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Autore: Cassandra Morgana    17/05/2007    11 recensioni
Un tiranno ed una città a un soffio dalla guerra civile.
Un gruppo di ragazzi improvvisati ribelli, persi nelle sfuggenti sfaccettature del loro essere e del loro ruolo, fra le trame di un complesso interagire nel mondo.
Una minaccia soffusa che aleggia nell'aria...
Un luogo immaginario e un momento storico immaginario, "riconducibile" al XVIII secolo europeo.
Benvenuti a Noir Trésor!
Genere: Drammatico, Introspettivo, Mistero | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Slash
Note: AU, Lemon | Avvertimenti: Contenuti forti, Incompiuta, Tematiche delicate
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- Questa storia fa parte della serie 'Noir Trésor ~'
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Noir Trésor

 

di Adrienne8588

 

 

 

 

 

Capitolo 1

Il male di vivere

 

 

Auguste si tirò la porta dietro le spalle. Immobile al centro della via, gettò un’ultima occhiata guardinga verso la sua casa, un attimo prima di lasciarsela alle proprie spalle. Si risolse infine ad abbracciare con lo sguardo lo scorcio di quartiere che si apriva dinnanzi ai suoi occhi, scandito dalla regolarità ripetitiva delle abitazioni borghesi. Così diverse dalle dimore modeste di contadini e lavoratori manuali, i cui esigui guadagni si consumavano ben presto negli esosi tributi che, come risaputo, finivano nelle mani del duca du Lac e dello sparuto gruppo di nobili che controllava la città e gravitava nella sua orbita, accattivandosene i favori.

I suoi occhi furono presto trafitti dalla luce livida del crepuscolo inoltrato e dal chiarore malato dei lampioni ad olio che rischiaravano la via sul far della sera. Un leggero senso di smarrimento impacciava i suoi passi lungo la strada vuota che sentiva così diversa, svuotata del brulichio che la pervadeva durante il giorno, abbastanza spaziosa da consentire il passaggio dei carri dei contadini e dei venditori che trasportavano la loro merce e, talvolta, di rare vetture patrizie di passaggio. Le avrebbe riconosciute ad occhi chiusi, nello sfarzo rumoroso che le faceva sfavillare come diamanti nella pietra vile, nei cavalli superbi che le trainavano, riflettendo nel piglio severo e nella grazia nervosa la fiera alterigia dei loro illustri proprietari.

Ecco i loro nobili, pronti, non appena si fosse presentata l’occasione, a prostrarsi ai piedi del loro signore come uno sciame d’api su un favo di miele, ignorando stoicamente lo spettacolo della gente che scendeva indaffarata sulle strade per procacciarsi il pane con il proprio lavoro o, sempre più di frequente, per mendicare.

Auguste si sentiva stringere il cuore man mano che, allontanandosi da quel rione rivestito di un apparente decoro, si addentrava circospetto nel quartiere povero. Gettò alcune monete ad un nugolo di ragazzetti cenciosi che gli si era lanciato addosso frignando, implorando un’elemosina ed aggrappandosi con gesti studiatamente patetici alla sua giacca di buona fattura. Sorrise. Ci aveva sempre tenuto, un capriccio inappagato quando, bambino, aveva vissuto più o meno in quelle stesse condizioni, destreggiandosi come meglio poteva fra gli stracci e la miseria. E, quasi certamente, quei bambini non dovevano neppure aver fatto caso se di fronte a loro, pronto ad elargire un pugno di monete d’argento, vi fosse lui oppure un ricco aristocratico, per quanto a chiunque sarebbe apparso oltremodo insolito che un nobile si aggirasse in quei quartieri tutto solo, privo di una scorta, nell’ora in cui non era difficile imbattersi in qualche tagliagole pronto ad uccidere per un pugno di monete.

Auguste avvertì un lampo di gelida malinconia attanagliargli la gola; gli occhi grigi, atteggiati ad un’espressione imperturbabile, scintillarono umidi nella luce squallida e tremolante dei lampioni. E, in quello stesso istante, un senso di dolorosa claustrofobia gli si strinse alla bocca dello stomaco: qual era la differenza tra un odiato aristocratico che avesse deciso di sfidare la fortuna e mettere a repentaglio la propria vita aggirandosi in quei luoghi, e un uomo qualunque che, con indosso l’abito buono, se ne andava tutto impettito a cospirare in tutta tranquillità contro un tiranno?

Probabilmente, a qualcuno disposto a tutto pur di sfamarsi, poco sarebbe importato se lui fosse stato conte o barone oppure un disgraziato al pari di loro. La fame e la disperazione prima o poi portavano gli uomini a lottare ferocemente per un tozzo di pane, a uccidersi per pochi spiccioli, incapaci di aiutarsi nella disgrazia comune.

Affrettò il passo con finta disinvoltura, lasciandosi alle spalle le grida festose dei marmocchi che si erano guadagnati la giornata. Era rimasto solo.

Come in un sogno, gli parve quasi di sentire i fantasmi della sera chiudersi su di lui, ombre illusorie proiettate sulle pareti irregolari dalla luce incerta dei lampioni che danzava sulle fronde sotto la sottile bava di vento.

Era come se vi fosse intorno a lui qualcosa che testardamente cercava di rifuggire, ma, a dispetto di ciò, continuava a tenerlo sotto controllo per mezzo di occhi vigili che lo spiavano, gravandogli sul cuore. Immobile al centro della strada, aguzzò i cinque sensi, smarrito, una goccia di sudore che gli scivolava di lato sulla fronte pallida fino a morire sullo scollo della camicia. Istintivamente, portò la mano al pugnale che teneva nascosto in fondina, le dita strette intorno all’elsa in un gesto nervoso e maldestro. Non era più avvezzo a maneggiare armi, eppure, quando percorreva quei vicoli bui per recarsi alle sue riunioni segrete, sapere di avere con sé un mezzo per difendersi da un possibile aggressore, in qualche modo lo faceva sentire meno angosciato.

Non era normale quell’atmosfera così placida ed inquietante, così statica, serena soltanto in apparenza: ricordava sin troppo da vicino lo stato di quiete che precede la tempesta.

Ma era altrettanto probabile che fosse soltanto l’atmosfera lugubre e soffocante della città dopo il tramonto a destare in lui certe ansie ingiustificate: con ogni probabilità, doveva essersi lasciato suggestionare dai suoi fantasmi.

Che stupido! Bastava davvero così poco a metterlo in agitazione? C’era davvero qualcosa che non quadrava, qualche particolare che la sua mente ancora non riusciva a focalizzare, oppure gli si stava annebbiando il cervello?

Aveva paura. Lui, lui che aveva combattuto una sorta di battaglia senza quartiere contro il suo stesso destino sin dal momento in cui aveva mosso i primi passi. Aveva lottato gettandosi alle spalle le sconfitte, ignorando le ferite sul suo animo. Da ragazzo si era spaccato la schiena nelle locande pur di racimolare il necessario per istruirsi e ambire eventualmente a condizioni appena più dignitose, coltivando in segreto, quasi inconsapevolmente, quella coscienza critica che gli era sempre stata connaturale e che l’avrebbe portato ad un’insofferenza esasperata verso le storture che logoravano il mondo intorno a lui e delle quali lui stesso era vittima. Aveva parimenti nutrito il desiderio di lasciare per sempre quel buco rigettato dall’inferno ed ora retto da un despota. E invece, aveva finito per seguire la confusa vocazione che lo spingeva a lasciare il proprio contributo là, nella sua città natale.

Non si era risparmiato nulla. Gravato sulle spalle da difficoltà economiche non indifferenti, dopo aver prosciugato i suoi risparmi nel vino e nei libri, in un primo momento aveva accettato un impiego come giornalista presso la gazzetta ufficiale, fortemente sottoposta a censura dopo l’avvento del duca. Non aveva resistito più di due mesi nella veste di scribacchino lustrascarpe del tiranno, intento a vergare cartaccia di regime sotto la tacita, costante minaccia della censura e della galera. Se n’era andato. Troppo sbilanciato a suo svantaggio, il baratto della sua coscienza al prezzo di due soldi.

Non era stato prudente da parte sua, nel momento in cui già in passato si era trascinato dietro il marchio di potenziale perturbatore, e il duca di certo non aveva dimenticato i suoi trascorsi. Che lo ignorasse o meno, su di lui pendeva una sorta di spada di Damocle, e, senza che nessuno l’avesse chiaramente messo in guardia in proposito, Auguste sapeva che sarebbe bastato un passo falso, stavolta, per cadere male.

Non aveva quasi più nessuno. I suoi genitori erano morti qualche anno prima, stroncati dal tifo, e lui, dal canto suo, non aveva mai fatto nulla, nel corso della sua vita, per procurarsi affetti duraturi. Il suo procedere con freddezza e disincanto, teso ad ossessionanti quanto legittime ambizioni, aveva finito per alienargli ogni calore umano: si era semplicemente limitato a sfruttare coloro che si erano trovati a gravitare nella sua stessa orbita, i quali, prontamente, l’avevano sfruttato a loro volta.

Cosa poteva aspettarsi, cosa poteva mettere concretamente in gioco ora, uno come lui, palesemente solo contro un potere assoluto? Troppe cose, se non fosse stato abbastanza pazzo da rischiare ogni giorno. Cos’altro, lui che viveva ogni giorno nell’incertezza, in mezzo ai complotti, guardandosi costantemente alle spalle e covando progetti ambigui? Era tutto assurdamente folle, da parte sua.

La sua morte sarebbe forse andata a discapito di qualcuno? Con ogni probabilità, no. Fra coloro che si opponevano gravava una sorta di tacito accordo secondo cui non sarebbe stato il peggiore dei mali morire per la Causa. Una morte eroica non avrebbe costituito che un esempio. Tuttavia, Auguste riteneva a ragione che ognuno di loro in realtà mascherasse l’umana paura con quell’idealismo un po’ esasperato, e nessuno in realtà dormisse sonni tranquilli.

I ragazzi avevano accettato spontaneamente la sua autorità senza chiedergli nulla in cambio: avevano bisogno di qualcuno abbastanza lucido da guidarli verso obiettivi concreti, di una sorta di punto fermo in grado di indirizzare i loro slanci e contenere gli spiriti troppo ardimentosi dal commettere gesti avventati, sebbene alcuni di loro, di tanto in tanto, finissero per sfuggire al controllo. Vi era stima fra loro, ma forse parlare di amicizia, da parte sua, sarebbe stato eccessivo.

E man mano che la sua vita andava avanti, dispiegandosi ogni giorno di fronte a lui come una tela bianca, Auguste nutriva sempre più l’impressione che ogni giorno si susseguisse uguale a se stesso, come un incubo ricorrente. Voleva idealisticamente cambiare quella piccola fetta di mondo, eppure doveva riconoscersi incapace persino di cambiare la propria vita, che proseguiva come un’alienante tela di Penelope. Ogni buon proposito sfumava la notte, mille contraddizioni che si scontravano nella sua mente nelle lunghe ore insonni. La vita scorreva, eppure lui non la sentiva, non riusciva a recepirla. I giorni si susseguivano tetri davanti a lui, senza sfiorarlo, come una fugace illusione: lo scorrere del tempo non era un fattore che incideva sulla sua coscienza.

Aveva ventinove anni e si sentiva già vecchio. In fondo, non aveva fatto nulla di speciale, a parte ficcarsi in testa progetti irrealizzabili e tramare contro il Potere. Non era stato un buon figlio, non era stato un buono sguattero di taverna né un buono studente né un buon gazzettiere. E, attualmente, non era granché neppure come ribelle.

Sì, non vi era molto di concreto da mettere in gioco: magari avrebbe dovuto soltanto stringere i denti oppure buttarsi nell’alcool per sopire alla propria frustrazione. Eppure non sarebbe arrivato a tanto; semmai per lui ci fosse stata qualche debole speranza di riscatto, non vi avrebbe rinunciato apaticamente.

Si era reso conto che, tutto sommato, non era neppure la morte il suo principale timore. Né le sconfitte in quanto tali, giacché, confrontandocisi costantemente, aveva finito per farsi le ossa. Le ossa, anche se non il cuore. La mente si riempiva giorno dopo giorno di progetti e idee più o meno concrete, con quel senso di vuoto che continuava a pesargli sul cuore, e ne soffriva.

Aveva mai preso seriamente in considerazione le proprie debolezze? A coloro che avevano a che fare con lui, doveva piuttosto suscitare l’impressione che non ne avesse: come poteva qualcuno che non fosse lui stesso, del resto, per quanto perspicace, riuscire a penetrare la solida corazza di fredda e spiazzante razionalità di una persona che sembrava non avere sentimenti?

Era caduto nelle stesse trame che aveva tessuto: si era lasciato corrompere dall’ansia febbrile e divorante di mille progetti e, in loro nome, si era martoriato l’anima. I suoi pensieri confusi non convergevano in alcun punto comune, esacerbando la sua disperazione.

In tutta la sua vita, che ora gli pareva tanto simile a quella di un gatto selvatico, soltanto una volta aveva conosciuto l’amicizia sincera. Ed ora, in nome di utopici desideri, stava per sacrificare anche questo.

Sospirò. Non poteva permettere che accadesse: era questo il campanello che gli martellava nella mente dacché aveva messo piede fuori casa, e nonostante avesse ormai preso la sua decisione. Sarebbe stato difficile tornare indietro, ma forse poteva ancora fare qualcosa. Doveva parlare con Lucien.

Lucien… Il suo unico punto di riferimento. L’amico d’infanzia che gli era sempre stato accanto, la persona con la quale aveva condiviso i momenti tristi e le piccole gioie. L’unico di cui si fidasse ciecamente e che ricambiasse la sua fiducia, il solo verso il quale avesse mai provato un affetto sincero.

Non poteva lasciare che l’unico angolo della sua vita capace di riempirgli il cuore di un sentimento che sgorgasse direttamente dal proprio animo, e non dall’interesse di controverse aspirazioni, venisse meno, sfumasse come una bolla di sapone, per poi perdersi. Non poteva sacrificare il suo unico attaccamento in nome di un Bene nel quale non credeva più neppure lui stesso.

E forse non sarebbe stato nemmeno così tardi per mutare ancora una volta la sorte degli eventi. Come aveva sempre fatto o, per lo meno, si era ingegnato a fare. Doveva agire in fretta, e doveva parlare… Prima che fosse troppo tardi.

Ce l’avrebbe fatta, ancora una volta, e non avrebbe ceduto. Aveva sbagliato e già iniziava ad avvertire l’eco delle conseguenze, ma poteva ancora stornare da sé il male che aveva generato.

Lunghi anni non erano serviti a placare il suo animo ardente, un confuso anelito di una giustizia che oscillava fra la spinta ideale ed il più torbido egocentrismo.

I suoi sogni vaporosi ed ambigui l’avevano reso folle, ubriaco, deviandolo dagli affetti più semplici e naturali, dall’umano bisogno di calore ed attaccamento reciproco, dai valori genuini. Mancava in lui un autentico afflato altruistico, la cui profonda carenza rendeva vana e contraddittoria ogni idea che la sua mente partorisse. Aveva perso di vista ciò che era la base, ed ora rischiava di addentrarsi in un vicolo cieco.

Aveva compreso quasi subito i propri errori, forse già troppo tardi. Troppo tardi per tornare indietro, magari; non da rinunciare ad arginare gli effetti più deleteri delle proprie scelte avventate.

Voltò l’angolo per l’ennesima volta nelle strade tortuose e buie, accompagnato dal sibilo sinistro del vento leggero che si era alzato, rimbombandogli furiosamente nel petto, in sincronia con il battito del suo cuore impazzito.

 

Fa’ che non sia troppo tardi… Fa’ che non sia tutto perduto. Che possa recuperare il recuperabile. Ti prego. Ti prego!

 

Una folata più violenta gli sollevò il mantello scuro e gli scompigliò sulle spalle i lunghi capelli bruni, tirati rigidamente dietro la nuca e costretti in un codino.

Era ancora presto, ma forse non sarebbe stato il primo a giungere a destinazione. Doveva riuscire a parlare con Lucien e a chiarire le sue ragioni, viso a viso, prima che arrivassero gli altri. Prima si fosse tolto quel dente che gli doleva, meglio sarebbe stato per tutti.

Si fermò ansante dinnanzi alla dimora dell’amico, il venticello gelido che gli penetrava nelle ossa e lo faceva rabbrividire. La temperatura si era raffreddata rapidamente, malgrado si trattasse di una caliginosa sera di maggio. Al mattino il leggero tepore nell’aria era stato persino gradevole, rammentava, ma, in capo a poche ore, una cappa d’umidità aveva reso l’aria fredda e pesante.

Attese, ansimando e riprendendo fiato, prima di vibrare qualche debole colpo sulla porta: d’un tratto, gli era venuto a mancare il coraggio. Ma non poteva tergiversare. Era vero: non sarebbe riuscito a tenere inchiodato con franchezza il proprio sguardo in quello di Lucien, perché quello che aveva fatto, quello che stava diventando… era troppo.

La porta si aprì dinnanzi a lui con un cigolio, quasi prima che riuscisse a sfiorare il legno con il palmo della mano, nell’inconscio tentativo di sospingerla davanti a sé sotto una leggera pressione.

L’interno buio lo accolse come un’austera processione di fantasmi, e Auguste avvertì dipingersi chiara sul volto una malcelata delusione: la porta aperta doveva presumibilmente stare a significare che qualcuno era già arrivato. E lui aveva perso ancora una volta l’occasione di chiarire la questione una volta per sempre.

I suoi occhi impiegarono una manciata di secondi a metabolizzare l’oscurità della stanza. Le candele spente, la stanza vuota, il silenzio innaturale. Nessuna presenza intorno a lui, nessun movimento nell’aria.

- Lucien, sono io, Auguste!

La voce tremante e insicura riecheggiò per la casa, infrangendosi sulle pareti, risuonando su per la lunga scalinata e spezzandosi in echi inquietanti.

Perdio, considerò Auguste: Lucien non era uno sprovveduto e, almeno per quel genere d’incontri, avrebbe dovuto per lo meno osservare un minimo di precauzione. Non era da lui. E lasciare la porta aperta, che fosse in casa oppure no, non rappresentava il più fulgido esempio di prudenza, con i ladri e i tagliagole che assediavano le strade a quell’ora tarda; questo, senza ancora aver considerato la fondamentale segretezza in cui avrebbero dovuto svolgersi le riunioni. Per Giuda, sarebbe stato come concedere su un piatto d’argento a qualche pattuglia di passaggio, a qualche schifoso cane del duca, l’occasione di cogliere un presunto oppositore del potere in flagranza di reato, intento ad intrattenere strani raduni in casa sua.

Auguste si deterse la fronte imperlata di sudore freddo, il respiro affannoso. Stava male: intorno a lui c’era qualcosa che non andava, si disse, ripensando all’indefinita minaccia che aveva avvertito lungo il tragitto e che aveva ritenuto un parto malato della sua mente suggestionata. Che diavolo era successo?

Era accaduto qualcosa: Lucien doveva essere uscito di casa di gran fretta, senza preavviso, al punto da abbandonare la casa aperta dietro di sé.

Avvertì il proprio cuore saltare un battito, quando, alla sua sinistra, percepì un colpo leggero vibrare sui vetri. Istintivamente, la sua mano si mosse fulminea, per la seconda volta, sulla raffinata impugnatura del coltello.

Eppure, al di là della finestra socchiusa, non vide altro se non un pipistrello che urtava le imposte con le ali, simile ad un ubriaco, ingannato dai suoi stessi sensi.

Si diede mentalmente dello stupido: come poteva farsi prendere dal terrore a causa di strane coincidenze e di ingiustificati presentimenti?

Sollevato, ripose il temibile oggetto nella tasca, quando, volgendo nervosamente qua e là lo sguardo, le pupille dilatate sì da catturare le immagini circostanti nell’oscurità, qualcosa attirò la sua attenzione.

 

Non era solo.

 

Vi era qualcuno mollemente adagiato sulla poltrona, e gli dava la schiena, il corpo rivolto verso un fuoco morente, le deboli braci agonizzanti che irradiavano un pallido calore. Ma quella posa non poteva essere naturale; era come un disegno realizzato dalla mano inesperta di un bambino.

 

Riconobbe la linea diritta e sottile del profilo di Lucien, i suoi capelli…

 

Ma quella figura non poteva appartenere ad una persona viva.

 

Auguste non riusciva a stabilire un collegamento fra ciò che il senso della vista percepiva dinnanzi a lui e una qualche facoltà mentale.

 

Si capacitò che il suo amico era morto solo quando, scorrendo con lo sguardo allucinato su qualcosa che avrebbe preferito cancellare per sempre dalla propria mente, vide un rivolo sottile di sangue colare a un lato del suo collo, la pelle resa cinerea dal gelo della morte.

 

 

 

 

Ps: ringrazio di cuore Cami e Monella per le loro recensioni, le quali mi hanno fatto immensamente piacere. Mi raccomando: continuate a seguire la mia storia! Alla prossima!

 

 

   
 
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