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Autore: AntheaMalec    30/10/2012    11 recensioni
“E’ questo il bello del leggere le persone, John. Quelli tutti uguali cercano di sembrare diversi, i diversi tentano di sembrare uguali. I liberi se ne fregano. Ogni ruga una riga, ogni smorfia un epigramma, ogni sbadiglio un aforisma scontato. Le persone sono una biblioteca pubblica e non lo sanno.”
John rimase a fissarlo, come incantato da qualcosa che, fino ad allora, non aveva compreso e che in quel momento gli si palesava davanti in tutta la sua immensità. Ecco che cosa aveva visto nei suoi occhi, la prima volta che li aveva incrociati ed ecco il suo essere distante da ogni persona ed ogni cosa, mostrandosi superiore. Intelligente, ecco qual era la definizione. Intelligente, pazzo e irritante. Impossibile come si sentisse già legato a lui in modo irreparabile dopo nemmeno un giorno –sì, sicuramente il suo cervello era degenerato davanti a quel ragazzo.
AU!Teen.
Genere: Fluff, Romantico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: John Watson , Sherlock Holmes
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
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You are the best thing that's ever been mine
  
  
  
  
A moment 
A love 
A dream 
A laugh 
A kiss 
A cry 
Our rights 
Our wrongs 
                                                                                                                                           So stay there 
‘Cause I'll be coming over.


Sweet Disposition


  
  
  
  
  
  
  
John non era solito fare discriminazioni di alcun tipo sulle persone che non conosceva, reputando inutili antipatie a pelle e cattiverie gratuite. Si reputava più un tipo da sbattere la faccia contro un muro prima di considerarlo invalicabile, ma quella mattina si sentiva completamente preso alla sprovvista. 
‘Strano’ era l’unica parola che riusciva a pensare guardando il ragazzo fermo all’entrata della sua aula, con un lungo cappotto elegante che aveva tutta l’aria di essere costoso quanto fuori luogo. Certamente, John non si sentiva la persona più normale del mondo, con quella strana voglia di avventura che gli ottenebrava il cervello da quando era piccolo e quel maledetto problema di non riuscire a fidarsi neppure dei suoi amici, ma quel tipo gli ispirava un non so che di totalmente estremo, qualcosa che andava ben oltre alla classica definizione di tipo misterioso, sforando nell’eccentrico. 
Ecco, decisamente eccentrico, si decise John, spostandosi ansiosamente sulla sua sedia di plastica color arancione e lanciando un’occhiata, terrorizzato, all’unico banco vuoto rimasto nella stanza, accanto a lui. Il professore sembrava impacciato allo stesso modo mentre faceva passare il pennarello per la lavagna da una mano all’altra con movimenti rigidi. 
“Tu devi essere…Sherlock Holmes, giusto?” Sherlock accennò uno sguardo agghiacciante verso il docente prima di annuire, palesemente risentito da qualcosa che ancora non era successo o di cui John, ovviamente, non era al corrente –magari problemi in famiglia, magari solo timidezza. Il professore parve riprendersi un po’, sorridendo al nuovo arrivato, facendogli segno di entrare in aula. “Da quale scuola arrivi? La segreteria non ha scritto niente a riguardo…” 
“Perché non vengo da nessuna scuola, ho sempre studiato a casa. Da solo.” Disse, con voce atona. John pensò che quella era una delle voci più strane che avesse sentito, giusto per rincarare la dose del tipo strambo ed eccentrico. 
Il tono era basso, come se fosse già pienamente adulto, con una cadenza che sembrava provenire esattamente dal centro del suo petto –sì, decisamente aveva qualcosa di misterioso, pensò, afferrando il bordo della sedia e stringendolo lievemente. 
“Oh, oh. Beh, non preoccuparti, ti farai molti nuovi amici in questa classe. Benvenuto!” Sherlock alzò appena un sopracciglio, accigliato. 
“Non sono affatto preoccupato.” Rispose, infilando le mani nel lungo cappotto scuro. Fece qualche secondo di pausa prima di aggiungere un “Ma grazie lo stesso” e dirigersi direttamente verso John. Panico.  Dannato, paralizzante panico che gli stava raggiungendo tutti i muscoli e l’aveva immobilizzato lì, con una faccia da pesce lesso e le mani sudate ancorate alla sedia –idiota, ecco ciò che sembrava. Sherlock lo guardò per un secondo, osservandolo da cima a piedi, prima di sbuffare e poggiare la tracolla in pelle sul pavimento di marmo impolverato. Si slacciò i bottoni del cappotto e si sedette accanto a lui, incrociando le gambe. 
John sentiva i pensieri volare impazziti da una parte all’altra del suo cervello mentre con la coda dell’occhio studiava quel nuovo personaggio tutto particolare. Sherlock sembrava annoiato, constatò, continuando a sbuffare ad ogni parola del professore e giocherellando con il cellulare sotto al banco –ultima generazione: ricco sfondato. John toccò la tasca centrale della sua felpa, verificando che il suo telefonino, passato prima dalle mani di sua sorella, fosse ancora al suo posto. Tirò su con il naso, grattandosi nervosamente la base del collo, già coperta da un maglione color crema nonostante fosse ancora settembre. 
“Ciao…” Provò, spostando lo sguardo dalla lavagna al ragazzo, riempiendosi di coraggio e adrenalina –strano. Sherlock mosse appena gli occhi verso di lui, mozzandogli il respiro in gola. 
“Ciao.” John sentì la voglia di sprofondare nel terreno aumentare a dismisura dopo la sua risposta gelida, ritornando a spostare lo sguardo sul professore, ignaro del suo turbamento. Sicuramente non un tipo logorroico, pensò con sarcasmo, cercando un punto di fuga da quella situazione imbarazzante. Quale sarebbe stato un argomento in comune per poter instaurare un primo dialogo? Vuoto. Panico. 
“Mi chiamo John Hamish Watson.” Stiracchiò le labbra in un pallido sorriso, rivolgendo il viso verso Sherlock, ancora totalmente disinteressato a lui –irritante, ecco un altro aggettivo da affibbiargli. 
“Ma non mi dire…” Sussurrò, con tono canzonatorio, incominciando a scrivere formule, incomprensibili per John, nel margine del suo quaderno. John strinse i pugni, arrabbiato, posando la guancia sulla mano e frapponendo, così, il suo braccio alla vista di quello spocchioso ragazzo che, a quanto pareva, non sapeva nemmeno il significato della parola educazione, tantomeno di gentilezza. Lo ignorò per tutto il resto della lezione e per quella dopo ancora fin quando la campanella dell’intervallo suonò, dandogli un momento di respiro da quel compagno di banco che saturava l’aria di tensione. 
John si alzò di scatto, facendo stridere la sedia sopra le mattonelle scure del pavimento, pronto per incontrare Greg, il suo vecchio compagno di classe, nel corridoio –un viso simpatico in quella giornata terribile. Si diresse a passo spedito verso la porta della sua classe, zigzagando tra i suoi compagni raggruppati tra i banchi e nel poco spazio libero disponibile in quell’aula troppo piccola. Gettò un’occhiata indietro, inconsciamente, proprio quando si trovò nel vano della porta, per controllare cosa stesse facendo l’eccentrico ragazzo solitario con cui aveva avuto l’onore di non poter parlare. 
Una spiacevole stretta allo stomaco lo costrinse a fermare la sua corsa verso il suo amico, dividendolo in due: una parte voleva andare da Greg e divertirsi, lasciandosi alle spalle tutti quei nuovi volti sconosciuti e che non lo ispiravano per nulla, dall’altra, invece, c’era quel ragazzo, così strano e così scontroso, che ora gli appariva solamente solo, abbandonato a sé stesso dietro una muraglia invalicabile. John si ricordò le parole che aveva sentito pronunciare da Sherlock con il professore, domandandosi come dovesse essere entrare in una scuola pubblica dopo aver passato un’intera esistenza chiusi dentro una campana di vetro, senza nessuna compagnia e senza nessuna interazione con altri suoi coetanei. 
Si sentiva spaesato? Fuori luogo? Sentiva, come John, il bisogno di evadere da quella classe ed andare da qualcuno che poteva comprenderlo? John si maledì un milione di volte, lanciando un ultimo, affranto sguardo nel corridoio pieno di gente, prima di rituffarsi in classe –lui e il suo stupido animo da medico pronto a soccorrere gli altri. 
Ritornò indietro, osservando, con una punta di astio, il gruppetto ridotto di ragazzi che rideva, sussurrando il nome di Sherlock. John reprimette l’impulso di andare a litigare con qualcuno il primo giorno di scuola, continuando la sua marcia verso il banco di Sherlock, dove quest’ultimo digitava freneticamente sul suo cellulare, non prestando attenzione a nessuno. Prese un lungo respiro prima di ricordare come si facesse a parlare, il ricordo dell’imbarazzante fallimento di meno di un paio d’ore prima ancora impresso nella mente. 
“Ehi…” Disse, cercando di catturando l’attenzione dell’altro, aprendosi in un grosso sorriso d’incoraggiamento. Sherlock alzò la testa, sorpreso, fissandolo con quegli occhi così chiari da mandarlo per un momento in confusione. 
“C’è qualche problema?” Domandò, con voce bassa e pacata. Almeno non aveva fatto del sarcasmo, si consolò John, prendendo fiducia in se stesso e poggiando le mani sul banco dell’altro, il sorriso ancora fisso sul suo volto. 
“No, nessun problema. Come mai stai qui da solo?” Sherlock aggrottò le sopracciglia, forse in cerca di una risposta appropriata da dargli o, più probabilmente, decidendo se rispondergli o meno. John si ritrovò a sperare che Sherlock non gli chiudesse quell’ipotetica porta che stava cercando di aprire con tutte le sue forze,  si ritrovò a sperare che continuasse a parlare con quel tono di voce particolare e che gli svelasse perché si rivestisse di quella boria arroganza, allontanando ogni persona, si ritrovò a sperare in un qualunque segno di permesso, si ritrovò a sperare e non riusciva a comprenderne il motivo. 
Dopo un tempo che gli parve infinito, Sherlock si decise a rispondere alla domanda di John, facendogli rilassare i muscoli tesi delle spalle. 
“La solitudine mi piace, sono le persone che non sopporto.” Sherlock sembrava studiare ogni sua singola reazione, come se fosse un vetrino sotto ad un microscopio, e John non riuscì proprio a reprimere il sorriso di soddisfazione e divertimento che gli stirò le labbra. 
“E’ un po’ borioso da dire, da parte tua.” 
“E’ la verità.”  John prese una sedia dal banco davanti a quello di Sherlock e si accomodò accanto a lui, sentendo i muscoli dolere per il leggero accenno di sorriso che continuava a sostare sul suo volto. Sherlock, d’altro canto, rimaneva impassibile nella sua rigidità, il cappotto ancora addosso, nonostante fosse sbottonato, e gli occhi puntati su di lui in quella maniera guardinga che lo metteva in soggezione. 
“Come mai sei qui?” Chiese Sherlock, bloccando lo schermo del suo cellulare e rimettendolo nel sottobanco, al sicuro da mani troppo lunghe. 
“Non è stata una mia scelta, la direzione ha diviso tutti i miei compagni in classi diverse e io sono stato messo…qui.” Borbottò John, acquisendo un tono quasi disgustato pronunciando l’ultima parola. Sherlock sembrò innervosirsi maggiormente. 
“No, intendevo qui, ora, quando era cristallino il fatto che tu volessi uscire da quest’aula il più velocemente possibile, probabilmente per andare da un tuo vecchio compagno di classe.” John si morse l’interno guancia, in preda alla confusione più totale. Che scusa avrebbe potuto inventare? Che reazione avrebbe avuto Sherlock se gli avesse svelato che era rimasto lì per lui? L’avrebbe considerata come un gesto fatto per pena, per pietà? Non era quella l’intenzione di John e non voleva che l’altro fraintendesse le sue motivazioni. La voce dei suoi compagni di classe, sempre più alta e sempre più irritante, non fece altro che rendergli la situazione ancora più difficile del previsto. 
“Ti ho visto seduto al tuo banco, da solo e-” 
“E hai pensato bene che volessi un po’ di compagnia da te?” John abbassò la testa, sentendosi un completo imbecille ad averci provato per l’ennesima volta, quando era chiaro che fosse un tipo così solitario da non sopportare nemmeno due chiacchiere con il proprio compagno di banco. Il suono della campanella lo riscosse dai suoi pensieri, facendolo alzare dalla sua postazione, rimettere la sedia al suo posto e sedersi vicino alla finestra, accanto a Sherlock –ancora, imbarazzante. 
Si spostò il più possibile lontano da lui, cercando rifugio dalla patina di idiozia che sentiva sulla pelle fuori dalla finestra, nel grande giardino pieno di alberi che la scuola offriva –unico pregio di quella scuola pubblica. Quando la professoressa di geografia entrò in aula, con gli usuali occhiali rotondi che la facevano somigliare ad una mosca particolarmente velenosa, John si decise a prendere carta e penna per gli iniziali appunti di inizio anno, frugando nello zaino alla ricerca di un astuccio e di un quadernino. 
Lanciò uno sguardo al suo vicino di banco, osservandolo navigare su Internet con il suo cellulare sul sito della polizia londinese –pazzo, ecco cos’era, un pazzo squilibrato con problemi a relazionarsi con le persone. 
“Holmes?” La testa del ragazzo si alzò di scatto, insieme a quella di John, concentrata sugli appunti. “La mia lezione l’annoia?” Il mezzo sorriso che deformò il viso di Sherlock provocò uno strano brivido lungo la schiena di John. 
“Ovviamente no, professoressa.” Rispose, con una sottile nota ironica nella voce. Pazzo, sicuramente, pensò John, fissandolo apertamente. La professoressa arricciò le labbra, infastidita dal comportamento dello studente. 
“Allora ripetimi di cosa stavamo parlando, se non è di troppo disturbo.”  Sherlock rimase con quel ghigno imperturbabile, non proferendo parola. John, d’istinto, spinse il suo quaderno vicino alla metà banco, per far dare un’occhiata al ragazzo riccioluto che, continuava a ripetersi, non meritava un simile comportamento così bendisposto da parte sua. Sherlock lanciò un’occhiata al titolo scritto al centro del rigo, all’inizio della pagina, e ritornò a prestare attenzione alla professoressa. 
“I procedimenti fondamentali per interrogazioni con voto sufficiente.” Proruppe, convinto, fissando negli occhi la docente, che, se possibile, storse maggiormente le labbra. 
“Se ti vedo ancora distratto, Holmes, incomincerai l’anno con una bella nota sul registro.” Sherlock continuò a sorridere mentre la professoressa rincominciava la lezione, lasciando perdere quel ragazzo completamente ineducato che gli era capitato in classe. John riprese possesso del suo quaderno, facendo finta che niente di tutto quello fosse accaduto, facendo finta di non notare che lo sguardo di Sherlock fosse spontaneamente puntato su di lui, per la prima volta. 
“Puoi prestarmi la tua penna?” John si girò, sorpreso da quella presa di posizione che faceva sembrare quel momento un ritaglio di un universo parallelo. Rimase per qualche secondo con la bocca socchiusa, prima di afferrare una penna nera dall’astuccio color fumo e porgergliela. Deglutì a vuoto, osservandolo spostarsi un ciuffo di riccioli neri dalla fronte e incominciare a prendere appunti a sua volta. 
Buffo come, un minuto prima, John avrebbe voluto trovarsi da qualunque parte al mondo tranne che vicino a quel tipo strano mentre ora, continuando a guardarlo come se fosse una specie rara, John ne era completamente soggiogato, nonostante lo conoscesse da nemmeno un giorno. 
“Non conosci nessuno in questa scuola?” Chiese John a bassa voce, cercando, nuovamente, di fare conversazione. 
“Conosco un paio di persone, a causa di…interessi comuni.” 
“E quali sarebbero questi interessi comuni?” Si sentì un po’ impiccione, a fargli così tante domande dopo tutto quel silenzio pieno di tensione, ma John non riusciva proprio a trattenere la curiosità di sapere, conoscere e capire quel ragazzo così solitario e quasi irraggiungibile, ai suoi occhi. Sherlock si tormentò con una mano il bottone scuro del cappotto, soppesando la sua domanda. 
“Non credo tu voglia veramente saperlo.” 
“Non mi conosci, non puoi saperlo.” Sherlock incrociò il suo sguardo proprio mentre la campanella suonò, decretando la fine della lezione. 
“Siete tutti così uguali.” Brontolò Sherlock, osservando la propria pagina di appunti e, improvvisamente, strappandola senza ripensamenti. John lo fissò, preoccupato per la sua sanità mentale. 
“Non capisco cosa vorresti intendere con questa frase.” 
“Ciò che ho detto.” 
“Io non sono uguale agli altri, Sherlock.” Era la prima volta che pronunciava il suo nome, constatò John, in preda ad un raptus da ragazzina della scuola primaria. Era anche la prima volta che non conosceva nessuno in una classe di trenta alunni ed era la prima volta che si sentiva così coinvolto da un altro essere umano, nonostante non l’avesse mai incontrato prima e nonostante il loro primo approccio fosse stato un completo disastro. Quel giorno era tutto una gigantesca prima volta e John si sentiva da una parte intimorito e dall’altra euforico –la pazzia, molto probabilmente, era una malattia contagiosa. Sherlock fece una breve risata, alzando un sopracciglio. 
“E’ questo il bello del leggere le persone, John. Quelli tutti uguali cercano di sembrare diversi, i diversi tentano di sembrare uguali. I liberi se ne fregano. Ogni ruga una riga, ogni smorfia un epigramma, ogni sbadiglio un aforisma scontato. Le persone sono una biblioteca pubblica e non lo sanno.” John rimase a fissarlo, come incantato da qualcosa che, fino ad allora, non aveva compreso e che in quel momento gli si palesava davanti in tutta la sua immensità. Ecco che cosa aveva visto nei suoi occhi, la prima volta che li aveva incrociati ed ecco il suo essere distante da ogni persona ed ogni cosa, mostrandosi superiore. 
Ora gli appariva tutto nitido e distinto come se avesse scoperto uno dei segreti universali che erano rimasti nascosti per anni agli sguardi indifferenti di tutte le persone che lo avevano conosciuto. Sherlock stava ricambiando il suo sguardo, il richiamo della professoressa che si perdeva nelle voci confuse degli altri studenti. 
Intelligente, ecco qual era la definizione. Intelligente, pazzo e irritante. Impossibile come si sentisse già legato a lui in modo irreparabile dopo nemmeno un giorno –sì, sicuramente il suo cervello era degenerato davanti a quel ragazzo. Sherlock sembrava esaminarlo accuratamente, come se stesse maneggiando una bomba ad orologeria pronta ad esplodergli in faccia al primo movimento azzardato –aveva paura che lo avrebbe insultato? Che l’avrebbe deriso? Riusciva a vedere un leggero lampo di incertezza dentro alle sue iridi chiare. 
Quando un uomo sapeva più degli altri diventava solitario, ma John credeva che la solitudine non fosse necessariamente nemica dell’amicizia perché nessuno era più sensibile alle relazioni di una persona sola. 
“Dovresti usare questa frase per la tua premiazione, quando vincerai il nobel per l’egocentrismo.” Gli lanciò un’occhiata complice e vide Sherlock rilassarsi notevolmente, abbassando le spalle in una posizione più comoda e alzando lievemente le labbra in su, accennando un sorriso. Complici, per la prima volta. 
  
Freddo. Un freddo che gli stava entrando nelle ossa e gli faceva condensare il respiro. John si strinse di più nel suo giubbotto troppo leggero, affrettando il passo per raggiungere il più velocemente possibile la scuola.  Era la seconda settimana di scuola e aveva già l’umore sotto ai piedi, insieme al meteo londinese, a quanto pareva. Attraversò il parco giochi per bambini, desolato a causa dell’ora mattiniera, e si addentrò nel viale che portava all’edificio scolastico, già pieno di studenti dall’aria mogia e affranta. 
Si guardò un po’ intorno, cercando di usare quel metodo di osservazione che il suo vicino di banco, ancora scontroso come se fosse stato il primo giorno, gli aveva fatto conoscere, tra una lamentela per le lezioni noiosi e uno sbuffo per gli studenti tutti, miseramente idioti –compreso lui, aveva detto. 
John ancora si chiedeva perché si facesse insultare gratuitamente da quel pallone gonfiato. Passò sulle strisce pedonali e lasciò perdere le leggere pacche che ogni ragazzo gli dava mentre camminava, incuranti che esistesse anche lui in quel mondo. Si sistemò meglio la cuffia destra per ascoltare la musica nell’orecchio, nonostante fosse spenta da qualche minuto; preferiva far finta che fosse estraniato da quella città piuttosto che dar retta a quegli individui che, a dir la verità, non gli piacevano per niente. 
Fece per girare nella via alberata che l’avrebbe portato finalmente al dolce calore della scuola, quando un ragazzo gli piombò addosso, facendogli quasi perdere l’equilibrio. 
“Ehi!” Sbottò John, lasciando la presa che, inconsciamente, si era stretta sul cancello color verde alla sua destra. Alzò lo sguardo, già pronto per dire due parole a quel maleducato quando i suoi occhi incontrarono un viso e un cappotto elegante familiari. 
John aprì la bocca senza che ne uscisse alcun suono, troppo sorpreso di averlo incontrato così per poter articolare una frase con senso compiuto. Sherlock rimase per un momento a guardarlo, come se fosse in dubbio su cosa fare, prima di aggrottare le sopracciglia e andarsene, dalla parte opposta alla scuola. Nella testa di John suonò un campanello di allarme, lanciando uno sguardo nervoso al ragazzo che, pian piano, si stava perdendo tra la massa di ragazzi che avevano destinazione diversa dalla sua. 
“Sherlock!” Provò a urlare, cercando di richiamare la sua attenzione, inutilmente. Stava per marinare la scuola, dopo una sola settimana? John si mordicchiò il labbro inferiore, indeciso su cosa fare. Non aveva di certo intenzione di bigiare una giornata di scuola solo per seguire quel pazzoide che a malapena conosceva, eppure percepiva una forza magnetica spingerlo verso Sherlock, prima che si cacciasse in una di quelle situazioni pericolose che, aveva capito, gli piacevano tanto. 
Lanciò un ultimo sguardo alla scuola in lontananza, in un fin troppo recente déjà-vu del primo giorno di scuola, quando aveva deciso di restare con Sherlock, nonostante Greg –lo stava facendo diventare troppo importante, troppo in fretta. Sperò che nessuno lo riconoscesse, camminando a testa china dove, prima, aveva visto scomparire Sherlock. Colpì accidentalmente alcuni ragazzi, scusandosi sottovoce e aumentando il passo di volta in volta, cercando di riconoscere la schiena del suo compagno. 
Arrivato al semaforo rosso, John battè il piede contro l’asfalto del marciapiede, irritato da quella pausa che aumentava la distanza tra lui e Sherlock, di cui riusciva a vedere solamente la testa riccioluta in fondo alla via –dannato ragazzo e dannato John, che aveva intrapreso quella pazza idea per una ragione che non conosceva nemmeno lui. Appena ci fu il verde, John incominciò a correre, una mano a tenere una bretella della cartella e l’altra chiusa a pugno, nello sforzo di raggiungerlo. Sorpassò una vecchietta con un cane e svoltò a sinistra, individuandolo nel parco che, poco prima, aveva attraversato John. 
“Sherlock!” Riprovò, sperando di attirare finalmente la sua attenzione. Il ragazzo si girò, fermandosi nella stretta strada serrata che divideva a metà il parco giochi, attendendo che John lo raggiungesse. 
“Che cosa ci fai qui?” Chiese, ancora con il respiro affannato mentre una mano premeva sull’anca. Sherlock alzò un sopracciglio, interdetto. 
“Che cosa ci fai tu qui. Io sto andando a…utilizzare il mio tempo in modo più utile e meno noioso.” 
“Oggi c’è scuola, Sherlock. Non dovresti incominciare l’anno marinandola!” 
“Hai intenzione di farmi da madre per tutto l’anno?” John abbassò la testa, reputandosi sconfitto e sentendo il freddo, che aveva cacciato per un po’ di tempo con la corsa, tornare prepotente a fargli venire la pelle d’oca su tutto il corpo. Mise le mani dentro le tasche, stringendosi nelle spalle. 
“Dove stai andando, quindi?” 
“Te l’ho già detto, non mi piace ripetermi.” Disse, riprendendo a camminare con passi lunghi, dovuti alla lunghezza sproposita delle sue gambe che John gli invidiava  silenziosamente. 
“Posso venire con te?” Chiese John, d’istinto, mordendosi la lingua il secondo dopo aver pronunciato quelle parole. Era stato azzardato e stupido, prendendo in considerazione il fatto che a malapena si parlavano nell’ambito scolastico. Sherlock fermò nuovamente la sua marcia, fissandolo con quei suoi grandi occhi chiari e scrutatori. 
“Non hai di meglio da fare?” Mormorò, in un mormorare basso che, John aveva imparato in quei giorni, stava a significare che l’aveva colto di sorpresa. 
“No, sinceramente.” Restarono a guardarsi a vicenda, studiando uno il volto dell’altro, alla ricerca di chissà quale segnale che decidesse la vittoria o la sconfitta di entrambi. Sherlock sembrò risvegliarsi da quell’immobilità, tirandosi il colletto del cappotto in alto, a sfiorare gli zigomi sporgenti. 
“Torna a scuola.” Sentenziò, voltandogli le spalle e camminando lontano da lui, a passo svelto. 
“No, aspetta!” 
“Ho detto torna a scuola, sei ancora in tempo.” Rispose ad alta voce, continuando nella sua direzione. John rimase per un attimo fermo, prima di stringere la mascella in un moto di rabbia e seguirlo a passo militare. Non si sarebbe fatto mettere i piedi in testa anche quella volta, non era il suo servo né tantomeno un giocattolo a cui impartire ordini, John aveva scelto ancora prima di raggiungerlo, ancora prima di ritornare indietro per andare a cercarlo, che avrebbe scelto di seguire Sherlock di sua spontanea volontà e nessuno, tantomeno meno quell’idiota sbruffone, poteva permettersi di decidere per lui. 
Lo seguì silenziosamente, calpestando le orme immaginarie dei suoi passi e stringendosi sempre di più nel cappotto mentre l’aria si faceva via via più pungente. Sorpassarono il parco e si allontanarono dal centro città, fino a quando Sherlock si decise a finire quella farsa, facendosi raggiungere da John. Sorrise di soddisfazione per quella prima vittoria avuta sull’altro, sentendo un altro brivido andare a percorrergli la colonna vertebrale. 
“Qual è la tua idea di svago e divertimento?” Chiese ad un tratto John, cercando di fare un minimo di conversazione. Sherlock gli lanciò un breve sguardo, aspettando un paio di secondi prima di rispondergli. 
“Esperimenti.” 
“Esperimenti?” Sherlock annuì e John sorrise all’idea di un piccolo chimico nascosto dentro al suo compagno di banco –e avventure. 
“Anche a me piacciono gli esperimenti.” Disse, come per tranquillizzarlo in qualche modo. Non lo considerava più strano, forse un po’ eccentrico, ma, sostanzialmente, a John andava bene così. 
“Mi piace anche vivisezionare gli animali.” Riprovò Sherlock, cercando, pensò John, una reazione scioccata in lui. Stava aspettando che reagisse come tutte le altre persone che erano state messe al corrente dei suoi hobby? Stava aspettando che ridesse e che lo additasse? 
“Non è bello ciò che è bello, ma è bello ciò che piace, si dice così?” Sherlock aggrottò le sopracciglia, perplesso, e John sentì un moto di tenerezza nascergli dal centro del petto e divorargli ogni nervo del corpo. Infilò ancora di più le mani nelle tasche del giubbotto, sfregando il naso, ormai rosso, sulla sua spalla, cercando di riscaldarlo. Ad un tratto sentì qualcosa di morbido e caldo circondargli il collo e dargli un tepore assurdamente piacevole mentre Sherlock camminava imperterrito a fianco a lui, evitando a tutti i costi il suo sguardo. 
“Non vorrei portarti all’ospedale perchè sei così stupido da non saperti coprire decentemente, John, sarebbe noioso che tu andassi in ibernazione.” John sorrise a labbra chiuse, annusando la sciarpa color blu oceano che Sherlock gli aveva messo addosso. Era quello il suo odore? Sapeva di profumo costoso, di sapone e di una fragranza particolare, probabilmente l’odore della sua pelle –pelle di Sherlock. 
John sentì un altro brivido scuoterlo tutto, cercando di trattenere quella sensazione paradossale di euforia che la compagnia di Sherlock gli creava, trasportandolo in una dimensione parallela dove tutto era lecito e il mondo appariva solo come un immenso campo di battaglia da dover abbattere –meraviglioso. 
“Quindi ora stiamo andando a fare un esperimento?” Domandò John, cercando di tenere il passo dell’altro mentre osservava il paesaggio, non più disegnato tra profili di case e macchine, tutt’intorno a lui. 
“Certo che no, John. Stiamo andando a cercare gli elementi per un esperimento epico.” Rispose, irritato come se fosse alle prese con un bambino particolarmente duro di comprendonio. Battè le mani, entusiasta, prima di prendere inaspettatamente una via laterale che si apriva in un enorme parco, completamente desolato e completamente pieno di verde, nonostante l’autunno stesse già bussando alle porte. 
“Wow! Come hai fatto a trovare questo posto?” Sbottò John, sempre più stupito del fatto che quel piccolo paradiso creato dalla Natura non fosse mai giunto al suo orecchio tra tutte le chiacchiere delle persone a lui vicine. I rami degli alberi sembravano legarsi gli uni agli altri, creando un intricato puzzle di luce e ombra sopra la strada sterrata piena di pietre e radici sporgenti. Pareva un luogo inviolato, come se si fossero immersi in una città totalmente differente dalla Londra caotica e confusionaria che conoscevano. 
“Non è sempre così deserto, al pomeriggio e nei weekend è sempre pieno di bambini urlanti.” Fece una smorfia contrariata dopo le sue ultime parole, facendo sorridere John, ancora immerso in quella vena naturalistica che si era riaccesa, istintivamente, in lui. 
“E’ per questo che ci vieni la mattina.” Finì per lui, John, seguendolo nella stradina, cercando di non inciampare e fare, così, la figura dell’idiota –più di quanto non la stesse già facendo, ovviamente. Sherlock continuò a seguire il percorso, sempre alcuni passi avanti a John, come se fosse così legato a quel posto da conoscerlo a menadito. John provò a ricordarsi qualcosa delle lezioni di scienze che aveva ascoltato e appreso in tutti i suoi anni di scuola, provando a riconoscere qualche piante e qualche fiore, ma tutto quello che riusciva a fare era guardare la stradina, incespicare e pensare furiosamente alla loro destinazione. 
“Sherlock, manca ancora molto?” Chiese, tirando fuori il suo cellulare e accorgendosi che, oltre al fatto che stessero camminando da più di un quarto d’ora, non c’era campo per telefonate o messaggi –perfetto; sperava solo che la scuola non avesse chiamato sua madre per la sua assenza. 
“Siamo arrivati, conserva le forze per aumentare il passo al posto di lamentarti sempre.” John gli perforò la schiena con lo sguardo, oltraggiato dal suo modo burbero di trattarlo quando, in fondo, aveva fatto solo una domanda lecita. 
John perse per un momento l’equilibrio a causa di un sasso grande quanto, se non più, di un suo pugno, prima di alzare nuovamente lo sguardo e trovare il paradiso terreno. La luce opaca del sole di Londra, coperto dalle usuali nuvole, creava un’atmosfera mistica e misteriosa a quel campo, tagliato all’inglese, immenso e vuoto, costeggiato da alberi alti e maestosi che conferivano una barriera al resto del mondo. Davanti a Sherlock e John, a pochi passi di distanza, si trovava un piccole fiume, largo un paio di metri, che tagliava in orizzontale il prato. 
Sherlock si girò verso di lui, gustandosi la sua reazione e compiacendosi che fosse stato lui a fargli conoscere quel posto. 
“E’…splendido.” 
“E’ un posto come un altro.” Borbottò Sherlock, gettando la borsa a tracolla per terra e dirigendosi verso l’esterno, vicino ai tronchi degli alberi, come un cane da caccia che annusa una pista particolarmente entusiasmante. John mise a sua volta la cartella sul prato, vicino al ruscello, prima di sedervisi sopra per non bagnarsi i pantaloni con la rugiada ancora presente sui fili d’erba.  
Il fiume era ricoperto da una sottile lastra di ghiaccio dovuta alla temperatura bassa e, da dove John si era appostato, poteva riuscire a toccarla senza incappare in erbacce troppo alte che gli impedivano il gesto o la visuale. Il freddo lo colpì ai polpastrelli, facendogli infossare di più la testa contro la sciarpa di Sherlock che continuava a mantenere il suo profumo inebriante. 
Si sentiva strano, come se quel John Watson che era seduto sulla sua vecchia e sporca cartella, aspettando che il suo amico –amico, Sherlock Holmes era suo amico– finisse di prendere le sue dannate piante per gli esperimenti, non fosse veramente lui. Era cambiato dall’anno precedente, dove tutti erano allo stesso livello e lui aveva trovato conforto nel carattere amichevole e scherzoso di Greg. Ora tutto gli appariva sotto una nuova luce, più coinvolgente e decisamente più invitante, come se Sherlock fosse arrivato d’improvviso nella sua vita, senza chiedergli il permesso, e avesse tirato giù la tenda che gli aveva offuscato la vista per tutta la sua esistenza. Lo metteva in discussione ogni giorno, fregandosene di cosa pensasse la gente di lui e andando per la sua strada, cercando ciò che gli piacesse veramente fare. 
Fin da subito si era sentito attratto dalla sua personalità così forte, che lo aveva contraddistinto anche quando, silenziosamente, non aveva fatto altro che fissarlo mentre si sedeva nel banco vicino al suo. John era consapevole del fatto che, precedentemente, non avrebbe mai saltato la scuola per inseguire un ragazzino testardo che preferiva rimanere in posti solitari e vivisezionare gli animali, ma in quel momento si trovava lì, con lui, e, anche provandoci, non riusciva a provare nessun senso di colpa che gli pesasse sul cuore. Stava bene, per la prima volta. 
“I tuoi pensieri riescono ad irritarmi anche a distanza, è una cosa incredibile!” 
“La tua simpatia è davvero struggente, Sherlock, quasi poetica.” Il suddetto in questione gli fece un mezzo sorriso dall’alto, sistemandosi il cappotto con entrambe le mani, rese ancora più bianche dal freddo –avrebbe dovuto ridargli la sciarpa? No, se la sarebbe tenuta ancora un po’ per sé, giusto per non ibernarsi. 
“Cosa aspetti ad alzarti?” Continuò poi, osservandolo corrucciato quando John non si spostò un millimetro dalla sua postazione, vicino al ruscello congelato. 
“Dobbiamo già andare?” Domandò, infatti, usando un tono affranto e sperando che così riuscisse a scalfire un po’ della sua corazza di ferro. La verità era che quel posto gli piaceva davvero tanto e, comunque, non avevano poi molto altro da fare, per tutto il resto della mattinata. 
“Pensavo avessi freddo.” Mormorò appena, prendendo la sua cartella, abbandonata un po’ più in là, e portandola vicino a John, sedendovisi allo stesso modo. 
“Sì, ma voglio restare ancora un po’.” Quel posto sembrava appena uscito dalle pagine di un libro antico e la cosa aveva il potere di acquietare l’animo di John in una maniera strana –o forse era solamente la compagnia con cui stava vivendo quel momento, non lo sapeva. Sherlock faceva passare il mazzo di erbe color verde pastello da una mano all’altra, togliendo, di tanto in tanto, un po’ di terreno ancora attaccato alle fragili radici. 
“Perché non volevi che venissi insieme a te, stamattina?” Chiese John, dopo un tempo di indefinibile silenzio, spalla contro spalla come due vecchi compagni. 
“Te l’ho già detto, mi piace la solitudine.” 
“A nessuno piace la solitudine, Sherlock, soprattutto alla nostra età.” Sherlock storse la bocca, infastidito. 
“Gli amici sono sopravvalutati. Bisogna sopportare ogni difetto, ogni pensiero stupido dell’altro tenendo conto dei suoi…sentimenti. Terribile.” John rise, portandosi una mano sul volto mentre la faccia perplessa di Sherlock compariva nella sua visuale, osservandolo. 
“Non credi nemmeno tu a quello che dici!” Il moro mise su un adorabile broncio che fece ridere di più John, ormai con gli occhi lucidi. 
“Nell’amicizia ci vuole reciproca fiducia, è questa la realtà. Se non mi fido di te, non potrà mai esserci un minimo di rapporto. Se, invece, mi fido di te, allora quello è il momento in cui mi freghi.*” John scosse la testa, decisamente contrariato da quella definizione insulsa ed errata di un affetto che lui riteneva sacro, nonostante non lo avesse effettivamente provato con nessuno. 
“Dovresti solo trovare la persona giusta.” 
“Non esiste la persona giusta, per me.”  Era triste da dire, pensò John, osservandolo con la coda degli occhi, mentre l’altro fissava con sguardo perso il campo infinito oltre il ruscello. Anche lui si era sentito solo, a volte, negli istanti in cui si rinchiudeva nella sua stanza e si raggomitolava nel letto con la musica nelle orecchie, cercando di non far pesare a se stesso la solitudine o in quei momenti in cui, nella sua classe, osservava i suoi compagni ridere, dialogare e abbracciarsi amorevolmente, tagliandolo fuori da quella famiglia che loro creavano ma che a lui stava scomoda. Lo capiva, da un certo punto di vista. Capiva il suo punto di vista, il suo rimanere distaccato dal mondo per non farsi pungere da niente e nessuno, la sua intelligenza che, da un idiota, poteva essere disprezzata e non elogiata, come avrebbe dovuto essere. Rimase in silenzio, non rispondendo a quella frase che sapeva tanto di resa più che di certezza. 
“Dovremmo ritornare indietro, ormai è quasi mezzogiorno.” Disse Sherlock, alzandosi da terra e spolverandosi i jeans eleganti con entrambe le mani. John non aveva voglia di lasciare né quel posto né il suo compagno, in un moto di possessività che non gli apparteneva e che era davvero troppo prematuro –lo conosceva da una sola settimana, non poteva, non con un tipo come lui. Passò lo sguardo lungo tutta la distesa di verde e di ghiaccio, sperando di imprimersela perfettamente nella memoria, in modo da poterci ripensare non appena fosse tornato a casa, tutto solo. Si alzò a sua volta, riprendendo la cartella in spalla e seguendo Sherlock nella stradina che precedentemente avevano percorso, in silenzio. Si sentiva come se stesse dicendo addio a un sogno particolarmente travolgente e questo non gli piaceva, visto anche l’atteggiamento ancora più introverso di Sherlock in quel frangente –gli aveva fatto qualcosa? L’aveva offeso in qualche modo?. 
“Adesso ritornerai a casa a fare il tuo esperimento?” Provò a chiedere John, osservando il terreno alla ricerca della risposta a quel problema che appariva sempre più gigantesco ogni secondo che passava. 
“Sì.” 
“Sei…” John si schiarì la voce, sentendosi un idiota colossale comportandosi in quel modo. “…sei, hm, arrabbiato con me per qualche motivo?” Sherlock arrestò la sua corsa imperterrita, girandosi verso di lui e facendo quasi cadere John. 
“Perché dovrei? Non ce n’è ragione.” 
“Beh, pensavo fossi arrabbiato e…e in realtà non vorrei davvero che tu fossi arrabbiato con me, quindi mi farebbe piacere che tu me lo dicessi, se ci fosse qualche problema.” L’aveva detto tutto d’un fiato, sentendo le guance arrossire appena, non solo per il freddo ma anche per il sentimentalismo davvero fuori luogo di quel momento. Cosa diavolo gli era saltato in mente? Adesso avrebbe pensato che fosse una stupida ragazzina con quelle crisi ormonali ed esistenziali che capitavano alle sue compagne di classe ogni mese. Sherlock aggrottò le sopracciglia, confuso. 
“Okay…?” Borbottò, assumendo un tono interrogativo, come se non fosse propriamente sicuro di ciò che stesse dicendo. 
“In realtà stavo pensando, è per questo che ero in silenzio. Non parlo mai quando sto riflettendo, alle volte alle persone dà fastidio.” John scrollò le spalle e Sherlock rincominciò a camminare, osservando alle volte dei particolari rami o, altre volte, fermandosi a osservare dei microscopici insetti che, dopo alcuni secondi, provava ad afferrare, fallendo miseramente, mentre il sorriso di John permeava sul suo volto, diffondendogli un piacevole calore nel petto. Forse c’era qualcosa di sbagliato in lui, si diceva John, qualcosa che gli altri notavano superficialmente e etichettavano come anormale, qualcosa di sbagliato, senza limiti e senza freni. 
Eppure, c’era qualcosa di sbagliato anche in John, qualcosa che lo perseguitava fin da quando era un moccioso che giocava con i soldatini di plastica, qualcosa che lo aveva sempre fatto estraniare dal gruppo e fatto camminare nella solitudine e nella non fiducia. C’era qualcosa di sbagliato in Sherlock e qualcosa di sbagliato in lui e quello, quello li faceva essere simili ed equivalenti, come due facce della stessa medaglia, come gli spazi tra le dita di una mano. 
“Vieni spesso in questo posto?” Chiese John quando videro finalmente l’uscita del parco davanti a loro. 
“Dipende.” 
“La prossima volta che ci verrai spero che me lo farai sapere.” Disse, in un moto di coraggio che gli fece drizzare la schiena a serrare i pugni lungo i fianchi. L’audacia, con quel tipo, sembrava essere all’ordine del giorno e a John questo piaceva –erano tante le cose che scopriva piacergli, da quel primo giorno. Sherlock rimase in silenzio per un po’ mentre riprendevano il percorso in asfalto e ritornavano nella caotica Londra di tutti i giorni. 
“Ci penserò.” Rispose, infine, facendogli comparire un grosso sorriso sul volto. John avrebbe voluto vedergli il volto, per scoprire cosa diavolo passasse in quella mente confusionaria, ma Sherlock sembrava intenzionato a camminare sempre alcuni passi davanti a lui e ciò non gli permise di fare nient’altro se non osservargli la schiena e fantasticare. 
“E’ una promessa?” 
“E’ una promessa.” John strinse un lembo della sciarpa di Sherlock in una mano, fiducioso. 
  
  
Era in ritardo, come al solito. Non che John si aspettasse di vederlo già lì, davanti al loro ruscello, nonostante la temperatura polare e la neve che gli copriva quasi interamente le scarpe, no di certo, solo un pazzo avrebbe fatto affidamento su Sherlock Holmes –ed eccolo lì, ancora appresso a lui dopo interi mesi. 
Non sapeva neanche lui perché andassero ancora in quel parco nonostante ormai fosse dicembre e il freddo fosse arrivato da molto tempo, ma si trovavano bene e il senso di appartenenza che aveva sentito la prima volta non si era mai spento o affievolito. Era il loro rifugio lontano da tutti e lontano da Londra e John non aveva nessuna intenzione di rinunciare a esso. 
 Incominciò a spostare la neve in modo tale da formare un rettangolo abbastanza grande da poter stendere i quattro plaid, uno sopra l’altro, che servivano per non far arrivare l’acqua fino ai loro pantaloni. Si sedette proprio nel momento in cui vide Sherlock, perfettamente coperto ed elegante, fermo davanti alla stradina innevata, con un mezzo sorriso a decorargli il volto. 
“Era ora che arrivassi!” 
“Sono qui da quasi cinque minuti di orologio.” 
“E non sia mai che mi dessi una mano, giusto?” Sherlock scrollò le spalle e si sedette davanti a John, a gambe incrociate. 
“Non capisco perché ritorniamo sempre qui, John, visto che stai morendo di freddo.” 
“E’ un bel posto.” 
“Questo non spiega niente.” 
“Non sei obbligato a venire se non vuoi.” Sherlock sbuffò, prendendo le mani nude di John, posate rigidamente sul plaid arancione, tra le sue, foderate con i soliti guanti di pelle. John gli sorrise, sentendo il cuore sciogliersi di fronte a quel gesto. Lo vedeva come un essere incontaminato; aveva qualcosa dentro di lui che si muoveva, nonostante cercasse di nasconderlo e di frantumarlo. 
Non era come gli altri, indurito e perso, Sherlock era solo fraintendibile, ecco, ma non era di certo cattivo. John era felice di non averlo lasciato allontanarsi, il primo giorno in cui l’aveva incontrato, e si sentiva fortunato a essere lì, al freddo e a rischio di malattia, solo per guardarlo negli occhi e sorridergli, facendogli capire che la solitudine era passata, che non li riguardava più, nessuno dei due. 
“Ho sentito che hai litigato con un ragazzo di quarta, oggi, fuori dalla scuola.” Gli disse, ammonendolo con lo sguardo. Sherlock schioccò le labbra, infastidito. 
“Se l’è cercata.” 
“Che cosa avrebbe fatto per incappare nelle ire di Sherlock Holmes?” John lo sapeva benissimo cos’era successo, se l’era fatto raccontare per filo e per segno da Molly, una ragazzina della loro classe innamorata persa di Sherlock, che aveva il compito di controllare quest’ultimo quando John non poteva o non era presente. Si erano azzuffati perché Anderson, così pareva chiamarsi, aveva poco velatamente insultato, oltre all’intelligenza di Sherlock, anche John, definendolo il suo cagnolino personale –brutta mossa vista la possessività che Sherlock, in alcuni casi, mostrava per lui. 
“Niente di importante, è un idiota.” 
“Tu reputi tutti degli idioti, non conta.” 
“E’ così bello vivere con gli occhi chiusi fraintendo tutto ciò che vedi, non è vero? Dev’essere così rilassante per voi!” Sbottò con una nota di sarcasmo evidente, alzando per un momento le mani in aria, prima di riporle su quelle di John. 
“Adesso non te la prendere con me, io non c’entro niente.” Sherlock sorrise e John con lui mentre gli stringeva le dita a una a una, in uno strano gioco tattile. Gli piaceva toccarlo, lo aveva scoperto la prima volta che, inavvertitamente, aveva sfiorato il suo polso e aveva trovato la sua pelle sorprendentemente piacevole e morbida, nonostante avesse pensato il contrario più volte. Gli piaceva vedere l’espressione stupita sul volto di Sherlock, nel momento in cui qualcosa di John entrava in contatto con il suo corpo, prendendolo alla sprovvista. 
“Allora…domani partirai per le vacanze di Natale.” Borbottò John, già di umore nero per quel fatto. Gliel’aveva annunciato la settimana passata, dicendo che la sua famiglia era solita partire per una località europea per le vacanze natalizie. John che, d’altro canto, sarebbe rimasto in città con i suoi genitori per problemi economici, non aveva accettato di buon grado la notizia, restando mogio e afflitto per un paio di giorni, prima di ritornare a fare l’uomo quale era e far finta che ciò non lo turbasse affatto. 
“Già, mia madre sta impazzendo per preparare ogni cosa e non dimenticare nulla. E’ più noiosa e seccante  del solito.” John abbozzò un sorriso che non raggiunse gli occhi e strinse più forte le mani dell’altro. 
“C’è qualcosa che non va?” 
“E’ che…no, niente.” Gli sarebbe mancato, da morire. Gli mancava già in quel momento e ancora non si erano separati –ecco il problema a legarsi troppo alle persone, si finisce con l’amalgamarsi troppo e non riuscire più a distinguere dove finisce uno e inizia l’altro, diventando inseparabili. Sherlock lo osservò a lungo, prima di sospirare e togliere le mani dalle sue. 
“Ti ho già detto che potremmo sentirci per telefono, non sto partendo per la guerra.” John digrignò i denti verso di lui e verso se stesso, così semplice da leggere da non poter nascondere nulla. 
“Questo non cambia le cose.” 
“Non posso restare qui.” John si tormentò la pelle del pollice con l’indice, cercando il modo giusto per salutarlo e il modo meno imbarazzante per memorizzarlo nella memoria, come una fotografia o uno di quei video in bianco e nero che andavano tanto di moda tempi addietro. Prese un lungo respiro, prima di guardarlo negli occhi e allungarsi con il busto verso di lui, cercando di abbracciarlo. Sherlock si scansò subito, alzandosi in piedi e lasciando il vuoto tra le braccia di John mentre il senso di quel gesto pesava in lui come una nave sul punto di affondare. Si era spostato e non ci voleva un genio per capire cosa significasse –non è abituato ai contatti, è per questo, si continuava a ripetere. Sherlock si schiarì la gola, spostandosi all’inizio della stradina per tornare indietro, come se John potesse attaccarlo a distanza e dovesse prendere tutte le distanze possibili per stargli lontano. 
Abbassò per un momento la testa, alzandosi e ripiegando ordinatamente i plaid bagnati come non aveva mai fatto nei precedenti incontri. Si incamminarono in silenzio, con solo il rumore della neve smossa e del vento tra gli alberi a dare un ritmo ai loro passi. 
Imbarazzante, ecco. Aveva compiuto un gesto imbarazzante e fuori luogo, visto che erano due ragazzi nel pieno dell’adolescenza e uno di questi era, probabilmente, un sociopatico con problemi a relazionarsi con gli altri. Che cosa gli era preso? Gli unici che avevano mai avuto un suo abbraccio erano stati Greg, l’ultimo giorno di scuola dell’anno prima, e il suo cane, se poteva parlarsi di abbraccio, prima di liberarlo in piena montagna e lasciarlo libero di vivere la sua vita. 
Ma Sherlock, Sherlock era tutta un’altra questione. Con lui poteva collaborare agli esperimenti o indagare su vite di perfetti sconosciuti, ma non si era mai permesso nient’altro che potesse farli capitare in situazioni ambigue. Tranne quando Sherlock posava le mani sulle sue, per scaldarle. O quel giorno in cui gli aveva allacciato la sciarpa al collo e le sue dita avevano sfiorato la pelle di John. O quando, seguendo una signora vestita di tutto punto, erano inciampati e caduti uno sopra l’altro come due completi idioti, ridendo a crepapelle. 
Dio, non ci stava capendo più nulla e quel silenzio cominciava a innervosirlo sempre di più. 
“Allora...” incominciò John, cercando supporto in Sherlock che, a quanto pareva, non voleva collaborare, continuando a camminare imperterrito davanti a lui. Sbuffò mentre uscivano dal parco e camminavano per la strada così velocemente che, ad un certo punto, John si girò indietro per accertarsi che nessuno li stesse seguendo per ucciderli. Arrivati all’incrocio in cui, usualmente, le loro strade si separavano per andare ognuno a casa propria, Sherlock arrestò la sua corsa, guardandolo come se fosse appena stato punto da un calabrone potenzialmente mortale. 
“Siamo arrivati.” Disse laconico, spostando il peso da un piede all’altro, in preda a un’agitazione che John proprio non riusciva a comprendere. 
“E’ tutto okay?” 
“Sì, certo che è okay, ovviamente, perché non dovrebbe esserlo?” John trattenne un sorriso, davanti alla frustrazione crescente dell’altro. 
“Non sei abituato a essere abbracciato, è così?” 
“Lo trovi divertente?” 
“No, lo trovo triste, in realtà.” Alcune gocce caddero sul naso di John che alzò per un momento la testa, osservando il cielo plumbeo e carico di pioggia. Guardò Sherlock in quegli occhi leggermente più scuri delle volte precedenti –cambiavano colore con il cambiamento del tempo? Poteva farci una ricerca a tempo indeterminato, doveva appuntarselo da qualche parte– prima di prendere quel coraggio che l’aveva sempre contraddistinto fin dalla nascita, alzarsi sulle punte e abbracciarlo nuovamente, senza trovare uno spazio vuoto ad attenderlo, ma il profumo buono e costoso del suo amico, un profumo che non avrebbe sentito per molto tempo. 
“Non ti ho dato il permesso di abbracciarmi.” 
“E io non te l’ho chiesto.” Rispose, serrando le mani contro la sua schiena rigida, fregandosene del fatto che lui non lo stesse stringendo a sua volta. 
“Vedi di ritornare a casa senza saltare in aria a causa di qualche tuo strambo esperimento.” 
“I miei esperimenti non sono strambi!” Protestò, strofinando appena il mento contro al collo di John. Si staccò da lui e si portò le mani nelle tasche dei jeans, cercando un modo per non attaccarsi alla sua gamba e non lasciarlo andare più via –era un uomo, dannazione, e lui non stava andando a morire. 
“Allora…” Incominciò John, dondolandosi sulle punte “…ci sentiamo domani.” 
“E’ una promessa?” 
“Puoi scommetterci.” Disse, prima di sorridergli un’ultima volta e voltargli le spalle, andandosene via. 
  
Non è così difficile, pensò John, prendi il telefono, schiacci il tasto verde e il gioco è fatto. Aveva anche usufruito di parte dei suoi soldi, messi prudentemente via per il suo futuro, per farsi una sostanziosa ricarica al cellulare per chiamarlo. John si tirò a sedere sul suo letto singolo, protetto dall’oscurità dalla sera dovuta alla luce spenta e alla tapparella quasi interamente abbassata. Prese un respiro profondo e lanciò nuovamente uno sguardo allo schermo illuminato del telefonino, in mezzo alle sue gambe incrociate, in attesa che si decidesse a prendere coraggio e fare ciò che si era prefissato di fare dall’ultima volta che l’aveva salutato, in mezzo a quella strada anonima –chiamarlo, sentire la sua voce più volte possibile in quei giorni interminabili. 
L’avrebbe disturbato? Magari stava facendo qualcosa di interessante, in quel momento, forse si era anche dimenticato che ci fosse John, rimasto Londra, che aspettava un qualunque suo cenno per accentuare quella complicità che si era instaurata con naturalezza nelle loro vite. L’avrebbe chiamato, ecco. L’avrebbe chiamato proprio in quel momento e Sherlock sarebbe stato felice di ciò. Sì, magari avrebbe solo aspettato un altro istante, per esserne sicuri. Oppure poteva chiamarlo direttamente dopo cena, così avrebbe avuto tutto il tempo a disposizione per parlare. O chiamarlo la mattina seguente, con le idee più chiare e decisamente più riposato. O poteva non chiamarlo affatto. Prese il suo amato cuscino con la bandiera della Gran Bretagna e se lo pressò in faccia, cercando di togliersi, inutilmente, la vita o almeno di soffocare quella malsana paura che gli stava entrando nelle ossa da quando aveva aperto gli occhi. Voleva sentire il suo amico, cosa c’era di male in quello? Assolutamente nulla, se non fosse per il fatto che sentiva la voce del suo amico risuonargli in testa intonando uno stupido coretto di idiota. 
“Oh, al diavolo!” Borbottò sottovoce, decidendosi finalmente a telefonargli, premendo forte il cellulare contro l’orecchio e sentendo riecheggiare, così, i battiti accelerati del suo cuore –neanche stesse chiamando la sua fidanzata e Sherlock non lo era, affatto. Sì schiarì la voce più volte mentre il suono pigro e ritmico dei bip dava a John un motivo in più per essere agitato. Quanto ci metteva? 
“Pronto?” Oh, dannazione. 
“Emh, ciao…sono John!” 
“Lo so che sei John, ho il tuo numero di telefono memorizzato.” Bene. Un modo davvero perfetto per iniziare la loro prima conversazione telefonica. 
“Sì, beh, non avevo nulla da fare e ho pensato di chiamarti, te l’avevo promesso.” Mormorò svogliato, cercando di nascondere la realtà dei fatti con una mezza bugia. La risposta di Sherlock fu un indistinto verso di gola, tanto che John si preoccupò per davvero di averlo disturbato. 
“Stavi per caso facendo qualcosa di importante? Se vuoi ti richiamo più tardi…” 
“No, fa niente, non sto facendo nulla.” Aveva un tono appena triste e John si allarmò subito, raddrizzando di più la schiena contro il muro. 
“C’è qualcosa che non va?” 
“E’ che…questo posto fa schifo. Sono seduto sul balcone e non trovo nemmeno una persona interessante che passi in questa via. Sono tutti dolci famiglie piene d’amore come se fossero pronti a esplodere in milioni di arcobaleni colorati. E i bambini, Dio, John, continuano a ridere e strillare da intere ore!” Sherlock sembrò vomitare tutte quelle parole come una sorta di liberazione facendo sorridere John, dall’altra parte del telefono. 
“Non essere così duro, sei appena arrivato. Sono certo che troverai qualche bellissimo enigma da risolvere.” 
“Speriamo o finirò per procurarmi una pistola e sparare a tutto ciò che mi capita a tiro.”  John rise ancora, percependo il peso che poco prima gli aveva bloccato lo stomaco, scomparire pian piano, lasciandolo sollevato ed euforico. 
“Sono pronto per un resoconto dettagliato del tuo noioso viaggio fino a Madrid.” 
“Bene, tutto è partito da quando mia madre mi ha imposto di stare vicino a Mycroft sull’aereo…” John si mise comodo nel letto, con ancora la lieve curva di un sorriso intenerito ad addolcirgli i lineamenti. Affondò la testa nel suo cuscino, tirandosi la coperta fino alle spalle e mandando al diavolo la cena. 
Sentire la voce appena più stonata del suo amico tramite il telefono gli dava quel tiepido calore che sapeva di casa e di quell’amicizia così rara da reputare quasi irreale. Si lasciò trasportare dalle parole, facendolo parlare il più possibile in modo tale da poter imprimersi nella memoria ogni sfumatura di tono, come non poteva fare con il suo corpo, vista la lontananza. 
Si lasciò trasportare fino a quando l’eco dell’abbandono provato già da quella prima mattina, non lo lasciò, facendolo respirare. Sherlock, Sherlock, Sherlock, e, poi, solo sonno. 
  
  
  
“Ieri è venuta a casa mia una ragazza, per cena.” 
“Ma non mi dire…” John alzò gli occhi al cielo, già pronto per i commenti acidi che, sicuramente, sarebbero avvenuti dopo quel tono e quelle parole. 
“E’ la figlia di alcuni amici dei miei genitori, si chiama Sarah.” 
“E ti piace. Oh, che strana e inaspettata novità, John!” 
“Che c’è di male se mi piace una ragazza?” 
“Il fatto che ti piace ogni singola ragazza che respira e ti guarda. Non capisco tutta questa tua voglia di legarti a una ragazza, sono stupide, inutili e del tutto imprevedibili.” John tenne il cellulare tra l’orecchio e la spalla, finendo di impacchettare il regalo che sarebbe andato a sua madre, quella sera. 
“Non ho detto che voglio sposarla, ho detto che è carina.” 
“Come hai detto che si chiama?” Chiese di nuovo, con un tono gentile e mieloso che non convinse per niente John. 
“Sarah Sawyer, perché?” Sherlock rimase in silenzio per una decina di minuti mentre la voce di John lo chiamava a ripetizione, cercando un qualunque segno di vita da parte sua. 
“Oh, Dio, ti prego!” Strepitò Sherlock, facendo sobbalzare John. 
“Che cosa è successo?” 
“E’ questa? Davvero? Sembra appena uscita da un brutto film di quarta categoria.” John sbuffò, sbagliando a fare il fiocco per l’ennesima volta e sentendo la rabbia salire sempre di più. 
“Come hai fatto?” 
“Facebook non è propriamente sinonimo di privacy, John, e non ci voleva molto a capire che la prima cosa che hai fatto, questa mattina, è stata chiederle l’amicizia.” 
“E’ una bella ragazza.” 
“E’ stupida.” 
“Non lo puoi sapere.” 
“Oh, sì che posso.” Era sempre così, John ormai ci aveva fatto l’abitudine. Ogni singola volta che provava a instaurare una conversazione su qualcosa di lontanamente comune o, come in quel caso, sulle ragazze, Sherlock incominciava a criticare ogni essere che potesse attirare anche lievemente la sua attenzione o elencava una serie di allucinanti motivi per cui le ragazze non fossero altro che persone lunatiche e prive di qualsivoglia spessore. 
 Se questo, da una parte –una parte molto grande e proibita–, gli facesse piacere, dall’altra lo innervosiva, non capendone il senso. 
“Sherlock…” 
“Lo so, non sono affari miei. Fai quello che vuoi.” John strinse le labbra, sentendo già il verme del senso di colpa colpirlo nel petto. 
“Però quando ti tradirà con altri tre ragazzi, rispettivamente Mark, Noel e Martin, non venire a piagnucolare da me.” Non voleva sapere come diavolo avesse fatto, non voleva sapere proprio niente, in realtà. 
“Ho ricevuto forte e chiaro il tuo suggerimento, grazie per il tatto.” 
“E’ un piacere.” E, come sempre, Sherlock e il sarcasmo erano due entità completamente separate. John lo salutò e terminò la chiamata, osservando ancora per un momento il regalo accanto a quello di sua madre. Un regalo che non avrebbe mai avuto un destinatario ma che avrebbe avuto un posto d’onore nella sua stanza. 
Per te, Sherlock, e per tutte le cose che non avrò mai il coraggio di fare. 
  
Buon nostro primo Natale insieme, nonostante siamo lontani. Spero tornerai presto! JW 
Buon Natale anche a te, John. SH 
  
“Non ci posso credere!” 
“Non peggiorare le cose John.” John rise più forte, facendo sbuffare l’altro dall’altra parte del telefono. 
“Appena ritornerai voglio assolutamente vederti.” 
“Mai! Non ho nessuna intenzione di indossare questi…cosi un secondo di più!” 
“E’ per il tuo bene, Sherlock. La vista è importante.” 
“Occhiali! Occhiali, John! Mi hanno portato a tradimento da un oculista!” Il tono acuto da donna tradita fece peggiorare lo stato di risa di John, piegandolo in due e facendogli dolere la pancia. 
“Che fine farà la tua aria da bello e dannato?” 
“Bello e dannato?” John ritornò immediatamente serio, mordendosi la guancia a sangue per essersi fatto scappare quelle parole scomode. 
“Sì, è così che si dice quando ti vesti elegante e stai, ehm, sempre da solo.” 
“Non sembra avere senso.” 
“Non mi aspetto che tu possa capire questo genere di cose. Allora, di che colore sono? Rosa? Gialli? Verde fosforescente?” Disse, cercando di cambiare argomento. Sherlock emise un gemito disgustato. 
“Assolutamente no, è già ridicolo che debba indossarli, non mi sembrava il caso di peggiorare la situazione. Sono neri e grossi e…scomodi.” 
“Non fare il melodrammatico, non puoi stare così male.” 
“Ti assicuro il contrario.” John si strinse nel maglione color crema che aveva indossato per la quasi vigilia di capodanno. 
“Fatti una foto.” Propose, pensando a come potesse essere uno Sherlock occhialuto e non trovando l’immagine affatto spiacevole. 
“Non mi farò una foto per compiacere il tuo ego e farti ridere di nuovo.” 
“Non ti prenderei mai in giro seriamente, Sherlock, lo sai.” 
“Certo che lo so, altrimenti non avremmo continuato a parlarci. Sei strano.” 
“Io?” Chiese John, sentendosi ad un passo da un’importante rivelazione e provando una strana sensazione allo stomaco. 
“Sì, hai questa…cosa, dentro di te, che non ti ha fatto reagire come tutti gli altri, la prima volta che ci siamo incontrati. Hai insistito con me, quindi, in conclusione, sei strano. Oltre che idiota, ovviamente.” 
“Potrei quasi prenderlo come un complimento.” 
“Non sperarci troppo.” John sorrise un po’ di più, cosa che gli capitava sempre più spesso in quei giorni, e si ritrovò a disegnare una stupida e banale S sul vetro appannato di casa sua, dietro al grosso albero di Natale che la famiglia Watson aveva insistito a decorare in soggiorno. La cancellò subito con la manica, spaventato, rimuovendo quella discussione fatta di strani significati tra le righe che, molto probabilmente, si stava immaginando solamente John, insieme a quella piccola debolezza che aveva inciso sul vetro.
Impossibile, incedibile e inaccessibile. 
  
Buon Capodanno, Sherlock. Altre mille di questi anni. JW 
I tuoi auguri sono così smielati da farmi venire il diabete. Buon Capodanno anche a te. SH 
  
Non si sentivano da una settimana. Non si sentivano da una dannata settimana e ora l’avrebbe rivisto, in carne e ossa, e non era sicuro che sarebbe sopravvissuto fino a quel momento. John si tirò di più il cappuccio sulla testa, maledicendo il suo odio verso gli ombrelli che, ora, lo faceva restare zuppo, seduto su una stupida altalena dopo essersi svegliato tre ore prima che iniziasse la scuola, solo per vederlo senza pubblico e senza fretta. Guardò ancora una volta la via desolata da dove sarebbe dovuto arrivare Sherlock, sentendo l’acqua passare dentro la sua felpa e arrivare a bagnargli la schiena, oltre al viso –perfetto, una febbre da ricovero non gliel’avrebbe tolta nessuno. Il cellulare rimaneva in silenzio, non avvisandolo di nessun nuovo messaggio o nuova chiamata di Sherlock.  Maledizione a lui, pensò John, alzandosi dall’altalena e cercando, inutilmente, riparo sotto qualche grosso albero. Bisognava sempre aspettare, quando c’era Sherlock in questione, un’attesa lunga ed esasperante che lo portava alla pazzia più nera, insieme all’irritazione.  Gli avrebbe dato buca? In fondo, mancava solamente un’ora prima dell’inizio delle lezioni e di quell’imbecille non c’era nessuna traccia. Magari non aveva neanche capito che John stava letteralmente morendo dalla voglia di rivederlo e, quindi, si era perso in uno dei suoi esperimenti elaborati e contorti e aveva perso il senso del tempo. Si passò una mano sugli occhi, cacciando indietro la tristezza e il sonno, pronto per mandare definitivamente in fumo la sua idea di rincontro perfetto e andarsene. 
“John!” Il ragazzo si girò appena in tempo per vedere una zazzera di ricci capelli scuri, ancora più cupi a causa dell’acqua, arrivare verso di lui, con uno di quei grandi e rari sorrisi che gli evidenziavano gli zigomi alti e gli formavano piccole rughe d’espressione ai contorni della bocca, facendo morire i poveri neuroni di John. 
“Te ne stavi andando?” Chiese, non accennando a far sfumare quell’aria allegra che stonava tanto con l’ambiente attorno, più melodrammatico. John cercò di riprendersi, chiudendo la bocca appena socchiusa per lo stupore e ritrovando il controllo del proprio corpo. 
“Certo che no!” Rispose mentre con uno scatto felino lo stringeva a sé, respirando il suo odore impregnato di pioggia a cui aveva tanto a lungo rinunciato. Gli sembrava che non lo vedesse da anni e, allo stesso tempo, che non lo avesse mai lasciato. Era lì, davanti a lui, con appena la pelle più pallida del solito –o era una sua impressione– e gli occhi chiari, limpidi e splendenti che lo avevano catturato dal primo giorno e non l’avevano più lasciato andare via. 
“Sei bagnato fradicio, Sherlock! Avresti dovuto portare l’ombrello.” Gli mormorò vicino all’orecchio, non accennando a lasciarlo andare. D’altra parte, Sherlock sembrava una statua di marmo tra le sue braccia, probabilmente non ancora abituato a quegli slanci affettivi che John aveva il bisogno di mostrargli e a cui non aveva intenzione di rinunciare. 
“Anche tu, smettila di farmi da madre premurosa.” 
“Mi ero seriamente preoccupato, per l’appunto. Quasi dieci minuti di ricongiungimento e nemmeno un insulto, ero sotto shock.” Lo lasciò andare lentamente, spostandogli un ciuffo bagnato dalla fronte, come se fosse un qualcosa di mortalmente delicato e fragile e pericoloso al quale non voleva fare del male. 
“Non era un insulto, era un’affermazione.” 
“Mi sei mancato.” Sherlock strinse forte la mascella, spostando immediatamente lo sguardo da un’altra parte, pronto per la fuga imminente –lo spaventavano, le manifestazioni d’affetto, John lo sapeva benissimo, ma era diventato più forte di lui, una debolezza troppo forte da resistere. 
“Bene, possiamo andare, siamo già in ritardo e Mycroft è stato noiosamente noioso sulla regolarità delle mie entrate ed uscite a sc-” John lo interruppe, afferrandogli il braccio e riportandolo davanti a lui, vinto da qualcosa di più grande che lo stava manovrando come un burattino di burro. 
“Mi sei mancato, Sherlock.” 
“Sì, ho capito.” 
“No, non hai capito. Mi sei mancato davvero tanto. Davvero troppo.”  Sherlock aggrottò le sopracciglia e John sentì quel pugno in mezzo allo stomaco intensificarsi e smorzargli il respiro. 
“Mi duole ammetterlo, ma non capisco dove tu voglia arrivare.” Stava provando tutto in quel momento, John. Tutti i sorrisi che gli aveva offerto, tutti gli sfioramenti che gli aveva rubato, tutti gli abbracci che in quel lasso di tempo lontani non gli aveva potuto offrire, tutte le parole, tutti i litigi, tutte le risate, tutto, tutto stava ritornando a galla e John si sentiva così spaesato da non riuscire più a mantenere l’autocontrollo nemmeno su se stesso. Prima di avvicinare il viso al suo, John potè vedere riflessi negli occhi di lui tutti i suoi pensieri e arrivare alle sue stesse conclusioni –forse troppo tardi. Incurante della pioggia incessante sopra e intorno a loro, John posò le mani sulle sue guance e poi le labbra sulle sue, in un bacio a fior di labbra che gli fece scorrere un brivido lungo la schiena. Era stato imprudente? Affettato? L’aveva spaventato? Allarmato? Aveva fatto qualcosa che non doveva fare? Aveva compiuto il gesto di distruzione totale? Una valanga di domande si affollarono nella testa di John mentre lo stava ancora baciando –stava baciando Sherlock. Sherlock. Oh Dio. Socchiuse appena gli occhi, per osservare la reazione dell’altro. Sherlock sembrava aver visto un fantasma, con il fiato praticamente azzerato, lo sguardo perso nel vuoto e le labbra serrate. Sì, aveva decisamente rovinato tutto. Si staccò velocemente, facendo qualche passo indietro e andando a cozzare contro il tronco dell’albero che poco prima l’aveva ospitato. 
“Scusa…io…solo, scusa.” John si morse il labbro inferiore, con la preoccupazione alle stelle a causa della reazione catatonica di Sherlock. 
“Sherlock?” Provò a mormorare, ricevendo un segno di vita nel corpo dell’altro, che indietreggiò a sua volta. 
“Potresti andare avanti? Ti raggiungo subito.” John annuì, cominciando a camminare a passo di marcia lontano dal guaio che aveva combinato, incurante dei vestiti ormai fradici e dei sentimenti incrinati o, più probabilmente, rotti in un cumulo di pezzi sul pavimento del suo cuore. Arrivò a scuola proprio al suono della campanella, rischiando anche di essere investito da una macchina mentre attraversava le strisce pedonali per entrare dal cancello principale. 
Salì velocemente le scale e si sedette al solito banco, ignorando i saluti e le lamentele del primo giorno dopo le vacanze che erano solite e che, se fosse stato in condizioni normali, avrebbe apprezzato e condiviso. Gettò la cartella per terra e osservò la finestra al lato del suo banco, da dove poteva vedere l’ingresso. 
Nessun cappotto elegante, nessuna chioma riccia, nessun profilo aristocratico. John sorrise tristemente mentre la professoressa di matematica entrava in classe con un blocco di verifiche corrette. Il banco vuoto a fianco a lui che urlava come il peggiore dei mali: il rifiuto. 
  
  
Non si era presentato a scuola per due giorni consecutivi e John non aveva nemmeno provato a contattarlo, nonostante la sua assenza gli pesasse come un macigno e il senso di colpa non lo faceva dormire la notte. Era stato un gesto impulsivo, di completa follia e che, di questo era sicuro, non si sarebbe più ripetuto. La pioggia si abbatteva su Londra da giorni e proprio quel pomeriggio sembrava aver concesso una pausa ai londinesi appena usciti dai rispettivi lavori e pronti per tornare nelle loro case –vuote, nel caso di John, visto che sua sorella sarebbe stata fuori con una sua amica fino a notte tarda. John fece per salutare Molly e avviarsi verso la fermata del pullman –che senso c’era a fare una strada che prima aveva fatto in coppia? Tristezza, ormai il suo stile di vita– quando sentì il cellulare vibrare nella tasca dei jeans, facendogli perdere un battito. Poteva non essere Sherlock, ovviamente. Anzi, sicuramente non era lui. John tirò fuori il telefonino in tutta fretta, rischiando di farlo cadere dalle mani più e più volte dopo aver letto proprio il suo nome sulla schermata, vicino alla notifica di un nuovo messaggio. 
  
Vieni al solito posto, il più velocemente possibile. Se non puoi, vieni lo stesso. SH 
  
Nemmeno un saluto, neanche un ‘ciao, scusa se non mi sono fatto sentire per due dannatissimi giorni, facendoti sentire la mia dannata mancanza per tutto il dannato tempo’, ma John sapeva com’era il carattere di Sherlock e aveva perso la speranza da molto tempo, ormai. Fece dietro front e corse verso il loro parco, sentendo l’energia sprizzare da ogni muscolo del suo corpo, rendendolo invincibile. Attraversò velocemente tutta Londra, per poi arrivare al parco e imboccare la stradina fangosa, inciampando su una radice sporgente e macchiandosi il tessuto dei jeans all’altezza del ginocchio. Voleva vederlo, chiedergli scusa e implorarlo di ricominciare da capo. Anzi no, niente implorazioni, sarebbero sembrate ridicole, magari una frase gettata lì senza un motivo, magari anche un flebile ‘ti prego’. Arrivato alla sua destinazione, John arrestò la sua folle corsa, osservando la schiena protetta dal cappotto lungo di Sherlock, girato verso il ruscello, dandogli così le spalle. Sherlock. John si schiarì la gola, palesando la sua presenza e attendendo che Sherlock lo notasse, cosa che successe. Lo scandagliò brevemente, con uno di quegli sguardi indagatori che gli mettevano sempre l’ansia addosso. 
“Non c’era bisogno di correre, non era così urgente.” 
“Non ho…non ho corso.” Rispose, maledicendo il suo fiatone che l’aveva tradito. Sherlock alzò un sopracciglio, ma non disse nulla, facendo salire la tensione. Dannazione. Doppia dannazione. 
“Hm, Sherlock, senti per…” John lasciò la frase in sospeso, non sapendo cosa dire. Scusa? Mi dispiace per averti baciato quando in realtà non mi dispiace per niente? 
“Sì, insomma, potevi anche chiamarmi, non ti sei fatto sentire.” Provò, lasciando definitivamente perdere le scuse idiote che avrebbero peggiorato la situazione. 
“Avevo bisogno di pensare.” Ovviamente. 
“E hai…pensato?” 
“Sì.” 
“Oh…oh, bene.” Disegnò un mezzo cerchio nel fango con la punta della scarpa sporca, concentrandosi su quello e sperando che, così, l’imbarazzo se ne sarebbe finalmente andato. 
“Non mi chiedi su che cosa ho riflettuto?” Idiota, ecco cos’era. Quasi quasi poteva procurarsi una corda e porre fine alla sua misera vita da stupido. 
“Su cosa hai riflettuto?” 
“Sul perché tu mi abbia baciato, John, mi sembra ovvio.” Ecco, se pensava che una situazione non potesse peggiorare ecco che diventava una mini catastrofe globale. Una fossa, ecco che cos’avrebbe fatto prima di impiccarsi. 
“E sei arrivato a una conclusione soddisfacente?” Sembrava stessero parlando del tempo o di quanti goal aveva fatto il Real Madrid contro l’Inghilterra, la scorsa partita. Decisamente imbarazzante. 
“Sono arrivato a quattro conclusioni, in verità, ma solamente su due mi sono soffermato e vorrei chiedere delucidazioni a te, in merito.” Sì, si sarebbe anche scorticato le mani con un ago, per infliggersi un po’ di dolore prima della sua pacifica morte. 
“E…quali sarebbero?” 
“La prima è che tu, in uno slancio di…sentimentalismo?, abbia avuto una reazione sproposita e mi abbia involontariamente baciato, magari pensando a una di quelle ragazzine che ti piacciono tanto e che cambi come se fossero fazzoletti. La seconda è che provi una condizione affettiva profonda verso di me che ha comportato un meccanismo automatico nel tuo istinto. In entrambi i casi credo sia chiaro il fatto che il tuo autocontrollo andrebbe seriamente revisionato, John.” Aveva parlato così velocemente che John non era sicuro di aver compreso tutto, soprattutto quella parte della condizione affettiva e stupidaggini varie. Aveva cercato di schematizzare e razionalizzare il suo bacio? Si sarebbe messo a ridere se non fosse stata una conversazione seria. 
“Okay…?” Mormorò, infine, cercando di capire dove Sherlock volesse andare a parare. Il ragazzo moro abbassò la testa, sembrando quasi in imbarazzo e John sentì quella strana sensazione allo stomaco che si insinuava in lui ogni qualvolta mostrava un minimo di debolezza –umano, puro e semplice. Fece qualche passo vicino a lui, provando l’impulso di avvicinarsi ancora e ancora, fino ad annullare quella stupida distanza e porre fine a quella danza sugli specchi. 
“Sherlock…” 
“La verità è che queste cose vanno oltre il mio cervello e io non so se…” Si passò una mano tra i ricci, strofinandola come se così potesse comprendere meglio le emozioni. 
“Va tutto bene, Sherlock, non ti sto chiedendo nulla che vada oltre ciò che vuoi e puoi darmi.” Sherlock alzò nuovamente gli occhi su di lui, un po’ più lucidi e scuri del normale. 
“E se non sapessi farlo?” John lo guardò confuso. 
“Fare cosa?” 
“Essere un…compagno ideale.” Oh. Oh. Il cuore di John incominciò a battere più forte mentre le mani sudavano in un modo dannatamente fastidioso. 
“Io non ti chiederei mai di cambiare te stesso.” Sherlock si morse il labbro inferiore, l’indecisione dipinta sul suo volto che faceva crescere sempre di più la sua speranza. 
“Non ti vorrei nemmeno, se diventassi un ragazzo comune come tutti gli altri.” John provò ad afferrargli un braccio, sentendo il corpo di Sherlock muoversi verso di lui, come se fossero diventati improvvisamente due calamite con poli opposti. 
“Non sono la persona giusta.” 
“Sei la persona giusta per me.” Detto questo, John lasciò perdere tutte le parole superflue e baciò le sue labbra, appena incurvate all’insù, nell’accenno di un bellissimo sorriso, sentendolo frantumarsi contro la sua mano. Avrebbe passato tutta la sua vita a baciare quelle labbra piene, con quella curva marcata sul labbro superiore che gli faceva passare nella testa i migliori pensieri e le peggiori fantasie. Il suo Sherlock umano, il suo piccolo miracolo fatto di genio e razionalità e paure nascoste e emozioni bloccate ma presenti.
Gli aveva detto che lui non era la persona giusta per John, ma, in realtà, non esisteva nessuna persona giusta. Sherlock era la sua persona sbagliata, a ben pensarci perché la persona giusta faceva tutto giusto, arrivava puntuale, diceva le cose giuste, faceva le cose giuste, ma John non aveva bisogno di cose giuste. 
Aveva bisogno della sua persona sbagliata, quella che gli faceva perdere la testa, che gli faceva commettere pazzie, gli faceva perdere il senso del tempo, che lo faceva morire d’amore. La persona sbagliata era ciò che la gente comune definiva la persona giusta, quella persona che non sarà sempre al tuo fianco a dirti parole gentili, ma che saprà far sentire la sua presenza, nonostante la lontananza. Sapeva che Sherlock era la sua persona sbagliata e che lo sarebbe stata per sempre perché, semplicemente, era una di quelle cose che si sentivano dentro e che non potevi scuotere via. La sua imperfetta anima gemella. 
  
  
Note; 
UN. PARTO. Questa storia è stato un dannato parto di millemila anni luce –adesso non esageriamo–, ma con perseveranza, astuzia e avarazia (??) e con il gentile contributo di Benedict che mi ha fatto compagnia tutte le notti portandomi l’ispirazione –nei miei sogni, ovviamente–, sono arrivata alla fine di questa AU!Teen che, sinceramente, a me piace. E’ stata lunga, magari un po’ noiosa, magari nessuno avrà davvero la voglia di leggerla fino in fondo, ma ci ho messo tutta me stessa, il mio tempo libero e i miei sogni da adolescente in permanente crisi mestruale. Qui dentro c’è tutta me stessa e spero che qualcuno in questo sperduto fandom pieno di gente qualificata –anche se non siamo alla Carglass ripara Carglass sostituisce– a cui voglio un mondo di bene (sì, sto parlando proprio di te che stai leggendo!). 
E niente, lasciando perdere le ***** fatemi sapere se vi è piaciuta, davvero. 
Un grosso bacio e alla prossima –il più tardi possibile–,
Aistra
   
 
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