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Autore: screaming_underneath    29/10/2012    11 recensioni
[1a classificata al contest indetto da _Hilary_ "About Renesmee" ]
[1a classificata al contest indetto da Noal "La bellezza delle Edite"]
[1a classificata al contest indetto da milla4 "E se... il contest dell'inaspettato"]
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[...] Aggrappata al suo fianco, la piccola Cullen pareva minuscola, sul punto di volare via non appena un soffio di vento l'avesse raggiunta. Era alzata ancora, notai, e i capelli, che portava liberi di ondeggiare al vento, erano più lunghi del solito [...]
Una giornata estiva, un'altalena, una partita di strip poker; un branco di lupi casinisti (e come sempre mezzi svestiti) e una ragazzina pallida e timida, al braccio del Grande Amico Sempre Presente Jake-gioca-con-me.
- Una piccola Renesmee alle prese con una caduta dall'altalena e un Seth impacciato coi bambini a confronto per la prima volta.
«Scusa ma... Allora dovremmo raccontare una storia, adesso, perché stiamo calpestando il suo territorio. Io non voglio essere trasformata dalla strega, e tu?»
Genere: Introspettivo, Malinconico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Jacob Black, Renesmee Cullen, Seth Clearwater
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Successivo alla saga
- Questa storia fa parte della serie 'Boulevard of broken hearts'
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About a wolf

(and the almost forgotten dreams of a witch's seesaw)

 

 

 

Fa caldo, sul mare.

È una giornata estiva, di quelle che capitano solo una volta ogni tanto sulla Penisola Olimpica e l'uomo arranca tra la sabbia, curvo sul suo bastone. Cammina già da un po'; a un occhio poco attento, potrebbe quasi sembrare l'incedere incerto di un vecchio che va a zonzo senza una meta apparente. Anche se il sole picchia forte, ha sulle spalle una vecchia coperta. Nella mano libera, stringe un piccolo contenitore, una macchia vivida e gialla che splende assieme alle onde del mare.

Non si ferma, l'uomo, neanche per riprendere fiato. La sua destinazione – perché oh, sì, ne ha una – è vicina e vuole arrivare prima che inizi a fare caldo sul serio. Così cammina e borbotta fra sé e sé, un po' canticchiando e un po' parlando a mezza voce.

 

La Radura è sempre la stessa di sempre, solo più vuota e più piena al contempo.

Sono anni che nessuno vi mette più piede e le erbacce e la spazzatura dei turisti portata dal vento hanno fatto il loro corso, ammucchiandosi ovunque. Momenti di vita ordinaria, altre vite ordinarie, stratificati sopra a quelli che sono appartenuti a lui. Vite su vite passate di lì senza vedere, senza sapere.

Violando, strappando, cancellando.

L'uomo, che forse è meno anziano di quel che sembri, avanza con una lentezza che è puro rispetto, il bastone che fruscia ossequioso. Non c'è più nulla che gli ricordi i vecchi tempi andati, solo una pietra qui o un ramo là, casuali testimoni della sua giovinezza. Un tempo non c'era forse un pino dal tronco ricurvo, proprio lì, accanto a quel grande masso? O è solo un'immagine falsata dagli anni, dal troppo cercare di ricordare vanamente?

Non sa neanche se troverà quel che cerca, ma deve, deve provarci lo stesso.

 

Un vecchio ferro ricurvo, un mattone che spunta dal nulla, una catena arrugginita, ecco quello che è rimasto della sua adolescenza; alla fine è riuscito davvero a vedere, provare che sì, è successo sul serio. Tre rovine nascoste tra le foglie e le cartacce di un qualunque essere umano di passaggio, che non c'entra un bel niente con tutto quello, non c'entra un bel niente di niente. Cancellato, violentato, strappato.

Il vecchio stende la coperta tra quei quattro spunzoni di ferro con un grugnito: il sottobosco è umido e duro per le sue ossa, ma deve farlo e sa che non sentirà il peso degli anni, una volta iniziato a raccontare.

Ed ecco, ascolta.

Il pigolio di un uccellino, il grido alto di un rapace, il mormorio del vento a cavallo del mare, della sabbia che scorre granello su granello. L'oceano che sospira, carezzato dalle onde, languide amanti.

Nulla è diverso se chiude gli occhi e, semplicemente, ascolta.

 

Non deve aspettare molto: una alla volta, arrivano anche le Voci, tutte accorse per lui, per sentirlo parlare di nuovo.

Ci sono quelle dei ragazzi, quella di sua sorella e persino suo padre, che canta assieme a lui spingendolo sull'altalena. E c'è lei, lei che ride e piange e canta e ama, e ti abbraccia fino a farti smettere di respirare. Ha i capelli al vento, rossi come una fiamma di fuoco divino e le guance rosee proprio come sa di averla vista l'ultima volta, in un ricordo quasi dimenticato.

Queste cose non sono andate perdute come il vecchio credeva. Sono sempre rimaste lì, in attesa che tornasse, per portarlo indietro di nuovo.

Indietro dove può esserci ancora un lieto fine.

 

Adesso che ha ritrovato il Posto e parte del periodo più felice della sua vita, sbiadito come vecchie foto in bianco e nero, l'uomo non sa più come iniziare. Anzi, a dir la verità, si sente persino un poco stupido.

Ha sessantacinque anni umani e quasi il doppio vissuti realmente, tutti pesanti come macigni sulla sua schiena. Forse dovrebbe smetterla di circondarsi di fantasmi ed accettare semplicemente le cose come stanno.

Sei un sognatore, Seth. Ti invidio per questo,” gli aveva detto una volta la sua migliore amica, Quella dell'Altalena. E adesso, sogna ancora?

Non nel vero senso della parola, forse, ma ci prova lo stesso.

Così, senza aspettare oltre, prende la sua scatola gialla e se la posa sulle ginocchia, le dita nodose che tremano leggermente. «Visto? L'ho portata sul serio, Nenè, per l'ennesima volta. Adesso dobbiamo solo sperare che alla strega vada bene la mia storia» ridacchia, parlando a sé stesso, con solo spettatore un merlo dal becco curvo come un uncino. Lo guarda, interessato, poi vola via, mentre le Voci accerchiano l'uomo, sempre più numerose.

Quella di lei adesso è più forte e ride, ride con lui; ride di lui, che non è altro che un povero vecchio, con tanti bei sogni infranti che potrebbe esibirli in un museo degli Orrori – un dollaro per il tour rapido, cinque dollari per la guida, i bambini al fianco, per favore! – e un pezzo di torta al cioccolato semi-sbriciolato tra le mani; ride di lui, che un tempo è stato il suo migliore amico o forse anche il suo amante e adesso è solo polvere, polvere tra le labbra di una piccola bocca fredda, nascosta in una cassa di marmo altrettanto freddo.

Ride con lui e l'uomo, che ha vissuto una vita talmente lunga da non ricordarsi più che volto abbia la morte – o è quello della ragazza che amava, la Bambina dell'Altalena di quel pomeriggio lontano? – vorrebbe solo chiudere gli occhi per sempre e lasciare che le Voci lo portino via.

 

Non sa quando inizia a parlare, o se lo faccia sul serio.

Ricorda solo tanti volti, tutti sorridenti, tutti giovani, e labbra sporche del cioccolato della sua torta, quella che un tempo era stata la miglior ricetta di Harry Clearwater.

E l'Altalena, nuova e scintillante, che rumoreggia di nuovo, coi capelli ribelli della donna che ha amato per anni e non ha mai potuto avere, liberi nel caldo vento estivo.

 

Se vi è l'ombra di una corda, all'orizzonte, posata quasi casualmente su di un ramo, egli non ricorda.

 

~

 

Ricordi, Nenè?

A La Push, nelle belle – seppur abbastanza rare – giornate estive, non c'è poi così tanta scelta: puoi cuocerti sotto il sole assieme alle folle casiniste di villeggianti maleducati, rimanere chiuso in casa come un eremita e sfondarti gli occhi davanti alla tv... oppure cercare un po' di refrigerio tra i vecchi tronchi della pineta, giocando a carte con gli amici e cercando di non farti mangiare vivo da zanzare grosse come portaerei. Una vasta, vastissima scelta.

 

Come dicevi sempre?

Forks, il centro del mondo!” E avevi ragione. Gesù, se ne avevi!

Ma eravamo contenti, no? Era il nostro mondo, e ci piaceva un sacco, anche se non facevamo altro che lamentarci.

 

Noi...

 

 

 

Noi ragazzi ci davamo il cambio, seguendo uno schema che pareva prestabilito: un gruppo in spiaggia, qualcun altro a farsi un giro di strip poker alla Radura dei Pini (e sì, eravamo tutti maschi), altri a spararsi documentari su interessanti paesaggi e pieghe femminili in un angolo buio di una camera, passandosi e ripassandosi vecchi giornalini sporcaccioni ormai scoloriti e strappati e bicchieri di Coca.

Arrivati a metà Luglio, comunque, ed esaurita la voglia di abbronzatura e zanzare (i giornalini continuavano ad andare per la maggiore fino ai primi di Settembre, quando non ne erano rimasti che brandelli) oramai ci annoiavamo a morte tutti, invocando a gran voce il ritorno del fresco e della scuola; persino trasformarci non era più divertente come un tempo.

Di vampiri non se ne vedevano mai: dopo il quasi scontro con i Volturi non si era più fatto vivo nessuno, nemmeno un nomade assetato di sangue umano capitato per caso, e sì che ci speravamo sempre.

Sam e Jacob, dopo mille discussioni e brontolii, avevano deciso che riunire il branco sarebbe stata la scelta più saggia, anche perché quello di Jake, non contando se stesso, arrivava a malapena a quattro elementi: me, mia sorella, Embry e Quil.

Era il 2008, quello; avevo quasi sedici anni e Renesmee Cullen, la bambina-imprinting del mio Alfa, era una cosina tutti boccoli e fossette che mi arrivava appena sotto il ginocchio, intenzionata forse senza neanche saperlo a rendere la mia vita quello che mia sorella chiama affettuosamente Un Inferno In Terra.

 

 

~

 

 

Era un pomeriggio strano.

Nuvole bianche come la panna si rincorrevano in cielo, e c'era talmente tanta umidità nell'aria che avremmo potuto riempire una piscina solo col sudore dei nostri vestiti. Il sole aveva dato forfait già da qualche ora, e non era escluso che sarebbe piovuto, nella serata. Magie della Penisola Olimpica, ora c'è il sole, ora non c'è più. Puff.

«Salutate Renesmee, ragazzi!» esordì Jacob, saltellandoci incontro con un sorriso un po' idiota, dal mezzo del sentiero. Aggrappata al suo fianco, la piccola Cullen pareva minuscola, sul punto di volare via non appena un soffio di vento l'avesse raggiunta. Era già qualche mese che non la vedevo – cosa mi aveva detto Bella? Brasile o Indonesia? Non ricordavo con precisione. Comunque, un posto caldo dove passare la maggior parte dell'inverno – e mi parve cresciuta enormemente, come trovarmi di fronte una sorella maggiore a lei di molti anni. Si era alzata ancora, notai, e i capelli, che portava liberi di ondeggiare al vento, erano più lunghi del solito.

Jacob, dal canto suo, pareva essere ringiovanito di dieci anni; con una bambola infilata sotto il braccio e quel buffo cappello di carta tutto storto che gli rimbalzava sulla testa ad ogni passo, pareva un grosso Peter Pan cresciuto a metà e totalmente fatto di amfetamine.

«Ciaaao, Nessie!» rispondemmo in coro, da bravo branco addestrato. Nessuno alzò la testa più del dovuto da quello che non stava facendo – una bambina, per quanto fosse sicuramente una novità nella noia dilagante che ci avvolgeva ogni santo giorno, rimaneva sempre e solo una bambina, e i piccoli portavano solo casino, era risaputo – ma sentii Paul che si lasciava andare ad una risatina delle sue, nonostante fosse stato messo in guardia più di una volta dal riflettere bene con la testa prima di aprir bocca.

 

Jake non l'aveva mai portata alla Radura, prima di quel pomeriggio. Sosteneva di non voler traviare la sua giovane mente acuta con le nostre battute di pessimo gusto e gli sfondoni sessuali cui si lasciava andare Paul, ma la verità – anche quando sei l'Alfa del tuo branco, non puoi impedire del tutto che i tuoi sottoposti ti leggano nella mente – era semplicemente che si vergognava.

Non lo avrebbe ammesso neanche sotto tortura, ma andarsene in giro mano nella mano con una bimbetta, per quanto fosse ella la sua bimbetta personale, lo metteva parecchio in agitazione, sopratutto se qualcuno dei ragazzi era nei dintorni. Non che si aspettasse chissà quale provocazione, ovviamente: l'imprinting era una roba seria, una Roba Da Lupi, e nessuno si sarebbe mai azzardato a dire una parola o una verità scomoda. Cioè, sì, Quil era stato preso un po' per il culo, ma Jake... eh, Jake era tutta un'altra storia rispetto al remissivo Ateara, e nessuno se lo voleva ritrovare come nemico, nemmeno quel coglione patentato di Paul.

«C-ciao.» Renesmee accennò un timido sorriso, la faccia seminascosta dalla coltrina morbida di quei suoi lunghi ricci. Pareva ancora più delicata di quanto non fosse, rannicchiata dentro una magliettina rosa confetto dalle spalline sottili che le cadevano sulle spalle e la bronzea chioma come un'aureola luccicante intorno a lei. Era aggrappata al fianco di Jake con quanta più determinazione avesse in corpo, come se, staccandosi da lui, rischiasse di volare via; e le sue membra, sottili e pallide sotto la luce del sole, acuivano la sensazione di trovarsi di fronte ad un'apparizione eterea e delicata, che sarebbe scomparsa al minimo movimento brusco.

«Noi andiamo all'altalena, vero, Nessie?» le propose Jacob, indicando il piccolo parco giochi al limitare dei pini. Lo aveva detto ad alta voce, anche se nessuno del branco stava già più ascoltando. Come ho detto, una bambina è pur sempre solo una bambina, ed è difficile che diventi interessante... anche se, per qualche strano motivo, proprio io per primo non riuscivo a distogliere lo sguardo da quella figura minuta, già dal suo ingresso alla Radura.

Senza rendermene conto, mi lasciai scivolare dal ramo del tozzo pino su cui mi ero appollaiato, posando i piedi davanti a lei. Renesmee mi lanciò un altro breve, piccolo sorriso nervoso, tutto per me, prima di rintanarsi di nuovo tra le gambe di Jake. «Sì» pigolò, con quella sua vocina sottile. Era spaventata, o forse solo molto timida. Non la conoscevo bene e non mi ero mai reputato molto bravo coi bambini, sopratutto se piccoli come lei, ma all'improvviso ebbi come la necessità inconscia di dirle qualcosa, qualsiasi cosa, pur di tranquillizzarla un po'.

«Non avere paura di noi. Ti ricordi? Siamo i lupi di Jake. Ti piacciono i lupi, Nenè?» provai a calmarla, tirando fuori il primo soprannome che mi venne in mente. Non c'era un valido motivo, ma Nessie mi era sempre parso sbagliato, brutto, per una bambina tanto dolce. Si meritava un soprannome più bello, decisi. «Nenè?» ripetei, allungando una mano nella sua direzione. Mi ero inginocchiato, adesso, per non sovrastarla troppo con la mia altezza da cultore degli steroidi, ma lei non rispose, e anzi strinse più forte le dita attorno ai jeans di Jake, dandomi le spalle. Forse ero davvero negato coi piccoli.

«Seth, fatti gli affari tuoi. Vieni, tesoro. Andiamo a giocare.» Il sorriso idiota con cui Jacob ci aveva accolto tornò a risplendere tra le sue labbra, solo per lei, mentre la portava via, all'altro lato della radura; ma quando rialzai lo sguardo, gli occhi del mio vecchio Alfa erano duri e diffidenti. Non toccare la mia bambina. Ecco cosa dicevano. Non provarci neanche per scherzo.

«C-ci vediamo, allora» borbottai. Nessuna risposta. Adesso, Jake mi dava le spalle, ma la bambola di pezza incastrata sotto la sua ascella mi guardava al posto suo, dal basso verso l'alto, e pareva accusarmi allo stesso modo.

Non toccarla, lei è sua! Non provarci neanche per scherzo.

Mi rialzai, spolverandomi il fondo dei calzoni stracciati, e riguadagnai la vetta del mio pino, confuso.

Che avevo fatto di male?

 

 

 

La risposta non arrivò, ma nell'ora successiva, neanche ci pensai troppo. Jared aveva tirato fuori un grosso mazzo usurato di carte e, finiti i centesimi ripescati dal fondo dei calzoni, ci stavamo vendendo pure le mutande a poker. Una goduria, se non pensavo a cosa mi avrebbe detto mia madre quando fossi tornato a casa scalzo, senza le mie Nike nuove ai piedi.

Allungai gli occhi alla mia sinistra, dove sapevo che Leah sedeva, aspettando il suo turno. Aveva insistito per farsi insegnare le regole del gioco e partecipare anche lei, ignorando le mie preghiere di non farmi fare brutte figure. Quando aveva aggiunto la sua fila di monetine al nostro ridicolo gruzzolo, avevo semplicemente smesso di guardare dalla sua parte, facendo finta che non esistesse, nei limiti del possibile; immaginarla nuda davanti a tutti i ragazzi del branco mi inquietava un bel po', anche se era già capitato diverse volte durante i cambi delle ronde, ai tempi di Bella Swan.

Mi sorprese, quindi, trovarla con tutti i vestiti al loro posto e una piccola pila ordinata di fiches davanti a lei. Tra le dita, stringeva le carte con un piglio talmente determinato che poteva essere solo il suo. Fai le cose bene o non farle affatto, era il suo motto.

«Ragazzi, qui Leah è quella con le palle!» esclamò Jar, sorpreso quanto me. Era rimasto coi soli calzini indosso, ma non dava cenno di vergognarsi della sua nudità, tranquillamente seduto con le gambe incrociate. Ringraziai nuovamente la mia buona stella, che mi aveva fatto perdere solo la camicia, ridandomi persino le scarpe da ginnastica.

«Problemi, uomo?» lo sfotté lei, lanciandogli una lunga occhiata inquisitoria, con l'unica intenzione di farlo arrossire. Mia sorella aveva un cipiglio così da Leah che non potei fare a meno di ridere, e forse avrebbe riso anche lei, se solo Renesmee non si fosse messa ad urlare.

 

Era un urlo di dolore, capii. Acuto e terribilmente spaventato, tipico di un bambino piccolo, e continuava, e continuava. Potei riconoscere la voce di Jake che cercava di calmarla, inutilmente.

«La piccola succhiasangue deve esser caduta dall'altalena. Bell'affare, puah!» Embry sputò a terra un grumo di saliva grosso quanto un pugno, grattandosi la punta del naso con una delle carte che aveva in mano. Era totalmente nudo, tranne che per quel suo fazzoletto legato al collo, che ci aveva venduto come “un regalo da parte di una delle mie ammiratrici”; solo in quel momento, mi ricordai.

Gesù, stiamo giocando a strip poker a trenta metri da una ragazzina di quattro anni in lacrime.

«Non chiamarla...» iniziai. Mi ero alzato in piedi, sette paia di occhi mi fissavano come fossi un ufo. Solo mia sorella rimaneva impassibile, concentrata sulle carte: non aveva mai voluto aver nulla a che vedere con i Cullen, e la piccola Renesmee non faceva eccezione. «Forse è meglio smetterla. Jake ci fa il culo, se ci vede così, e pure Sam. La bambina è piccola.» proposi. Come risposta, sentii un urlo più forte. Mollai le carte e mi diressi risoluto verso il parco giochi, mentre gli altri ancora protestavano. Che giocassero loro.

«Dove vai, Clearwater? Andiamo, seriamente! Che t'importa?» La voce di Jared si sovrappose a quella di Quil, perdendosi tra gli alberi.

Già, che mi importava? Renesmee non era di mio interesse. Non era il mio imprinting, giusto? E non ero neppure suo parente o suo amico.

Gusto dell'orrido? Curiosità? Voglia di maternità?

Sai che la curiosità uccise il Lupo, Seth?

Non era il gatto, Seth?

«Nessie, calmati. È solo un po' di sangue! S-si pulisce, vedi?» Intravidi Jake chinato sulla sua bambina, la mano sporca di sangue, muoversi intorno al corpicino di Renesmee come un satellite impazzito. Adesso il grido era più forte. Una specie di aaaaaaaaaaaah da sirena dell'ambulanza. Mi si strinse il cuore.

La scena non era delle migliori.

C'era l'altalena, la “Vecchia Bridget”, la chiamavamo noi, tanto per cominciare: tutta penzolante da un lato, con la catena che la sorreggeva spezzata a metà altezza. Quello era il male minore, anche se era stata un'incredibile leggerezza da parte di Jake lasciare che Nessie salisse lì sopra. Erano anni che non veniva toccata da nessuno, sopratutto perché praticamente tutti i ragazzi della riserva non riuscivano più a ficcarci le proprie enormi e pelose terga di lupo, e avrebbe avuto bisogno di una bella oliatina.

Ma il problema grande era Renesmee.

La catena doveva essersi spezzata mentre lei volava in alto, molto in alto: la bambina non doveva pesare che una decina di chili, ma a quanto pare erano stati sufficienti affinché le maglie di metallo, corrose da anni di neve e pioggia e dondolii, cedessero. Il risultato finale era una piccola mezzo vampira – Gesù, di nuovo, pensavo fosse più resistente – con un grosso, brutto taglio sul braccio che sanguinava un bel po'... e un Jacob totalmente nel panico.

«Mi fa maleeeeee!»

«R-renesmee, calmati! Adesso passa tutto, ok?»

«Nooooooooo!» No, non sarebbe decisamente passato con un fazzoletto di carta ormai da buttare e nient'altro.

Presi tempo, non sapendo di essere o meno d'intralcio. «Jake? Jake, posso dare una mano?» domandai timidamente, tra un urlo e l'altro di Nessie. Aveva i polmoni buoni, la bambina, e continuava a scalciare e strepitare, distesa sul manto di aghi di pino. Quei suoi boccoli, che tanto avevo ammirato qualche manciata di minuti prima, adesso erano un groviglio di bastoncini di legno, foglie e terra, che andava appiccicandosi tutt'intorno alla parte ferita.

Vidi Jacob alzare la testa di scatto, con gli occhi allucinati e un po' folli. Il sangue gli aveva macchiato la camicia e un ciuffo di capelli – aveva ricominciato a portarli lunghi quasi fino alle spalle – gli era rimasto incollato ad una guancia. Per un attimo pensai che mi avrebbe steso a terra con un pugno, se mi fossi avvicinato troppo alla sua preziosa bimba. «Seth. S-senti, devo richiamare Bella subito, posso lasciartela per un minuto? Dio, Cullen mi ucciderà. Tutto questo sangue... non credevo fosse così. Cioè, è una mezza vampira, possibile che...?» Adesso mi guardava, supplicante e a me venne da ridere. Alfa alle prese con Bambina Urlante: zero-uno e palla al centro, signori!

Non avevo mai dubitato del fatto che l'imprinting, soprattutto se, come quello di Quil o di Jake, fosse una colossale, enormerrima valanga di merda e responsabilità del cazzo.

«Fa maleeeee!» gridava ancora Renesmee. Teneva gli occhi stretti, le braccia conserte, quella ferita coperta dalla mano del lato sano. Aveva l'aria di far male sul serio, e io non sapevo come aiutarla.

Perché non sono rimasto dov'ero?

Mi chinai. «Renesmee? Nenè?» chiesi, usando il tono più dolce che riuscissi a tirar fuori. Jacob si era allontanato di un poco, con il cellulare all'orecchio. Potei sentire la voce di Bella, secca come lo schiocco di un mortaretto, aggredire il mio povero amico via etere, con un tono di voce talmente alto da sovrastare quello della figlia. Polmoni davvero buoni, in famiglia, non c'era che dire.

«Ascoltami, tesoro. Dove ti fa male?» domandai ancora, gentilmente. Lei urlava, ma adesso era più il guaito di un cucciolo ferito. Tirò sul col naso, senza aprire gli occhi.

«Il b-b-braccio. Ho un taglio» riuscì a gracchiare. Aveva il viso rosso, a grosse chiazze scure in prossimità del collo e delle guance, ed era sudata zuppa.

«Ok, adesso voglio che tu non pensi al dolore. Cosa ti piace fare?» cercai di distrarla. Era il metodo che usava mia madre quando da piccolo doveva disinfettarmi l'ennesima sbucciatura alle ginocchia, oppure durante un prelievo del sangue.

«Fare le torte con nonna» rispose dopo un po'. Doveva averci pensato su, perché notai come, concentrata sulla risposta, avesse allentato la stretta delle dita sulla ferita, iniziando a respirare più lentamente. Almeno, aveva smesso di urlare come un'ossessa.

«Bene. Come ti piacciono le torte, Nenè?» ribattei, stando al gioco. Mi ero avvicinato e le avevo preso la mano, quella stesa a terra col palmo poggiato all'ingiù, rigida sotto la ferita. Vidi che il sangue si era coagulato, e non scorreva più. Probabilmente si era graffiata con un sasso, nella caduta, e non era così grave come era parso a Jake, in preda al panico.

«Al cioccolato. Con un sacco di panna sopra. A te come piacciono?»

Questo è un passo avanti.

«Al cioccolato. Con un sacco di panna sopra e pure la crema dentro. Ne hai mai mangiata una così?»

«No. È buona?» Un guizzo, e uno dei suoi magnifici occhi color del cacao andò a posarsi su di me. Adesso il suo respiro era quasi normale e il colorito stava gradualmente tornando quello roseo di sempre.

Avevo catturato la sua attenzione, proprio come volevo fare fin dall'inizio. Con delicatezza, senza toccarle il braccio ferito, la feci mettere seduta, sciogliendole i nodi tra i capelli distrattamente, pensando a come risponderle. «Tantissimo. Me la faceva sempre il mio papà» risposi, giocherellando con uno di quei ricci bronzei. Era talmente piccola che avrei potuto spezzarla a metà con un solo abbraccio, stringendo un po' più forte del normale.

«E adesso?»

«Adesso me le faccio da solo. Se vuoi, possiamo farne una insieme» proposi. Una fitta mi trapassò lo stomaco, pensando alla torta al cioccolato di mio padre, che non avevo più mangiato dopo... dopo.

Renesmee era calda, quasi quanto me. Era strano toccare un altro essere vivente che non fosse un lupo e non sentire freddo, per una volta. Una piacevole anomalia cui mi sarei anche potuto abituare. Forse non ero un granché bravo coi bambini ma lei, beh, era diversa. Adesso capivo cosa intendesse dire Jake quando parlavamo di imprinting, amore fraterno e senso di protezione. Non potevi farne a meno.

«Ne facciamo una grande? Dov'è Jake?» Quel flusso ininterrotto di domande mi disorientò. Sentii che provava ad alzarsi e la lasciai fare, anche se non volevo che si agitasse di nuovo, ma lei, scossi i capelli per liberarsi dalla sporcizia e sfiorata appena la ferita con dito, come per saggiarne l'entità del danno, si avvicinò di nuovo a me, in attesa di una risposta.

Jacob parlava ancora al telefono, adesso più lontano da dove ci trovavamo noi. Potei sentirlo urlare qualcosa, e anche senza distinguere le parole capii che stava litigando furiosamente con Bella. «Ne faremo una enorme, ma adesso mettiti tranquilla qui con me e aspettiamo che Jake torni, ok? Ti fa ancora male il braccio?»

«Un poco. Perché l'altalena si è rotta?»

Gesù, ma non sai fare altro che domande, tesoro? «Perché era vecchia. Era già vecchia quando ero piccolo io e ci venivo col mio papà. Povera, povera Vecchia Bridget.» mormorai, carezzando uno dei pali di legno che fungevano da sostegno. Qualcuno ci aveva inciso sopra le proprie iniziali, una R e una B, forse due innamoratini passati di lì per caso, forse solo qualcuno dei ragazzi.

«Bridget?» Adesso Renesmee era curiosa, ed io compiaciuto. Avevo tirato fuori la storia del nome dell'altalena sperando che la piccola abboccasse all'amo, dimenticandosi per un momento della ferita e del suo compagno di giochi preferito scomparso nel nulla, e così era stato. Gongolando, mi accovacciai di nuovo suoi talloni, facendole segno di avvicinarsi.

«Esatto. Sai perché si chiama così?» la stuzzicai, facendole l'occhiolino. Lei scosse la testa, incantata. Quei suoi occhioni color del cioccolato, che non avevo avuto mai modo di studiare così da vicino, adesso erano spalancati e lucidi, pieni di interesse.

«Perché qui sopra, proprio qui dove ci troviamo adesso, tantissimo tempo fa c'era la casa di una strega!» ringhiai, facendo rimbombare la voce.

Mi aspettavo che la mia piccola ascoltatrice lanciasse un gridolino, oppure si portasse le mani alle labbra, spaventata; invece, Renesmee mi guardò con ancora più stupito interesse, la bocca che formava una piccola “o”. «Quell'altalena è stata fatta coi tronchi che facevano da tetto alla casa della fattucchiera, proprio così. C'è chi dice che possieda poteri magici...» Lasciai in sospeso la frase, adocchiando l'altalena di sghimbescio, senza staccare del tutto gli occhi da quelli di Nessie.

«Una strega! Una strega! Ed era brutta?»

«Oh, sì. Proprio come tutte le streghe. Ed era cattiva, la strega Bridget. Voleva tenersi la Radura tutta per sé, quell'ingorda, e minacciava di trasformare chiunque vi mettesse piede in un maialino!» inventai sul momento. In effetti, la storia dell'altalena era del tutto diversa, ma non mi andava di raccontarla ad una bambina così piccola.

Ripassa tra un paio d'anni, Nessie cara.

Per allora avrai abbastanza capito come funziona il mondo.

«E non ritornavano più come prima?» domandò ancora. Adesso guardava stupita l'Oggetto di Tutti i Mali con riverenza, forse immaginandosi la strega cattiva, col naso grosso e curvo e il porro peloso in bilico su di esso, seduta proprio lì sopra, o tutta intenta ad inventare incantesimi malefici china sul suo calderone.

L'avevo in pugno, ormai, la ferita e la caduta dimenticate; così tirai un buffetto su quelle guance morbide, con quanta più dolcezza riuscissi a tirar fuori dalle mie dita di licantropo, e Renesmee mi sorrise, stavolta senza nascondersi e senza arrossire.

Mi ero guadagnato la sua fiducia con un racconto di paura e un pianto al parco giochi, ma mi sentii stranamente esaltato. I bambini non erano mai stati il mio forte per il semplice fatto che, il più delle volte, vedendomi così grosso e con questo mio faccione da ragazzetto, ridevano di me, additandomi per strada; ma questo, con la piccola di Edward Cullen, non era successo.

Era un grande traguardo personale e, anche se adesso mi vergogno della sensazione di piacere che il mio ego ricavò da quella scoperta, lì per lì mi sembrò una conquista enorme, degna di essere scritta nel Muro della Storia di Seth.

«No! Non si poteva tornare umani... a meno che la povera vittima non gli raccontasse una storia, abbastanza interessante da stuzzicare l'interesse della fattucchiera Bridget. In quel caso, se eri stato un bravo narratore, lei ti lasciava passare, restituendoti la tua libertà.» terminai, con un'altra strizzata d'occhio e un buffetto sul nasino di Renesmee. Lei ridacchiò di nuovo, anche se i suoi occhi rimasero seri.

Capii cosa covava un istante dopo, quando già mi stavo dirigendo verso Jake, con la lieta novella di un ritrovato equilibrio all'interno del corpo e della mente della sua preziosa mezza vampira, e lei mi catturò per un polso, toccandomi per la prima volta spontaneamente. «Scusa, ma... allora dovremmo raccontare una storia, adesso, perché stiamo calpestando il suo territorio. Io non voglio essere trasformata dalla strega, e tu?» Si stava mordicchiando l'interno di una guancia, rosa dal dubbio, con un'aria talmente tragicomica che scoppiai a ridere, senza ritegno.

«Tranquilla, Nen-Nessie. La strega sarà soddisfatta della mia storia. Per oggi siamo al sicuro.» la placai. Vidi il suo faccino rischiararsi, come se un grosso peso le si fosse tolto dal cuore, un grosso peso a forma di maialino roseo e provvisto di grugno.

«Allora la prossima volta ne racconterò una io. E facciamo una torta, vero?» mi propose, saltellando qui e là come un grillo.

Annuii. «Ma certo, tesoro. Come va il braccio adesso?»

«Meglio. Credo che la ferita stia guarendo da sola, mi fa il solletico. Forse dovrei dire a mamma che sto bene. Non la voglio far preoccupare. E nemmeno Jake.» Vidi il suo faccino accartocciarsi di colpo, cambiano espressione e umore con quella rapidità che poteva appartenere solo ad un bambino. Per quanto fosse ancora piccolissima, Renesmee aveva una capacità innata quando si trattava di sensibilità e responsabilità, e una grandissima intelligenza. Mi domandavo spesso come dovesse sentirsi: intrappolata in un corpo infantile e praticamente inutile, con un cervello grande abbastanza da poter discorrere alla pari con un adulto. Un brivido mi trapassò la spina dorsale.

«Vedrai che non ti sgriderà, non è colpa tua se la catena si è rotta. Nessuno ce l'ha con te, Renesmee. Poteva capitare a chiunque, e questo Jacob lo sa bene, anche se sembra tanto arrabbiato, ok?» provai a rassicurarla, carezzandole la testa. Lei annuì, poco convinta, posandomi una mano sul fianco, caldo contro caldo. Bello.

 

Jake stava tornando verso di noi con una faccia talmente nera che avrebbe offuscato persino quel bel pomeriggio sopra La Push. Stringeva così forte il cellulare da far scricchiolare la plastica di rivestimento, e pareva del tutto intenzionato a mangiarsi vivo qualcuno.

«Jake, guarda, non sanguino più!» esordì Nessie, correndogli incontro con un sorriso. Aveva ancora due lacrime impigliate tra le ciglia, ma il momento di paura pareva essere dimenticato. Lui tese le mani, prendendola al volo quando gli si lanciò contro.

«Bene. Adesso andiamo a casa, eh?» borbottò, scuro come un temporale. Lei fece di sì con la testa, guardandomi con occhi un po' preoccupati. Congiunsi pollice e indice, formando un ok con le dita, ma Renesmee non rispose, continuando a pregarmi con lo sguardo. Nonostante tutte le mie raccomandazioni, aveva davvero paura di essere sgridata.

«Seth, grazie di...» Jake mi passò davanti, dandomi una pacca su di una spalla. Aveva ancora le dita sporche di sangue, e quel ciuffo di capelli appiccicato alla tempia, come una specie di riporto non andato a buon fine.

«Seth! Tu ti chiami Seth?! Non lo sapevo!» lo interruppe la bambina. Era sorpresa, non sapeva il mio nome, sul serio? La guardai, interrogativo.

«Oh, ma che maleducato, soccorrere una giovane donna tanto bella senza neanche conoscerla! Seth, Cacciatore di Streghe e Salvatore di Bambine Cadute Dall'Altalena per te, signorina. E tu come ti chiami, dolce pulzella?» feci un inchino svolazzante, tra le risate di lei, abbassando un immaginario cappello.

«Mi chiamo Renesmee, come Reneè ed Esme assieme!» ridacchio. Jacob non diede cenno di fermarsi, o riprendere il discorso da dove l'aveva interrotto, così Nessie, semplicemente, si divincolò, balzando a terra per raggiungermi.

«Ma puoi chiamarmi Nenè, se vuoi. Mi piace, non ti correggere, per favore. Neee-nè. Sì, mi piace!» approvò. Risi, soddisfatto di aver adempiuto al mio compito e di averle donato un nome più corto ed efficace, che non la comparasse ad un mostro di chissà quanti metri e per di più coperto di squame ogni volta.

«Ne sono lieto. La vedrò di nuovo, principessa, al mio castello?»

«Tornerò da Bridget, magari. Mi spiace averla offesa quando sono caduta, ero solo arrabbiata per essermi fatta male... ma non vorrei che la strega se la prendesse. Tu conosci altre storie, Seth?» mi chiese, trepidante. Mi ero fatto un'amica, a quanto pareva, un'amica bambina.

«Tantissime. Ma potresti raccontarne qualcuna anche tu, non trovi?» proposi. Le si illuminarono gli occhi. «Solo se tu prepari la torta al cioccolato!» esclamò, furbetta. Si era fermata a qualche passo da Jake e ad un venti metri buoni da me, perciò non mi aspettai quello che fece, sopratutto perché Jacob la richiamava, con urgenza. «Tu torta al cioccolato, io storie. Che bello, evviva! Lo faremo per sempre, vero? Mi piace la crema nello strato nel mezzo, Seth, sai?»

Con una velocità sorprendente persino per me, fu tra le mie braccia. Potei sentire le sue mani calde avvolgermi il collo, il suo profumo di bosco e fiori ovunque, profumo di bambina e risate fatte col cuore. E poi avvenne: come se fosse la cosa più normale del mondo, Renesmee mi posò una mano sulla guancia, e fui dentro la sua testa.

Erano immagini slegate, ricordi recenti – io che le parlavo mentre piangeva per il dolore, la brutta smorfia che le avevo rivolto per farla ridere, il racconto della strega e le risate sul suo soprannome – mescolati ad emozioni più o meno forti, tutte bellissime. Durò forse non più di cinque secondi, ma bastarono per farmi venire i brividi e sentire il cuore in gola.

«Tu sei buono, Seth. Grazie» sussurrò poi, staccandomisi dal collo. Con la grazia di un felino, in un attimo fu di nuovo al suo posto, la mano intrappolata in quella di Jake.

Mi volse le spalle, senza più dire nulla, lasciandomi lì, come un povero deficiente a boccheggiare dalla sorpresa, con la consapevolezza che no, non avrei più fatto una partita a strip poker con lei nei paraggi.

È imprinting?

Ma non lo era.

Era solo... amore, puro e semplice. Amore non nel senso sentimentale del termine, ma semplicemente quell'amore incontaminato e sterminato che solo i bambini possono dare, e forse riuscire a ricevere in cambio se riescono ad aprirti il loro cuore e gettare su di te la loro completa fiducia.

 

Non avrei mai pensato che sarebbe successo a me; ancora oggi, mi domando perché, tra tutti i ragazzi presenti alla Radura, quel giorno, proprio io abbia deciso di alzarmi per dare un'occhiatina alla situazione... e non so rispondermi, non coerentemente, comunque.

Se ci fosse Renesmee accanto a me, risponderebbe probabilmente alzando le spalle, come per sottolineare l'ovvio, “perché hai un buon cuore, Seth”, ma io preferisco chiamarlo Karma, o al massimo Destino.

 

So solo che quel giorno del 2008 ho conosciuto la mia anima gemella, e ancora non ne ho trovata un'altra.

 

 

~

 

 

... Ricordi, adesso, Nenè?

 

Io sì. Ed è buffo, perché ci sono tante altre piccole cose che invece, per quanto mi sforzi, proprio non ne vogliono sapere di venire a galla.

Qual'era il tuo colore preferito? E la tua maglietta, la tua canzone del cuore?

Com'era fatto quel braccialetto che ti ho regalato per il tuo undicesimo compleanno? E il nome di quel tuo compagno di scuola, quello che si era preso una cotta terribile e non faceva altro che seguirti ovunque?
Dio, quanti particolari sono andati perduti, quanti anni sono stati cancellati da questa mia memoria imperfetta!

Spero solo di aver raccontato la mia storia bene, con tutti i particolari al loro posto... ci sarebbe stato tanto da dire, ma questa parte è quella che mi ricordo meglio. La vecchia Bridget sarà arrabbiatissima, visto e considerato che qui non c'è più né casetta né tantomeno una decrepita altalena fatta col legno del tetto della strega, ma solo due piloni di legno mezzo marcio che stanno cadendo su se stessi!

 

Sai, non ci tengo tanto a diventare maiale... Non proprio adesso che forse ho trovato il modo di morire, proprio adesso che so come fare a terminare questa mia vita senza senso, che si protrae da anni verso una fine che è solo un puntino nell'infinità del tempo e dello spazio; il modo me l'hai suggerito tu stessa.

Da quanto non ci sei più? Sette, otto, nove anni?

E nemmeno ti ho detto ciao come si deve, ma non voglio parlare di questo, adesso: saperti morta, fredda, ferma immobile nell'oscurità accogliente di una piccola tomba mi fa cedere le gambe, perciò sappi solo che, quale che sia stata la tua scelta, al tempo, io non ti porto rancore, e ti amo ancora come una volta, proprio come ti amano Jake e Thea.

Non sono venuto per piangerti, né per abbandonarmi a vecchi ricordi tristi, oggi. Sono venuto per dirti addio, e non voglio che le lacrime bagnino questo foglio maledetto prima del tempo, perché l'addio deve essere il mio, e non il tuo.

 

Hai visto la data? Ah! Mi devo ricordare di scriverla sul retro della busta, che scemo che sono, in questo non sono cambiato e dovresti saperlo, se da Dovunque Tu Sia hai sbirciato quell'enorme pila di lettere mai inviate tutte indirizzate a te...

 

Oggi è di nuovo quel giorno, Nenè, basta girarci intorno, è così e basta.

È il giorno che ti sei uccisa, ed è quello di quando ci siamo conosciuti, conosciuti sul serio; È il Giorno dei Racconti di Bridget, ricordi? Li chiamavi così da piccola.

I “Racconti di Bridget”, con le lettere maiuscole per sottolineare quanto fosse importante; raccogliersi in cerchio davanti al cadavere di quell'altalena e narrare una storia alla strega, sperando che fosse di suo gradimento, così da poter giocare alla Radura per tutto il resto dell'anno.

Ci tenevi così tanto... e io ti amavo così tanto – ti amo, ti amo ancora, cazzo! – che non ho mai detto niente, e sono stato al gioco e basta anche se mi pareva la cosa più infantile del mondo, anche se è continuato quando eravamo ormai troppo grandi per credere alle favole; ma quella rimaneva, quella era vera e basta.

Storie, torta al cioccolato Clearwater e un po' di sesso, almeno le prime volte, quando avevamo la Radura tutta per noi. Ricordi? Se non mi vedi, sappi che adesso ho un sorrisino piuttosto eloquente sul viso, e non posso farne a meno.

Perché c'è stato anche quello, e forse è la cosa che – egoisticamente – mi manca di più di te; sentire le tue mani tra i miei capelli e le mie labbra sul tuo collo, e quel tuo modo di gemere piano, stringendo forte le cosce contro il mio bacino...

Dove siamo finiti, Nenè? Dov'è finita la donna che amavo, la mia migliore amica, la mia Anima, non gemella, ma solo e soltanto Anima pura e semplice?

 

Ho rivisto Jacob, quando sono tornato, non sembra neanche più lui. Lo hai trasformato in uno spettro, lo stesso spettro che sono io... Lo vedi, da Dovunque Tu Sia? Ci vedi?

Vedi come ci hai trasformato, dandoci la parte migliore di te per poi strapparcela via prima del tempo, prima che capissimo quanto ne avessimo bisogno?

Siamo ombre, ricordi dimenticati, come il tuo colore preferito, o il nome di un tuo vecchio compagno di classe. Stiamo sbiadendo assieme a tutto ciò che ti riguarda, cedendo come il legno della vecchia Bridget, che una volta ti ha fatto fare un volo di quelli da premio Nobel, e tua mamma quasi ti avrebbe chiusa in casa per il resto della tua vita – ah-ah –, tale la paura che le avevi fatto prendere.

 

Tua madre.

Tuo padre.

I tuoi parenti.

Jake, Thea, me.

 

Hai lasciato troppe cose indietro, Nenè, amore mio.

Ci hai lasciato indietro senza riguardo, senza pensarci, perché ti conosco e so come sei fatta: se ti salta in testa una cosa, la fai e basta, senza fasciarti tanto il capo, e ti invidio per questo.

 

Io continuo a pensarci, e la mia mano trema; vedi che schifo di calligrafia?

Non sono sicuro di potercela fare altrettanto, Nenè, amore mio.

Non sono sicuro di poter chiudere gli occhi e lasciare tutti indietro, proprio come hai fatto tu; raccontare una storia, farsi una risata con gli amici e poi appendere una corda alla trave più alta del soffitto, facendosi passare un cappio intorno alla gola.

 

Ci vogliono le palle, Nenè, per ammazzarsi e io non credo di averne abbastanza, perché tutto il coraggio che avevo l'ho messo nell'amare te, e non me ne è rimasto altro.

 

Vedi? Tergiverso.

Non so cosa farò, ma non credo che mi ammazzerò, oggi. Il sole è caldo, la torta è buona come sempre e la vecchia Bridget forse può sopportare il mio peso per un'ultima volta.

Forse me ne andrò, e non tornerò più su questa tomba, su questa Casa della Strega che è il luogo dove ti hanno sepolto, a non più di trenta passi da dove il Posto di Seth e Renesmee (e Bridget) riposa a sua volta.

Forse c'è davvero una corda che aspetta anche me, così come c'è un vento a cui affiderò queste pagine, lo stesso vento che un tempo ti scompigliava i ricci dopo che te li avevo pettinati con le dita.

Forse.

Vedremo cosa mi dirai tu.

 

Hai una buona storia, Nenè?

Vorrei tanto ascoltarne una, adesso.

 

Addio, amore mio.

 

p.s. Ho capito che

 

 

Ho deciso.

Non mi ammazzo.

Oggi c'è il sole, proprio come quella volta, e voglio vedere i tuoi occhi ancora una volta. Forse Thea non mi sbatterà la porta in faccia, se le farò leggere queste parole. Ci sono tante cose che dovrebbe sapere, tra cui anche perché suo padr

 

 

Addio, Nenè.

Ti amo, la corda mi aspetta.

Spero di trovarti con un pezzo di torta alla Clearwater, quando ti rivedo.

Come ti dicevo? “Scalda le labbra, arriva un bacio che scotta!”

Scalda le tue labbra, amore mio, sto arrivando.

 

La corda mi aspetta, mi aspetti te.

Seth C. – luglio 2037

 

 

p.s. (Sì, credo, credo che lo farò. Lo farò, lo farò, lo farò, lo farò...

 

 

 

   
 
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