Storie originali > Introspettivo
Ricorda la storia  |      
Autore: Angye    29/10/2012    3 recensioni
"Una storia come mille altre ce ne saranno.", ed è vero. Non dovrebbe essere così, ma altre mille giovani donne potranno raccontarvi storie smilili. Ognuna vi spezzerà il cuore, per ognuna vorrete versare una lacrima. Questa è quella per cui l'ho fatto io.
Genere: Introspettivo, Malinconico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A
 
Non ci sono finestre aperte
                                                            
                                                                                                                                                                                                                    Una storia come tante altre ce ne sono.
 
 
 
Cammino stringendomi il bavero del cappotto nero al viso: è arrivato Dicembre e il freddo penetra nelle ossa, congelandomi. Mi godo quella sensazione, sorpresa ed eccitata: sono anni ormai che non sento niente. Niente. Aspetto che il semaforo diventi verde per i pedoni e attraverso.
I marciapiedi sono inondati di gente che chiacchiera felice, pregustando il cenone Natalizio.
La televisione parla ormai da sempre di crisi economica eppure ogni estate le spiagge sono piene di gente e ogni Natale i negozi vengono presi d’assalto.
Scuoto la testa per mandare via un po’ di neve che mi si è appiccicata al capello di lanetta, mentre scanso un gruppo di bambini che si attaccano alle vetrine dei negozi di giocattoli, indicando con le piccole dita ciò che desiderano da Babbo Natale.
Li guardo con una punta d’invidia: anch’io una volta, e non troppo tempo fa, credevo alla magia del Natale.
I negozianti più furbi hanno già sistemato le decorazioni, sperando così di attirare la gente.
Sovrappensiero, cammino a testa bassa, finché, a un angolo di marciapiede, non vedo un uomo, seduto per terra insieme ad un cane.
Qualcosa mi si ferma dentro, un’ondata di ricordi m’investe: io, bambina, col cuore più grande che si potesse immaginare. L’uomo accarezza di tanto in tanto un cane, accoccolato su una coperta, con le sue mani ricoperte di guanti bucati.
La gente lo evita, girandogli intorno. Lui li ignora, con elegante indifferenza.
Il mio ricordo si fa più prepotente, lasciandomi senza via di scampo.
 
-Mamma!- la chiamai, percorrendo veloce il corridoio di casa. A quell’ora mi sentivo sempre più leggera, forse perché sapevo di avere un paio d’ore sola con lei.
La vidi di spalle, intenta a mescolare la pasta; il vapore saliva dalla pentola creando strane nuvolette intorno alla sua testa-
Si voltò verso di me, sorridendo – Ciao tesoro, com’è andata a scuola?- mi chiese.
Ma la mia euforia si era spenta nel momento esatto in cui avevo incrociato il suo sguardo: aveva gli occhi rossi e gonfi. La prima morsa di paura mi chiuse lo stomaco.
-Che è successo? – le chiesi, lasciando cadere lo zaino con i libri di scuola su una sedia della cucina.
- Niente, piccola, non ti preoccupare: ho solo mal di testa.- mi rispose, regalandomi un altro sorriso.
La guardai di sbieco, facendole capire che non le credevo. Ma avevo dodici anni ed ero pur sempre una bambina. Così mi lasciai distrarre, quando lei riportò il discorso sulla scuola.
Frequentavo la seconda media, in una scuola non lontano da casa.
I miei compagni di classe erano gli stessi delle elementari, cosa che mi aveva evitato il trauma del passaggio da una scuola all’altra. Ero una bambina molto intelligente, già da piccola.
M’impegnavo pochissimo e facevo molte assenze, forse anche troppe, ma ottenevo sempre ottimi risultati La modestia, inoltre, non era mai stata una mia prerogativa.
 
 
Scuoto leggermente il capo cercando, invano, di sfuggire a quel ricordo, ma una voce lontana mi riporta indietro.
 
-          Ti ricordi il concorso di poesia che hanno fatto a scuola?- le chiesi, inforcando gli occhiali.
Avevo scoperto di essere miope da pochi mesi, una tara ereditata da entrambi i miei genitori – era davvero destino – tuttavia, come la maggior parte dei ragazzi, m’impuntai nel non volerli indossare al di fuori di casa. Mia madre, stanca di dover scatenare ogni giorno un conflitto, si arrese.
Mio padre rimase sempre totalmente ignaro del fatto che fino all’età di quindici anni, la mia bella montatura costosa non vide mai il sole.
-          Certo: mi ricordo che sabato dovevi andare a scuola, ad assistere alla premiazione e invece sei rimasta a dormire!- mi rispose, sorridendo.
-          Tanto ti danno sempre quegli stupidi attestati, ne ho a migliaia! – mi giustificai, indicando uno di quelli che lei aveva scelto di mettere in bella mostra sul muro del salotto.
-          Allora?-.
-          Allora, stavolta, non dovevo ritirare solo l’attestato... - sorrisi, con finta modestia.
Lei sbuffò, lasciandomi intendere quanto quel tira e molle la stesse scocciando.
-          Mamma, ho vinto il primo premio! – urlai.
Mia madre mi fissò, mentre i suoi occhi brillavano: leggere l’orgoglio nei suoi occhi, era la cosa più gratificante che avessi mai provato.
Probabilmente una cosa nociva, di cui mi sarei resa conto soltanto da adulta, ma all’epoca – e parliamo di dodici anni prima – avrei fatto follie pur di vedere sempre quella luce nel suo sguardo.
Mi abbracciò – Brava, cucciola.- mi disse, stampandomi un bacio.
-          E che cosa hai vinto?- mi domandò.
Le sorrisi, avvicinandomi allo zaino e aprendolo – Un dizionario.- risposi, tirando fuori il pesante volume. Più che un dizionario, era una vera e propria enciclopedia: uno di quei volumi che, se acquistati in libreria, costa una cifra.
-          Posso leggere questa poesia vincitrice?- mi chiese, aprendo il frigo e agguantando la bottiglia di coca cola.
Avevamo, purtroppo, preso la pessima abitudine di berla sia a pranzo sia a cena, sette giorni su sette.
Sbuffai: mi vergognavo. Ogni qual volta qualcuno leggeva ciò che io avevo scritto, mi sentivo intimamente violata. Erano i miei pensieri, i miei sentimenti più profondi, i miei demoni nascosti, quelli tracciati con grafia infantile sul foglio rigato.
Ma l’avrei accontentata seppure mi avesse chiesto di saltare nel fuoco, così, estrassi il fogli -rigorosamente protocollo -  e lessi.
 
“Eccolo.
Lo vedo lì, seduto in un angolo. Vestito di stracci, che mangia da solo.
Eccolo.
Lo vedo osservare la gente, che lo guarda disgustatamente.
Eccolo.
Lui che speranza più non ha, di una vita serena e di felicità.
Eccolo.
Sollevare il capo e guardarmi, mi sorride, poi si rigira, senza pensarmi.
Eccolo.
Mi dice: “Piccola, gli uomini sono una schifezza”.
Eccolo.
Io gli rispondo: “Vieni, ti do la salvezza.”
Eccolo.
Entrare con me in casa; mia madre gli offre qualcosa.
Eccolo.
Che va a lavorare, un futuro si vuole creare.
Eccolo.
Con i suoi figli. Vivere in pace una vita d’amore.
Eccolo.
Perché nel suo cuore, ogni uomo può essere migliore.”
 
 
Ricomincio a camminare, qualcuno mi ha appena urtato: ero imbambolata in mezzo al marciapiede.
L’uomo che ha scatenato in me l’uragano di ricordi è ancora seduto per terra: non chiede niente, non cerca l’elemosina, non infastidisce i passanti.
Lo fisso ancora e lui, improvvisamente, solleva il capo e mi sorride. Senza pensarci ricambio, ha gli occhi buoni. Quando gli sono davanti, lascio cadere una manciata di monete sulla coperta.
Lui china il capo – Grazie.- mi dice.
Io annuisco, allontanandomi velocemente, mentre il naso mi pizzica pericolosamente: il suo sguardo sereno, nonostante le precarie condizioni in cui si trova, mi fa sentire nuovamente egoista. E invidiosa.
Stringo gli occhi, mentre una lacrima si congela sul mio viso.
Ci risiamo, non sono riuscita a trattenermi. L’emotività è sempre stata un tratto prepotente del mio carattere, sebbene sono sempre stata brava a nasconderla dietro una maschera di presuntuosa superbia.
Cerco di riprendere il controllo mentre apro il cancello e aspetto che si liberi l’ascensore.
Una volta dentro mi guardo allo specchio: i capelli castani, ormai nuovamente lunghi, mi ricadono in una sorta di groviglio sulla schiena.
Mi concentro sugli occhi, unica parte di me così simile a lei: ho gli occhi di mia madre.
Mi godo quel confronto col suo ricordo, perdendomi pigramente e minuziosamente su ogni piccolo dettaglio. Ricordo gli occhi di lei, così profondi da intrappolarti.
Il suono delle porte che si aprono mi avvisa che sono arrivata.
Mi avvicino alla porta e asciugo i piedi sul tappeto.
Entro in quella che è casa mia da sedici anni e in cucina trovo mio padre, seduto con le gambe incrociate sulla sedia, come sempre.
-          Ciao papi – lo saluto.
Non ho mai chiamato mio padre papà, sempre papi obabbo, a seconda delle situazioni.
-          Ciao, principessa – mi sorride – Tutto bene a scuola? – mi domanda.
Rido. Nonostante non sia una risata sincera. Sono anni, ormai, che non rido davvero. Non con lui.
Rido perché, da quando avevo undici anni, questa scenetta si ripete, sempre uguale.
Perfino ora, che frequento il secondo anno dell’università di legge, la tradizione continua.
Mio padre mi guarda, mentre mi sfilo il cappotto e mi lavo velocemente le mani.
Poi si perde, probabilmente scivolando in qualche ricordo, proprio come ho fatto io poco prima.
Mio padre: per parlare di lui non basterebbe un’intera giornata.
E’ uno di quegli uomini che commettono tanti errori, convinti che oramai, avendo commesso il primo, siano condannati.
Per un periodo della mia vita, l’ho davvero temuto, imparando, già da bambina, che cos’è la paura.
Non avevo paura per me, ma per mia madre. Mio padre è una brava persona, mia madre direbbe lo stesso. Tutte le sue azioni sono giustificate dal suo credere in un mondo utopico, in cui le persone sono sempre leali e giuste, le une con le altre.
Lo scoprire che la realtà era completamente diversa, lo ha incattivito, segnato.
Le persone che credeva sincere, pulite, si sono rivelate le più calcolatrici.
Mio padre è stato un marito violento, un padre a metà, per una manciata di anni.
Non ha mai alzato un dito su di me. Forse una leggera spinta, una volta, nemmeno lo ricordo.
Ha fatto penare mia madre, a volte senza sfiorarla – quelle erano le peggiori. - ma distruggendo tutto ciò che per lei era fondamentale. L’ha piegata, distrutta fino all’anima ed io ero la spettatrice onnipresente di ogni piccola colonna della sua integrità che si sgretolava con la nuova bastardata.
Tuttavia, nè lei nè io abbiamo mai smesso di amarlo.
Mi avvicino al lavello, ricordandomi una serata di anni prima e l’incubo ricomincia, dentro la mia mente.
 
Mi stringo a mia madre, seduta sul letto della mia camera.
Tutte le luci sono accese, nonostante sia domenica pomeriggio e il sole basti a illuminare la casa.
Tutte le finestre sono spalancate, quasi a invitare la gente ad ascoltare. Ho imparato a temere più la vergogna che il dolore fisico all’età di otto anni, nemmeno so più come.
Questi sono i momenti che preferisce, il fatto di avere un pubblico cui gridare la sua superiorità.
Il mio cuore batte all’impazzata, una fitta profonda mi attanaglia lo stomaco, mentre cerco di trattenere le lacrime: vedermi piangere lo ferisce, lo fa sentire in colpa e se la prende con mia madre. O forse semplicemente è un bastardo figlio di puttana, che dovrebbe crepare di fronte ai miei occhi. “Smettila, smettila: non pensare queste cose. Gli vuoi bene.”, mi grida una voce dentro la testa.
-          Shhhh, adesso finisce tutto.- mi sussurra mia madre  all’orecchio.
La stringo a me, cercando di diventare parte di lei: vorrei penetrare nella sua carne per non dovermene mai più separare.
Mio padre,  sfortunatamente, la sente. Entra in camera mia E il tremito diventa più forte.
-          Togliti da vicino a lei.- dice a mia madre, che non accenna a muoversi.
-          Smettila.- gli dice, mentre io già sfuggo dalle sua braccia: “sono obbediente, non farle male”, imploro dentro di me.
Non voglio che accada ancora, non perché io ho disubbidito a un suo ordine.
Mia madre mi trattiene, mentre lui si fa più vicino e allora io mi tuffo su di lei, nascondendola alla sua vista.
-          Non te lo voglio ripetere, togliti.- le dice.
Lei lo guarda, mentre le lacrime cominciano a bagnarmi il viso, senza che io le possa controllare.
Mio padre mi vede. - Non piangere, se vuoi piangere, la porta è quella. – mi dice, mentre io affondo la testa sulla spalla di mia madre.
-          Lasciala stare, non metterla in mezzo.- gli risponde lei.
Mi avvicino a lei più che posso  – Ti prego,non  rispondere.- la imploro. Quella è la frase più degradante del mio repertorio. Solo adulta avrei compreso, quando quella frase abbia influito su di me come persona, come donna soprattutto. Sarei diventata una sorta di femminista estrema, che rifiutano ogni tipo di dominio e sottomissione, ma, avrei sempre dovuto fare i conti con quella parte vigliacca di me che a otto anni diceva “non rispondere” a un uomo.
Ormai le sono in braccio, so che non la sfiora se ci sono io vicino. O almeno non la sfiorava prima.
Lui ci guarda, più arrabbiato di prima. Esce come una furia, lo sento trafficare con qualcosa in cucina.
Rientra: in una mano ha l’ultimo regalo che mia nonna, la madre di mia madre, le ha fatto prima di morire (un portaccendino d’argento, con dei piccoli fiori incisi per decorazione) ; nell’altra, una pinza. Con la pinza fa a pezzi il regalo, dividendolo in due parti.
Poi esce e lo getta nell’immondizia.
Mia madre non batte ciglio.
Passano pochi minuti e sento la porta sbattere: è andato via..
Scoppio a piangere.
Mia madre si alza, corre in cucina e prende l’accendino dal secchio.
Le mani le tremano, il viso è arrossato.
Piange. Stringe i denti, i pugni, si morsica il labbro. E piange.
- Bastardo.- singhiozza tra le lacrime.
L’abbraccio, singhiozzando insieme con lei, quasi temendo che mi respinga.
-          Non  è cattivo. – mi sussurra – Tuo padre non è cattivo.-
Io la guardo, mentre qualcosa mi si spezza dentro.
Un vuoto si fa largo nel mio stomaco, mentre la rabbia cresce nel mio cuore.
E poi, l’emozione che regna sovrana su tutte le altre: la vergogna.
La vergogna perché non so reagire, nonostante lui ferisca le persone che più amo al mondo: se stesso e mia madre.
Mi allontano brusca da lei, tornando in camera mia. Il letto è pronto ad accogliermi.
E’ Agosto, ho nove anni: quattro mesi dopo, ne avrei compiuti dieci.
 
 
Mi rigiro lo stesso piatto tra le mani, sciacquandolo per l’ennesima volta.
Mio padre lo nota – Tutto a posto?- mi domanda, sinceramente preoccupato.
La sua vita sono io adesso, il suo unico scopo è rendermi felice, di conseguenza vedermi così pallida e pensierosa lo preoccupa non poco. Ma io sono ormai entrata nella stanza della rabbia e qualcosa scatta dentro di me, violento. – Sì, non cominciare.- sbotto, facendo sbattere il piatto sul lavabo.
Lui mi guarda mortificato, poi si alza. – Vado a riposare un po’- mi dice, dandomi un leggero bacio sulla fronte. Rimango immobile, paralizzata, mentre il mio viso si colora.
Non mi ricordo precisamente quando ho smesso di essere affettuosa con mio padre: quando si avvicina a me, l’agitazione si impossessa del mio cervello e riesco a stento a controllarmi.
Non lo abbraccio veramente da anni.
Probabilmente ho paura di trasmettergli tutto l’odio, la rabbia e il rancore che sento e di ferirlo.
Quando sparisce oltre la porta della stanza da letto, mi siedo, portandomi una mano alla fronte.
Mio padre è convinto che io non riesca a perdonargli tutto quello che ha fatto: me ne accorgo da come mi si avvicina, da come mi parla. E la cosa più tremenda è che ha ragione.
“Se perdoni, perdoni davvero, non serbi rancore.”, mi disse una volta mia madre.
“ Io non ci riesco.”
“ Non devi. Sono io che ho scelto di averlo accanto per la vita, non tu.”
Mio padre percepisce il mio odio, lo può casi toccare con mano.
Ha smesso di cercare una spiegazione ai miei toni alterati, alle mie risposte brusche.
Mi sento nuovamente colpevole, mentre il mio stomaco si chiude e decido che per quella sera la cena posso anche saltarla.
Entro in bagno e mi spoglio velocemente, senza soffermarmi a osservarmi allo specchio.
Ho smesso di piacermi molti anni prima, quando ne avevo sedici e ancora speravo in qualcosa.
Cerco di miscelare bene l’acqua, ma la vecchia caldaia non vuole collaborare. La lascio vincere, gettandomi sotto l’acqua bollente.
I brividi invadono il mio corpo, mi viene la pelle d’oca.
Mi sento la caricatura di una di quelle belle attrici che, nei film, sul più bello della storia d’amore, scoprono il tradimento del loro amato e piangono da sole in uno squallido bagno.
Rimango così, assaporando un calore che, nella vita, non riesco più a trovare.
Mi siedo per terra, senza pensare alle gocce che rimbalzano sulla mia testa e vanno a depositarsi per terra, fuori dalla vasca, creando un piccolo lago.
Mi cingo le gambe con le braccia, chiudendo gli occhi: solo un minuto, mi convinco.
Mi serve un minuto, un minuto in cui possa ritrovare me stessa. Un minuto per tornare innocente, innocente come forse non lo sono mai stata.
Nella mia mente c’è solo lei, lei  e ancora lei.
Quando riapro gli occhi, mi rendo conto di avere le dita spugnate: quanto tempo sono rimasta così?
Mi insapono velocemente, mentre gli odori di shampoo e bagnoschiuma si confondono.
Esco dalla doccia, avvolgendomi nell’asciugamano.
Mi avvicino allo specchio, pulendo via il vapore con una mano, mi guardo: ho le labbra viola.
Ma l’acqua non era bollente?
Mi allontano da quell’immagine, sempre più simile e allo stesso tempo lontana a quella di lei, vestendomi velocemente.
Domani ho un esame, penso, mentre sistemo le mie cose nella borsa e mi infilo sotto le coperte.
Prendo il libro dalla mensola alle mie spalle.
Sono pronta:  mi immergo nella lettura, desiderando con tutta me stessa di essere qualcun altro.
Fin da bambina, mi tuffavo nei libri, anche quelli più complessi, per sfuggire a una realtà che odiavo. E allora sognavo, sognavo di essere una giovane donna, di inizio ottocento, con un abito meraviglioso, che chiacchierava con un allegra Mrs Jennigs.
Desideravo essere un’eroina che si sacrifica per sconfiggere un nemico più grande.
Forse allora qualcuno mi sarebbe rimasto accanto per sempre. Me l’avrebbe dovuto.
A volte, mi trovavo a pensare a quanto avrei voluto cambiare la mia vita, ma poi cancellavo l’idea, rimandandola a domani.
Non ricordo esattamente quando compresi che il domani era già arrivato.
Ed io non ero cambiata per niente, semplicemente ero diventata una donna indifferente alla vita.
 
Il giorno mi accoglie con la sveglia del cellulare che strilla sotto il cuscino.
Mi concedo qualche altro minuto, poi mi alzo, ignorando il freddo del pavimento.
Non faccio in tempo ad aprire la porta che mi ritrovo mio padre davanti.
E’ già vestito, pronto per la sua giornata di duro lavoro.
Mio padre lavora in Marina da anni, come civile: il suo unico impegno è aprire e chiudere una palestra in cui i giovani militari vanno ad allenarsi.
Tutto il resto della giornata lo passa davanti al televisore o ad assillare l’anima a me.
- Piccola, devo prendere la pillola nello scatolino rosso o la metà del verde?- mi domanda, mostrandomi gli scatolini dei medicinali.
Sono più di trent’anni che prende psicofarmaci di ogni tipo, nemmeno mi ricordo quante volte ha cambiato dosaggi e farmaci. Mio padre è lucido, non è un malato mentale.
E’ stato certificato da più medici, da psichiatri, psicologi: mio padre è mentalmente sano, capace di intendere e di volere.
E’ da quando aveva circa quarant’anni che dice di sentire “una morsa allo stomaco”, di avere paura, di provare puro terrore al pensiero della morte.
Ancora mi ricordo il timore mio e di mia madre, al pensiero che uno dei miei nonni – i genitori di mio padre – potessero morire. Arrivare a cinquant’anni con entrambi i genitori in vita è un traguardo per cui molti metterebbero la firma. Il nostro terrore nasceva dal fatto che lui non si sarebbe mai ripreso dalla perdita.
-Quella a metà, per le undici l’altra metà, stasera quella  nello scatolo rosso.- gli ripeto, come faccio ogni mattina da cinque anni e come faceva mia madre da quindici.
- Perché non..- prova a dirmi qualcosa ma lo ignoro, entrando in bagno.
- Ho un esame, devo prepararmi.- richiudo la porta, e mi piego sul lavandino.
Respiro profondamente, apro l’acqua, tento di calmarmi. Piango, perché lo immagino fermo fuori la porta, triste e rifiutato a dire sottovoce “ti voglio bene”.
Nel giro di dieci minuti sono vestita, mi concedo l’unico lusso della giornata: il mio amato caffè.
In una tazzina a parte mi aggiungo un paio di cucchiaini di zucchero: mi piace molto dolce, proprio come a mia madre.
- Dicevo, perché non mi fai il numero del Dottor Gatto, così gli domando se mi conviene provare a invertire le pillole.- incomincia mio padre, uscendo dalla stanza da letto.
- Sono le sei e mezzo di mattina, non ti risponde adesso e non puoi chiamare a casa delle persone a quest’ora. – rispondo, tentando di mantenere il tono calmo.
- Prova lo stesso, può essere che è già uscito.-
- Babbo, ti ha detto lui tre giorni fa che se non ti sentivi meglio con questo dosaggio, potevi invertire le pillole, è inutile avvisarlo di aver cambiato. Se non ti dovessi sentire ancora bene nemmeno dopo, lo chiamiamo.- dico, spegnendo il gas.
- Va bene.- risponde, ma so che non durerà nemmeno per la giornata di oggi.
Mi darà il tormento, fino a quando non avrà chiamato.
- Claudio ti ha fatto sapere se passa a prendere il televisore?- mi chiede.
Claudio è un uomo di circa sessant’anni che ha un negozio di ferramenta e roba varia.
Si occupa anche di consegnarci le bombole per la stufa in inverno.
Mio zio, il fratello minore di mio padre, gli ha regalato una nuova televisione che lui non sapeva dove mettere a casa e così quella vecchia abbiamo deciso di darla via a qualcuno a cui potesse servire.
La televisione è il nuovo hobby di mio padre. O, meglio, il domandarmi quando Claudio verrà a prendere il televisore. E’ una settimana che non fa altro, mattina, pomeriggio e sera.
- Appena ha il furgoncino disponibile.- rispondo, soffiando sulla tazzina.
- Perché dopo non lo chiami?-
- Non sono Dio, non è che se chiamo io gli regalano un furgone.-
Tace, sedendosi al tavolo al posto che mia madre preferiva in assoluto: quello con il muro alle spalle. - Ne vuoi?- gli indico la macchinetta del caffè. “Rispetto, è sempre tuo padre.”,  mi ordina mia madre nella mia testa, così obbedisco. Scuote il capo.
Mi avvio in camera e comincio a truccarmi. Dopo pochi minuti è sotto la porta: se ne sta lì a guardarmi.
- Che c’è?- gli chiedo, ma so già quale sarà la risposta.
- Non posso stare qua?-
- Se non hai altro da fare.-
Ignora la frecciata e gira per la stanza, spostando questo, poi quello.
Comincio a innervosirmi ancora di più. Si siede sul mio letto, con lo sguardo fisso su qualcosa sotto il tavolino del televisore. Lo seguo con la coda dell’occhio e vedo una collanina d’argento.
Il mascara mi finisce dentro l’occhio. – Cazzo.- borbotto.
Lui nemmeno mi sente, lo vedo incupirsi fino a quando i suoi occhi non diventano di fuoco.
- Papà scende.- mi dice, andando verso la porta. Quasi mi trattengo dallo scoppiare a piangere e corrergli dietro, ma mi trattengo: è tutta colpa sua. No, mia. Di entrambi forse.
La porta si chiude e io cerco di calmare il respiro. Il pianto non riesco ad arginarlo e mi esplode in gola con un ruggito d’animale ferito.
Mi accascio sul letto, piango e mi dimeno contro un nemico invisibile, che esiste forse solo dentro di me.
“Mi hai lasciata, mi hai lasciata da sola, ti odio. No, non è vero perdonami, ti amo più di me stessa.”, grido nella mia testa. Poi, l’unica parola che non pronuncio più ormai.
- Mamma.-
 
 
- Ciao.- una voce maschile mi spinge ad alzare la testa dal libro che tengo davanti.
Guardo il ragazzo che mi siede di fronte con aria malevola. – Non mi sembra di averti invitato.-gli dico, tornando alla mia lettura.
Lui non sembra prendersela, ride ed io lo guardo di traverso. Ha occhi grandi e scuri, vivi, pieni di luce.  – Anche tu aspetti per l’esame?- mi domanda.
Lo guardo di nuovo, sarcastica. – No, il mio passatempo preferito è passare qui le ore. - rispondo.
Lui sorride, ha davvero un sorriso caldo e sincero. Lo osservo, ha i capelli spettinati, come se fosse uscito di fretta e furia.
- Hai la lingua tagliente.-
- Quindi?-
- Mi chiamo Andrea.-
- Non te l’ho chiesto.-
Lui mi guarda divertito, forse un po’ infastidito. Me ne frego, non sono un tipo che stringe amicizie.
- Dovresti dirmi come ti chiami.-
- “Dovrei”? Non è c’è nessuna legge in merito.- ribatto, trattenendo un sorrisetto.
- E’ buona educazione.-
- Senti chi parla di educazione! Ti sei seduto al mio tavolo senza essere invitato.-
- Touché- risponde.
Alzo la testa e vedo l’assistente farmi un cenno con la mano. Mi alzo in fetta, prima che lei chiami il mio nome.
- Ti saluto.- dico, girandogli le spalle.
- E’ un inizio!- mi grida dietro, facendo voltare tutti.
Vorrei scomparire.
 
Apro la porta di casa, sono ormai le quattro passate.
- Ciao principessa, tutto bene?-
- Sì, bene.- rispondo, togliendomi il cappotto.
Vado in camera e mio padre mi segue. – Hai sentito Claudio? -
 -Si, stamattina, dice che viene in settimana.-
- Quando?-
- In settimana.- ripeto. Lui rimane perplesso, non capisce perché Claudio non può venire subito.
- Oh, dopo puoi scendere?- mi chiede. – Ho bisogno di una ricarica.—
Arresto i miei movimenti e lo guardo. – Ti ho caricato il cellulare ieri.- gli dico.
- Sì, ma ho chiamato il Dottor Gatto…-
- Ma sei deficiente o cosa?! Hai consumato otto euro di credito per chiamare un numero con un altro gestore, quando sai che alle dieci potevamo chiamare in studio col fisso!- esplodo.
- Non gridare…- balbetta. – Non ci ho pensato…-
- Perché tu non pensi mai a niente! Tanto c’è la servetta che scende e va a ricaricare il tuo cellulare.-
- Se hai da fare non fa niente…-
- Da fare? No, che potrei avere da fare?- faccio sarcastica. – Vado all’Università, lavoro, mando avanti questa casa, mi occupo di te…figurati! Fammi una bella lista di quello che ti serve!-
I suoi occhi si riempiono di lacrime, si volta ed entra in camera sua.
Un nuovo ricordo mi ruba la lucidità.
 
Mia madre era  a casa di suo fratello disabile, che aveva  problemi a vestirsi e spogliarsi da solo, non poteva piegarsi, né sedersi correttamente. Fino l’anno prima c’era una signora a occuparsi della casa, della spesa e di lui, visto che non era sposato, poi, quando la crisi economica investì tutti, mio zio dovette ridurle lo stipendio. Così lei se ne andò e mia madre subentrò al suo posto. Di conseguenza, oltre le quattro ore del suo lavoro normale – pulire con altre due persone una sorta di enorme magazzino – mia madre correva poi a casa, nel quartiere dove abitavamo noi e mio zio per andare da lui a fare tutto ciò che una volta faceva la signora.
Poi doveva muoversi a fare la spesa – ogni giorno si attardava sempre fino a ora di pranzo- tornare a casa e pensare a noi e a casa nostra. Il pomeriggio c’era di nuovo da accudire mio zio.
Quel giorno, erano circa le sette, mia madre era già via da un po’ e la mia migliore amica – ex migliore amica – venne da me con la nipotina di pochi mesi. Avevo sempre adorato i bambini e adoravo tenere in braccio quella piccola bambola. Mio padre se ne stava seduto sul divano: erano ormai due anni che le cose andavano “bene”. Niente più liti furiose, niente più violenza. Sembrava davvero un’altra persona, e noi eravamo più serene. Tuttavia una volta ogni tre mesi circa, cadeva in una grave depressione che comportava crisi di pianto, paure folli e, per noi, spese assurde di cifre esorbitanti in ogni tipo di medicinale. Anche perché pretendeva di star bene nel giro di un’ora, non dava il tempo alle medicine di fare effetto, telefonava al medico e gli diceva “dobbiamo cambiare cura”. Addirittura arrivammo a minacciarlo di farlo ricoverare, dato che una sera confuse le medicine e si provocò una sorta di collasso.
Insieme alla mia amica c’era anche un altro amico e tutti e tre giocavamo con la piccola, quando mio padre cominciò a chiamarmi.
- Che c’è?- gli chiesi, raggiungendolo.
- Dobbiamo passare tutti i numeri da questo cellulare a quest’altro.- mi disse.
- Va bene, dopo lo facciamo.-
Tornai in camera pochi istanti dopo, lui chiama la mia amica.
- Mi passi questi numeri?- le chiese.
Lei ci provò ma niente. – fa venire lei.- le disse, spedendola di nuovo da me.
- Vuole te. -
- Ti ho detto dopo, adesso sono con loro!- ribattei..
- Questa non ha capito proprio niente, ora ti picchio e ti faccio vedere io…- lo sentii borbottare.
La mia amica comprese al volo. – Meglio che andiamo. – mi fece, togliendomi di braccio la piccola e sistemandola nel passeggino. Li accompagnai alla porta e appena l’ebbi chiusa tornai indietro da lui, di nuovo seduta sul divano.
- Ripeti quello che hai detto!- urlai. – Picchi chi? Me?-
Lui mi guardò. – Sì. - sussurrò.
- E con quale diritto? Ti sembra normale che sono con i miei amici e tu non hai un cazzo da fare e pretendi che io eseguo quello che vuoi? Hai perso il diritto di dirmi qualsiasi cosa quando hai smesso di fare il padre. Non hai nessun diritto di dirmi certe cose, per di più davanti a loro! Ora fammi vedere, mi devi picchiare! Pensi che abbia ancora dieci anni? Le cose sono cambiate!- esclamai.
- Era un modo di dire…- balbettò-
- E’ un modo di dire del cazzo che tu, soprattutto tu, non puoi usare nemmeno per gioco dopo tutto quello che hai fatto!-
- Scusami, scusami, ti prego, non dirlo a mamma!- mi implorò.
Mi sentii così ferita che forse è stato in quel momento che decisi definitivamente deciso di odiarlo.
Non gli interessava se io ero in lacrime, se lo detestavo con tutta me stessa: gli interessava soltanto che mia madre non ce l’avesse con lui. Io non ero nessuno.
 - E certo, a te non te frega un cazzo!- mi chiusi in bagno. Lui cominciò a piangere disperato, a singhiozzi come un bambino, urlando il mio nome.
- Non ti voglio più vedere, ti giuro che appena ho un lavoro di merda sparisco da questa casa e non mi vedi mai più, te lo giuro!- gridai, dal bagno.
Lui continuava a singhiozzare. – Aiutami, aiutami tu….- e gridava il mio nome. – Voglio la mia principessa, aiutami, aiutami….-
Io mi accovacciai in terra nel bagno, singhiozzando e tirando pugni al pavimento, mentre lui continuava la cantilena all’infinito.
- Non voglio niente da te!- gridai come risposta a chissà cosa.
- Ah si?- fece a mo’ di minaccia. – Sei cattiva, mi stai facendo piangere, sei cattiva!-
- Io sono pure cattiva?! Tu sei un bastardo, tu!-
- E vieni a mettermi i numeri sul telefono, dai.-
- Ancora?! Il telefono, ma ti rendi conto?!
A quel punto telefonai a mia madre. – Devi tornare subito.- le dissi, piangendo.
- Che è successo? Non posso lasciare qui…-
- Mamma, per favore, cazzo.-
- Mi dici che è succ…- riagganciai, fanculo anche a lei.
Poco dopo squillò il telefono di mio padre. – “Non le ho detto niente, le ho solo chiesto di spostarmi i numeri dal cellulare….”- disse lui.
La mia rabbia aveva raggiunto livelli mai provati prima, sentivo di avere la forza di sfondare un muro.
Dieci minuti dopo, la porta di casa si aprì, mia madre chiedeva cosa fosse successo, sgridando mio padre. Lui ripeteva che non aveva fatto niente e le chiedeva “Mi fai il numero del Dottor Gatto?”oppure,  “E’ cattiva, mi ha fatto piangere, guarda!”.
Mia madre venne a bussare alla porta del bagno, io aprii e tornai ad accovacciarmi per terra.
Le raccontai tutto. – Ignoralo, trovati una casa tua, al costo di lavorare di notte, te la pago, devi andartene da qui, non puoi vivere con lui.- mi disse.
Io mi sentii così tradita, rifiutata, che mai nessuno avrebbe mai potuto capirlo: avevi diciassette anni, non avevo mai preteso nulla da loro, mai chiesto niente di niente – vacanze, soldi, vestiti, cellulari – mai. Eppure ero io a dovermene andare. Ma io ero sola, non avevo amici.
Proprio perché non volevo pesare economicamente su di loro, era un anno ormai che avevo smesso di uscire, compreso il Sabato sera. Così, piano piano, ero rimasta sola, isolata dai miei amici, dato che rifiutavo sempre i loro inviti. E poi non volevo lasciare lei da sola.
Eppure dovevo andarmene, dovevo farcela da sola. Mi sentivo così abbandonata, così persa…
- Non è giusto, è lui che se ne deve andare.- dissi.
- E dove va? –
- Anche per te non è giusto.-
- Io l’ho scelto, nel bene e nel male.-
 
 
Io no, io non l’ho scelto.
Ceno da sola, mio padre si rimpinza di merendine e dolci durante tutta la giornata.
M’infilo a letto e mi rigiro il libretto universitario tra le mani. Ho preso ventotto, non è male.
Ma lui nemmeno lo sa, non sa niente di me, sono ormai un’estranea. Mi chiede, certo, come va a scuola, o com’è andato l’esame, ma come una sorta di automa.
Prendo un libro e mi metto a leggere, girando le pagine trovo un segnalibro malridotto. Mi viene da piangere, lo accarezzo con le dita. Era di mia madre.
Mi alzo e apro il mio armadio: so che mi rinchiuderebbero in qualche ospedale psichiatrico se mi vedessero. Prendo uno dei suoi pigiami, non li ho più lavati, per quanto sia antigienico.
Torno a letto e mi ci avvolgo, lasciandomi una manica sul naso, per sentire il suo odore. E piango, ma sto attenta a non bagnarlo di lacrime.
Ricordo che lo facevo anche da piccola, quando avevo circa dieci anni. La mattina lei scendeva alle sei, forse prima, dato che era in prova col lavoro e mio padre aveva il compito di accompagnarmi da un’amica verso le sette che poi mi avrebbe portato a scuola. Inutile dire che quella mezz’ora con lui al mattino mi provocava uno stress immenso per tutta la giornata.
A volte, mentre lui si lavava in bagno e lei era già andata via, io mi svegliavo, convinta che mia madre mi avesse abbandonata. Allora prendevo il suo pigiama e piangevo, pensando però “Devo essere contenta per lei, così potrà stare bene, essere felice.”.
 
 
Non ho voglia di andare a lezione, lascio un biglietto a mio padre con le istruzioni sulle medicine e dicendogli che non devo alzarmi. Lui viene a svegliarmi lo stesso, sono circa le sei.
Si alza sempre all’alba nonostante debba scendere alle sette meno qualche minuto. Non guida più, alcuni colleghi gli danno un passaggio a lavoro.
- Vieni a farmi un po’ di compagnia?- mi chiede. Un’altra sua fissazione è la paura di restare solo.
Anche per cinque minuti.
- Mi svegli alle sei per chiedermi di stare mezz’ora in piedi in silenzio?- mi rigiro, ignorandolo.
- Che ti costa?-
- No. -
Se ne va, ritorna cinque minuti dopo, mi accende la luce. – Mi fai il numero di Claudio?- mi chiede.
Scatto come una storta di pupazzo a molla, lo spingo fuori e spengo la luce.
- Non entrare di nuovo, ti avviso! Roba da pazzi…- grido.
Torno sotto le coperte, ma ormai il tepore del sonno mi ha abbandonata. Un nuovo ricordo invece, viene a trovarmi.
 
Era una domenica mattina di Maggio, l’unico giorno della settimana in cui mia madre poteva dormire fino a “tardi” che per lei erano circa le otto e mezza, le nove al massimo.
Avevo diciassette anni, la violenza e la paura erano ormai lontane, ma la depressione e le fisime di mio padre erano i nuovi punti intorno ai quali ruotava la nostra quotidianità.
Ero appena andata a letto, dopo aver passato la notte a leggere il contratto che una delle case editrici a cui avevo inviato il mio romanzo mi aveva inviato. E poi avevo scritto, ancora.
Erano forse le sei e mezzo, forse sette meno un quarto, mio padre era già in piedi, vestito e lavato.
Aspettava che si facessero almeno le sette e un quarto per scendere, svoltare l’angolo e andare a trovare sua madre e suo padre, i miei nonni.
Lo sentii entrare in camera e svegliare mia madre. – Vuoi venire un po’ fuori, in cucina, a farmi compagnia?- le chiese.
Lei mugugnò qualcosa.. – Che ore sono?- gli domandò.
- Le sette.-
- Che cavolo, le sette, ma con che coraggio mi svegli.- dice.
- Che ti costa?- fece lui, - Per favore, ho paura.-
- No, non esiste, sono otto mesi che facciamo questo, “l’ultima volta” mi dici e ogni domenica è questo.- ribatté lei, ormai completamente lucida.
- Ti prego, dieci minuti.-
- No. –
- Ma che razza di essere umano sei?-  le disse.
Quella frase mi rimase impressa nella mente, la rabbia m’impedì di dormire tutto il giorno.
Avrei voluto gridare: “Ipocrita pezzo di merda che non sei altro, come osi accusare lei? Tu l’hai riempita di botte per anni, l’hai distrutta moralmente, dandole della puttana, oltraggiando la sua famiglia, dando della troia anche a me, tua figlia, quando prendevo le sue difese. Taci, quindi, figlio di puttana e ringrazia Dio ogni giorno perché non ti abbiamo abbandonato a morire da solo come meritavi.”.
Che stronza si, lo ero. E lo sarei stata anche da adulta. Come una sorta di bomba che a maneggiarla non hai altre possibilità che saltare in aria con lei.
Io mi distruggevo e mi sarei distrutta sempre, trascinando con me tutti quelli che mi erano intorno. Era questo che avevo imparato dai miei genitori, annientarsi l’un l’altro per non annientare se stessi.
 
E’ ora di pranzo, mi alzo e accendo il computer. C’è un e-mail della mia casa editrice.
“Abbiamo alcune copie in esubero del suo libro in magazzino, le vuole? Gliele diamo in conto vendita!”, dice. La ignoro. La pubblicazione del mio primo romanzo ha perso di ogni interesse per me, ormai. Eppure ero così fiera di me e dello sguardo di orgoglio che leggevo negli occhi di mia madre.
 
Era sera, mio padre dormiva. Avevo sedici anni. Scrivere e leggere erano state la mia aria per anni, cosa che avevo ereditato da lei.
- Voglio scrivere un libro.- dissi a mia madre, tra un boccone e un sorso di coca cola.
- Un altro?- mi prese in giro lei. Anche da bambina scrivevo libri o meglio storielle ridicole con per protagonisti animali parlanti.
- Sono seria. Ho avuto questa idea…- le raccontai e le chiesi consiglio. Come sempre mi arrabbiai da morire perché le sue idee non mi piacevano. Somigliavo così tanto a mio padre caratterialmente.
Quando litigavano furiosamente io e mia madre, a volte lei me la buttava lì, tra le tante offese, sapendo quanto mi ferisse. “Sei uguale a lui!”, mi diceva. Io lo detestavo e detestavo me stessa perché somigliavo in modo impressionante all’unica persona con la quale non avrei mai voluto avere niente in comune.
Durante il mese di Dicembre scrissi il mio racconto, dopo aver discusso la trama con una delle poche amiche che mi erano rimaste, forse più per convenienza, dato che era un po’ sola anche lei.
A Gennaio era finito, lo spedii a decine di case editrici ma molte mi chiesero soldi per pubblicarlo.
Rifiutai: volevo che pubblicassero il romanzo perché ci credevano ed era piaciuto, volevo che investissero su di me.
A Maggio ricevetti la “proposta” vera, reale, seria, da una piccola casa editrice. A Giugno firmai il contratto. Il mio libro sarebbe uscito nell’Ottobre dello stesso anno.
Mia madre era fiera di me, le leggevo negli occhi l’orgoglio. Io ero fiera di me, mi sentivo finalmente qualcuno, avevo dimostrato a tutti di valere qualcosa.
Non sapevo che non sarebbe durata.
 
Il cellulare squilla e mi allungo dalla sedia sul letto per rispondere. E’ mio padre, ovviamente.
- Che c’è?-
- Che pillola devo prendere ora?-
- Non ora, alle undici dovevi prenderla, lo hai fatto?-
- Non mi ricordo…-
- Lascia stare, non prendere niente, se ne parla stasera.-
- Hai sentito Claudio…-
Riaggancio.
Pochi istanti dopo squilla di nuovo. Guardo lo schermo e leggo il nome della mia ex migliore amica.
Mi chiama una volta ogni sette, otto giorni, giusto per mettersi a posto la coscienza.
-          Pronto?-
-          Ciao! Tutto bene?-
-          Bene, tu?-
-          Okey. Sei all’Università?-
-          No, oggi niente corsi.-
-          Oh.- il silenzio si fa imbarazzante. – Come stanno i piccoli?- chiedo, riferendomi ai suoi nipotini che ormai hanno quasi sei anni.
-          Bene, sono terribili.-
-          Già, è l’età.-
Restiamo ancora in silenzio per un po’ poi sento qualcuno che la chiama.
-          Devo andare, poi ci organizziamo per un caffè.-
-          Certo.- dico, ma so già che mentiamo entrambe. Da quando siamo diventate così formali?
-          Ciao.-
-          Ciao.-
Riagganciamo e torno al mio pc. Apro il nuovo file cui sto lavorando, mi arriva un sms.
Che palle, sembra la giornata dei ritorni stile “Carramba che sorpresa.” E’ il mio ex, siamo stati insieme per tre anni, la nostra storia è stata una stile quella di Danny e Sandy in Grease, per riassumerla.
Però io l’ho lasciato quando ha deciso che lavorare in giro per il mondo e guadagnare montagne di soldi era più importante di noi. Bene, inseguisse pure i suoi sogni, buon per lui. Ovviamente prima del suo lavoro, la goccia che aveva fatto traboccare il vaso, ne aveva fatte molte, come mollarmi e mettersi con una tipa il mese dopo, trattarmi una merda…
Ma era stato anche molto innamorato di me, eravamo stati bene per un annetto.
Era stato il primo con cui avevo fatto l’amore. E l’unico aggiungerei.
Dopo di lui non avevo più avuto ragazzi né storie, anche perché verso i diciassette anni era cominciato il mio isolamento volontario e non.
“Ciao, mi fai sapere per il bando? Un bacio amore.”, che grande conquistatore eh?
Mio padre lo stava aiutando a entrare in marina, lui faceva il ruffiano con me, convinto che così avrei messo una buona parola per lui. Che coglione. E pensare che lo avevo amato così tanto.
Ignoro il suo sms e soprattutto quel “amore” e la confidenza che ancora si prende.
Il mio stomaco brontola, devo mangiare. Esco in cucina e mi preparo un toast con la nutella, chi se ne frega!
 
 
Sono piegata sul libro quando la porta si apre e mio padre entra. Ho già preparato tutto sul tavolo e so già che ripeterà gli stessi gesti e movimenti di ogni giorno da qui a trent’anni fa.
Va a lavarsi, poi si siede e mangia da solo.
- Devi prendere le gocce.- gli dico, passandogli un bicchierino. Sparecchio e lavo tutto, poi mi chiudo in camera e lo lascio seduto in silenzio sul divano.
Dopo mezz’ora bussa ed entra, prendendo il telefono di casa. Sorprendentemente riesce a fare il numero da solo e non rompe più per un’altra ora.
Mi sono quasi convinta che sia uno dei giorni “meno schifosi”, che ecco che qualcuno bussa al citofono. Corro prima che a rispondere sia lui e cominci a balbettare senza capire una mazza, è Claudio. Amen, penso altra fissa che può togliersi.
- E’ Claudio.- dico.
- Fallo salire.- mi risponde. “Eh no,” penso tra me “ora gli dico grazie per essere venuto alla prossima citofonata.”, ma mi trattengo. Sono felice che lui sia qui, “ciao” Tv, “ciao” domande ogni mattina su quello.
Claudio entra ed io gli offro un caffè, lui rifiuta. Prende la tv, scambia due parole di cortesia con mio padre e se ne va.
Io ho un sorriso radioso sul volto.
Sto andando in camera per tornare a studiare ma lui da lontano mi chiama.
- Mi fai una carica oggi?-
Sbatto la porta.
 
Devo essermi addormentata perché fuori è buio, ma io non ho ancora preparato la cena.
Poi penso che non mi interessa, tanto mangio da sola.
Guardo lo schermo del telefonino e vedo che sono le otto. Mi stiracchio, mentre il telefono di casa comincia a squillare. Esco in soggiorno, dove mio padre dorme sul divano avvolto in una coperta.
- Pronto?- dico, tornando in camera.
- Ciao.-
- Chi parla?-
- Non mi riconosci?-
- Dovrei?-
Cammino su e giù come sono abituata a fare quando sono al telefono.
- Mi offendi sai? Un tipo come me non si dimentica facilmente!- dice la voce, poi il tipo sorride. Scherza, spero per lui almeno.
- Evidentemente ti sopravvaluti.-
- Touché- dice ed io capisco chi è.
- Ancora tu?- sbuffo.
- Eccola! Mi hai riconosciuto!- ride, contento. Rido anch’io, ma non mi faccio sentire.
- Come fai ad avere il mio numero? Sei una specie di stalker maniaco?  -
- Mi spiace deludere la fantasia in cui fai rintracciare il numero da dove chiamo e poi mi fai arrestare, ma no. Lavoro nella segreteria dell’Università.- mi spiega, divertito.
- Peccato, avrei potuto portarti le sigarette in galera.-
- Non fumo.- dice, serio.
Resto in silenzio e per un attimo anche lui.
- Non mi chiedi come ti ho beccata tra migliaia di iscritti?- mi domanda.
- Non m’interessa.-
- Cavolo, sei una difficile!-
- Non sai quanto.- dico, svelandomi per un istante. Lui sembra cogliere al volo quella momentanea assenza di difese.
- Mi piacciono le sfide.-
- Io non sono un videogioco.- ribatto, acida.
- Non volevo offenderti.-
- Non puoi farlo, nemmeno ti conosco.-
- Potresti però.-
- Mi dici che vuoi?-
- Conoscere una ragazza difficile.-
- Bene, continua a cercare allora.- dico, riattaccando.
Sorrido un po’, il tipo è simpatico e non è male. Ma ho imparato a fare a meno di tutti, uomini soprattutto. C’è un'unica persona di cui non avrei mai voluto fare a meno ed è l’unica che non ho più.
Mi squilla il cellulare e penso che è da quando avevo quattordici anni ed ero una sorta di reginetta del campetto dove andavo con tutte le amiche che non mi arrivavano tutte quelle telefonate in un giorno.
Guardo il telefono indecisa: lo stalker?, penso.
No, è il mio ex, che palle!
-          Pronto?-
-          Ciao, piccola!-
-          Ciao, che c’è? -
-          Ti sento allegra.- fa sarcastico.
-          Scusami vuoi una festa perché mi hai chiamata?-
-          Scusa, mi spiace.- lui è abituato ai miei modi da stronza.
-          Che c’è?- ripeto, sentendomi un po’ in colpa Sotto, sotto, ancora mi vuol bene.
-          Sai qualcosa del bando?- mi chiede. Che disinteresse, mi ha chiamata giusto per sapere come stavo!, penso, sarcastica.
-          Ti chiama papà qualche giorno prima, ok? Ora devo andare, ciao. –
Spengo il cellulare, forse per timore dello stalker. Possibile che abbia anche quel numero?
Nah, penso, tra i dati all’Università c’è solo quello di casa!
Esco in soggiorno e mando mio padre a dormire a letto.
- Ho preso tutto?- mi chiede, riferito alle medicine.
- Sì, buona notte.- rispondo, entrando in bagno.
 
Sono a letto finalmente, il pigiama di mia madre è avvolto intorno a me.
La mente vaga tra mille pensieri, ma non entra in quelle stanze nelle quali ho nascosto i ricordi che fanno più male. C’è una sorta di allarme rosso che scatta nella mia testa e mi fa deviare.
Mi viene in mente lo stalker, com’è che si chiama? Cerco di ricordare la nostra conversazione.
“Andrea”, ricordo. Andrea lo stalker. Bene, se dovesse richiamare, riaggancerò, penso.
Poi, il panico m’invade: cazzo! All’università ci sono anche l’indirizzo di casa e l’orario dei corsi che seguo.
 
 
 
E’ passata una settimana, sempre uguale, io mi spengo sempre più. Natale si avvicina, è ormai l’Immacolata. Da noi è tradizione fare l’albero, il presepe e addobbare la casa quel giorno. Ho sempre amato il Natale e insieme a mia madre riempivo la casa in modo assurdo. Luci, adesivi, festoni, candele, oggettini di ogni tipo ovunque. I miei amici mi prendevano in giro chiamando casa mia “Las Vegas”.
Sono cinque anni però che non faccio più niente del genere. Nemmeno m’interessa più che sia Natale o che appena due giorni prima venga il mio compleanno.
Ventidue anni, tanti auguri.
Sono all’Università, devo ritirare la lista dei giorni degli esami, me ne manca uno, poi posso fermarmi per tutto il mese di Dicembre. Non vedo l’ora!  Osservo i gruppetti di ragazze di età diverse che affollano le aule, il bar e le scale. Chiacchierano, ridono, prendono appuntamento per la sera seguente. Che c’è di speciale la sera dopo? Giusto, è Sabato. Per me un giorno come gli altri. Credo siano quattro anni abbondanti che non esco la sera, fatta eccezione per una o due volte l’anno quando le ragazze con cui ero amica alle superiori organizzano una rimpatriata. E anche lì è una tortura che non vedo l’ora finisca. Non ho mai veramente legato con loro, non mi lasciavo conoscere davvero, così non siamo mai entrare in confidenza. Facevo parte del gruppo più “in”, è vero, ma, salvo magari un paio, non ci volevamo davvero bene.
- Scusami, sai dov’è il padiglione b2? – mi domanda una ragazzina. Non può avere più di diciotto anni.
- Esci da quella porta, dieci metri più avanti, destra. Te lo trovi davanti.- le dico.
- Grazie mille.-
Sorrido e lei va via.
- Con lei sei stata gentile!- squilla una voce alle mie spalle.
Ormai lo riconosco.
 - Lo stalker!- dico ad alta voce, girandomi.
E’ seduto su uno dei tavolini alle mie spalle. E’ bello, ammetto, mentre i suoi occhi si illuminano in un sorriso furbo.
- Bel soprannome, carina!- mi dice, alzandosi. Io rimango seduta. Mi raggiunge e m’indica la sedia accanto a me. – Posso?- mi chiede.
Faccio finta di pensarci. In realtà sono indecisa. E’ carino, dolce e tutto il resto, ma io non sono interessata. Non so come dirglielo.
- Va bene, un minuto, poi devo andare.- rispondo.
Lo vedo sorridere come se fosse un cucciolo scodinzolante.
- Potresti chiudere quel libro?- mi chiede, dato che continuo a leggere imperterrita.
- Ho detto che potevi sederti non che avremmo fatto conversazione.-
- Sei sempre così sulla difensiva?-
- Sei sempre così invadente?-
- Touché di nuovo. Hai vinto.- mi dice.
- Non sapevo fosse una sfida.- rispondo.
Sta per ribattere ma ci rinuncia ha capito che per me è un gioco già vinto e che così facendo lo distolgo da quello che gli interessa davvero: conoscermi.
- Sei brava. Ma io non sono un tipo che si arrende.-
- Non so di che parli.-
- Parlo del fatto che mi piacerebbe uscire con te. –
- E dato che il tuo ego occupa la terza sedia a questo tavolo, non ti sei chiesto se piacerebbe anche a me, giusto?-
- Ahi!- fa finta che gli abbia tirato uno pugno. – Ci vai pesante eh?!-
- Già. Quindi fatti un favore: lasciami perdere.- mi alzo e mi incammino verso la segreteria.
Sono le undici, l’ufficio ha aperto ormai. Prendo il mio foglio e torno a casa.
 
E’ ormai pomeriggio inoltrato, mio padre è tornato ha pranzato e mi ha chiesto tre volte di chiamare il Dottor Gatto. Poi si è addormentato. Prendo il telefono, devo telefonare a mia cugina più piccola: ha passato il test per entrare alla facoltà di Medicina e devo congratularmi.
Le voglio molto bene, forse perché con una sorella che prende tutti trenta a economia da due anni, ha provato anche lei cosa significa sentirsi denigrate e sempre paragonate a qualcuno.
Parliamo per un po’, m’invita a casa sua, ma devio: vive col suo fidanzato da qualche mese, non mi sembra proprio il caso di portare il mio bagaglio di frustrazione e cupezza da loro giovani e felici.
Poco dopo mi chiama anche la mia ex migliore amica, conto i giorni sul calendario: certo, sono passati sette giorni dall’ultima volta, è svizzera la ragazza.
 
E’ sera e non so come mai con l’aiuto di quale santo mio padre è andato a dormire. Mi torturo un po’ con il video che avevo fatto a mia madre come regalo per la festa della mamma a quattordici anni. Guardo il balcone alla mia sinistra e osservo il buio che tanto mi affascina: amo la notte, amo le bufere, amo tutto ciò che è estremo
Penso che un piccolo salto nel vuoto potrebbe essere la soluzione a tutto, esco fuori e il gelo della sera di Dicembre mi fa venire la pelle d’oca: voglio saltare, voglio essere libera, voglio tornare da lei.
Se avessi la certezza che ad attendermi dopo lo schianto col suolo troverei lei, allora salterei senza rimpianti. Ma non lo so, e così testo aggrappata a quella parte vigliacca di me, che ancora aspetta che sua mamma venga restituita durante la notte come regalo per Natale.
“Tanti auguri, principessa, hai un’altra possibilità!”.
A fermarmi forse non è solo quello però: io non voglio essere solo un’altra pagina di cronaca che riempie per un mese i quotidiani, fino a quando la prossima ragazzina non viene stuprata o uccisa o il millesimo bambino muore per la malasanità. Non voglio essere la chiacchiera sulle labbra della gente.
Torno in camera e mi butto sul letto, sposto i pupazzi che mi danno fastidio sotto le gambe e accendo la tv. Guardo un episodio della mia serie preferita e penso che ci scriverò una fan fiction per dare un finale diverso. Spengo, sono annoiata, mi sento sola.
M’infilo le cuffiette del cellulare e faccio partire la musica. Parte la canzone “Principessa” e i ricordi sono di nuovo lì e mi fanno cenno di avvicinarmi.
Mi arrendo.
 
Era una giornata felice, una di quelle che capitava raramente. Mi ero svegliata allegra mi era sempre bastato poco per sentirmi felice, forse perché non conoscevo sul serio il senso di quella parola. Ero stata gentile con mio padre, l’avevo perfino abbracciato, avevo chiacchierato con lui. Era domenica e ci eravamo seduti tutti sul divano a scherzare. Mia madre rideva, anche lei serena per quanto possibile. Mi sentii ispirata e corsi in camera mia. Volevo scrivere o forse temevo il momento in cui gli sguardi dei miei mi avrebbero indagato con un interrogativo scritto a lettere cubitali: “Perché non hai amici con cui uscire?”. Così scappai.
Loro continuarono a parlare tranquilli ed io mi persi nelle mie storie. D’un tratto poi li sentii discutere. In genere, da quando mio padre si era “calmato” era mia madre ad alzare la voce e a sgridarlo. Quel giorno però sentii lui dire “Non gridare, stai zitta,  non vorrai mica che torniamo a come eravamo prima?”. Una minaccia velata che mi fece ribollire il sangue nelle vene.
La cosa che più mi faceva incazzare e mi spingeva ad odiarlo era il fatto che lui non avesse mai capito il male che ci aveva fatto e si permetteva anche di minacciarci su una cosa del genere, invece di implorare perdono ogni giorno.
Quel giorno fu l’ultimo in cui lo abbracciai. La sera litigai con mia madre.
-          Come puoi permettergli di dirti certe cose?-
-          Quali cose?-
-          Lo sai. -
-          Tu ce l’hai con lui ora. Ogni cosa che dice, sei pronta a dargli addosso.-
Non dissi più niente, ma smisi di raccontare anche a lei tutto quello che provavo.
 
 
Il telefono di casa prese a squillare, ridestandomi. La musica si era arrestata ma avevo ancora le cuffiette. Guardo l’ora: le otto e mezzo. Cavolo!
- Pronto?-
- Ciao.-
- Ancora?! Ma non hai una vita?- sbotto. Di nuovo lo stalker.
- In effetti credo di essere un po’ sfigato, ma anche tu lo sei!- mi prende in giro.
- Ah grazie, bel modo di ingraziarmi!-
- E’ vero: sei sempre sola a lezione, non socializzi, non hai amici all’Università. –
- Bravo, quindi avrai anche capito che non voglio nemmeno te come amico.-
- Non voglio essere tuo amico.-
- Nemmeno mi conosci!-
- Non me ne dai modo. –
- Questo non ti dice niente? –
- Che sei difficile.-
- Credevo fosse assodato.-
- Concedimi un’uscita. Dove vuoi, quando vuoi. Decidi tutto tu. -
- No!-
- Perché no?-
- Non ti conosco!-
- Nemmeno le tue amiche conoscevi prima no?-
Cosa devo rispondergli? Non ho amiche? Passo le giornate chiusa in casa?
-          Touché- dico invece.
Lui ride. – Allora?- mi chiede. – Domani sera?-
- Non posso, ho un esame Giovedì.- ometto di dirgli che ho già studiato tutto, anche se è Lunedì.
- Va bene, Martedì.-
- Stessa motivazione.-
- Venerdì. L’esame lo hai fatto.-
- Si sposa mia cugina.- mento.
- Posso accompagnarti?-
Scoppio a ridere. – Addirittura?-
-          Almeno ridi! Ho capito, stai cercando di farmi demordere!-
-          Ma no, che dici!- faccio sarcastica. – Guarda, se me l’avessi detto prima, ti avrei detto stasera!- lo prendo in giro.
Me ne pento all’istante perché gli leggo nella mente quello che sta per dire.
-          Sto arrivando.-
-          Che? Scherzavo!-
-          Io no, vestiti o vieni in tuta, basta che scendi di casa. –
-          Tu sei pazzo, io non mi muovo di qui.-
-          Come preferisci, vorrà dire che staremo da te. -
-          C’è mio padre. –
-          Stiamo andando un po’ di corsa ma va bene, sarò contento di conoscerlo.-
Rimango zitta a bocca aperta. M’indispone questo tipo, così deciso, troppo.
-          Io non vengo.-
-          Mi attacco la tuo citofono.-
-          Non sai dove abito.-
-          Non fare la stupida, sai che lo so.-
-          Non darmi della stupida!-
-          Senti, possiamo continuare a litigare dal vivo? Sono lì tra mezz’ora, a te la scelta: svegliare il palazzo o venire a fare un giro con me.- riaggancia.
Mi ha riagganciato in faccia. Sono incazzata nera. Eppure mi alzo e apro l’armadio. Prendo un jeans e un maglioncino pesante. Fortuna che ho già fatto la doccia!, penso tra me. E mi vergogno di me stessa. Sembro una quattordicenne: superficiale e irresponsabile. Uscire con un tipo che nemmeno conosco, finirò a pezzi in un frigorifero. E forse è questo che mi spinge ad accettare. Magari corro rischi perché voglio le conseguenze, perché non do più valore alla mia vita.
Mi metto il correttore e il mascara, m’infilo il burro cacao in tasta insieme al cellulare e alle chiavi.
Non uso mai la borsa. Prendo una banconota da cinquanta euro e mi siedo in cucina.
Lo sto facendo davvero? Mi alzo, sono pazza, vado cambiarmi. Mi sto già sfilando il maglione, quando ci ripenso. Torno in soggiorno e cammino su e giù. Mi squilla il cellulare e sussulto: è il mio ex. Cazzo  che ha le antenne? Lo ignoro.
Mi affaccio alla finestra che da sulla strada senza farmi vedere, nascosta dalle tendine arancioni: scruto la notte, possibile che sia venuto davvero?
Ma no, penso, avrà voluto prendersi gioco di me.
Mi sento umiliata, poi sento una macchina accostare. Mi affaccio, l’auto si ferma.
Pochi attimi dopo squilla il fisso. Col cuore a mille rispondo. – Pronto?-
-          Sono sotto casa tua.-
-          Hai preso anche l’indirizzo all’Università?- faccio scocciata.
-          Ovvio. – ride.
-          Potrei denunciarti, verresti espulso.-
-          Okay, scendi ti accompagno alla polizia.-
Esasperata, riaggancio. Lascio un biglietto a mio padre, anche se so che non si sveglierà prima delle cinque di domani.
Esco e in ascensore ho mille ripensamenti. Inoltre ho sempre odiato gli “arrivi”. Non mi piaceva essere quella che arriva, preferivo essere già sul posto dell’appuntamento e aspettare chi doveva arrivare. Almeno non potevo inciampare e fare figure di merda.
Sono sul marciapiede e lo vedo subito, anche perché è fuori dall’auto e si sbraccia per farsi riconoscere. Mi viene subito da fare un paragone col mio ex, che mi aspettava in auto mentre io lo cercavo. Faccio finta a posta di non vederlo e lui suona il clacson.
- Shhhhhhhhh!- faccio, raggiungendolo. – Sei cretino?!-
- Stai bene, sei carina.- mi dice. Il mio ego vorrebbe prenderlo a schiaffi. Solo carina?, pensa.
Chi se ne frega, nemmeno mi piaci, penso.
Lui me lo legge in faccia e quasi ho paura: sembra conoscermi da una vita.
- Sei più che carina, ma se te lo dico poi dovremmo stare attenti anche al tuo di ego. C’è già il mio ricordi?- mi dice, mentre mi apre la portiera.
Mi fa ridere, non posso farci niente. – Lì non ci salgo.- dico.
- Che?-
- Non ti conosco, non salgo in auto con te. –
Lui mi guarda allarmato. – E’ Dicembre, non possiamo andare in giro a piedi!-
- Partendo dal presupposto che io non volevo andare in giro e poi perché no?-
Mi fissa a occhi socchiusi. – Bene! Spero che gelerai!- mi dice, facendomi una smorfia.
Ricambio.
Sale in auto e parcheggia, mette l’antifurto e mi allunga il braccio. – Andiamo?-
Lo ignoro e m’incammino. Mi segue scuotendo la testa. – Mi terrai il muso per tutta la sera?-
-          Probabile.-
-          In questo caso dovrò tirar fuori il mio repertorio di barzellette per farti ridere.-
-          Oh, oh. -
Parte a raccontarmi scenette assurde che più che ridere fa pietà.
- Non sono un gran comico, lo ammetto.-
Siamo arrivati a un piccolo giardino con le giostrine arrugginite, gli alberi spogli e le aiuole rovinate. Sembrava lo specchio di me stessa.
Ci sedemmo sulle panche di pietra ghiacciate. Mi strinsi nel cappotto pesante, sottraendomi al suo sguardo.
-          Ti va di parlare con me?- mi chiese con dolcezza. Lo guardai, ero abituata alle sue rispostine da sbruffone provocatore, quel tono era roba nuova per me.
-          Va bene. Di cosa? –
-          Di te. -
-          No. Parliamo di te. -
-          Cosa vuoi sapere?- mi dice. Ma lo vedo più teso. Allora nemmeno a te piace essere sondato, penso.
-          Quanti anni hai?-
-          Ventiquattro.-
-          Che studi?-
-          Legge, come te. -
-          Non ti ho mai visto ai corsi.-
-          Perché non ti guardi mai intorno.- mi sorride.
Non ho i guanti, così m’infilo le mani in tasca, sono gelate. Anche il mio naso è gelato.
-          Che liceo hai fatto?-
-          Scientifico.-
Faccio una smorfia. – Cosa? – mi chiede lui.
-          Odio la matematica.-
Mi guarda allucinato come se avessi detto un’eresia. – Non dirmi che sei uno di quei fissati con i numeri.- dico.
-          In questo momento mi sto trattenendo dal mollarti qui!- mi prende in giro.
-          Sei figlio unico?- chiedo. Vedo i suoi occhi saettare in giro, nervosi e sfuggenti.
-          Sì. – la sua voce è un sussurro.
-          Vivi con i tuoi?-
-          Con mia madre.-
-          Quanti esami ti mancano?- devio e lo vedo sollevato. Si rilassa.
-          Due e la tesi.-
-          Beato te!-
-          Pensavo di inscrivermi a ingegneria dopo.-
Lo guardo scioccata. – Scherzo!- ride di me.
Gli faccio una smorfia.
-          Sei ricco?-
Scoppia a ridere e quasi cade dalla panca. – Non puoi chiedere certe cose alla gente!-
-          Perché no? Non ti ho mica chiesto se giochi col tuo amichetto ogni tanto!-
Mi guarda a bocca aperta, io alzo le spalle.
-          Sono benestante, non ricco.-
-          Benestante è ricco.-
-          No, altrimenti si usava lo stesso termine.-
Lo ignoro.
-          Finito il terzo grado? – mi chiede.
-          Si. -
-          E?-
-          Cosa?-
-          Non hai commenti acidi da fare?-
-          Sei un commento esplicito da solo.-
-          Che stronza!-
-          Touché- lo imito, facendolo ridere.
-          Tocca a me allora.-
-          Non sono obbligata a rispondere.-
-          Ma io l’ho fatto.-
-          Ma io non ti ho obbligato.-
-          Stronza due volte.-
-          Al terzo ti mollo qui.-
Scuote la testa esasperato. – Okay, vediamo, so quanti anni hai. So che hai fatto il pedagogico.-
-          Tutte informazioni ottenute illegalmente.- sottolineo.
Fa un gesto con la mano per liquidare la questione come se nulla fosse. – Dettagli.- dice.
-          E studi legge! I dettagli sono fondamentali.-
-          Pignola.-
-          Stalker. –
-          Uffa! Mi toglierai mai questo marchio di dosso?-
-          Non credo.-
-          Sei figlia unica?-
-          Si. –
-          Sei ricca?- mi chiede ridendo.
-          No, per niente.-
-          Scusami, non volevo essere insensibile.
-          Non ti ho detto che mi è morto il cane. –
Si mette le mani nei capelli. – Hai una scorta di sarcasmo nel giubbotto?-
-          No, mi è stato impiantato direttamente nel cervello.-
-          Mi piaci.- mi dice. Rimango a guardarlo perplessa.
-          Cosa?-
-          Mi piaci. Mi piace che sei così, che sei stronza ecco.-
Mi viene da piangere perché lui non sa niente di me. Io non sono stronza, non sono cattiva. Sono una ragazza di ventidue anni, bloccata all’età di diciassette, con tutte le paure e l’innocenza di una dodicenne. Mi alzo.
-          Devo andare.- dico.
-          Che succede?-
-          Non sarei dovuta venire.- parto a razzo e vado verso casa, lui mi segue, trotterellando per raggiungermi. Mi ferma, prendendomi un braccio.
-          Se ho detto qualcosa…mi dispiace, non volevo offenderti.-
Lo ignoro e continuo a camminare, raggiungo il palazzo in cui abito. Lui mi guarda, ferito.
-          Ascolta sei simpatico e sei bello, sul serio. So che sembra un cliché ma non sei tu. Puoi avere mille altre ragazze, ne sono sicura. Sono certa che ci sono file di “stronze” bellissime che non aspettano che te. Se fossi stata un’altra….se fosse stato qualche anno fa…- mi blocco. – Mi dispiace, lasciami perdere.- infilo il portone e corro su per le scale.
Entro in casa, mio padre dorme ancora. Scoppio a piangere perché Andrea lo stalker mi piace, ma io non sono una ragazza normale e non posso trascinare anche lui negli abissi del mio inferno.
Corro a letto vestita, mi spoglio sotto le coperte. Cerco di prendere sonno ma il mio cellulare mi fa sussultare. Ho un sms: è finito il credito?
“Sei l’unica stronza bellissima che m’interessa avere come cliché.”, leggo.
Sorrido e rinuncio a chiedermi come ha avuto il mio numero di cellulare.
 
 
Finalmente ho dato il mio ultimo esame dell’anno 2012. Amen. Ora devo aspettare Gennaio e la cosa mi rende euforica! Passo a trovare i genitori di mio padre a casa loro, mi apre la porta una delle mie cugine. Ho sempre amato ciecamente mio nonno, sebbene fosse stato come marito e padre la copia sputata di mio padre. Ho ammirato e amato mia nonna e lo faccio tuttora, soprattutto perché lei è sopravvissuta. Scaccio via il pensiero ed entro. Mio nonno è bloccato a letto, non gli funzionano più le gambe.
Lo saluto e chiacchieriamo, lui mi adora perché tra i suoi tre figli solo mio padre è identico a lui ed io sono l’unica delle sue cinque nipoti ad aver passato una vita di merda, una vita di precarietà totale.
Il suo orgoglio nel vedere il mio libretto universitario mi da un po’ di gioia, ma è l’orgoglio di un’altra persona che cerco, di qualcuno che non potrà mai più provarlo.
Torno a casa e mio padre è già sul divano. Ho tardato all’Università ma tutto era già pronto per il suo pranzo.
- Mi metti un film?- mi chiede appena entro, nemmeno mi lascia togliere il cappotto.
Vado in camera sua e accendo il televisore e il dvd. – Metti il dischetto.- gli dico, visto che mi ha seguito. Esegue, faccio partire ed esco chiudendo la porta.
Non ho fame, mangerò direttamente a cena, decido.
Accendo il pc e leggo le mail, controllo il profilo, nessuno mi pensa. Non mi sorprende, nessuno sa che esisto. Se non fosse perché scendo almeno una volta alla settimana per l’Università e per la spesa, il mondo di dimenticherebbe che esisto.
Squilla il cellulare. E’ la mia ex amica, decido che non ho voglia di sentirla. Di rapporti finti ne faccio a meno. Non insiste, segno di quando aveva desiderio e teneva a parlare con me.
Accendo la tv e mi butto sul letto, c’è il telegiornale delle sei. I fatti di cronaca scorrono sullo schermo, seguiti dalla trecentesima smentita sulla gravidanza della principessa inglese.
Ascolto distratta, finché non arriva la notizia di una giovane madre che è saltata giù da una finestra stringendo tra le braccia la figlioletta. Ma magari mia madre avesse fatto così! Saremmo insieme ora. Invece io sono qui sola. Sono sempre stata sola e quando piangevo nel buio della notte prima perché sentivo la solitudine divorarmi sapevo di trovare le sue braccia. Ora no.
-          Pronto?- rispondo al cellulare, assonnata.
-          Dormivi?-
-          Ci provavo.-
-          Vuoi che ti richiami dopo?-
-          No, no va bene.-
Parlare con lui mi piace, sebbene sappia quasi tutto di Andrea, mentre lui ignora tutto di me.
Ho il terrore di non sentirlo per giorni, quando una sera non mi telefona.
Ci siamo visti altre due volte dal primo incontro, non siamo mai andati oltre una chiacchierata.
Però sono salita sulla sua macchina da “benestante”. Abbiamo parlato anche di questo, di soldi.
Gli ho raccontato senza vergogna che abbiamo sempre dovuto arrangiarci a casa mia e che se non fosse stato per i miei nonni e per uno zio a volte davvero non avremmo saputo come fare.
Sebbene lui non abbia mai avuto di questi problemi, mi è sembrato molto solidale.
Mi ha raccontato dei suoi amici e del suo cane, del desiderio di diventare avvocato e dei sogni di aprire un ristorante.
“Ho sempre detto che avrei sposato un cuoco!”, avevo scherzato. Poi però mi era tornata in mente mia madre.
 
-          Ci  verrà mal di stomaco, guarda, ne sono sicura.- mi aveva detto, ridendo.
-          No, invece, è buonissimo!- avevo ribattuto. Amavo mangiare, me ne sbattevo della linea.
Dolci, rustici, primi piatti, amavo mischiare tutto, sebbene a molti facesse schifo. Non ero grassa, anche se talvolta dovevo frenarmi per perdere qualche chilo di troppo, ma niente di eccezionale.
Mia madre era golosa come me, ma aveva la fortuna di essere magra quanto un’acciuga.
Io adoravo fare dolci, facevo torte di tre piani, composizioni di ogni tipo. Lei era la mia assistente che non serviva a niente in pratica. Forse perché ero convinta di essere sempre più brava di tutti e che fare da sola era la cosa migliore. Era il suo compleanno e le avevo preparato una mega torta.
-          E’ bellissima. Grazie.- mi aveva abbracciata. Io l’avevo stretta, come adoravo stare nelle se braccia. Spesso mi ritrovavo a pensare “Come farei se non l’avessi più”? Mai avrei creduto che potesse succedere realmente.
-          Non possiamo saltare la cena e andare direttamente al dolce?- le chiesi, prendendola in giro.
-          Quest’ attaccamento al cibo è nocivo! Povero tuo marito!-
-          Se mai mi sposerò, sarà con un cuoco!- risi.
 
 
-          Finalmente sei in pausa. Contenta?-
-          Sì, molto.-
-          Domani ci vediamo? Ho qualcosa per te. -
Domani sarà il mio compleanno. – Andrea, ti ho detto niente regali, niente sorprese, niente di niente.-
-          Shhh. A domani, buona notte.- mi riaggancia in faccia.
Lo detesto, mi fa una rabbia!
L’ultimo compleanno che ho festeggiato è stato il diciottesimo. E’ stato anche l’ultimo al quale mia madre era presente.
Mi rigiro nel letto, scatta la mezzanotte. Una volta, quando ero la reginetta infelice del campetto, a quattordici anni, a quell’,ora i messaggi degli amici si accavallavano, quasi facevano a gare per chi dovesse mandarmi l’sms più bello o chi dovesse telefonarmi per primo.
Sono le tre, mi arriva un messaggio. “Buon compleanno, ti voglio bene.”, mia cugina minore.
Le faccio uno squillo.  Pochi minuti dopo mi addormento. Mi sveglio alle nove, sento rumori in cucina. Mi alzo e controllo il cellulare: una chiamata persa, i miei nonni.
Esco dalla mia stanza e  mio padre mi viene incontro. – Buon compleanno, principessa.- mi abbraccia e mi da un bacio, io mi sottraggo presto. M’indica un pacco sul tavolo, lo apro è un libro. Almeno un po’ mi conosce. – Grazie mille.- dico.
Faccio il caffè, mentre lui mi ronza intorno, allegro.  – Stasera esci a festeggiare?- mi domanda.
-          No. - rispondo.
-          Allora viene qualche tua amica qui?-
-          No. –
Sembra perplesso. Non mi capisce, ha timore che io sia diventata asociale, che abbia allontanato tutti proprio come lui.
-          Chiamo la nonna, ha telefonato prima.- dico, dileguandomi.
I miei nonni urlano forandomi un timpano, sono sordi entrambi. Li ringrazio urlando anch’io.
Il messaggio della mia ex amica arriva a mezzogiorno, quando sono già intenta a preparare il pranzo. Ho pulito casa tutta la mattina, per tenermi impegnata.
Entro su internet e leggo gli auguri di sconosciuti, rispondo con un “grazie” a tutti.
Sono le quattro e Andrea mi telefona. – Tanti auguri a te!- canticchia.
-          Grazie.- rido.
-          Allora, stasera: cosa vuoi fare?-
-          Niente.-
-          Andiamo! E’ il tuo compleanno.-
-          Non festeggio i compleanni.-
-          Questo sì. -
-          I tuoi amici non si lamentano del fatto che non sei con loro?- non avevo mai conosciuto nessun amico suo.
-          No, sanno che quando sono con te non devono rompere.-
Sono lusingata ma non dico niente.
-          Va bene, ma niente di che. Una pizza.- concedo.
-          Perfetto! Vittoria!- esclama.
-          Ci sentiamo dopo.-
Aspetto la sua telefonata fino alle sette, poi comincio a pensare che mi ha dato buca.
Mi sento ferita, sebbene non debba: non è il mio ragazzo, né un mio amico.
O forse per me è diventato entrambe le cose?
Il cellulare squilla, è lui. Col cuore in festa rispondo.
-          Scusa, ho fatto tardi un posto. Passo a prenderti alle nove, ok?- mi dice e mi sento cattiva per aver dubitato di lui.
-          Va bene.- vorrei sapere in che posto ha tardato ma non glielo chiedo.
Mi preparo un po’ meglio del solito, scelgo un maglione rosso lungo da mettere sopra ai leggins neri. Metto gli stivali col tacco, dato che sono una nana mentre lui è alto.
Ho fatto lo shampoo e stirato i capelli, mi trucco un po’ di più, metto perfino il rossetto.
Esco in soggiorno mio padre mi guarda.
-          Sei bellissima, devi uscire?-
-          Sì. - rispondo. 
Sta per dirmi altro ma rinuncia. Mi guarda soltanto e per la prima volta leggo nei suoi occhi la lucidità e la consapevolezza. – Divertiti. Ti voglio bene.- mi dice.
Mi si forma un nodo in gola, annuisco. – Ciao, chiudi tutto.- rispondo, correndo fuori.
Lo lascio così, solo, forse quanto o più di me. E capisco solo all’ora quanto anche lui stia soffrendo, quale bagaglio di colpe e rimorsi si aggiunga alla sua pena. L’immagine di lui seduto in soggiorno nel grigiore della sera, nel silenzio che rende impossibile coprire il fracasso dei pensieri, solo come nemmeno il più infimo dei traditori mi si gela nella mente. Non riesco a pensare ad altro.
E scoppio in un pianto disperato, mentre il mascara mi cola lungo le guance. Esco dal portone e corro, sperando che nessuno mi fermi. Ma mi ritrovo tra le braccia di Andrea, che mi stringe senza chiedere niente. E crollo perché so che c’è lui a sostenermi e capisco cosa significa “amore” davvero: non aver paura di essere deboli e fragili, di rompersi in mille pezzi, perché sai che c’è qualcuno pronto ad aiutarti a ricostruirti.
Nemmeno mi accorgo che mi ha portato in macchina al riparo dal freddo e dagli sguardi morbosi delle persone alle finestre.
Sono un fiume in piena che non ha argini né dighe. Piango fino a quando non rimango senza forze, sfinita. Solo all’ora lui comincia a parlare.
-          Mio padre è morto in un incidente.- mi dice. Io lo ascolto, poggiata con il viso nell’incavo del suo collo. Respiro intanto il suo profumo che mi fa sentire così a casa che me ne vergogno: mia madre è la mia casa, è il suo profumo che dovrei cercare.
-          Era una persona onesta, un gran lavoratore. Mia madre è sempre stata cagionevole di salute e non ha mai potuto lavorare, così lui si spezzava la schiena anche per lei. Era un impiegato di una ditta di auto. Non ci ha mai fatto mancare niente. Ce la cavavamo, proprio come voi.- mi accarezza i capelli.
-          Un giorno la nostra casa è stata messa in vendita. Eravamo abitanti di case comunali, pagavamo pochissimo di fitto al mese. Poi d’improvviso eravamo nella merda: o compravamo immediatamente o correvamo il rischio di non farlo. A quel punto però c’era la possibilità che altri acquistassero la casa e il prezzo dell’affitto salisse alle stelle. Mio padre chiese un prestito in banca, ma lavorando per un privato e avendo uno stipendio basso, non aveva i requisiti per ottenerlo. Non c’erano beni nostri da ipotecare, né avevamo qualcuno che firmasse come garante. Niente garanzie niente soldi, in pratica. – mi racconta. Sono io a stringerlo ora, perché capisco che mi sta svelando la parte più intima di sé.
-          Per fartela breve mio padre si affidò a degli strozzini. I soldi arrivarono subito, la casa fu acquistata, mia madre era felice. Ma io vedevo mio padre spegnersi ogni giorno per via del lavoro convulso che faceva per pagare al più presto il debito e gli interessi. Il suo viso era scavato e solcato dalla preoccupazione. Un giorno tornò a casa con un braccio rotto. “E’ successo a lavoro.”, raccontò ridendo. Ma io sapevo la verità, sebbene avessi diciotto anni. Lavoravo anch’io, ma senza laurea non trovavo niente che mi consentisse di guadagnare chissà  cosa. Inoltre non potevo iscrivermi all’università senza chiedere dare un ulteriore peso ai miei. Un giorno notai che da casa mancavano alcuni oggetti di valore, come tra le cose di mia madre. Un mese dopo, mio padre si schiantò contro un camion in autostrada.-
Lo stringo forte a me e gli accarezzo il viso: ha le guance bagnate.
-          Si è suicidato, vero?- gli chiedo.
Annuisce. – Mi lasciò una lettera. Gli oggetti spariti erano serviti per pagare un’agenzia di assicurazioni. Una cifra alta, in modo che in caso di morte sua anche il nostro risarcimento sarebbe stato alto. Quando la polizia cercò di comprendere la dinamica dei fatti, l’auto era talmente mal ridotta che risultava impossibile provare che era stato suicidio. Mio padre morì sul colpo, almeno così mi disse la dottoressa che eseguì l’autopsia. Il risarcimento fu cospicuo, pagai gli strozzini più di quanto dovuto, per essere certo di non doverci avere mai più a che fare. M’iscrissi all’università e quei soldi mantengono mia madre tuttora, insieme alla piccola pensione di mio padre. Lei non ne ha mai saputo niente. Credo si amassero così tanto da desiderare di  vedere sempre e solo il buono l’uno dell’altro.- dice. – Cosa che reputo errata. Io credo che ti rendi conto di amare qualcuno proprio perché conosci la parte peggiore di lei ma non ti interessa. -
-          Mi spiace averti chiesto se eri ricco.-
-          Non potevi saperlo.-
-          No. –
A quel punto sono io a parlare. Gli racconto la mia vita da quando avevo quattro anni ai diciassette. Gli racconto delle violenze di mio padre, del dolore, della paura, della rabbia, dei rimpianti, della frustrazione. Gli spiego che ho messo di vivere la mia vita anni prima, quel maledetto giorno.
 
Mia madre era seduta sul divano, intenta a piegare alcuni panni lavati. Mio padre era ancora a lavoro, erano gli inizi di Gennaio, faceva ancora freddo. Io ero a scuola, sarei tornata poco dopo. L’infarto la colpì d’improvviso, senza strani dolori al braccio come accadeva di solito. Da lì un ictus le blocco il cervello, provocando la rottura di una serie di vasi sanguini e la formazione di diversi ematomi. Non ebbe il tempo di chiamare aiuto. Io rientrai a casa due minuti più tardi e subito mi allarmai per l’odore di gas nell’aria. La pentola che aveva messo sul fuoco in modo da farmi trovare il pranzo pronto al mio arrivo bolliva da molto e l’acqua era straripata, spegnendo il fornello. Corsi a spegnere il gas e mi voltai, cercandola. E la vidi. Stesa a terra con un filo di bava rossa alle labbra, gli occhi bianchi con le pupille gettate all’indietro.
Urlai e piansi e la scossi. Poi mi morsi l’interno delle guance fino a farle sanguinare mentre le giravo la testa di lato per impedirle di soffocare, se non era troppo tardi. Rifiutavo con tutta me stessa quel pensiero, corsi a chiamare l’ambulanza che arrivò otto minuti dopo.
Le tenevo la mano gridandole di non lasciarmi, cominciarono a entrare persone del palazzo in cui abitavo. Qualcuno cercò di staccarmi da lei ma lo spinsi via con una forza incredibile.           Qualcuno chiamò i miei zii che arrivarono all’ospedale da dove lavorarono, qualcun altro salì in ambulanza con me. All’ospedale mi staccarono a forza da lei e non ebbi sue notizie fino alla sera.
Mio padre arrivò dopo un’ora, mia nonna dopo due. La mia ex amica dopo tre.
Ogni ora portava da me persone diverse ma mai l’unica che volevo vedere e stringere.
La sera qualcuno mi disse di andare a casa, io risposi “vaffanculo”.
Un’infermiera mi convinse a prendere una brandina ma non dormii per niente. Mia madre era in terapia intensiva. Fu una settimana lunga e grigia, non mi mossi da lì nemmeno un istante.
Manda a puttane la scuola, nessuno poteva obbligarmi a fare niente: ero maggiorenne.
Le mie zie mi portavano vestiti delle mie cugine ed io mi lavavo nei bagni dell’ospedale che odoravano di disinfettante.
Dieci giorni dopo, un medico ci disse che mia madre aveva subito danni irreversibili al cervello. Non respirava da sola ed era una macchina a nutrirla e tenerla in vita.
Non si sarebbe più svegliata. Ma c’era di peggio.
Il medico voleva il permesso di staccare la spina. Pensai che se mio padre l’avesse dato l’avrei ucciso con le mie mani. Era mia madre e avrebbe trovato il modo di tornare da me. Mi amava sopra ogni cosa, di un amore assoluto.
“Non è suo padre che deve dare il consenso. Sua madre aveva fatto richiesta esplicita che in una circostanza del genere, se lei avesse raggiunto la maggiore età, fosse lei a decidere.”, mi disse un medico.
Rimasi senza parole, annientata completamente. Sapevo perché l’aveva fatto, più volte guardando film o leggendo libri in cui accadevano cose del genere mi diceva “io voglio che nel caso mi stacchino la spina”. Sapeva che io non avrei avuto il coraggio di non assecondare il suo volere, mentre mio padre era un debole e non ce l’avrebbe fatta.
“Voglio vederla.”, dissi, categorica. Il medico assentì e fui portata nella terapia intensiva che ospitava altri quattro letti  oltre al suo.
Mi accomodai accanto a lei, fu straziante. Le parlai, la implorai di tornare da me, la scossi e finì per avere un rimprovero: non dovevo gridare.
Mi stesi sul letto accanto a lei e forse feci talmente pietà alle infermiere e ai medici che mi lasciarono lì, sebbene mi diedero una mascherina e mi ordinarono di non toccare nulla.
La mattina dopo, firmai i documenti per arrestare i trattamenti.
 
Andrea mi abbraccia mentre tra le lacrime ripercorro il dolore che ha straziato la mia vita fino a rendermi un involucro di carne senz’anima.
-          E’ stata colpa nostra, mia e di mio padre: lui l’ha distrutta anno dopo anno, lavorava senza fatica mentre lei sudava giornate intere, la tormentava psicologicamente con la sua nevrosi. L’ha fatta crollare ed io ho fatto di peggio: non l’ho capita, non l’ho aiutata, sono stata solo un ulteriore peso per lei. Non l’ho mai aiutata in casa, non l’ho mai compresa…sono stata bastarda come lui, ho pensato solo a me stessa. E lei si è rotta, come una bambola di porcellana. Davanti ai miei occhi.- piango. Lui mi stringe. – Hai passato gli ultimi cinque anni ad accusarti di qualcosa per la quale non hai colpa. Ti sei isolata, hai solo ventidue anni. Tua madre sarebbe furiosa con te. - mi dice.
-          Io sono furiosa con lei, perché mi ha lasciata sola. Completamente. Avevo lei, capisci? Quando non avevo più nessuno cui importasse di me, avevo lei. E ora no. Ora no. - singhiozzo.
-          Smettila di dire così, hai me. Ti amo, possibile che non lo hai capito? So di non essere nemmeno un grammo di quello che tua madre era e continuerà a essere per sempre per te, ma non dire che sei sola. Non nasconderti, hai respinto tu gli altri, li hai allontanati tu. –
-          Nessuno ha lottato per restarmi accanto.-
-          Io lotterò per sempre, fino a che avrò vita. So che non mi credi, ma te lo dimostrerò. Lotterò sempre per starti accanto, perché ti amo e voglio riempire questi cinque anni di vuoto e poi riempire tutti gli anni che verranno. – mi dice ed io mi nascondo sul suo collo.
Mi ama? Mi sento leggera. Forse perché per la prima volta dopo anni ho confessato tutto, sono libera da tutti i pesi e i rimpianti e i rimorsi che mi portavo dentro. Perché posso piangere e gridare al mondo quanto sto male e quanto mi manca mia madre e ho capito che non c’è vergogna in questo.
Perché tutti i sensi di colpa che ho dentro non se ne andranno mai, ma posso affrontarli invece che lasciare che mi dominino.
-          Io ho annientato mio padre in questi cinque anni. Sono stata perfida, una vera bastarda.-
-          Non è mai troppo tardi per ricominciare. Vieni con me.- esce dall’auto e tira fuori anche me che sto in piedi solo grazie a lui.
Apre il cofano dell’auto ed io lo osservo, senza capire. Si piega lì dentro e armeggia con qualcosa, quando torna dritto in piedi vedo un piccolo albero di Natale che scintilla con mille luci.
Gli avevo detto che non facevo più l’albero da anni.
-          Questo è il tuo albero, non m’interessa se non lo vuoi. E se mi lascerai fare sarò il tuo assistente in tutti i giorni dell’Immacolata dei prossimi cento anni, quando decoreremo casa tua e poi casa mia.- mi dice.
Lo guardo e guardo l’albero e piango. E di slancio mi sollevo sulle punte e lo bacio, un bacio salato e bagnato. Non so baciare, mai saputo fare, col mio ex avevo sempre timore di non essere brava così sfuggivo ogni volta. Ma con Andrea è tutto diverso, le nostra labbra si accarezzano dolcemente, tutto mi viene naturale.
-          Mi ami anche tu allora?- mi domanda, con aria smarrita, timoroso di un mio “no”.
-          Ti amo.- rispondo, frenando le risposte sarcastiche per un momento. – Andiamo.-  lo tiro verso il palazzo di casa.
Lui s’immobilizza e io torno indietro come una molla, sbattendogli contro. – Che c’è?-
Tira fuori un pacchetto dalla tasca del giubbotto. – Buon Compleanno.- mi dice, stampandomi un nuovo bacio al quale mi sottraggo. Lui sospira, pronto a litigare.
-          Niente regali, quale parte non ti era chiara?-
-          Da oggi hai smesso di non festeggiare, al costo di litigare ogni anno. -
Penso a mia madre e non so perché la immagino mentre ride. Direbbe che Andrea è un povero malcapitato che avrà l’onore e la fortuna di sopportarmi.  Sorrido e scarto il pacchetto.
Mi ha regalato un libro. M’illumino. – Grazie, grazie, grazie!- saltello, sono di nuovo bambina, sono di nuovo me stessa, ho di nuovo sedici anni.
Andrea mi ha ridato l’infanzia, la vita.
Lo trascino a casa mia. Mio padre si è addormentato sul divano, Andrea è impeccabile nell’ignorare l’imbarazzo e farmi sentire a mio agio.
-          Hai pianto?- è la prima cosa che mio padre mi chiede, quando lo sveglio.
-          Sì, devo presentarti una persona.- gli dico, sorridendo.
Accendo tutte le luci e finalmente casa mia torna a colori. Mio padre si mette in piedi, mi guarda spaesato come un bambino. Lo abbraccio. – Ci vorrà del tempo.- sussurrò, lui non mi segue ma è felice. Mi stringe.
- Lui è Andrea.- dico. – Andrea lui è mio padre.-
Si stringono la mano, poi mio padre comincia a riempirlo di domande. Credo gli piaccia, me ne accorgo perché lo fa accomodare, gli offre da bere e mi dice “Vedi se vuole qualcosa, fai posare ad Andrea il cappotto, Andrea e così stai per laurearti…”.
Li guardo nascosto nell’angolo di cucina dal quale mia madre ci osservava, sono me e lei insieme, sento la sua presenza che mi avvolge in un abbraccio.
Sistemo l’alberello in soggiorno e la vedo passarmi accanto sorridente.
Finalmente ho capito, ora:  andare avanti non significa aver dimenticato, aver cancellato, aver smesso di amare: significa solo aver rinunciato, essere stanchi, desiderare di stare bene.
Pentirsi di una scelta non equivale a compromettere l’intero percorso della vita, ma semplicemente aver fatto una piccola deviazione lungo la strada.
Ti amo così tanto mamma, mi mancherai sempre, in ogni istante della mia vita.
Guardo Andrea, un nuovo mondo di promesse e amore e poi mio padre, il passato che può tornare presente, stavolta privo di drammi e dolore.
Manca solo lei, ma la sento viva dentro di me: sarò per te tutto quello che desideri, sarai fiera e orgogliosa di me e quando verrai a prendermi, ti aspetterò senza paure.
Lascerò questa vita con la dignità con cui l’hai lasciata tu, ma soltanto quando tu verrai a cercarmi, non prima. Sei tu a vegliare su di me, mamma ed io onorerò la vita che mi hai dato.
Mi metto a preparare la cena, mentre loro chiacchierano di tutto e niente.
Asciugo le lacrime che mi scendono ribelli sulle guance e il vento mi aiuta, sfiorandomi il viso.
Mi guardo in giro: non ci sono finestre aperte.
 
  
Leggi le 3 recensioni
Ricorda la storia  |       |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Torna indietro / Vai alla categoria: Storie originali > Introspettivo / Vai alla pagina dell'autore: Angye