Noir Trésor
di
Adrienne8588
Capitolo 1
Il male di
vivere
Auguste si
tirò la porta dietro le spalle. Immobile al centro della via, gettò un’ultima
occhiata guardinga verso la sua casa, un attimo prima di lasciarsela alle
proprie spalle. Si risolse infine ad abbracciare con lo sguardo lo scorcio di
quartiere che si apriva dinnanzi ai suoi occhi, scandito dalla regolarità
ripetitiva delle abitazioni borghesi. Così diverse dalle dimore modeste di
contadini e lavoratori manuali, i cui esigui guadagni si consumavano ben presto
negli esosi tributi che, come risaputo, finivano nelle mani del duca du Lac e
dello sparuto gruppo di nobili che controllava la città e gravitava nella sua
orbita, accattivandosene i favori.
I suoi occhi
furono presto trafitti dalla luce livida del crepuscolo inoltrato e dal chiarore
malato dei lampioni ad olio che rischiaravano la via sul far della sera. Un
leggero senso di smarrimento impacciava i suoi passi lungo la strada vuota che
sentiva così diversa, svuotata del brulichio che la pervadeva durante il giorno,
abbastanza spaziosa da consentire il passaggio dei carri dei contadini e dei
venditori che trasportavano la loro merce e, talvolta, di rare vetture patrizie
di passaggio. Le avrebbe riconosciute ad occhi chiusi, nello sfarzo rumoroso che
le faceva sfavillare come diamanti nella pietra vile, nei cavalli superbi che le
trainavano, riflettendo nel piglio severo e nella grazia nervosa la fiera
alterigia dei loro illustri proprietari.
Ecco i loro
nobili, pronti, non appena si fosse presentata l’occasione, a prostrarsi ai
piedi del loro signore come uno sciame d’api su un favo di miele, ignorando
stoicamente lo spettacolo della gente che scendeva indaffarata sulle strade per
procacciarsi il pane con il proprio lavoro o, sempre più di frequente, per
mendicare.
Auguste si
sentiva stringere il cuore man mano che, allontanandosi da quel rione rivestito
di un apparente decoro, si addentrava circospetto nel quartiere povero. Gettò
alcune monete ad un nugolo di ragazzetti cenciosi che gli si era lanciato
addosso frignando, implorando un’elemosina ed aggrappandosi con gesti
studiatamente patetici alla sua giacca di buona fattura. Sorrise. Ci aveva
sempre tenuto, un capriccio inappagato quando, bambino, aveva vissuto più o meno
in quelle stesse condizioni, destreggiandosi come meglio poteva fra gli stracci
e la miseria. E, quasi certamente, quei bambini non dovevano neppure aver fatto
caso se di fronte a loro, pronto ad elargire un pugno di monete d’argento, vi
fosse lui oppure un ricco aristocratico, per quanto a chiunque sarebbe apparso
oltremodo insolito che un nobile si aggirasse in quei quartieri tutto solo,
privo di una scorta, nell’ora in cui non era difficile imbattersi in qualche
tagliagole pronto ad uccidere per un pugno di monete.
Auguste
avvertì un lampo di gelida malinconia attanagliargli la gola; gli occhi grigi,
atteggiati ad un’espressione imperturbabile, scintillarono umidi nella luce
squallida e tremolante dei lampioni. E, in quello stesso istante, un senso di
dolorosa claustrofobia gli si strinse alla bocca dello stomaco: qual era la
differenza tra un odiato aristocratico che avesse deciso di sfidare la fortuna e
mettere a repentaglio la propria vita aggirandosi in quei luoghi, e un uomo
qualunque che, con indosso l’abito buono, se ne andava tutto impettito a
cospirare in tutta tranquillità contro un tiranno?
Probabilmente,
a qualcuno disposto a tutto pur di sfamarsi, poco sarebbe importato se lui fosse
stato conte o barone oppure un disgraziato al pari di loro. La fame e la
disperazione prima o poi portavano gli uomini a lottare ferocemente per un tozzo
di pane, a uccidersi per pochi spiccioli, incapaci di aiutarsi nella disgrazia
comune.
Affrettò il
passo con finta disinvoltura, lasciandosi alle spalle le grida festose dei
marmocchi che si erano guadagnati la giornata. Era rimasto
solo.
Come in un
sogno, gli parve quasi di sentire i fantasmi della sera chiudersi su di lui,
ombre illusorie proiettate sulle pareti irregolari dalla luce incerta dei
lampioni che danzava sulle fronde sotto la sottile bava di
vento.
Era come se
vi fosse intorno a lui qualcosa che testardamente cercava di rifuggire, ma, a
dispetto di ciò, continuava a tenerlo sotto controllo per mezzo di occhi vigili
che lo spiavano, gravandogli sul cuore. Immobile al centro della strada, aguzzò
i cinque sensi, smarrito, una goccia di sudore che gli scivolava di lato sulla
fronte pallida fino a morire sullo scollo della camicia. Istintivamente, portò
la mano al pugnale che teneva nascosto in fondina, le dita strette intorno
all’elsa in un gesto nervoso e maldestro. Non era più avvezzo a maneggiare armi,
eppure, quando percorreva quei vicoli bui per recarsi alle sue riunioni segrete,
sapere di avere con sé un mezzo per difendersi da un possibile aggressore, in
qualche modo lo faceva sentire meno angosciato.
Non era
normale quell’atmosfera così placida ed inquietante, così statica, serena
soltanto in apparenza: ricordava sin troppo da vicino lo stato di quiete che
precede la tempesta.
Ma era
altrettanto probabile che fosse soltanto l’atmosfera lugubre e soffocante della
città dopo il tramonto a destare in lui certe ansie ingiustificate: con ogni
probabilità, doveva essersi lasciato suggestionare dai suoi
fantasmi.
Che
stupido! Bastava
davvero così poco a metterlo in agitazione? C’era davvero qualcosa che non
quadrava, qualche particolare che la sua mente ancora non riusciva a
focalizzare, oppure gli si stava annebbiando il
cervello?
Aveva paura.
Lui, lui che aveva combattuto una sorta di battaglia senza quartiere contro il
suo stesso destino sin dal momento in cui aveva mosso i primi passi. Aveva
lottato gettandosi alle spalle le sconfitte, ignorando le ferite sul suo animo.
Da ragazzo si era spaccato la schiena nelle locande pur di racimolare il
necessario per istruirsi e ambire eventualmente a condizioni appena più
dignitose, coltivando in segreto, quasi inconsapevolmente, quella coscienza
critica che gli era sempre stata connaturale e che l’avrebbe portato ad
un’insofferenza esasperata verso le storture che logoravano il mondo intorno a
lui e delle quali lui stesso era vittima. Aveva parimenti nutrito il desiderio
di lasciare per sempre quel buco rigettato dall’inferno ed ora retto da un
despota. E invece, aveva finito per seguire la confusa vocazione che lo spingeva
a lasciare il proprio contributo là, nella sua città
natale.
Non si era
risparmiato nulla. Gravato sulle spalle da difficoltà economiche non
indifferenti, dopo aver prosciugato i suoi risparmi nel vino e nei libri, in un
primo momento aveva accettato un impiego come giornalista presso la gazzetta
ufficiale, fortemente sottoposta a censura dopo l’avvento del duca. Non aveva
resistito più di due mesi nella veste di scribacchino lustrascarpe del tiranno,
intento a vergare cartaccia di regime sotto la tacita, costante minaccia della
censura e della galera. Se n’era andato. Troppo sbilanciato a suo svantaggio, il
baratto della sua coscienza al prezzo di due soldi.
Non era stato
prudente da parte sua, nel momento in cui già in passato si era trascinato
dietro il marchio di potenziale perturbatore, e il duca di certo non aveva
dimenticato i suoi trascorsi. Che lo ignorasse o meno, su di lui pendeva una
sorta di spada di Damocle, e, senza che nessuno l’avesse chiaramente messo in
guardia in proposito, Auguste sapeva che sarebbe bastato un passo falso,
stavolta, per cadere male.
Non aveva
quasi più nessuno. I suoi genitori erano morti qualche anno prima, stroncati dal
tifo, e lui, dal canto suo, non aveva mai fatto nulla, nel corso della sua vita,
per procurarsi affetti duraturi. Il suo procedere con freddezza e disincanto,
teso ad ossessionanti quanto legittime ambizioni, aveva finito per alienargli
ogni calore umano: si era semplicemente limitato a sfruttare coloro che si erano
trovati a gravitare nella sua stessa orbita, i quali, prontamente, l’avevano
sfruttato a loro volta.
Cosa poteva
aspettarsi, cosa poteva mettere concretamente in gioco ora, uno come lui,
palesemente solo contro un potere assoluto? Troppe cose, se non fosse stato
abbastanza pazzo da rischiare ogni giorno. Cos’altro, lui che viveva ogni giorno
nell’incertezza, in mezzo ai complotti, guardandosi costantemente alle spalle e
covando progetti ambigui? Era tutto assurdamente folle, da parte
sua.
La sua morte
sarebbe forse andata a discapito di qualcuno? Con ogni probabilità, no. Fra
coloro che si opponevano gravava una sorta di tacito accordo secondo cui non
sarebbe stato il peggiore dei mali morire per
I ragazzi
avevano accettato spontaneamente la sua autorità senza chiedergli nulla in
cambio: avevano bisogno di qualcuno abbastanza lucido da guidarli verso
obiettivi concreti, di una sorta di punto fermo in grado di indirizzare i loro
slanci e contenere gli spiriti troppo ardimentosi dal commettere gesti
avventati, sebbene alcuni di loro, di tanto in tanto, finissero per sfuggire al
controllo. Vi era stima fra loro, ma forse parlare di amicizia, da parte sua,
sarebbe stato eccessivo.
E man mano
che la sua vita andava avanti, dispiegandosi ogni giorno di fronte a lui come
una tela bianca, Auguste nutriva sempre più l’impressione che ogni giorno si
susseguisse uguale a se stesso, come un incubo ricorrente. Voleva
idealisticamente cambiare quella piccola fetta di mondo, eppure doveva
riconoscersi incapace persino di cambiare la propria vita, che proseguiva come
un’alienante tela di Penelope. Ogni buon proposito sfumava la notte, mille
contraddizioni che si scontravano nella sua mente nelle lunghe ore insonni. La
vita scorreva, eppure lui non la sentiva, non riusciva a recepirla. I giorni si
susseguivano tetri davanti a lui, senza sfiorarlo, come una fugace illusione: lo
scorrere del tempo non era un fattore che incideva sulla sua
coscienza.
Aveva
ventinove anni e si sentiva già vecchio. In fondo, non aveva fatto nulla di
speciale, a parte ficcarsi in testa progetti irrealizzabili e tramare contro il
Potere. Non era stato un buon figlio, non era stato un buono sguattero di
taverna né un buono studente né un buon gazzettiere. E, attualmente, non era
granché neppure come ribelle.
Sì, non vi
era molto di concreto da mettere in gioco: magari avrebbe dovuto soltanto
stringere i denti oppure buttarsi nell’alcool per sopire alla propria
frustrazione. Eppure non sarebbe arrivato a tanto; semmai per lui ci fosse stata
qualche debole speranza di riscatto, non vi avrebbe rinunciato
apaticamente.
Si era reso
conto che, tutto sommato, non era neppure la morte il suo principale timore. Né
le sconfitte in quanto tali, giacché, confrontandocisi costantemente, aveva
finito per farsi le ossa. Le ossa, anche se non il cuore. La mente si riempiva
giorno dopo giorno di progetti e idee più o meno concrete, con quel senso di
vuoto che continuava a pesargli sul cuore, e ne
soffriva.
Aveva mai
preso seriamente in considerazione le proprie debolezze? A coloro che avevano a
che fare con lui, doveva piuttosto suscitare l’impressione che non ne avesse:
come poteva qualcuno che non fosse lui stesso, del resto, per quanto perspicace,
riuscire a penetrare la solida corazza di fredda e spiazzante razionalità di una
persona che sembrava non avere sentimenti?
Era caduto
nelle stesse trame che aveva tessuto: si era lasciato corrompere dall’ansia
febbrile e divorante di mille progetti e, in loro nome, si era martoriato
l’anima. I suoi pensieri confusi non convergevano in alcun punto comune,
esacerbando la sua disperazione.
In tutta la
sua vita, che ora gli pareva tanto simile a quella di un gatto selvatico,
soltanto una volta aveva conosciuto l’amicizia sincera. Ed ora, in nome di
utopici desideri, stava per sacrificare anche questo.
Sospirò. Non
poteva permettere che accadesse: era questo il campanello che gli martellava
nella mente dacché aveva messo piede fuori casa, e nonostante avesse ormai preso
la sua decisione. Sarebbe stato difficile tornare indietro, ma forse poteva
ancora fare qualcosa. Doveva parlare con Lucien.
Lucien… Il
suo unico punto di riferimento. L’amico d’infanzia che gli era sempre stato
accanto, la persona con la quale aveva condiviso i momenti tristi e le piccole
gioie. L’unico di cui si fidasse ciecamente e che ricambiasse la sua fiducia, il
solo verso il quale avesse mai provato un affetto
sincero.
Non poteva
lasciare che l’unico angolo della sua vita capace di riempirgli il cuore di un
sentimento che sgorgasse direttamente dal proprio animo, e non dall’interesse di
controverse aspirazioni, venisse meno, sfumasse come una bolla di sapone, per
poi perdersi. Non poteva sacrificare il suo unico attaccamento in nome di un
Bene nel quale non credeva più neppure lui stesso.
E forse non
sarebbe stato nemmeno così tardi per mutare ancora una volta la sorte degli
eventi. Come aveva sempre fatto o, per lo meno, si era ingegnato a fare. Doveva
agire in fretta, e doveva parlare… Prima che fosse troppo
tardi.
Ce l’avrebbe
fatta, ancora una volta, e non avrebbe ceduto. Aveva sbagliato e già iniziava ad
avvertire l’eco delle conseguenze, ma poteva ancora stornare da sé il male che
aveva generato.
Lunghi anni
non erano serviti a placare il suo animo ardente, un confuso anelito di una
giustizia che oscillava fra la spinta ideale ed il più torbido
egocentrismo.
I suoi sogni
vaporosi ed ambigui l’avevano reso folle, ubriaco, deviandolo dagli affetti più
semplici e naturali, dall’umano bisogno di calore ed attaccamento reciproco, dai
valori genuini. Mancava in lui un autentico afflato altruistico, la cui profonda
carenza rendeva vana e contraddittoria ogni idea che la sua mente partorisse.
Aveva perso di vista ciò che era la base, ed ora rischiava di addentrarsi in un
vicolo cieco.
Aveva
compreso quasi subito i propri errori, forse già troppo tardi. Troppo tardi per
tornare indietro, magari; non da rinunciare ad arginare gli effetti più deleteri
delle proprie scelte avventate.
Voltò
l’angolo per l’ennesima volta nelle strade tortuose e buie, accompagnato dal
sibilo sinistro del vento leggero che si era alzato, rimbombandogli furiosamente
nel petto, in sincronia con il battito del suo cuore
impazzito.
Fa’ che non
sia troppo tardi… Fa’ che non sia tutto perduto. Che possa recuperare il
recuperabile. Ti prego. Ti prego!
Una folata
più violenta gli sollevò il mantello scuro e gli scompigliò sulle spalle i
lunghi capelli bruni, tirati rigidamente dietro la nuca e costretti in un
codino.
Era ancora
presto, ma forse non sarebbe stato il primo a giungere a destinazione. Doveva
riuscire a parlare con Lucien e a chiarire le sue ragioni, viso a viso, prima
che arrivassero gli altri. Prima si fosse tolto quel dente che gli doleva,
meglio sarebbe stato per tutti.
Si fermò
ansante dinnanzi alla dimora dell’amico, il venticello gelido che gli penetrava
nelle ossa e lo faceva rabbrividire. La temperatura si era raffreddata
rapidamente, malgrado si trattasse di una caliginosa sera di maggio. Al mattino
il leggero tepore nell’aria era stato persino gradevole, rammentava, ma, in capo
a poche ore, una cappa d’umidità aveva reso l’aria fredda e
pesante.
Attese,
ansimando e riprendendo fiato, prima di vibrare qualche debole colpo sulla
porta: d’un tratto, gli era venuto a mancare il coraggio. Ma non poteva
tergiversare. Era vero: non sarebbe riuscito a tenere inchiodato con franchezza
il proprio sguardo in quello di Lucien, perché quello che aveva fatto, quello
che stava diventando… era troppo.
La porta si
aprì dinnanzi a lui con un cigolio, quasi prima che riuscisse a sfiorare il
legno con il palmo della mano, nell’inconscio tentativo di sospingerla davanti a
sé sotto una leggera pressione.
L’interno
buio lo accolse come un’austera processione di fantasmi, e Auguste avvertì
dipingersi chiara sul volto una malcelata delusione: la porta aperta doveva
presumibilmente stare a significare che qualcuno era già arrivato. E lui aveva
perso ancora una volta l’occasione di chiarire la questione una volta per
sempre.
I suoi occhi
impiegarono una manciata di secondi a metabolizzare l’oscurità della stanza. Le
candele spente, la stanza vuota, il silenzio innaturale. Nessuna presenza
intorno a lui, nessun movimento nell’aria.
- Lucien,
sono io, Auguste!
La voce
tremante e insicura riecheggiò per la casa, infrangendosi sulle pareti,
risuonando su per la lunga scalinata e spezzandosi in echi
inquietanti.
Perdio, considerò
Auguste: Lucien non era uno sprovveduto e, almeno per quel genere d’incontri,
avrebbe dovuto per lo meno osservare un minimo di precauzione. Non era da lui. E
lasciare la porta aperta, che fosse in casa oppure no, non rappresentava il più
fulgido esempio di prudenza, con i ladri e i tagliagole che assediavano le
strade a quell’ora tarda; questo, senza ancora aver considerato la fondamentale
segretezza in cui avrebbero dovuto svolgersi le riunioni. Per Giuda, sarebbe
stato come concedere su un piatto d’argento a qualche pattuglia di passaggio, a
qualche schifoso cane del duca, l’occasione di cogliere un presunto oppositore
del potere in flagranza di reato, intento ad intrattenere strani raduni in casa
sua.
Auguste si
deterse la fronte imperlata di sudore freddo, il respiro affannoso. Stava male:
intorno a lui c’era qualcosa che non andava, si disse, ripensando all’indefinita
minaccia che aveva avvertito lungo il tragitto e che aveva ritenuto un parto
malato della sua mente suggestionata. Che diavolo era
successo?
Era accaduto
qualcosa: Lucien doveva essere uscito di casa di gran fretta, senza preavviso,
al punto da abbandonare la casa aperta dietro di sé.
Avvertì il
proprio cuore saltare un battito, quando, alla sua sinistra, percepì un colpo
leggero vibrare sui vetri. Istintivamente, la sua mano si mosse fulminea, per la
seconda volta, sulla raffinata impugnatura del
coltello.
Eppure, al di
là della finestra socchiusa, non vide altro se non un pipistrello che urtava le
imposte con le ali, simile ad un ubriaco, ingannato dai suoi stessi
sensi.
Si diede
mentalmente dello stupido: come poteva farsi prendere dal terrore a causa di
strane coincidenze e di ingiustificati presentimenti?
Sollevato,
ripose il temibile oggetto nella tasca, quando, volgendo nervosamente qua e là
lo sguardo, le pupille dilatate sì da catturare le immagini circostanti
nell’oscurità, qualcosa attirò la sua attenzione.
Non era
solo.
Vi era
qualcuno mollemente adagiato sulla poltrona, e gli dava la schiena, il corpo
rivolto verso un fuoco morente, le deboli braci agonizzanti che irradiavano un
pallido calore. Ma quella posa non poteva essere naturale; era come un disegno
realizzato dalla mano inesperta di un bambino.
Riconobbe la
linea diritta e sottile del profilo di Lucien, i suoi
capelli…
Ma quella
figura non poteva appartenere ad una persona viva.
Auguste non
riusciva a stabilire un collegamento fra ciò che il senso della vista percepiva
dinnanzi a lui e una qualche facoltà mentale.
Si capacitò
che il suo amico era morto solo quando, scorrendo con lo sguardo allucinato su
qualcosa che avrebbe preferito cancellare per sempre dalla propria mente, vide
un rivolo sottile di sangue colare a un lato del suo collo, la pelle resa
cinerea dal gelo della morte.
Ps: ringrazio
di cuore Cami e Monella per le loro recensioni, le quali mi
hanno fatto immensamente piacere. Mi raccomando: continuate a seguire la mia
storia! Alla prossima!