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Autore: Stella cadente    28/10/2012    15 recensioni
"In quell’orfanotrofio degli Stati Uniti, in una piccola stanzetta, giocava una bambina pallida. Era una bambina dal corpo esile parzialmente ricoperto da lunghi capelli corvini, che le ricadevano vaporosi sulla sua schiena magra. Una bambina che si sentiva messa da parte, oppressa, imprigionata tra quelle pareti spoglie, scrostate e di un color bianco sporco, quasi grigio."
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"E non era colpa sua.
E lei avrebbe preferito incastrarsi in una dannazione eterna, piuttosto che vivere una vita vuota."
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La storia di una bambina come tante, eppure così diversa.
La storia di una bambina innocente che voleva solo un po' di affetto.
Lei voleva solo essere ascoltata.
Genere: Drammatico, Horror | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Altri, Samara Morgan
Note: Missing Moments, Movieverse | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'The Ring - Samara Morgan'
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Preludio








Capitolo 1
Quando era orfana
 
 
King County Orphanage, Dicembre 1977
 
In quell’orfanotrofio degli Stati Uniti, in una piccola stanzetta, giocava una bambina pallida. Era una bambina dal corpo esile, parzialmente ricoperto da lunghi capelli corvini che le ricadevano sulla schiena magra. Una  bambina che si sentiva messa da parte, oppressa, imprigionata tra quelle pareti spoglie, scrostate e di un color bianco sporco, quasi grigio. 
La piccola e infantile figuretta sul parquet scuro era intenta a pettinare una bambola, mentre all’esterno, sotto una perpetua coltre di nuvole, altri bambini in cerca di genitori adottivi giocavano e scherzavano tra di loro.
Gli occhi scurissimi della bambina corsero fuori dalla finestra, verso la sua balia. Ne osservò la figura bassa e minuta, i capelli castani a caschetto che incorniciavano il suo viso leggermente spigoloso. Stava parlando con una coppia nel giardino ombroso, costellato in gran parte da alberi dai tronchi scuri e cupi.
Il suo sguardo tornò sulla bambola dai sottili capelli biondo grano, che ogni volta si divertiva a pettinare. Era così assorta che non si accorse neanche che qualcuno era entrato nella stanzetta  vuota, tra cui poteva sentir echeggiare tutte le sue ansie e le sue paure.
La bambina aveva paura del buio. E dell’acqua. Soprattutto dell’acqua. Non la tollerava, non l’aveva mai tollerata e pensava che mai l’avrebbe tollerata in futuro. Ogni cosa che fosse stata fredda o bagnata la innervosiva, facendola rabbrividire dalla testa ai piedi.
– Samara – si sentì chiamare. Era  Evie, la donna che da qualche tempo si occupava di lei.
Al suono della sua voce si voltò improvvisamente. La donna si fermò sulla soglia della porta, immobile, e la fissò, con uno strano sorriso che le increspava lievemente le labbra. I suoi occhi avevano una luce che non sapeva come decifrare.
– Sì? – domandò, interrogativa, ricambiando con sguardo perplesso, senza sapere cosa pensare. Perché la guardava in quel modo?
– Samara, sono arrivati, sono arrivati i tuoi genitori – le disse con una stucchevole dolcezza nella voce.
Sulla faccia color avorio di Samara si disegnò un sorriso: la risposta a tutti i suoi dubbi era finalmente arrivata, e si trattava nientemeno di ciò che sperava da sempre, da quando era entrata in quell’orfanotrofio.
Erano arrivati i suoi genitori. Era talmente assurdo e impossibile che non riusciva a crederci.
– Davvero? – chiese ancora, incredula, incapace di realizzare che qualcuno la volesse con sé. – Dove sono? – chiese, impaziente di vederli.
Voleva vedere finalmente chi la avrebbe portata via da lì. Lei voleva andare via. Lo voleva con tutta se stessa, lo aveva sempre voluto.
E ora poteva.
Stentava a crederci.
D’un tratto avvertì la paura aggredirla con una fitta lancinante allo stomaco. Si morse l’interno di una guancia; i suoi nuovi genitori l’avrebbero apprezzata, o avrebbero scelto di abbandonarla?
Questo era il pensiero che più temeva, la sua paura più grande.
Prima che potesse chiederlo, Evie la prese per mano e la portò velocemente fuori in giardino, trascinandola con furia dietro di sé.
La mente di Samara fantasticava su come poteva essere la voce della sua mamma e del suo papà, la loro faccia, il loro sorriso. Non si accorgeva neanche dei bellissimi colori ghiacciati di quel freddo inverno, che la circondavano come piccoli testimoni della sua felicità; era troppo impegnata a correre più veloce possibile dietro a Evie.
La bambina provò a farsi un’idea, benché vaga, della sua nuova mamma. Forse aveva i capelli lunghi e lisci, come i suoi, e avrebbe potuto provare ad immaginare che fossero davvero madre e figlia. Oppure aveva gli occhi azzurri e i capelli biondi, un angelo, un angelo venuto per salvarla.
Sorrise appena. Fremeva dall’emozione, non le sembrava neanche vero.
 Notò che Evie si era messa a perlustrare con gli occhi tutto il giardino, forse fin troppo attentamente.
– Non li vedo – fece piano, con tono pensieroso. 
Samara sentì una fitta al cuore. Non poteva essere, non potevano essersene andati, non potevano averla abbandonata lì come facevano tutti gli altri.
Iniziò a tremare, mentre con un filo di voce chiedeva ad Evie:
– Ma... loro sono qui, vero? Sono venuti a prendermi – l’ultima frase sembrava più un’affermazione che una domanda, come se stesse cercando di auto convincersi. Continuò a tremare, mentre Evie scrutava il giardino, ignara di ciò che stava provando.
Samara poteva sentire il cuore batterle all’impazzata, come se volesse esploderle in petto.
D’un tratto, sul volto della donna nacque di nuovo quel sorriso, il sorriso che le aveva rivolto prima. Un sorriso scialbo, ma pervaso da uno strano barlume di felicità e sollievo. Lo stesso sorriso di cui lei non riusciva a spiegare il motivo.
– Samara, eccoli là. Sono loro, li ho visti – fece improvvisamente, con voce sicura.
E da quell’unica frase il mondo, per lei, cambiò completamente.
Appesa a quelle parole, c’era la sua stessa vita.

 
****


Evie si avvicinò con sicurezza ad una coppia che aspettava in giardino, seduta su una panchina, un po’ in disparte rispetto agli altri. Intorno, altre coppie parlavano con i loro prossimi figli adottivi. Sembravano sereni, felici. Samara notava la loro gioia come se fossero stati al rallentatore, lontani, distanti dal mondo in cui lei si muoveva, e si chiedeva se un giorno avrebbe potuto essere anche lei felice come quei perfetti sconosciuti.
Sono loro?
– Siete voi i coniugi Morgan? – chiese la balia alla coppia, tenendo ancora la mano fredda della bambina.
– Sì, siamo noi – rispose l’uomo, con una voce profonda e roca. Si alzò in maniera un po’ brusca, seguito dalla moglie, che invece aveva modi tranquilli e delicati.
– Bene, allora vi lascio la vostra bambina – fece Evie sbrigativa.
E si allontanò frettolosamente, lasciando Samara da sola davanti a quella coppia completamente estranea.
La piccola si soffermò a guardarli con sospetto. Stava raccolta su se stessa, cercando di scaldare il proprio corpo raccogliendosi nelle sue esili braccia, quasi avesse voluto nascondersi. 
Ma non appena vide con precisione i loro volti che la guardavano sorridenti, capì che avrebbe trovato la famiglia che da tanto aspettava. In qualche modo quella coppia era fuori dal comune, diversa da tutte quelle che passavano e che finivano sempre per adottare un altro bambino o bambina.
Ogni volta lei sperava che qualcuno la guardasse con quegli occhi sorridenti con cui venivano guardati gli altri, e fino a quel momento si era limitata ad obbedire alle balie dell’orfanotrofio; ma ora cominciava a chiedersi quale fosse la sua vera mamma, quale fosse la donna che l’aveva portata in grembo prima che nascesse.
Nessuno gliene aveva mai parlato. Almeno non direttamente.
Non sapeva niente di lei, come si chiamasse, di che colore avesse i capelli o come fosse la sua faccia. Non aveva mai capito cosa volesse dire avere una mamma, una figura adulta nella sua vita che ci fosse sempre.
Non sapeva che cosa fosse l’affetto, non era mai stata oggetto di amore materno. Le donne che si occupavano degli altri bambini si mostravano forzatamente amorevoli nei suoi confronti, come se avessero una specie di maschera, come se fossero state obbligate a mostrarsi gentili.
Come se la temessero.
La sentiva, la loro freddezza, la loro paura; sentiva che si chiedevano perché non fosse come gli altri che giocavano in cortile,  perché invece stesse sempre nel solito angolo a guardare, in silenzio.
Sapeva che la pensavano così. Dopo poco tempo che stavano con lei, sparivano improvvisamente, senza che nessuno le dicesse come e soprattutto perché.
All’inizio erano molto gentili nei suoi confronti, sempre sorridenti; dopo poco tempo, però, cominciavano a diventare sempre più tese, distanti, nervose a volte.
Fino a quando la cosa non degenerava, e non la amavano più.
Dicevano che era colpa sua, che era stata lei a fare loro questo, che era un male per le persone che le stavano intorno.
Lei in realtà non voleva far del male a nessuno; non sapeva quale fosse la causa di quegli orribili eventi, cosa fosse a farla sentire sempre così in colpa, così sbagliata, così un problema per gli altri. Ma forse ora sarebbe stato diverso.
Osservò meglio i due coniugi che la guardavano senza sembrare, in qualche modo, turbati, chiedendosi se stessero guardando davvero lei.
Sorridevano.
Sì, era lei che avevano visto; qualcuno si era accorto che c’era, che esisteva.
Era così strano essere guardata così, con quello che sembrava interesse. Era uno sguardo che non le era mai stato rivolto.
L’uomo aveva un aspetto austero e un po’ burbero, con delle folte sopracciglia nere e dei capelli bruni; la donna invece aveva dei lineamenti gentili, con due occhi scuri ed espressivi e un viso incorniciato da dei capelli corti fino alle spalle, di un nero intenso.
– Ciao – disse,  con una voce calda e rassicurante. – Come ti chiami?
Samara era come paralizzata, devastata alla vista di quella persona tanto dolce con lei.
Quella che aveva davanti non era come le altre donne con cui aveva avuto a che fare. Lei non la avrebbe mai lasciata sola, non la avrebbe mai incolpata di terribili eventi che accadevano senza un preciso motivo, non la avrebbe mai trattata male.
Sarebbe sempre stata dolce, anche nei momenti di rabbia.
Era come se già lo sapesse.
Mamma...
– Samara – le rispose timidamente. Abbassò lo sguardo, sentendosi a disagio. Non amava parlare con gli sconosciuti, non ci era abituata.
Sentì la donna sussurrare:
– È lei, Richard. È lei la bambina.
– Samara Morgan. Che dici, Anna, suona bene? – chiese piano l’uomo, con sguardo interrogativo ma felice allo stesso tempo.
Samara cercò di immaginarlo come un papà; le sembrò di vederlo già giocare con lei, scherzare con lei e comportarsi proprio come il papà che aveva sempre desiderato.
La donna sorrise all’uomo, mostrando dei denti bianchissimi e sottili, incredibilmente belli; sembrava il sorriso di un angelo.
– Sì Richard, suona benissimo. Sarà la nostra piccola Samara.
Quella frase strappò un sorriso alla bambina, sebbene appena accennato. Con una scarica di allegria che le percorreva la pelle, realizzò ciò che stava accadendo; i suoi genitori erano finalmente venuti a prenderla.
Forse, quel giorno sarebbe stato un nuovo inizio.
E lei sentiva, in qualche modo, che si sarebbe prospettato felice e sereno.

 
 



Salve, fandom di The Ring :)
Eccomi qui, con la mia prima storia sul popolarissimo film horror della "videocassetta che fa morire entro sette giorni" :D
Amo quel film, davvero.
Odio gli horror, ma quello mi è piaciuto sul serio.
 Ho cercato di immaginare Samara come la povera bambina innocente che non è accettata da nessuno e non come il mostro del film.
Ce l'ho messa tutta per rispecchiare i suoi sentimenti, e spero mi sia riuscito bene.
Per saperlo, però, ho bisogno di qualche recensione,
quindi fatemi sapere ;)
Sono solo una povera bambina che ha bisogno di tanto affetto :((
*si sente Samara*
Ora non posso dire altro che...
al prossimo capitolo!

Stella cadente
  
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