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Autore: Kwaku Ananse    29/10/2012    2 recensioni
"In una mattina più buia e fredda delle altre, la nebbia si era alzata sul nuovo villaggio, scura e soffocante, rendendo gli animali inquieti e gli uomini cupi e silenziosi e per tutto il giorno aveva indugiato sulle pareti degli edifici, sul bordo del fiume, tra gli arbusti del sottobosco, rendendo difficile l'orientamento, mentre strane sagome sembravano comparire e scomparire, appena oltre lo sguardo. Molti dei più intuitivi capivano che qualcosa non andava, ma ormai era troppo tardi per rimediare.
Nella notte, la nebbia era comparsa di nuovo attorno al grande focolare morente al centro del villaggio, gelida, mobile, come viva. E come viva si contorse, mutò si allungò. Comparve una testa dalla folta chioma, due esili braccia, uno scettro carico di autorità e prima che i profughi potessero veramente accorgersi di ciò che stava succedendo, davanti a loro era comparsa una regina."
E' la prima storia che pubblico su efp quindi sono un po' emozionato. Ovviamente pareri e consigli sono sempre ben accetti!
Genere: Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Il Cuore di ghiaccio, o dell'ingratitudine:

 

C'era una volta, in una terra lontana lontana, al di là delle mappe, e delle trafficate strade del mondo, una valle fresca e verdeggiante, coronata da alte moltagne, le cui vette aguzze rimanevano candide perfino nei mesi più caldi dell'estate, attraversata per tutta la sua lunghezza da un fiume azzurro, brillante di pagliuzze d'oro sotto i raggi del sole e il suo corso era sempre abbondante e il suo letto non si seccava mai così che c'era sempre abbondanza di acqua, la terra non sentiva mai il peso della siccità e gli abitanti praticavano con gran profitto l'agricoltura e l'allevamento del bestiame. Inoltre, poichè i boschi erano ricchi di facile selvaggina e piante commestibili, traevano sostentamento anche da essi, e mai, a memoria del più vecchio degli anziani, si erano trovati a patire duramente la fame.

Ma chi erano, dunque, gli abitanti di questa ricca terra? Uomini e donne che vi si erano insediati molte generazioni prima, risalendo con grande pericolo i passi rocciosi e infidi e le tortuose strade di alta montagna, patendo molte privazioni e lasciando dietro di sé molti cari, che seppelliti in fretta prima di riprendere il loro duro viaggiare.

Fuggivano dalla guerra, la guerra che brucia i campi, che distrugge le case, che genera vedove e orfani, che rende gli uomini schiavi, la guerra che li inseguiva per ricondurli nel suo gorgo.

Da molti che erano appena partiti, ben pochi erano giunti alla valle nascosta sulle più alte giogaie, coronate da picchi d'argento, e quei pochi si erano inginocchiati a terra e, piangendo, avevano reso lode al cielo, per il paradiso che stavano contemplando e, con rinnovato vigore, erano penetrati nel nuovo mondo.

Meravigliati e attoniti da tanta bellezza, si erano raccolti nei pressi dell'ampio rivo e lì si erano riposati dalle loro fatiche, bevendo l'acqua fredda fino a farsi venire mal di testa, cacciando e raccogliendo funghi e radici sotto gli alti alberi tutt'attorno e, dopo essersi riposati, avevano iniziato a esplorare la terra appena scoperta.

Ogni cosa in quel luogo sembrava accogliente, un invito a fermarsi e una promessa di prosperità.

Solo un luogo riusciva a turbare la rinnovata speranza dei profughi: nella parte più remota della valle, vicino alle sorgenti del fiume, le montagne, normalmente coperte di irsuti cespugli e fiori delle rocce, diventavano nere e spoglie alzandosi come una parete cupa e verticale, gettando un'ombra sinistra sui prati sottostanti, mentre le vette erano perennemente avvolte da una nebbia grigia e pesante. Una macchia in un dipinto pur sempre splendido, per cui nessuno vi aveva prestato più attenzione, preferendo concentrarsi sul resto che la natura aveva da offrire.

Il sole era sorto e disceso una volta, e poi ancora e ancora, finché molti giorni non erano passati. I profughi erano divenuti coloni e, in attesa dell'autunno ormai incombente, avevano dissotato larghe fasce di terreno nei pressi del fiume e costruito robuste case di legno coi tronchi degli alberi.

In una mattina più buia e fredda delle altre, la nebbia si era alzata sul nuovo villaggio, scura e soffocante, rendendo gli animali inquieti e gli uomini cupi e silenziosi e per tutto il giorno aveva indugiato sulle pareti degli edifici, sul bordo del fiume, tra gli arbusti del sottobosco, rendendo difficile l'orientamento, mentre strane sagome sembravano comparire e scomparire, appena oltre lo sguardo. Molti dei più intuitivi capivano che qualcosa non andava, ma ormai era troppo tardi per rimediare.

Nella notte, la nebbia era comparsa di nuovo attorno al grande focolare morente al centro del villaggio, gelida, mobile, come viva. E come viva si contorse, mutò si allungò. Comparve una testa dalla folta chioma, due esili braccia, uno scettro carico di autorità e prima che i profughi potessero veramente accorgersi di ciò che stava succedendo, davanti a loro era comparsa una regina. Era alta, più di molti maschi robusti della comunità, pallida di incarnato, gli occhi grigi e severi, vestiva un lungo, regale abito bianco, lungo, della più pura seta, avvolto nei più ricchi pizzi, ricamato di perle e sottili fili d'argento, un sottile cerchio di ghiaccio le circondava la fronte e i suoi capelli erano candidi, sebbene il suo volto fosse quello di una donna ancora giovane, tra le mani stringeva un bastone della sua stessa altezza: sembrava di pallido ghiaccio, duro, di alta montagna, come la corona, e come quella non sembrava sciogliersi al calore dei fuochi serali, né al tiepido tepore di fine estate; sulla sommità dell'asta, un cristallo irregolare brillava di una tenue luce azzurra. Innegabilmente, era bella, ma non della bellezza di cui ci si può innamorare, poichè nulla in lei chiamava amore, bensì soggezione, maestà, paura, obbedienza, potere; la regina misteriosa era bella come un idolo.

Come mossa da un istinto superiore, ogni persona presente si era inchinata fino a terra, e la misteriosa apparizione aveva iniziato a parlare, senza nulla aggingere di superfluo o bello al suo discorso, il viso immutato, con voce lenta e severa. Aveva detto loro che era la Regina dell'Inverno, e le nebbie sulle alte montagne indicavano la sua dimora, in cui trascorreva l'estante dormendo in attesa della prima neve. La valle era la sua terra, il suo sacro giardino, e loro l'avevano violata, bevendo la sua acqua, cacciando le sue fiere, tagliando i suoi alberi e bruciando i suoi sterpi, nutrendosi dei suoi frutti e dissodando i suoi prati. Una signora meno clemente, diceva, li avrebbe sterminati tutti, dal primo all'ultimo, in modo che non restasse traccia di un simile affronto, ma lei era venuta a loro per proporre un patto: i nuovi venuti sarebbero potuti restare, purchè la riconoscessero come unica sovrana, servendola fedelmente quando richiesto, e avrebbero potuto continuare ad usufruire dei beni della valle come avevano fatto fino a quel giorno, e, anzi, lei, la Regina, con i suoi poteri, avrebbe reso la natura più rigogliosa, il suolo più fertile, di modo che il suo popolo prosperasse, il clima sarebbe stato con loro mite, e nessun invasore sarebbe mai giunto in armi a tormentarli, in cambio, però, di un simile privilegio, ogni anno, il giorno di Mezzinverno un fanciullo o una fanciulla, non più bambino ma non ancora veramente adulto, si sarebbe dovuto recare alle sorgenti del fiume, affinché la regina lo conducesse nel suo palazzo, per non uscirne mai più. Questo era l'accordo che lei proponeva. Loro, i nuovi venuti, erano liberi di rifiutarlo, ma in tal caso, avrebbero dovuto lasciare immediatamente la valle senza più fare ritorno, riprendendo il loro peregrinare, incalzati dalla violenza che così a lungo avevano cercato di fuggire.

A lungo, o forse solo pochi attimi, dilatati fino ai limiti estremi del tempo, gli uomini erano rimasti a fissarsi l'un l'altro in volto, disorientati, terrorizzati finché uno di loro, che nei giorni del loro vagare avevano eletto a capo della comunità, si era alzato in piedi, tremante, e dopo aver balbettato tra le lacrime poche parole, si era buttato a terra tra i singhiozzi, distrutto dal rimorso. Il patto era stato accettato.

Per secoli tutto andò avanti senza incidenti, uguale e costante come il flusso delle stagioni.

Lontani dalle guerre e dalle lotte di fazioni, non toccati da gravi malattie o epidemie disastrose, la comunità si era ben presto ingrandita e fortificata, mentre i villaggi si moltiplicavano di pari passo con i campi coltivati, e sempre la terra si mostrava generosa e accogliente, mai un raccolto andava perduto, per siccità, grandine o altri capricci del clima e il bosco era sempre ricco di selvaggina, nonché piante commestibili e officinali.

Sarebbe stato davvero il paradiso se le nebbie sulle più alte montagne non avessero ricordato perennemente il duro prezzo di questa abbondanza.

La stagione calda era sempre tranquilla, poiché la Signora, come avevano preso a chiamarla, la trascorreva dormendo, nelle profondità del suo castello celato. Ma non appena la prima neve imbiancava i campi iniziavano le sue solenni apparizioni, di villaggio in villaggio a bordo di una bianca carrozza trainata da una quadriga di altrettanto candidi destrieri, o lungo il corso del fiume, su di una flessuosa ed elegante feluca di ghiaccio, sulla cui superficie, bagnata da sottili gocce di acqua sollevata dai flutti, i raggi tenui del sole invernale intessevano strani e affascinanti disegni.

Arrivava all'improvviso, sempre, non vista e non udita, ma appena si manifestava imponeva la sua presenza con rigoroso distacco. Il più delle volte taceva, aggirandosi silenziosa tra le case osservando gli abitanti uno a uno, come se volesse imprimere nella mente il volto e le caratteristiche di ciascuno dei suoi sudditi; le poche volte in cui un suono usciva dalle sue labbra, era per dare un ordine ad un uomo o una donna nelle vicinanze. A volte, questi ordini, sembravano essere dettati dalla necessità o dal buon senso, per esempio, rinforzare i tetti e le pareti delle case se era in arrivo una forte tormenta, riparare un recinto rotto, altre risultavano assolutamente incomprensibili e privi di un fine che i villici potessero cogliere, come quando aveva intimato loro di radunare sette cumuli di pigne, frasche e foglie secche in una radura nel cuore della foresta, ricoprirle con erbe misteriose trasportate da uno dei suoi servi, e bruciarle una dopo l'altra.

I suoi valletti, i suoi servi, un altro vero mistero: la seguivano ovunque andasse, senza mai lasciarla sola un istante, silenziosi ed efficienti, sembravano non aver bisogno di ricevere ordini, ma agivano sempre come ci si aspettava da loro, così simili da essere indistinguibili l'uno dall'altro, possedevano, infatti, tutti, la stessa altezza e la stessa corporatura, indossavano la medesima livrea, una tunica bianca lunga fino ai piedi dotata di un ampio cappuccio, guanti e stivali di ugual colore, e la stessa maschera d'argento dai tratti impassibili e inespressivi.

La loro origine era avvolta nel più cupo mistero, ma più di un colono, dolorosamente, temeva di sapere il segreto della loro nascita. Mezzinverno, il giorno più triste dell'anno. Nessuno usciva di casa quel giorno, nessuno nutriva le bestie, o spalava la neve dai viali, e quelle famiglie in cui erano presenti figli dell'età prescelta, si stringevano a loro, pregando, e sprofondando nella paura, in attesa della fine dell'incubo. Quel giorno, al tramonto, sempre, in un villaggio o una fattoria isolata, un ragazzo o una ragazza non più bambino, ma non ancora veramente adulto, sentiva la pelle diventare sempre più fredda e pallida, le labbra acquisire una sinistra sfumatura bluastra. Era segno che era stato scelto.

A quel punto nulla poteva salvarlo e tra le lacrime degli amici e dei famigliari si incamminava diretto alle sorgenti del fiume, e non faceva più ritorno.

Era il prezzo per la prosperità e la sicurezza, per una vita lontana dalla guerra e dalle malattie, da quel mondo di cui da molti e molti decenni non giungevano più notizie e da cui i loro avi erano fuggiti. E per quanto fosse doloroso da pagare, era accettato da tutti e nessuno aveva mai pensato di ribellarsi.

***

Era una fredda mattina di primo inverno quando il cambiamento entrò nella valle, a sconvolgere le vite statiche dei suoi abitanti, come un ingranaggio a lungo rimasto fermo, che inizia lento ed esitante prima di riprendere a muoversi con esatta precisione, o i sassolini che rotolano lungo il fianco di una montagna, a preannunciare l'imminente frana.

Tre cacciatori si muovevano nel bosco, tre fratelli, per quanto questo abbia un'importanza marginale nella storia, col passo sicuro di chi conosce bene i luoghi che percorre, e sa che sorprese aspettarsi.

Quell'anno la prima neve era caduta presto, molto prima di quanto chiunque potesse aspettarsi, e prometteva di essere più lungo e freddo di tutti gli altri, per cui i cacciatori avevano deciso di spingersi lontano, nei boschi, in cerca di prede tardive, radici, e altri frutti del bosco, provviste da aggiungere alle pur abbondanti scorte. Batendo ed esplorando i boschi palmo a palmo, finirono per muoversi sempre più distanti, lontano dai percorsi abitualmente seguiti ed ognuno di loro aveva gia un pesante borsone pieno sulla schiena, quando, quasi senza accorgersene, arrivano molto vicino all'ingresso della valle, dove poco lontano, lo potevano sentire, il fiume precipitava, inghiottito in un'ampia caverna.

Fu il più grande dei tre fratelli, ormai sposato e una vita appena sbocciata ad attenderlo in fasce appena giunto a casa, a vedere per primo la sagoma scura, parzialmente coperta di neve, sporgere dal terreno.convinto che si trattasse di una grossa bestia morta o morente, si era avvicinato, pur con una certa attenzione, imitato subito dopo dagli altri. La sorpresa era stata grande quando, liberando il corpo parzialmente sepolto, ai loro occhi era comparso un giovane uomo coperto di sangue, ma ancora vivo, vestito interamente di un'armatura macchiata e rotta in più punti, una riposta nel fodero al suo fianco.

Ogni cosa nello straniero, ogni particolare, dalla vecchia ciccatrice ormai bianca, alla ferita recente nel fianco, urlava guerra. Perché la Signora non l'aveva respinto? Questa domanda eccheggiava nella testa del primo cacciatore ma, siccome era un uomo buono, non pensò nemmeno per un ostante di completare quell'opera lasciata incompiuta ma, diviso il suo carico tra i due fratelli, sollevò il ferito sulle spalle, con tutta la pesante armatura, dopo averlo medicato come poteva, e lo trasportò al villaggio perché la guaritrice curasse le sue ferite. Avevano fatto molta strada da che erano partiti, per cui, appena raggiunte le prime case, cadde in ginocchio vinto dalla fatica mentre da ogni parte mani giungevano a soccorrere lui e il nuovo venuto. Fu compito del primo fratello spiegare rapidamente l'accaduto e, per quanto la presenza di un uomo di guerra non fosse per nulla gradita, nessuno ebbe l'ardire di proporre di ucciderlo o di abbandonarlo fuuori dall'uscio perché ci pensasse il freddo, e, per un giorno e una notte, la guaritrice impiegò tutte le sue arti per strappare l'uomo dall'abbraccio della morte. Al mattino, ormai scampato ad ogni pericolo, lo straniero riuscì ad aprire gli occhi e il suo animo si riempì di gioia e gratitudine <> disse, rivolto alla guaritrice, e al cacciatore che per tutta la notte l'aveva vegliato, assieme ad altri abitanti del villaggio, più curiosi di vedere una persona così diversa da loro che realmente preoccupati per le sue condizioni <> a quelle parole così altisonanti, il cacciatore rise, perché era un uomo semplice e non voleva davvero nulla che già non possedesse. Chiese, pertanto al ferito di narrare la sua storia.

Venne allora a sapere che egli non era un guerriero qualunque, in cerca di gloria o bottino, bensì un cavaliere, come gli antichi eroi delle leggende, le cui gesta erano cantate accanto al fuoco nelle notti più buie e gelide, e su palchi di legno circondati da prati fioriti, nelle allegre sagre estive. Un cavaliere, dunque, un difensore dei deboli, un paladino del bene, una scheggia di virtù nel mezzo della follia del caos.

Come era potuto succedere che un cavaliere giungesse fino a loro? Come era potuto accadere che fosse ferito? <> cominciò a rispondere il guerriero <> nessun fiato provenì dalle persone riunite attorno a lui, perché era un buon narratore e le sue vicende erano state avventurose oltre ogni immaginazione per un povero contadino <> gli chiese sorridendo il più giovane dei fratelli del suo salvatore <>. Passò, dopo questo fatto, una settimana, e un'altra e un'altra ancora. Il cavaliere, ormai ripresosi dalle ferite, viveva nel villaggio, ospite del cacciatore e della moglie, entrambe persone generose e di buon cuore, e sovente si accompagnava all'uno per le vie dei boschi e all'altra nell'accudire la casa e il loro bambino, deciso, così diceva, a ripagare in quel modo il suo debito di riconoscenza, arrivando a consegnare ai due giovani sposi, una grossa borsa che fino a quel momento aveva tenuto sempre appesa alla cintura e da cui non si era mai voluto separare, che si era rivelata colma di luccicanti monete d'oro, nulla era valso a farlo rinunciare al suo dono. Accettandolo, i due giovani sposi divennero le persone più ricche della valle, per quanto potesse valere una ricchezza d'oro in una valle di contadini e pastori, dove ogni scambio avveniva in natura, ciò nonostante, questo portò per la prima volta l'invidia nella comunità, per qualcosa di tanto bello che era posseduto da due soli e non da tutti, ma gli attriti rimasero nascosti, celati sotto la tranquilla superficie come i mulinelli in uno specchio d'acqua. Fu a quel punto che giunse il funesto giorno di Mezzinverno. Come ogni anno si ripeterono le lacrime, i silenzi spaventati delle famiglie, chiuse nelle loro case, a maledire l'accordo accettato di generazione in generazione.

Il sole tramontò presto, oltre le nere montagne imbiancate di neve, e a portare il marchio della regina, quell'anno, fu chiamato il più giovane fratello del cacciatore.

Come sempre accadeva, nella notte seguente alla scelta, mentre in ogni capanna madri e padri sospiravano lieti la fine del pericolo in attesa dell'anno successivo, la famiglia della vittima si chiuse nella disperazione più nera, piangendo e tirando il giovane per le vesti cercando di trattenerlo ancora dal partire, per quanto possibile. A questo spettacolo assisteva il cavaliere, cupo e silenzioso; non aveva mai incontrato la Regina di persona, ma i racconti sui suoi atti e i suoi poteri non gli erano stati affatto risparmiati. Sedeva dunque solo, lontano dalla ressa dei parenti e carezzava la spada con lenti gesti, meditati <> il silenzio, carico di tensione e speranza, riempì la piccola stanza. Nessuno, negli innumerevoli cicli che erano trascorsi dalla venuta degli uomini in quella terra, aveva osato sfidare la Regina o il suo dominio <> sussurrò appena il cacciatore, rompendo il silenzio, il guerriero annuì <> senza nulla rispondere, l'altro gli si parò davanti e lo avvolse in un profondo abbraccio <> disse tra le lacrime dopo un poco <> le braccia si mossero a distanziare nuovamente i due uomini <>.

E senza ulteriore indugio, cinta la spada e indossato un pesante mantello sopra la scintillante armatura, si avviò nella tranquilla notte iperborea, circondato dalla neve, sovrastato da stelle grandi e gelide. Poichè il villaggio stava ai limiti estremi della valle, vicino alla sua imboccatura, era ormai l'alba quando raggiunse le sorgenti del fiume, sotto le nere montagne. Ad attenderlo era una sfarzosa carrozza di ghiaccio, trainata da un elegante quadriga di cavalli, anch'essi frutto della magia dell'inverno e un silenzioso servitore della Regina, che senza proferir parola o altro gesto, lo invitò a salire all'interno. Dopo alcuni momenti di esitazione, l'uomo fece quanto richiesto, e subito dopo, gli zoccoli dei destrieri si sollevarono da terra, per andare in alto, sempre più in alto, fino ai ghiacci eterni, oltre la coltre di nebbia, a mostrare allo sguardo del cavaliere, un sontuoso palazzo, ricco di molte stanze e finestre, molte leggiadre torri si alzavano dalla struttura principale, così leggere e slanciate da dare l'impressione di potersi spezzare da un momento all'altro sotto il soffio del vento,le alte pareti erano incise di profondi e intricati disegni, volubili e volteggianti, dal misterioso significato. Una candida, eterea dimora, per la Regina dell'Inverno, spendida oltre ogni immaginazione, così splendida che per alcuni secondi, l'uomo ne rimase tanto abbagliato da non essere in grado di muovere un solo passo e quando tornò in se, non potè nascondere un senso di vergogna. Sguainata la spada, varcò la grande porta d'ingresso.

***

Nel frattempo, la luce del mattino solcava con le sue pallide dita, i campi imbiancati dalla neve, e la vita riprendeva a scorrere di casa in casa, mano a mano che contadini e pastori si svegliavano per andare a badare ai campi o accudire le bestie.

In una, in particolare, nessuno aveva chiuso occhio quella notte, troppe emozioni contrapposte, troppo dolore, speranza, trepidante attesa impedivano a chiunque di prendere sonno.

Ogni sguardo irrimediabilmente finiva per cadere sul ragazzo accasciato a terra, incapace di trattenere un lieve, continuo, tremito. Le sue condizioni non erano cambiate, la sua pelle non accennava a farsi più rosea e calda, le sue labbra più rosse "E se il cavaliere fallisse? E se avesse già fallito? Quale destino ci si pone davanti?" queste domande, non espresse, eccheggiavano da ogni lato della stanza, assordanti, ghermendo molti altri cuori con la stessa, terribile paura: più di uno, nel villaggio, si era posto quello stesso interrogativo vedendo lo straniero muoversi in direzione delle nere montagne all'inizio della valle.

***

Valicato la maestosa arcata ricurva e gli imponenti battenti cristallini, spalancati, che costituivano la soglia, il cavaliere si ritrovò in un salone ampio sormontato da un'ampia volta, da cui pendeva una selva di sottili stalattiti bianche. Le pareti si aprivano ai lati in ampie finestre bifore e la luce, attraversando questi varchi, si rifletteva in infinite combinazioni, sul soffito, sulle mura incrostate di brina, sulle porte, sul pavimento liscio e lucido, poichè ogni cosa sembrava nata dal puro ghiaccio delle montagne, terso e scintillante, creando suggestivi e ipnotici effeti di luce. Ogni colore concepibile all'uomo sembrava riflettersi l'uno nell'altro e allora la sala non era più bianca, ma ardeva come presa da un incendio o sprofondava nelle gradazioni del blu e dell'azzurro come nelle profondità oceaniche o in altre combiazioni strane ed esotiche non comparabili ad altri elementi naturali.

Al limite estremo della stanza al culmine di un'alta scalinata, stava uno scranno, unico mobilio che il cavaliere avesse visto, di vecchio legno scuro, e, mollemente seduta su di esso, stava una donna dal volto altero e annoiato, vestita di seta bianca e adornata di perle e argento, una corona di cristallo sul capo biondo ed elegantemente pettinato, un lungo scettro di cristallo, con una pietra azzurra e scintillante all'estremità, appoggiato alla sua destra. La Regina lo stava aspettando <> aveva parlato con voce piatta, senza inflessioni, come se in realtà non le interessasse affatto <> la Regina rise, e l'aria vibrò per la sua gelida allegria <> la risposta del guerriero non si fece attendere <>

***

Quando il debole sole invernale era ormai giunto al culmine della sua parabola, a segnare la metà del giorno, una grossa folla vociante, proveniente da tutte le zone circostanti, si era radunata attorno alla capanna del cacciatore e della sua famiglia, e fiaccole ardevano strette in molte mani e altrettante impugnavano forconi e coltelli da macello <> la folla si strinse ancora di più attorno all'abitazione, minacciosa e terrorizzata, presagendo l'ira della sovrana .

A nulla valsero le parole del cacciatore o del padre di lui, autorevole voce tra gli anziani del villaggio o le suppliche e i pianti delle donne quando essi caddero, abbattuti dai coltelli e dai forconi. La casa venne data alle fiamme, e così la stalla, il bestiame disperso. Ogni membro della famiglia andò in contro alla morte, eccetto uno, il povero ragazzo, ancora freddo e tremante che, incapace di reagire, venne legato e caricato su un carro, scortato da molte persone, sempre più numerose man mano che la colonna toccava i diversi insediamenti.

La Regina avrebbe avuto il suo nuovo schiavo.

Altri oggetti, poi, sfuggirono alla distruzione generale: le monete d'oro, che tanta invidia avevano generato, furono divise tra i vicini ed ex amici, portate in bella vista come trofei sorridenti, simboli per diffondere l'avidità e la nera brama in tutta la fiorente valle.

***

Nessuno seppe mai cosa accadde veramente durante lo scontro, né come fece il coraggioso cavaliere ad avere ragione della potente incantatrice.

Sicuramente lo scontro fu lungo e mise a dura prova l'abilità e la determinazione di entrambi, ma alla fine fu lei a soccombere, trafitta al petto dal duro acciaio e anche nella morte non fu rosso sangue a solcare le lunghe vesti ornate d'argento, ma acqua mista a brina e anche tutto il resto del corpo si rivelò essere nient'altro che neve modellata, crollando a terra e perdendo ogni forma. Solo il cuore rimase integro, duro e freddo blocco di ghiaccio.

Si sa che il cavaliere lo raccolse, come prova del suo successo e fece per cercare, gli schiavi ora liberi ma dovette desistere accorgendosi che essi avevano fatto la fine della loro signora mentre il palazzo stesso iniziava a sparire tramutato in neve e portato via dai venti montani.

Un uomo normale sarebbe di certo morto comunque, travolto dalla fine della sua avversaria.

Il guerriero si salvò, per quanto affrontando molti pericoli e, mentre il sole tramontava, egli arrivò nuovamente alla sorgente del fiume e, vinto dalla stanchezza, si sedette contro le rocce a riposare, la spada poggiata alle ginocchia, il gelido cuore in pugno.

A quel punto giunse nello stesso luogo, alla base delle montagne, la folta caravana di villici, per portare il proprio tributo, legato e imbavagliato alla strega ed erano tanto presi dalla propria missione da non essersi accorti che il ragazzo ora non tremava più, ma si dimenava furiosamente, la pelle calda e sudata per lo sforzo. Il trambusto di tanta gente in marcia, svegliò lo spadaccino che riposava, il quale si alzò di scatto, la lama protesa in avanti. Che triste spettacolo si presentò ai suoi occhi! Vide il ragazzo, il fratello del suo salvatore, per cui aveva affrontato quella difficile missione, prigioniero dei ceppi, le persone tutte attorno con ancora addosso, sui vestiti, nel profondo dei loro occhi, il marchio delle loro colpe. Vide le monete in bella mostra come coccarde. Il furore, l'ira del giusto si impadronì di lui e il suo aspetto spaventoso e fosco fece arretrare la folla atterrita, per quanto numerosa <> e detto questo scagliò il cuore a terra frantumandolo in molte schegge e subito l'aria già fredda divenne gelida come il respiro della morte, il vento prese a urlare nella profona gola del fiume che congelò, come mai era capitato mentre il terreno diveniva nero e scuro.

Questo fu il destino riservato alla valle un tempo fertile, e anche quando altrove la stagione è calda e prospera lì domina l'arido freddo. I coloni, quelli che sopravvissero al primo freddo, fuggirono, l'animo pesante del loro crimine, disperdendosi come ombre nel mondo che i loro avi avevano abbandonato.

Non si sa che fine fece il cavaliere, ne dove trovò la fine il suo eterno peregrinare. Si sa però che, liberato il ragazzo, lo condusse fuori dall'inferno che era divenuta la sua casa proteggendolo e guidandolo per lunghe notti e interminabili giorni, macinando polvere sotto i piedi in un lungo, lungo viaggio fino ad arrivare ad un'alta rocca grigia ornata di molti vessilli e torri a sfidare il cielo. E allora, in quel luogo, circondati da altri uomini coperti d'acciaio, cinse di persona al fianco del giovane la sua prima spada.

 

 

 

 


 

  
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