanto.
«Jeff?» Chiamò cautamente. «Che ci fai qui?»
Il ragazzo alzò lo sguardo su di lui, sorridendo appena nella sua direzione. «Nick» salutò. «Dove sono tutti? Sono qui da un secolo e…» tacque, ritornando a guardare dinanzi a sé e stringendosi inconsciamente il braccio al petto.
Nick non ci aveva fatto caso prima – preso com’era a sorprendersi per la sua presenza lì – ma quel gesto aveva messo in mostra un squarcio non indifferente nel tessuto della giacca e lasciato intravedere una lesione, simile a quella della stoffa, direttamente sulla pelle del ragazzo.
«Jeff, sei ferito?» Domandò, facendo un paio di passi nella sua direzione per analizzare la situazione più da vicino.
L’altro scosse la testa. «È solo un graffio, non c’è nulla di cui preoccuparsi» minimizzò, «ma mio padre mi ha costretto a farmi vedere da un medico e quindi…»
Nick annuì e fece schioccare la lingua, mentre si guardava intorno alla ricerca di una stanza libera. «Perfetto» annunciò, quando l’ebbe trovata. «Diamogli un’occhiata allora» gli sorrise cordiale.
 
Aveva conosciuto Jeff durante il suo primo turno di notte al pronto soccorso. Era quel genere di ragazzo al quale potevi aggrapparti quando la situazione ti stava sfuggendo di mano. Non tanto letteralmente, ma quanto per il sorriso sempre sereno che aveva in viso e per quell’entusiasmo contagioso e solare che non lo abbandonava praticamente mai.
Jeff lavorava come volontario per la caserma dei vigili del fuoco – insieme a suo padre e a suo fratello – e capitava spesso che, quando accadevano quel genere di incidenti, scortassero le ambulanze fino all’ospedale. Non meno rari, comunque, erano i casi in cui erano i volontari della caserma stessi a ritrovarsi sulla barella. Il vigile del fuoco, dopotutto, non era esattamente un lavoro privo di rischi.
Era durante uno di quei casi che Nick aveva conosciuto Jeff, una volta in cui il padre del ragazzo aveva riportato un’ustione di secondo grado in seguito ad un incendio in un cinema.
Nick ricordava con terrore quella notte; il suo primo turno al pronto soccorso, gli ustionati, le intossicazioni. Sette morti in totale. Una di quelle notti in cui si era chiesto se fosse tagliato per quel genere di lavoro, se non fosse troppo per lui. Ma poi era bastato il sorriso riconoscente di Jeff e quel “mio padre sta meglio, grazie a te” – che Nick aveva ben impresso nella mente – per rimettere tutto a posto.
«Sei silenzioso» si sentì in dovere di fargli sapere. Non era abituato a quel silenzio, a quegli occhi spenti, all’espressione triste.
Jeff non aveva detto una parola: si era limitato a togliersi la giacca e la t-shirt per permettere a Nick di disinfettare il taglio sul braccio – che comunque non era così profondo come pensava – continuando a rimanere in silenzio e a tenere lo sguardo ben puntato davanti a sé.
«La macchina dei due ragazzi era… non sembrava neanche più una macchina» mormorò dopo un po’. Nick si prese un labbro tra i denti, tamponando la ferita con attenzione, ma senza rispondere nulla a quella che, a tutti gli effetti, non era una domanda.
«Come stanno?» Domandò il ragazzo dopo un attimo che parve interminabile.
Nick si prese un momento per raccogliere le idee e decidere di cosa metterlo al corrente. «Il ragazzo che era alla guida sta relativamente bene» si decise infine. «Solo un paio di costole incrinate e qualche taglio» spiegò, posando il cotone idrofilo con cui aveva disinfettato la ferita e procedendo a preparare l’occorrente per la sutura.
«E l’altro?»
Perché tutte quelle domande? Che fine aveva fatto il sorriso caldo e dolce di Jeff?
«È… morto, Nick?» Volle sapere. La paura che Nick percepì nella sua voce lo costrinse ad alzare lo sguardo su di lui per incontrare i suoi occhi spaventati.
«No» rispose, cercando di risultare quando più rassicurante potesse. «Ma ha perso molto sangue ed è andato in arresto due volte. La prognosi è ancora riservata.»
Jeff annuì e riportò lo sguardo davanti sé; Nick attese un attimo eventuali altre domande ma, quando parve ormai chiaro che Jeff non avesse intenzione di aggiungere altro, procedette alla sutura della ferita senza ulteriori indugi.
Quel taglio rosso e irregolare stonava mostruosamente con la pelle candida di Jeff e Nick si appuntò mentalmente di metterci il doppio dell’attenzione solo per evitare di deturparlo più del necessario.
«È il suo ragazzo, sai?» Proruppe quello dopo un po’, la voce colorata da un accenno di sorriso che contagiò immediatamente Nick.
«Sì?» Domandò, ricordando come uno dei due stesse cercando l’altro all’arrivo al pronto soccorso.
Jeff annuì, continuando a fissare quel punto preciso sul muro che lo aveva interessato da quando era entrato in quella stanza. «Lui… continuava a chiamarlo e a chiedere aiuto» mormorò. «L’impatto è avvenuto dal lato del passeggero e… la portiera era bloccata» sembrava parlare più con se stesso che con Nick, ma il ragazzo non lo fermò: Jeff era sotto shock e questo Nick lo aveva capito, per cui aspettò che facesse ordine dentro e fuori di sé, mettendo al proprio posto i pezzi di quella notte, prima di rassicurarlo.
«Non riuscivano a tenerlo fermo, voleva… andare lui a liberarlo» proseguì con lo stesso tono di voce. «Ed io ho dovuto, capisci? Ho dovuto tirarlo fuori di lì, ho dovuto farlo.»
«È così che ti sei fatto male, Jeff?» domandò Nick, tagliando il filo e terminando la sutura. «Facendo l’eroe?» Sorrise mentre posava gli strumenti sul carrello metallico lì vicino.
«Nick, non puoi lasciarlo morire» quasi implorò, abbassando lo sguardo su di lui e incontrando, per la seconda volta, i suoi occhi grandi ed espressivi.
L’altro boccheggiò un paio di volte, non sapendo esattamente cosa rispondere alla richiesta del ragazzo. «È in mano ai migliori specialisti del paese» cercò di tranquillizzarlo. «Faranno tutto il possibile per rimetterlo a nuovo, vedrai.»
Ancora, Jeff annuì come se non avesse la forza di pensare a qualcosa di sensato per rispondere e spostò lo sguardo sulla ferita ormai suturata che Nick stava provvedendo a fasciare con attenzione.
«La signora, quella con i capelli rossi» proseguì dopo pochi istanti, «lei e il marito erano in viaggio. C’erano delle valigie nella macchina, chissà dove erano diretti» mormorò assorto, «come stanno loro?»
Nick prese un respiro profondo, fermandogli la fasciatura e riponendo tutto l’occorrente. «Stanno entrambi bene, Jeff. Solo qualche graffio e tanta paura lui, mentre lei ha riportato un trauma cranico, ma starà bene, te lo garantisco» provò a sorridergli rassicurante, perché non riusciva a conciliare l’immagine di quel ragazzo così spento e privo di espressione con il Jeff euforico ed entusiasta che conosceva lui.
«Era ubriaco? Il tizio che ha fatto il macello, intendo. Ho sentito dire che era ubriaco.»
«Aveva bevuto, sì» sospirò Nick, «non se la passa granché bene.»
Jeff non rispose: afferrò la maglia che Nick gli porgeva e si vestì silenziosamente.
«Tu come stai, Jeff?» chiese, sinceramente interessato, dandogli una mano ad infilare la giacca. Aveva bisogno di sapere che stesse bene, che il suo sorriso avrebbe continuato a salvargli le nottate e a spronarlo ad andare avanti.
«Io? Bene, sì» rispose l’altro, passandosi una mano tra i capelli. «Immagino che ormai dovrei essermi abituato a… questo.»
Prima di rendersene conto, aveva allontanato la mano di Jeff dai suoi capelli e l’aveva sostituita con la sua. «Non ci si abitua mai a… questo» gli fece notare mentre gli passava le dita tra le ciocche bionde. «Se ti abituassi, vorrebbe dire che avresti perso lo spirito con cui lo fai» spiegò dolcemente. «Non sono mai solo persone, vedi? Sono i due ragazzi innamorati, la coppia in viaggio… sono storie che si intrecciano qui, tra queste corsie: fino a che continuerai a chiederti chi sono, cosa fanno, dove vanno, come stanno, non ti abituerai mai.»
Scivolò con un dito lungo la sua guancia, regalandogli il sorriso più rassicurante che possedesse e gioendo internamente nel vederlo ricambiato.
«Tu come fai a sopportarlo ogni volta?» Sospirò, Jeff, chiudendo momentaneamente gli occhi. «Voglio dire, le persone muoiono…»
Nick si prese un attimo per pensare ad una risposta esaustiva da dargli e, intanto, gli passò lentamente il dito lungo lo zigomo. «Le persone morirebbero anche se io non fossi qui» mormorò, «ma, essere in prima linea mi aiuta a convincermi che senza di me magari sarebbe andata peggio.»
L’altro annuì e sorrise appena. «Li avete salvati tutti stanotte.»
È vero, lo avevano fatto, ma…
«…solo perché voi e i paramedici siete arrivati in tempo» precisò, soffermandosi con le dita sul suo viso. «È un gioco di squadra, Jeff, e stanotte siamo stati bravi, sì.»
Il sorriso che si aprì sul viso di Jeff fu la gratificazione migliore che Nick potesse ricevere. Fare stare bene le persone, non solo con bisturi e antibiotici, era ciò che lo faceva sentire in linea con la sua idea di altruismo e positività.
Per un po’ nessuno parlò e rimasero semplicemente così: Jeff seduto sul lettino e Nick in piedi vicino a lui, una mano ancora posata sulla sua guancia. Il ragazzo arrossì appena nel rendersi conto di cosa stesse facendo e allontanò velocemente le dita da lui, abbassando lo sguardo in imbarazzo.
«Dici che» la voce di Jeff era tentennante e sporcata dall’incertezza, «io e te potremmo vederci qualche volta? Fuori dall’orario di lavoro, intendo.»
E Nick quello non se lo aspettava proprio, ma le gote arrossate di Jeff e il suo sorriso impacciato gli strinsero lo stomaco in una morsa tanto salda quanto piacevole.
«Io» si schiarì la voce, affondando le mani nelle tasche del camice che indossava. «Io ho finito il turno» gli rese noto. «Ti va di… non lo so, fare colazione? Insieme a me, cioè.»
Dio, era un impiastro in quelle cose, ma Jeff non dovette pensarla allo stesso modo, perché sollevò il viso e gli regalò un sorriso dolcissimo e luminoso che Nick sentì scivolargli direttamente nelle vene, riscaldandolo internamente.
Aveva imparato a non avere grandi aspettative e a sorridere grato a tutto ciò che la vita gli offriva.
Talvolta, però, sono proprio le giornate che iniziano con il piede sbagliato – quelle infinite e in cui niente sembra andare per il verso giusto – a diventare le tue preferite.
 

*°*°*°

 
Nick arrivò in Ospedale con ampio anticipo, come ogni volta.
L'inverno stava lentamente cedendo il passo alla primavera e quella era forse la prima bella giornata che vedevano da settimane: non aveva resistito dentro casa un minuto di più.
Attraversò l'atrio sorridendo, salutando cordialmente qualche infermiera gentile e recandosi direttamente agli spogliatoi per posare la borsa e indossare il camice.
Era riuscito a farsi assegnare il turno di mattina, in modo tale da riuscire a tenersi il pomeriggio libero e magari dedicarsi ad altri impegni. Un impegno in particolare, in effetti.
Perso in quei piacevoli pensieri, quasi non si accorse della figura sbucata improvvisamente dalla caffetteria. Ci mise un attimo a metterla a fuoco e sorrise nel notare il modo in cui quella continuava a guardarsi intorno, reggendo tra le mani uno dei bicchieri in cartone plastificato del bar.
«Quasi non ti avevo riconosciuto, senza divisa» scherzò, avvicinandosi.
Jeff sobbalzò appena nell'udire la sua voce e voltò la testa di scatto nella sua direzione per rivolgergli un sorriso grande e solare.
«Questo perché negli ultimi giorni ci siamo visti poco» gli fece notare con quel broncio tenero e adorabile che puntualmente faceva annodare lo stomaco di Nick.
«Rimedieremo» promise il ragazzo, baciandogli affettuosamente una guancia. «Oggi pomeriggio e stasera, che ne dici?»
L'altro annuì entusiasta. «Dico che ti meriti il caffè che ti ho preso» decise, porgendogli la bevanda che ancora reggeva tra le mani.
Nick sorrise dolcemente a quell'attenzione e portò una mano alla guancia di Jeff per lasciarvi una carezza delicata, prima di prendere il bicchiere e ringraziarlo.
«Sei arrivato addirittura prima di me» notò, scuotendo appena la testa.
Jeff, in tutta risposta, si aprì in un sorriso luminoso e accecante. «Ero emozionato!» Annuì festante. «Non stavo più nella pelle.»
E Jeff era così dolcemente genuino che Nick si stupiva ogni volta dell'entusiasmo che riversava in ogni novità: non avrebbe mai smesso di sorprenderlo, quello era sicuro.
«Sei già salito da lui, vero?» Domandò con quello che sperava fosse un cipiglio severo e risoluto.
L'altro annuì con semplicità. «Ho portato il caffè a lui e a Sebastian» confessò con un sorrisino colpevole.
Nick sospirò. «Jeffie, l'orario di visita inizia ufficialmente tra mezz'ora!»
E quello non era giusto, perché Jeff sapeva che Nick capitolava senza eccessive difficoltà quando lui si prendeva il labbro tra i denti e metteva su quell'espressione da cucciolo bisognoso di coccole.
«Lo so» mormorò, con gli occhi grandi e imploranti. «Ma Thad non è un paziente come tutti gli altri, dai! È come se fosse mio figlio, Nicky! Devi concedermelo!»
Il ragazzo sospirò, perché con Jeff ogni battaglia era persa in partenza e lui neanche ci provava più a lottare, ormai. Oltretutto – e non lo avrebbe mai ammesso né a lui, nè a nessun’altro – trovava molto tenero il modo in cui Jeff aveva preso a cuore la situazione di Thad e quanto si fosse affezionato al ragazzo in quel mese che era rimasto ricoverato dopo l’incidente. Confessarglielo avrebbe significato soprassedere alle continue intrusioni di Jeff nell’ambulatorio e lui aveva comunque una parvenza di serietà da conservare!
«D'accordo» concesse, sistemandosi la tracolla sulle spalle e guardandolo dolcemente. «Andiamo a dimettere tuo figlio, allora.»
L'altro sorrise radioso. «Nostro figlio» corresse.
 


 
 
The End

 
 


 

  
 
 
Dunque, salve di nuovo.
Sebbene questa storia abbia preso una piega decisamente inaspettata, io devo ammettere di andare particolarmente fiera del risultato e di non esserne poi così pentita.
Confesso che, inizialmente, i due ragazzi dell’incidente non dovevano essere Sebastian e Thad perché, andiamo, sono la mia ship e non avrei mai potuto fargli una cosa del genere! Poi però non so cosa è successo e dal primo momento in cui ho provato ad immaginarli come loro, non c’è stato più verso di scrivere in altro modo e quindi ecco qui. Alla fine, stanno tutti bene e questo è l’importante.
Il titolo della shot – che lo dico a fare? – è preso da un verso di una canzone dei Panic!At The Disco (“Camisado” da “A fever you can’t sweat out”). Onore e gloria a loro, quindi.
Un grazie speciale alle 8 stagioni di Grey’s Anatomy, ER, Medical Investigation, Dottor House, Scrubs e tutti gli altri telefilm di questo genere che mi sono sciroppata nel corso della vita e che mi hanno permesso di essere più precisa possibile dal punto di vista medico.
Null’altro da dire, se non che sono a quota due storie per il Niff Month e che non vedo l’ora di scrivere tutte le altre che ho in mente. Ho già detto che amo quest’iniziativa?
 
Robs.
*sparisce in una nuvola di fumo*
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
   
 
Leggi le 9 recensioni
Ricorda la storia  |       |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Torna indietro / Vai alla categoria: Serie TV > Glee / Vai alla pagina dell'autore: micRobs