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Autore: babadabubidi    28/10/2012    0 recensioni
Torno ad anni fa, moltissimi anni fa. Ero seduto nella stessa posizione, su un ripiano di legno: il palco del teatro dove stavo per suonare il mio primo concerto per pianoforte e orchestra, scritto di mio pugno fin da quando ero quindicenne, modificato e perfezionato per altri trent’anni. Ero pronto. Ogni nota, ogni pausa, ogni diesis o bemolle, ogni settima, sesta, dissonanza, sincope; tutto era marchiato a fuoco nel mio cervello, scolpito nella mia memoria.
Genere: Drammatico, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Montagne, valli. Canyon rossi e profondi improvvisamente colorati da colate di bianca ceramica, che come vernice troppo densa li ha riempiti lentamente fino a colmarli. Forse il calore ha creato quelle crepe nere, che si vedono a distanze regolari sul piano che sto guardando dall’alto. Non so se è un altro mondo o se semplicemente è il frutto della mia mente malata, sono seduto su uno sgabello. Sto scomodo, ma ormai il mio corpo non mi appartiene più. Torno ad anni fa, moltissimi anni fa. Ero seduto nella stessa posizione, su un ripiano di legno: il palco del teatro dove stavo per suonare il mio primo concerto per pianoforte e orchestra, scritto di mio pugno fin da quando ero quindicenne, modificato e perfezionato per altri trent’anni. Ero pronto. Ogni nota, ogni pausa, ogni diesis o bemolle, ogni settima, sesta, dissonanza, sincope; tutto era marchiato a fuoco nel mio cervello, scolpito nella mia memoria. L’orchestra era enorme ed ogni suo membro dopo il primo giorno di prove, qualche mese fa, era venuto a complimentarsi con me. Non avevo mai creduto veramente in me stesso fino ad allora, passando la mia vita semplicemente a non rischiare mai, a sottovalutarmi in ogni aspetto. Se oggi sono qui è grazie a mio fratello, che ha organizzato ogni cosa, e che mi ha sempre supportato e sopportato nelle mie incertezze e nei miei dubbi. È stato lui a chiamare l’orchestra, ad organizzare ogni cosa per questa serata, io non  saprei nemmeno da dove cominciare. Il caldo del faro che mi illumina mi arrossa le guance e fa sembrare i miei capelli più chiari, in contrasto con lo smoking nero che indosso. Mi guardo intorno, e vedo centinaia di occhi pieni di aspettative, di speranza di sentire qualcosa di nuovo che li emozioni veramente e a fondo. Non sarò mai all’altezza di ciò che si aspettano, chi sono io? Un semplice uomo che ha provato a scrivere un concerto al di sopra delle sue capacità. Da quanto sto fissando il pubblico? Da quanto queste persone mi guardano in religioso silenzio? Devo cominciare. Guardo il direttore, è russo. Si chiama Pyotr, non so il cognome, ma è la persona che più ha capito la mia musica. Non mi interessa se non ha l’esperienza dei grandi direttori, ciò che interessava a me era la passione, l’emozione, volevo che la parte infantile ed emotiva fosse predominante nella persona che avrebbe guidato i musicisti nella rappresentazione. Pyotr mi fa un cenno, gli occhi neri risaltano sul volto pallido e sudato. È ora. Mi guardo di nuovo le mani, e non le sento mie. Eppure loro sanno dove e come muoversi. Senza nemmeno pensarci il mignolo destro si avvicina alla vernice bianca che ricopre il La, ci si appoggia, e il peso della mano fa il resto. Il meccanismo scatta, il legno si tende e si muove, il martelletto accelera all’improvviso e colpisce la corda, che sotto l’urto ondeggia come fosse un’onda altissima che si infrange contro una spiaggia, come una foglia agitata dal vento, come un granello di sabbia calciato da un bambino sulla spiaggia. Appena il suono arriva al mio orecchio, appena sento tremare il timpano e le vibrazioni arrivano alle ossa, alla gola, ai polmoni, si apre il mio mondo. Non quello creato dall’uomo, non un mondo fisico dove esistono un prima e un dopo o un sotto e un sopra. Il mio mondo è etereo, un’ etere o un aurea che avvolge ogni cosa. Molti potrebbero pensare che anche per loro è così, ma vi assicuro che per me è diverso, quando parlo di mondo diverso dal vostro intendo un vero mondo. Il mio corpo diventa semplicemente un’appendice della mia mente, un’estensione del mio subconscio che non conosce errori, ogni suo movimento è dettato esclusivamente da ciò che sto immaginando in quel momento. E in quel momento il mio mondo è una stella ardente e bruciante, la massima espressione di energia e potenza, di calore e maestosità, di intimità ed epicità insieme. Ed è mio, ci sono dentro. Ripeto quella stessa nota per minuti interi, una ogni quarto. Ad ogni pagina di spartito uno strumento si aggiunge, dapprima lentamente quasi in modo timido. Prima i corni, quindi gli oboi e i clarinetti, poi i violini e le viole, i tromboni e gli ottoni tutti, d’improvviso un colpo di timpano, fortissimo e vibrante, il passo di un gigante che poggia sulla nuda terra, un tremore che ti prende le viscere e le porta fino sotto il cuore, come volessero scappare dall’energia emessa da quell’unico suono. Silenzio, si spengono le luci. Dopo sedici quarti di pausa esplodono le luci e i colori, la linea melodica dei contrabbassi e dei tromboni fa da padrona, il teatro trema sotto la potenza del suono, le emozioni schiantano e berciano contro il pubblico, il ribattuto del pianoforte e del timpano insieme al rullante suonato a marcia marziale da un aspetto tribale, triviale al momento. Viene preso ogni essere umano di ogni parte del mondo. Questi aspetti ancestrali della vita e della psiche umana vengono tirati fuori a forza dai sopiti cervelli degli spettatori, che rimangono allibiti e spiazzati da ciò che sta accadendo loro, non abituati ad avere uno sguardo così vicino al mio mondo, composto interamente di energia. Chi sono io per creare tutto ciò? È titanico l’impatto che l’orchestra crea. Non riesco a trattenermi, lacrime di fuoco e di ghiaccio mi cadono dagli occhi gonfi, bruciano la tastiera, ustionano le mani che la stanno suonando, e cadendo a terra spingono la loro onda d’urto per tutta la mezzaluna gremita di persone che mi sovrasta. Piango, piango per tutto il concerto, se anche qualcuno se ne fosse accorto non mi sarebbe importato, ormai non facevo più parte del loro mondo. Quando finisce non me ne accorgo nemmeno, non mi accorgo del silenzio assoluto che si crea appena suono l’ultima nota. Non mi accorgo nemmeno delle ore di applausi che vengono sbraitati dal pubblico verso di me, per ringraziarmi di averli fatti sentire Umani veramente, di averli fatti sentire parte del mondo,che fosse il mio o il loro. No, non mi accorgo di tutto questo. Ma mi ricordo essere successo, questo sì. Questi sono gli ultimi ricordi che ho prima di stamattina, mi sono svegliato in una stanza bianca, pulita e che sapeva di fresco, con una signorina vestita di bianco che cambiava le lenzuola ad altri letti simili al mio. Ho vagato qualche minuto in lunghi corridoi di marmo e neon, facevo fatica a respirare e camminare era un dolore immenso ad ogni passo, mi sentivo senza forze. Ho visto un pianoforte in un grande salone e mi ci sono seduto davanti. Quei canyon che mi turbano la mente sono ancora davanti a me adesso, mentre si apre una porta che non avevo notato entrando. Una ragazza giovane mi guarda intensamente mentre mi si avvicina, dovrebbe avere più o meno la mia età e mi assomiglia molto, sarà mia sorella. Sale le scale che portano al palco, si siede affianco a me sullo sgabello che ora non sembra più tanto scomodo. Mi cinge le spalle con un braccio e sento che ha un buon profumo, che mi ricorda la tisana alla cannella che bevevo da bambino. Mi fissa negli occhi, intensamente.
-sapevo che ti avrei trovato qui, Nonno-
  
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