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Autore: Laura Sparrow    01/11/2012    3 recensioni
Quinto capitolo della saga di Caribbean Tales. - La Perla è perduta. Jack è perduto. Una tempesta separa Laura Evans dalla sua ciurma e dal suo capitano, per gettarla sola su coste sconosciute. Devono ritrovarsi, mentre il pericolo incombe sottoforma di uno spietato cacciatore di pirati incaricato di trovare proprio loro...
Genere: Avventura, Azione, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Elizabeth Swann, Hector Barbossa, Jack Sparrow, Nuovo Personaggio, Will Turner
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Capitolo 1



And I'm borne high on these waves,
swept by the wind and alone.
Sail me away, carry me back to my home
I'm tired, I've been torn,
a cruel wretched storm churns like a gail in my bones
Oh sail me away
Carry me back to my home.

Quando mi svegliai, c'era la tenebra.
Non la tenebra totale, ma quella delineata dalla fioca luce di una candela, accesa in un angolo lontano da me. L'angolo in cui mi trovavo io era pieno di ombre. Per un momento non riuscii a distinguere nulla se non quello: le ombre che si allungavano sopra e davanti a me. Cos'era, una parete di legno, quella su cui si arrampicavano? Non stavano ferme un attimo. Scivolavano. Danzavano. Sentii che mi tornava il mal di mare: avevo di nuovo voglia di vomitare, ma almeno stavolta non lo feci.
La luce, invece, era indistinta e mi feriva gli occhi in modo insopportabile. Sentivo le pupille bruciare, e ricordai come il sale me le avesse fatte pizzicare e lacrimare per giorni interi. Ma dov'ero? Dovevo riuscire a formulare un pensiero coerente, che non avesse a che fare solo con le luci e le ombre. Pensa. Rifletti. Torna in te. C'è una parete, quella è una candela, c'è qualcosa di solido sotto di te. Il pavimento è stabile, e il mondo ha smesso di beccheggiare. Sei in una stanza. Terra.
Mi sentivo male oltre ogni possibile immaginazione. Mi era capitato di venire ferita e perdere sangue, e credevo che quello facesse abbastanza male: adesso invece non mi sembrava di sentire ferite di nessun tipo, ma il mio stomaco e tutte le mie viscere erano contorti in una morsa atroce, strizzando le mie budella e mandando fitte di dolore tremendo in tutto il mio corpo. La testa pulsava, e sembrava addirittura essere staccata dal resto del corpo, come se galleggiasse in un limbo nebbioso. E poi c'era la nausea, fortissima. Era orribile perché avevo fame, stavo morendo di fame, e allo stesso tempo il solo pensiero del cibo mi dava il voltastomaco. E avevo sete. Riuscivo a stento a muovere le labbra da quanto erano secche. Dio, datemi dell'acqua, vi prego, non importa per quanto tempo riuscirò a tenerla nello stomaco senza vomitarla, ne ho bisogno, ho sete, ho così tanta sete.
Mi veniva da piangere. E, per assurdo, adesso era proprio la stabilità di quella stanza a farmi venire il mal di mare.
Ma non ero sola. Vidi un'altra ombra muoversi contro la luce della candela, e ingigantirsi mentre veniva verso di me: cominciai a battere le palpebre per mettere a fuoco quell'immagine indistinta, e allo stesso tempo mi accorsi anche del suono di una voce. Anche i suoni sembravano arrivare da lontano, come se il mondo fosse immerso nell'acqua. Rabbrividii. Poco a poco le cose cominciarono a riacquistare i loro contorni, e riconobbi distintamente il viso di una donna massiccia che stava seduta accanto al letto e mi guardava.
Era veramente massiccia: scommetto che se l'avessi vista in piedi l'avrei trovata tanto larga quanto alta... però lo sguardo dei suoi grandi occhi castani era amichevole, e tutto quel viso esprimeva una dolcezza quasi materna che, per qualche motivo, mi confortò immediatamente. Ero ancora troppo annebbiata per afferrare del tutto le sue parole, però ci guardammo e ci capimmo. Il suo viso mi diceva che capiva, sì, lo so, stai male, stai veramente molto male, ecco, lascia che ti aiuti.
Sentii ancora di più la voglia di piangere, ma mi controllai. Lei si chinò su di me e le sue mani robuste mi tirarono su come se fossi stata una bambina, raddrizzandomi un poco e permettendomi di appoggiare la schiena al cuscino.
- Riesci a capirmi, cara? Come ti senti?-
La sua voce aveva un suono ruvido, ma era rassicurante anche quella. Mossi le mie labbra riarse e arrotolai la lingua in cerca di saliva, cercando di parlare: mi sentivo la bocca completamente asciutta, ma alla fine riuscii a cavare qualche parola fuori dalla mia gola secca.
- Gira tutto... - mormorai, soffocando un colpo di tosse. - Ho il vomito... ho fame... ho sete... tutto insieme. -
- È tutto normale, cara, mi stupirei del contrario!- rispose lei, con l'accenno di un sorriso, e batté gentilmente la sua mano sulle mie. - Sai cosa ti è successo? Ti hanno trovata in mare aperto, diavolacci, che galleggiavi attaccata ad un pennone!-
I ricordi mi colpirono con la violenza di una mazzata, ma cercai di non darlo a vedere: la donna mi fissava, chiaramente in attesa di una risposta.
- Sì... ho fatto naufragio. - risposi. Lei restò a guardarmi ancora per qualche momento.
- Sei un pirata, non è vero?- non c'era traccia di sospetto o accusa nel suo tono, solo curiosità. Per tutta risposta, annuii.
- E la nave su cui viaggiavi non deve essersela passata bene... - continuò lei, scrollando le spalle. - Da noi è passata una gran bella tempesta soltanto ieri, se eravate in mare aperto probabilmente ve la sarete beccata due giorni fa, eh? Ti sei fatta una bella nuotata. -
Rabbrividii di nuovo. Due giorni! Sì, erano stati due giorni e due notti intere quelli che avevo passato là fuori, galleggiando sull'acqua. Mi sentivo di nuovo male.
Lei sembrò accorgersene, perché si voltò verso il tavolino su cui ardeva la candela, e prese una brocca di coccio per versare qualcosa in un bicchiere. Me lo porse: era qualcosa di caldo e aveva un buon profumo, ma avevo una gran paura di non riuscire a tenerlo giù.
- Non preoccuparti, manda giù tutto pian piano. Ti sentirai meglio. -
Obbedii: ero troppo assetata per non farlo. Bevvi a piccoli sorsi, e per qualche istante il mio stomaco sembrò volersi ribellare, poi però, lentamente, la bevanda calda sembrò sciogliere il nodo doloroso che mi torceva le budella, fino a lasciarmi libera di respirare. Quasi gemetti dal sollievo mentre svuotavo il bicchiere fino all'ultima goccia.
La donna annuì soddisfatta mentre mi guardava bere, e poi mi prese il bicchiere. - Pensa a riposarti, adesso, d'accordo? E quando starai meglio ci racconterai qualcosa su quello che ti è successo. -
Annuii, anche perché non avevo nessun'altra risposta da dare. Mi sentivo ancora stanca, stordita e confusa, non sapevo dove mi trovavo, e anche se quella donna gentile sembrava intenzionata ad aiutarmi, non ero poi così pronta a mettermi nelle sue mani. Che fine avevano fatto i due uomini che mi avevano ripescata? Ricordavo di averli sentiti parlare, ed ero abbastanza sicura che uno di loro mi avesse detto il nome di quel posto... ma non sarei certo riuscita a ricordarmelo adesso. Lei spense la luce della candela e mi lasciò, ricordandomi che se avessi avuto bisogno, dovevo soltanto chiamare. Qualcuno avrebbe vegliato fuori dalla mia porta. In silenzio mi chiesi se ero un'ospite o una prigioniera, anche se la seconda opzione mi sembrava molto improbabile.
Una volta sola, mi lasciai ricadere contro il cuscino, respirando profondamente: cominciavo a sentirmi un po' meglio, anche se cominciai a tremare e non riuscii a smettere per un bel po'.
Ero viva. Questa semplice consapevolezza mi sembrava incredibile. E ancora dovevo lottare furiosamente contro le lacrime: lacrime di sollievo, di paura, di gioia e di smarrimento.
Ero viva, ma ciò non toglieva che avessi lottato tra la vita e la morte per ben due giorni.
Dove mi aveva trascinata la corrente in tutto quel tempo? E, Dio mio, dove erano gli altri?

*

La prima cosa che avvistammo fu il fronte compatto di nuvole nere che inghiottiva l'intero orizzonte.
Non c'era alcun dubbio: la tempesta veniva dritta contro di noi e, di rimando, noi ci stavamo tuffando nella sua bocca. Virare era inutile: non capivamo dove iniziava e dove finiva, e l'unica cosa che potevamo fare era cercare di dirigerci dove il fronte di nuvole sembrava leggermente più chiaro del resto.
Ma non avevamo paura: eravamo pur sempre a bordo della Perla Nera. Ne avevamo passate di peggiori.
- Gente!- gridai dal cassero di poppa, vedendo che sul ponte era calato un pesante silenzio e che tutti i pirati stavano fissando la tempesta in arrivo. - Stiamo per attraversare una tempesta, quindi ci sarà da ballare parecchio. Dovete stare pronti a ridurre i velaggi e voglio ogni uomo al suo posto entro cinque minuti, tutto chiaro? Ai posti!-
Un grido unanime di assenso confermò le mie parole, e i pirati corsero alle loro postazioni come il branco di canaglie ben addestrate che erano: mi sentii fiera di loro quando li guardai muoversi sui pennoni e cominciare a ridurre gradualmente le vele man mano che il vento cominciava a girare e a soffiarci contro. Avremmo superato anche questa. Ne ero sicura.
La Sputafuoco era dietro di noi: non erano ancora a portata di voce, quindi segnalammo con le bandiere il pericolo e la nostra intenzione di oltrepassarla tenendoci lontani dal fronte più scuro. Dal ponte dell'altra nave ci arrivò la loro risposta affermativa. Riconobbi le figure di Elizabeth e William accanto al timone, e rivolsi loro un ampio cenno di saluto col braccio prima di tornare al mio lavoro.
La pioggia iniziò come un ticchettio sinistro sul legno, e in una manciata di secondi si trasformò in uno scroscio torrenziale che ci lasciò tutti quanti inzuppati fino alle ossa. Udii le imprecazioni dei miei uomini in cima ai pennoni, cominciai a sentire il ponte diventare scivoloso e sempre meno stabile per colpa delle onde. Strinsi gli occhi contro la pioggia che mi batteva dritta in viso e mi voltai verso il timone.
Jack era lì, pronto a condurre la sua Perla anche in quella corsa. Tra le nuvole saettò il primo fulmine, che illuminò per un momento di luce bianca e sinistra l'intera nave bagnata dalla pioggia: la figura scura di Jack, col tricorno, la giacca inzuppata e i lunghi capelli al vento, fece per un attimo un bizzarro contrasto contro il cielo illuminato. Si voltò verso di me e vidi scintillare i denti d'oro.
- Siamo pronti?- mi gridò, sopra il frastuono della pioggia.
- Sì!- gridai di rimando. - Tutti gli uomini sono ai loro posti, io vado di prua!-
Di nuovo il sorriso, e un cenno della mano. - Vai, tesoro!- mi incoraggiò, facendo girare con decisione il timone. Poi, mentre mi voltavo, lo sentii che si metteva a cantare una canzone marinaresca in francese, ricordo dei nostri recenti vagabondaggi in giro per l'Europa, storpiando la metà delle parole. Anche se sferzata dal vento e dalla pioggia, col ponte che traballava sotto i piedi, mi venne quasi da ridere.
Raggiunsi la prua della nave, dove incrociai Gibbs: servirono solo poche parole, urlate al di sopra dello scroscio dell'acquazzone e delle onde, per metterci d'accordo sul da farsi. La furia del vento cercava di ricacciarci indietro, i pirati avevano ammainato tutto quello che potevano ammainare, e ora dovevamo lottare per mantenere la nave stabile nel bel mezzo dell'uragano. Davanti a noi c'era ancora uno sprazzo di cielo appena più chiaro, un tenue faro di speranza che dovevamo tenerci ben stretto, senza permettere che la tempesta ci trascinasse dove voleva.
Non so quanto durò: sicuramente trascorsero alcune ore, ore frenetiche durante le quali la pioggia non accennò a diminuire, anzi, diventò un muro d'acqua compatto che non lasciava respirare e accecava i pirati al lavoro sul ponte e sugli alberi. Le onde ruggivano, scuotendo lo scafo della Perla come se la nave non fosse altro che un guscio di noce trasportato dalla furia dell'acqua: per quanto cercassimo di mantenere la nostra rotta, la corrente ci trascinava di qua e di là, e a tratti il ponte si inclinava così tanto che dovevamo reggerci precipitosamente alle funi o alla murata per non venire spazzati via.
Lo squarcio chiaro nel cielo era completamente sparito. Ora, sopra di noi, davanti e di lato, c'era soltanto il cielo nero come l'inchiostro, e le onde inferocite. La Sputafuoco, che fino a pochi attimi prima ci stava tallonando fedelmente, ad un tratto semplicemente sparì dietro le onde e la pioggia. Per un attimo ebbi paura per i miei amici... ma non ebbi nemmeno il tempo di cercarli con lo sguardo nella tempesta. Un'altra ondata percosse lo scafo con la forza di un colpo d'ariete, tanto che barcollai verso la murata e dovetti tenermi stretta con entrambe le mani, fissando il mare ribollente sotto di noi.
- Ammainate, ammainate!- urlai, voltandomi verso gli uomini sulle sartie, e augurandomi che mi sentissero. - Rischiamo di rovesciarci!-
Poi di colpo sentii il vuoto sotto i piedi.
Un'altra onda ci aveva colpiti, ma questa veniva dalla parte opposta: tutta la nave si stava inclinando verso tribordo, ovvero il lato su cui mi trovavo. Paralizzata, vidi l'acqua vicinissima. Mi sentii quasi priva di peso mentre la fiancata della Perla precipitava vero il basso, per poi riassestarsi di botto e tornare a risalire.
Mi mancava il fiato. Ma non era finita, perché quell'inclinazione improvvisa aveva permesso alle onde di sommergere parte del ponte: non feci in tempo a voltarmi che vidi un muro d'acqua correre per tutta la lunghezza del ponte, travolgendo gli uomini e il carico che incontrava sul suo percorso.
Sentii la corrente afferrarmi per le gambe, e l'istante dopo non c'era più un ponte su cui poggiare i piedi. Roteavo, trascinata dall'acqua: mi rendevo conto di stare cadendo ma la pioggia mi accecava e annullava ogni concezione dell'alto e del basso... Una cima, fradicia di pioggia. La agguantai con entrambe le mani, mi ci avvinghiai, e solo quando la sentii sorreggere il mio peso mi resi conto del pericolo.
Penzolavo nel vuoto. L'ondata mi aveva sbalzata fuoribordo, e ora quella fune tesa era l'unica cosa che mi tenesse attaccata alla nave.
Urlai, anche se dubito che qualcuno avrebbe potuto sentirmi: mi accorsi a malapena della presenza di un altro pirata aggrappato alla cima poco sotto di me, e anche lui si dibatteva e gridava, sferzato dalla pioggia e dalle onde che cercavano di strapparci via dal nostro unico appiglio.
Ricordo che pensai: “Dio, no, no, non può succedere!”
Era irreale: la fune tesa nel nulla, la Perla nient'altro che un'ombra confusa, e sotto di noi un inferno di acqua ruggente. Poi udii il suono chiarissimo del legno che si spezza, e sentii la fune scorrere libera tra le mie mani.
Non ebbi tempo di pensare.
Precipitai fuoribordo, affondando nell'abbraccio dell'acqua gelida. Riemersi, tossendo e sputando, ma subito un'altra onda mi riafferrò e mi trascinò verso l'alto a velocità vertiginosa, senza che potessi aggrapparmi a nulla. Folle! Mi dibattei disperatamente, cercando di nuotare, ma come era possibile nuotare quando l'acqua stessa sembrava essere diventata un centinaio di mani invisibili che mi strattonavano, mi spingevano e trascinavano sotto? Finii di nuovo sott'acqua, e stavolta sentii chiaramente che mi ribaltavo. Ero stata presa da un'altra onda.
La mia salvezza fu accorgermi di una sagoma scura nell'acqua, a poca distanza da me: mi rigirai, scalciai e riuscii a nuotare verso di essa, aggrappandomici come prima avevo fatto con la cima. Sentii il legno bagnato sotto le dita, insieme con i nodi delle corde e un residuo strappato di vela, e capii che era un pezzo di pennone che doveva essersi spezzato. Le onde mi portarono di nuovo su e giù con violenza, ma adesso galleggiavo insieme al pennone e riuscivo a distinguere l'alto e il basso.
Questo riuscì a farmi riprendere il controllo per qualche momento, ma poi vidi la Perla in mezzo alla bufera, una sagoma scura che era lontana e vicina al tempo stesso. Vedevo i pirati che correvano lungo il ponte, li vedevo affollarsi sulla murata di tribordo. E nello stesso istante mi resi conto che era già troppo lontana da raggiungere a nuoto, e che se avessi voluto tentare avrei dovuto abbandonare il sostegno del pennone.
- Aiuto!- urlai, tuttavia, con tutto il fiato che mi rimaneva. Era terrificante: la Perla, lì, a poche braccia di mare... e intanto sentivo che le onde mi allontanavano inesorabilmente, mi portavano via!
- Jack!- gridavo, senza controllo. - Jack! Gibbs! Aiuto!-
In quel momento sentii qualcun altro gridare, non troppo lontano da me: mi voltai, continuando ad avvinghiarmi al pennone spezzato, e vidi la sagoma di un uomo tra le onde, quello che era stato scagliato fuoribordo insieme a me.
Lo conoscevo, conoscevo il suo nome e la sua faccia, sebbene non fosse altro che un'ombra in mezzo alla tempesta, che fendeva l'acqua a grandi bracciate nel tentativo di venire verso di me. C'erano ancora delle cime che penzolavano dal pennone, agitandosi nell'acqua come lunghi tentacoli sottili: una di esse non era molto lontana da lui. Se l'avesse afferrata, sarebbe riuscito ad aggrapparsi al legno insieme a me.
- Wickham!- lo chiamai. - Prendi la cima!-
L'uomo nuotava con lena, con la forza della disperazione. La fune guizzava proprio davanti a lui come un serpente. Ancora un poco e ce l'avrebbe fatta. Poi lo vidi perdere forza, appena per un momento, e subito un'onda si alzò tra di noi, separandoci.
- Wickham!- presi a strillare. - Wickham prendi la cima! Prendi la cima! Wickham... Wickham!-
Lo avevo perso nella tempesta, e di colpo il pensiero di essere in balia del mare e di quel pezzo di legno, per di più da sola, mi paralizzò completamente. Almeno la Sputafuoco, dov'era la Sputafuoco? L'avevo vista dietro di noi all'inizio della nostra folle traversata, ci era rimasta alle costole per un po' prima che le onde e la pioggia ci separassero. Sperai anche in loro, sperai che per un miracolo la nave dei miei amici fosse solo di poco dietro la Perla e potesse ripescarmi.
Non avevo alcun controllo su quello che accadde dopo: la tempesta infuriava attorno a me, e mi sembrava di stare aggrappata ad un cavallo imbizzarrito. Intanto la Perla si faceva sempre più lontana e indistinta, sussultando e ondeggiando paurosamente sotto le ondate, ed io continuavo a gridare senza sosta senza nemmeno rendermene conto, invocando Jack, invocando i miei amici, la mia ciurma, supplicandoli di tornare e aiutarmi.
Dopodiché, la Perla sparì, e ci fu soltanto il mare e il buio, rischiarato solo di tanto in tanto dal bagliore dei lampi. Le onde non mi diedero tregua nemmeno per un secondo, ed io mi presi tutta la loro furia, reggendomi al pennone con braccia e gambe.
Quando tutto finì, ero distrutta. Il mare si calmò poco a poco, anche se le nuvole non se ne andarono: quando finalmente ebbi la forza di alzare la testa per guardarmi in giro, non vidi assolutamente nulla. Mare nero, cielo nero.
Ero sola in mezzo all'oceano.

*

Per l'intera notte andai alla deriva, troppo esausta e terrorizzata per fare qualsiasi cosa. E poi, che cosa avrei potuto fare? Galleggiavo attaccata ad un pezzo di legno, niente che potesse considerarsi un'imbarcazione. Non avevo remi, non avevo cibo o acqua. E non avevo la minima idea di dove fossi finita.
Quando ricominciò a piovere, una pioggia leggera che increspò appena la superficie del mare, rimasi per ore con la testa all'insù e la bocca spalancata, bevendo a grandi sorsate l'unica acqua dolce che potevo sperare di trovare.
Il momento più terrorizzante fu il mattino dopo, quando mi riscossi dal torpore semi cosciente nel quale ero caduta durante la notte, con le braccia doloranti per non avere mai lasciato la presa sul pennone. Per qualche ora fui perfettamente lucida, e considerai con orrore la mia situazione.
Attorno a me non c'era nulla.
Il mare si stendeva in ogni direzione, senza la minima ombra a turbarne il blu uniforme. Nessuna nave, niente terra in vista, da nessuna parte. Sentii montare il panico e, quando ne ebbi abbastanza di resistere, vi cedetti senza ritegno: urlando e chiamando finché ebbi voce.
Com'era prevedibile, non c'era nessuno a sentirmi. In breve tempo persi i sensi di nuovo, non prima di essermi legata al polso una delle cime penzolanti, in modo da non perdere il mio unico appiglio nemmeno per un secondo.
Il giorno passò lentamente, e arrivarono la fame e la sete. Pur di non doverli più sentire, fui felice di perdere i sensi di nuovo. Sentivo il sole picchiare sulla schiena, e confusamente mi facevo un sacco di domande. In che direzione mi aveva spinta la tempesta? E dove era finita la Perla Nera? C'erano squali in quelle acque? Sarebbero saliti dalle profondità per aggredirmi, se mi avessero trovata a galleggiare come un morto?
Una volta formulato, il pensiero degli squali non se ne andò più dalla mia testa. Nei brevi periodi di vero e proprio sonno non facevo che sognare squali che salivano dagli abissi, e mi svegliavo di colpo, dimenandomi e strillando per la paura. Quando ero sveglia scrutavo l'acqua, e mi immaginavo enormi forme scure sotto la superficie. Deliravo. Avevo paura, fame, sete e ancora paura.
Piovve ancora, e mi costrinsi a bere di nuovo, ma la notte seguente ero diventata così debole che più volte caddi dal pennone e riemersi sputacchiando, salvandomi solo grazie alla fune legata al polso. La fame mi faceva sragionare, ed erano pochi i momenti in cui ero veramente lucida... forse in un certo senso fu una benedizione.
Passò un altro giorno intero, durante il quale continuai a mettere la testa sotto l'acqua per trovare un po' di sollievo dal sole implacabile.
Un'altra notte. E già non sentivo più il mio corpo: le mie dita sembravano tutt'uno con il legno del pennone. Avevo bevuto acqua di mare e l'avevo vomitata. Gli occhi mi bruciavano così tanto che non riuscivo più a vedere nulla, ed ero sicura che sarei morta. Con la lingua impastata borbottavo, pregavo, chiamavo i nomi degli amici perduti. Chiamavo Jack, incessantemente, infuriandomi perché la Perla non era lì, perché la mia ciurma non era corsa a salvarmi, a tirarmi fuori da quel mare senza fine e riportarmi a terra.
Un'altra alba. Ormai non aprivo nemmeno più gli occhi.
Poi c'era stato il movimento. Voci umane, che non erano solo l'ennesimo scherzo della mia immaginazione. Il mondo si era improvvisamente ribaltato: mani umane, qualcuno che mi toccava e mi sollevava, una superficie solida. Mi ero sentita male oltre ogni possibile immaginazione. Per un attimo mi mancò la mia prigione fatta soltanto d'acqua, e desiderai più di ogni altra cosa affondarci dentro e mettere fine a tutto questo una volta per tutte: meglio quello che il dolore osceno alle viscere, gli occhi in fiamme, la fame terribile e la sete...
Poi, lentamente, la realtà aveva cominciato a riprendere i suoi contorni. Una barca: ero su una barca, c'erano degli uomini, e presto saremmo tornati a terra. Acqua da bere e qualcosa di asciutto in cui avvolgermi. Ancora voci umane, voci che riuscivo a capire.
Sì, mi dissi, sentendo bruciare nel petto una scintilla della mia vecchia determinazione: ero sopravvissuta e stavo tornando indietro. La ragione tornava a farsi strada nella mia mente febbricitante.
Per prima cosa, terra. Via dal mare immenso, via da quella cella d'acqua sconfinata. Terra solida sotto i piedi, così avrei capito dove mi trovavo.
Perché dovevo sapere dove ero finita. Dovevo scoprire dove erano gli altri. Dovevo tornare. Stavo tornando. Ero ancora viva, e ormai né il cielo né l'inferno mi avrebbero impedito di ritornare a casa, in un modo o nell'altro.

*

Per due giorni non feci altro che dormire, restando sveglia malvolentieri solo il tempo di mangiare o usare la latrina, cose che mi risultavano più faticose di quanto non fossero mai state prima.
Ma il terzo giorno avevo ormai riacquistato le forze. Aprii gli occhi e, per la prima volta, seppi di essere perfettamente sveglia. Dalla luce grigiastra che entrava dalle imposte chiuse immaginai che fosse tardo pomeriggio, o addirittura sera: si sentiva il rumore del mare che veniva da fuori, e anche un discreto baccano che doveva provenire da dentro... Ascoltai con più attenzione. Baccano di stoviglie, rumore di passi e di conversazioni quasi urlate, risate, scricchiolii di tavoli e sedie: il rumore inconfondibile di una locanda. Ricordavo ben poco di come fossi arrivata lì, però mi sembrava vagamente di avere visto il grosso edificio... sì, una locanda, senz'altro.
Era ora di alzarsi. Nei giorni precedenti c'era sempre stata una delle ragazze di servizio ad aiutarmi, donne giovanissime e sempre pazienti che a volte avevano dovuto sollevarmi praticamente di peso per farmi fare il tragitto dal letto alla latrina. Adesso però mi sentivo abbastanza in forze: mi alzai a sedere sul letto e posai i piedi per terra, felice di sentire rispondere le gambe. Avevo addosso una vestaglia bianca lunga fino ai piedi. Che ne era stato dei miei vestiti, a proposito? E le mie armi? Ah, già: non indossavo armi quando ero caduta dalla Perla. Una perdita in meno.
Ma... Sussultai, agguantandomi il collo con una mano.
La perla nera. Il ciondolo che portavo sempre addosso non c'era più. Non avevo neppure gli anelli alle dita.
Ah, bastardi! Un'ondata di collera mi travolse, rischiando di sopraffarmi: questo era troppo, avevo appena patito le pene dell'inferno, non dovevano permettersi anche di rubarmi le mie cose!
“Calma, calma, perdio, resta calma. Ti sembra il momento? Ti sembra questa la cosa più importante?” mi rimproverai aspramente, e poco a poco funzionò. Dovevo stare calma: prima di ogni altra cosa, dovevo ragionare.
Ora, in piedi.
Girai la maniglia della porta e uscii dalla stanza. Mi trovai in uno stretto corridoio: lungo le pareti c'erano altre porte, e immaginai che conducessero tutte a stanze simili a quella che avevo appena lasciato. Il rumore e le voci provenivano dal fondo del corridoio.
Mi incamminai: il corridoio sbucava in una piccola saletta vuota, arredata solo con alcuni divani e un tappeto steso al centro della stanza; era rustica, ma elegante alla sua maniera, e per un attimo mi ricordò la Lanterna Fioca a Tortuga. In effetti, chissà che non fossi finita in un bordello: un posto così grande avrebbe potuto benissimo esserlo.
Oltre un piccolo arco privo di porta c'era quella che era senz'altro la sala principale: infatti riuscii a vedere l'interno di una locanda grande e ben illuminata dalle lampade ad olio, un bancone, tanti tavoli pieni di gente che beveva e mangiava. Dunque era ora di cena, o almeno così sembravano pensarla gli avventori. Le cameriere andavano avanti e indietro tra i tavoli, e tra di esse mi sembrò di riconoscere qualche faccia vagamente familiare: di sicuro erano state loro ad occuparsi di me.
Avanzai a passi lenti, circospetta: non ero sicura di voler piombare nel bel mezzo della locanda -anche se dubitavo che lì in mezzo qualcuno avrebbe davvero fatto caso a me- però volevo soprattutto trovare la padrona di quel posto e parlarle. Mi ricordavo la donna che avevo visto appena avevo ripreso i sensi, ma ora non riuscivo a vederla da nessuna parte.
Quando mi avvicinai ancora un po', l'odore del cibo che saliva dai piatti e dalle cucina divenne così intenso che mi ritrassi, arricciando il naso. Odore di birra, rum, carne e olio fritto. E, per quanto l'insieme fosse piuttosto disgustoso, mi venne di nuovo fame.
Ad un tratto una delle cameriere si accorse di me, e venne precipitosamente nella mia direzione.
- Ehi, cosa ci fai alzata?- esclamò appena mi raggiunse, preoccupata. Doveva avere solo pochi anni meno di me: era pallida e sottile, con riccioli rossi che spuntavano da sotto la cuffietta. Mi fece cenno di allontanarmi dalla porta e ci dirigemmo insieme verso il centro della saletta appartata. Lei mi scrutava ancora con apprensione. - Come ti senti?-
- Sto bene. - replicai. Dio, sembravano secoli che non parlavo con qualcuno! E stavolta ero anche completamente sveglia. - Non ce la facevo più a stare a letto, tutto qui. Ascolta, io... non so dove sono e so a malapena cosa mi è successo. Dov'è la donna che mi ha curata? Ho bisogno di vederla, devo parlare con lei. -
- Stai parlando di Sylvie Hawk. - c'era una grande deferenza nel tono e nell'espressione della ragazza, quando lo disse: questa Sylvie Hawk doveva essere tenuta in grande considerazione. - È la proprietaria di questo posto. Sei alla Sirena, su Isla Muelle. Io sono Sarah. - mi tese la mano, e io gliela strinsi.
- Laura. - non mi sembrò prudente rivelare alcun cognome, per il momento. Invece il nome del posto, Isla Muelle... Ero su un'isola, dunque. Frugai nella memoria cercando qualche punto di riferimento: se non altro, ero ancora nei Caraibi e non ero stata trascinata all'altro capo del mondo.
- Dirò a Sylvie che ti sei svegliata. Ecco, vieni. Siediti. Anche lei vuole parlare con te. -
La giovane dai riccioli rossi di nome Sarah mi fece sedere su uno dei divani, quindi sparì nuovamente di corsa nella sala da pranzo. Non potendo fare altro aspettai, guardandomi attorno e torcendomi le mani. Mi sentivo incapace di rilassarmi. La vestaglia che indossavo mi faceva sentire vulnerabile, e sentivo la mancanza della sicurezza data dall'avere una spada o una pistola alla cintura. In quel luogo sconosciuto, ero indifesa.
Sylvie Hawk arrivò poco dopo.
Entrò nella saletta a grandi passi, asciugandosi le mani sul grembiule che portava legato alla vita. Era esattamente come me la ricordavo quando l'avevo vista seduta accanto al mio letto nella penombra della stanza: grossa, e alta solo un poco più di me. Il suo vestito, sotto il grembiule, era semplice, ma era sui toni accesi del rosso e del marrone, cosa che la rendeva a dir poco vistosa. I capelli biondo scuro le arrivavano fin sopra le spalle, anche se li portava raccolti in due treccioline ordinate dietro la nuca: gli occhi e la bocca avevano un tratto duro, e sarebbero potuto sembrare arcigni se tutto il suo viso non si fosse illuminato improvvisamente in un sorriso appena la donna mi vide. Si avvicinò a grandi passi e venne a sedersi sul divanetto davanti al mio, come se fossi un'amica venuta a farle una visita di cortesia.
- Allora, finalmente ci siamo decise a svegliarci, eh?- mi salutò, in tono cordiale. - Come ti senti oggi?-
- Meglio. - la presenza di quella donna era, ancora una volta, stranamente rassicurante. - Non so come ringraziarvi per avermi salvata. -
- Bambina, non devi ringraziare nessuno! Ma, se proprio vuoi, puoi sempre pagare la camera, dato che l'ho tenuta libera per te per tutto il tempo che hai passato nel mondo dei sogni. -
Era una battuta, lo disse ridendo. Ma le sue parole mi fecero ripensare a ciò che mi era stato sottratto intanto che dormivo, e di colpo non ebbi alcuna voglia di ridere.
- Beh, potrei anche farlo. - risposi, in tono più freddo. - Se mi venisse restituito tutto quello che avevo addosso quando sono stata ripescata. I miei vestiti dove sono? E c'erano dei gioielli, sono sicura che ve ne ricordate. -
La mia freddezza improvvisa sembrò sorprenderla, ma non era tanto ingenua da lasciarsi impressionare: infatti non batté ciglio e si voltò invece verso Sarah, che era rimasta ad aspettare accanto alla porta.
- Sarah, fa una corsa in lavanderia e prendi i vestiti della nostra ospite, fammi il favore!-
La ragazza fece un rapidissimo cenno d'assenso e corse via; intanto Sylvie Hawk sganciò una piccola borsa di pelle dalla cintura e la vuotò sul palmo aperto. Vi caddero il mio ciondolo con la perla nera e tre anelli. Involontariamente trattenni il respiro quando la donna me li porse.
- Ecco, non manca niente. Non siamo ladri, miss, e non ci piace neanche essere accusati di esserli. -
- Mi dispiace. Scusatemi. - allungai le mani e presi tutto: con sollievo presi il ciondolo e me lo strinsi al cuore, poi osservai gli anelli. Due non avevano importanza, erano solo belli e preziosi e avevo preso l'abitudine di mettermeli alle dita. Ma il terzo era l'anello con la pietra azzurra. Fu quello che mi rimisi per primo all'anulare della mano sinistra.
Notai che Sylvie Hawk stava osservando con attenzione ognuno dei miei gesti, e un'istintiva cautela mi ricordò che quella donna doveva essere molto più scaltra di quanto non desse a vedere. Poi mi venne in mente una cosa: l'anello azzurro aveva inciso sulla fascia interna la scritta “my Black Pearl”! La donna l'aveva vista di sicuro, se aveva esaminato i gioielli. Era solo un piccolo dettaglio, ma molto prezioso per chiunque avesse voluto saperne qualcosa di più sul mio conto senza bisogno di chiedere.
- Grazie. Mi dispiace di avervi parlato così, è solo che queste cose sono preziose per me. Ed è anche tutto quello che ho, al momento. -
Lei tornò a sorridere, senza dar segno di essersi offesa. - Non c'è bisogno di scusarti, capisco. E immagino che sarai piuttosto scombussolata, non è vero? Forse è meglio che cominciamo dal principio. Io, intanto, sono Sylvie Hawk. -
- Me l'hanno detto. - annuii. - Siete la padrona di questo posto. Io sono Laura Evans. -
In quel momento ritornò Sarah, che in silenzio attraversò la saletta e depose sul divano accanto a me un involto di stoffa: vi trovai dentro i miei vestiti, che erano stati lavati e rammendati.
- Potrai rimettere quelli, se preferisci... però credo che sia meglio se ti do una nuova camicia, eh?-
Non aveva tutti i torti: la camicia che avevo indossato aveva le maniche completamente strappate, e neanche i rammendi avevano sistemato tutti i buchi. La marsina blu aveva resistito meglio: aveva perso quasi ogni traccia di colore, ma era ancora intera. Stesso dicasi per i pantaloni e gli stivali. Raccolsi tutto quanto con sollievo: sarei stata più che felice di cambiarmi il prima possibile.
- Ebbene, adesso cosa pensi di fare?-
Quella domanda mi colse impreparata, ed esitai a rispondere. Volevo ritrovare Jack e gli altri, ma era ovvio che non potevo farlo senza aiuto e senza denaro. Mi serviva qualcosa da cui cominciare.
- Devo ritrovare la mia ciurma. -
- E non vuoi dirmi su quale nave eri imbarcata, vero?- mi guardava come se già immaginasse la risposta; infatti io mi limitai a stringermi nelle spalle in modo evasivo.
- Ne passano molte di navi pirata, qui a Isla Muelle?- le domandai, nello stesso tono provocatorio. Quando avevamo lasciato i Caraibi, non ci eravamo lasciati alle spalle un'ottima reputazione: coloro che ci stimavano per avere abbattuto la gilda di Silehard erano almeno altrettanti di quelli che ci volevano morti. Il capo della gilda ci era sfuggito e non era mai stato ritrovato, e nei quasi undici mesi che avevamo passato in Europa non avevo più sentito parlare di lui.
Eravamo tornati nei Caraibi da poco, quando era scoppiata la tempesta. Proprio un bel regalo di bentornato.
- Più di quanto pensi. - replicò Sylvie, più placida che mai. - Ma, se vuoi il mio parere, fai bene a non sbandierare troppo in giro a quale ciurma appartieni... non sono tempi allegri, neppure per i pirati. Però non credere che ti metterò alla porta: ti sei appena rimessa in piedi, e non andrai da nessuna parte finché non starai bene... bene per davvero, intendo. Dopo penseremo a te: non concluderai niente senza aiuto. Adesso pensa a vestirti e mangiare. - si alzò dal divano, sempre con la stessa espressione gioviale, e batté rapidamente le mani per chiamare a sé Sarah. - Domani chiederò a mio figlio di aiutarti: se quella che stai cercando è una nave di pirati, lui potrebbe esserti utile. Si chiama Nathaniel Hawk. Ah, e ricordati di ringraziarlo. È lui che ti ha salvato la vita. -




Note dell'autrice:

Buon inizio Novembre a tutti! La vostra capitana è in partenza per Lucca Comics (niente cosplay quest'anno, ma un bel giro per fumetti, gadget e carinerie varie) ma ci tenevo a lasciarvi almeno un regalino post-Halloween e a ravvivare un po' la mia presenza nel grande mare del web.
Tra l'altro, per chi legge queste righe, mi piacerebbe chiedervi una curiosità. Da lettori di fanfiction (perché, se siete qui, immagino che li siate) che cosa preferite: aspettare che un autore che seguite abbia pubblicato un buon numero di capitoli per gustarveli tutti in fila uno dopo l'altro; o leggerli man mano che escono, anche a distanza di tempo, come un romanzo a puntate o una serie tv? Così, è una curiosità personale.
A proposito, dai vostri commenti mi rendo conto ancora una volta di quanto spesso io dia per scontato quel che scrivo: ovviamente IO sapevo che la donna del prologo era Laura. Mi diverte pensare che molti abbiano avuto dei dubbi, aggiunge pepe all'attesa.

Per la cronaca, questa è la prova che neanche i miei personaggi gradiscono molto venire strapazzati. E questa invece è la prova che... l'attesa snerva anche loro!

Grazie a tutti per i commenti e ancora una volta bentornati su questa saga!
PS: l'immagine di Jack al timone che canticchia una canzone in francese mi è venuta guardando l'inizio di questo film. Non chiedetemi di spiegare il perché, non ne sarei in grado.

  
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