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Autore: DazedAndConfused    01/11/2012    6 recensioni
La prima volta che ti vidi avevo sedici anni, tu ventiquattro: correvi su e giù per il palco, dicendo parole senza senso e scuotendo la tua lunga chioma a ritmo di funk.
Ti adorai all’istante.

Tributo in onore di Anthony Kiedis, che oggi compie la bellezza di cinquant'anni.
Genere: Introspettivo, Malinconico, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: Missing Moments, What if? | Avvertimenti: nessuno
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Avvertimenti: questa schifezzuola è stata scritta in un momento di delirio febbrile, ci tengo a precisarlo.

Inizialmente volevo scrivere una drabble come quella che ho dedicato a Chad per il suo compleanno, ma poi la situazione mi è leggermente sfuggita di mano e… ed è nata ‘sta cosa, ecco.

La drabble s’intitolava First time I saw you, direttamente da Tearjerker, quindi ecco il perché della prima frase e dell’inizio simile di ogni paragrafo. Ho deciso d’intitolare anche questo poema così.

Ho reso John terribilmente OOC, specialmente negli ultimi paragrafi, e me ne scuso immensamente.

So di aver usato un macello di ripetizioni, ma ero partita con l’idea di ricreare la struttura di una canzone, riprendendo un refrain… cosa che poi non ho saputo realizzare decentemente: abbiate pietà di me.

A fine pagina ci sono le mie infinite ndA, in cui spiego tutti i passaggi della fic: se avete pazienza vi consiglio di darci un’occhiata, altrimenti fate come cazzo vi pare… Io ormai ho fatto la cazzata di pubblicare ‘sta storia, non ho più nulla da perdere. :D

Tanti auguri, Anthony: grazie per essere stato il mio primo amore infantile, quando avevi i capelli biondo platino e la mia me di sette anni voleva soltanto poter entrare nel videoclip di Californication per abbracciarti.

Grazie, davvero.

 

First time I saw you

 

La prima volta che ti vidi avevo sedici anni, tu ventiquattro: correvi su e giù per il palco, dicendo parole senza senso e scuotendo la tua lunga chioma a ritmo di funk.

Ti adorai all’istante.

 

La quarta volta che ti vidi avevo diciassette anni, tu quasi venticinque: stavo con un amico nel parcheggio del Perkins Palace, pronto per entrare a godermi lo spettacolo, quando ti notai. Avevi lo sguardo furtivo e affamato che imparai bene a conoscere qualche anno dopo, ma sopportasti comunque le mie lodi balbettate con emozione.

Te ne fui infinitamente grato.

 

La sedicesima volta che ti vidi avevo diciotto anni, tu all’incirca ventisei: mi accompagnasti in macchina a fare l’audizione per i Thelonious Monster. Ti osservai prendere posto tra gli amplificatori del garage di Bob Forrest e rimanere lì ad ascoltarmi.

Quella volta diedi il meglio di me, perché sapevo che quel provino valeva il doppio della posta già in gioco.

 

La settantatreesima volta che ti vidi avevo diciannove anni, tu ventisette: le ginocchia mi tremavano e mi sforzai per non darlo a vedere, ma le mie paure non sfuggirono al tuo sguardo attento. Comparisti all’improvviso davanti a me, sistemandomi la bombetta che avevo indossato per l’occasione e dandomi un buffetto sul mento. Mi sorridesti, io feci altrettanto e salii trionfo sul palco, pronto ad essere al tuo fianco.

Non avevo più paura.

 

La centoquattresima volta che ti vidi avevo quasi ventun anni, tu ventotto e qualche mese: mi telefonasti disperato e io m’incazzai per come quella donna avesse osato trattarti. Accettasti il mio consiglio di scriverci su qualche verso e a mezzanotte in punto ti presentasti a casa mia per farmeli leggere.

Mi feci spazio violentemente tra quelle parole, misi anima e corpo in quella che ritenevo essere una delle tue migliori composizioni e finimmo di registrarla alle cinque.

Ti accompagnai da lei, imbucasti il nastro nella cassetta della posta e ce ne andammo in silenzio, le gocce di pioggia che si mescolavano alla tua, alla mia malinconia.

 

La centoventisettesima volta che ti vidi avevo ventun anni, tu non ancora ventinove: ero in sala prove a farmi di cannoni in compagnia del buon vecchio Flea e, ad essere sinceri, quando facesti capolino dalla porta non ti vidi perfettamente… Anche se lì per lì feci spallucce, il tuo sguardo deluso mi rimase impresso nella mente: fu anche per quello che m’impegnai per dare al tuo sfogo una dignità e una tonalità tutte sue.

Mi augurai con tutto me stesso che quello potesse essere abbastanza per il tuo perdono e tu esaudisti la mia preghiera.

 

La centosettantacinquesima volta che ti vidi avevo ventidue anni, tu poco più che ventinove: entrasti nella mia stanza come una furia, seguito da Flea e Lindy, e io mi sentii braccato come una povera bestia nel bel mezzo di una battuta di caccia. Non ti diedi neppure il tempo di aprir bocca, impegnato com’ero nel riversarti addosso tutta la sofferenza che mi aveva schiacciato durante quegli ultimi mesi. Ti vidi sospirare sollevato, come se un enorme macigno ti fosse stato appena tolto dal cuore, e insieme concordammo che quella sera sarei salito sul palco ancora per una volta.

Al concerto fui freddo e distaccato, ma sentii lo stesso su di me il tuo sguardo talvolta rancoroso, talvolta disgustato, talvolta perso.

Credetti seriamente che quella sarebbe stata l’ultima volta in cui ti avrei visto.

 

La centosettantaseiesima volta che ti vidi avevo venticinque anni, tu andavi per i trentatré: i tuoi soliti capelli lunghi incorniciavano un volto scarno e degli occhi grandi come capocchie di spillo, che riconoscevo essere i segnali di uno status che ti eri ripromesso di non attraversare mai più. Rispondevi a monosillabi alle domande che la giornalista ti rivolgeva a proposito di un nuovo album…

Deglutii profondamente spaesato, specialmente quando notai la figura che se ne stava al tuo fianco, lo sguardo furbo e un sorrisetto malizioso dipinto sulle labbra. Mi sorbii l’intera intervista e resistetti perfino al videoclip, fino a quando lui ti ficcò la lingua in gola. Fu in quel momento che mi mossi automaticamente: cacciare la testa nel water e vomitare anche l’anima furono i pochi anestetici di cui potevo disporre in quel momento, assieme alla siringa che mi affrettai a cercare poco dopo.

Ringraziai il cielo per non averti lì, in quella stessa stanza: non avrei saputo sopportare il tuo sguardo pietoso o, peggio ancora, complice su di me.  

 

La centottantunesima volta che ti vidi avevo ventisette anni, tu quasi trentacinque: me ne stavo alla Zero Gallery, intento ad appendere i miei quadri, quando ti sentii, sentii la tua presenza. Mi voltai e ti sorrisi, come se fosse la cosa più naturale del mondo dopo sei anni passati ad ignorarci a vicenda, e ti vidi ricambiare il gesto un po’ imbarazzato. L’impaccio scemò quasi subito, lasciando spazio alle tue osservazioni sulle mie tele e i miei ringraziamenti sinceri. Ed è vero, probabilmente desideravamo detestarci e mandarci a fanculo più di quanto fossimo capaci di farlo sul serio, ma io ho sempre creduto che in cuor nostro non lo volevamo davvero.

I nostri sorrisi ne erano la prova.

 

La centottantaduesima volta che ti vidi avevo ancora ventisette anni, tu trentacinque appena compiuti: venisti a trovarmi e portasti con te il sandwich con la senape che ti avevo chiesto. Poi, con uno zelo e un calore che non vedevo da moltissimo tempo, mi convincesti a lavarmi le braccia, aiutandomi nel farlo.

E nel momento in cui il sapone e l’acqua scivolarono placidi sulla mia pelle martoriata capii quanto mi fossi mancato, quanto mi fosse mancato quel tuo essere semplicemente te stesso, pregi e difetti compresi.

 

La centottantottesima volta che ti vidi andavo per i ventott’anni, tu ne avevi trentacinque e passa: stavo a Los Encinos, avevo lasciato l’eroina e il crack e stavo per farcela anche con l’alcool, e tu venisti a farmi visita, come ultimamente ti ritrovavi spesso a fare. Forse stavamo parlando di Burroughs, o forse di un’opera di Leonardo, quand’ecco che sentii l’impellente bisogno di esibirmi in una delle mie spaccate dei tempi d’oro. Poi, come se nulla fosse, mi risollevai e mi risedetti sul letto.

Stetti in silenzio in attesa della tua reazione, e tu scoppiasti a ridere: ti imitai quasi subito, sentendomi una leggerezza nell’animo che non provavo da tanto, troppo tempo.

 

La centonovantunesima volta che ti vidi stavo per compiere ventott’anni, tu forse eri vicino al compierne trentasei, ma è molto probabile che ricordi male: io e Flea ci eravamo già riconciliati, e tu pensasti bene di organizzare un incontro chiarificatore. Tra un taco e l’altro giungemmo finalmente alla conclusione che non avevamo più alcun risentimento nei confronti dell’altro e che era ora di ricominciare daccapo.

All’età in cui molti uomini hanno già una famiglia bella che formata, io e te maturammo nel sole di quel pomeriggio di fine primavera.

 

La centonovantaduesima volta che ti vidi erano trascorsi pochi giorni dal nostro ultimo incontro: venisti a prendermi in macchina e mi portasti al Guitar Center, per regalarmi una Stratocaster datata 1962. Sorrisi tra me e me, perché forse quell’anno voleva essere un monito a ricordarmi di tutto quello che stavi facendo per il sottoscritto: me la porgesti e le tue dita sfiorarono le corde involontariamente, nello stesso istante in cui io le stavo accarezzando distratto.

Ci guardammo e ci sorridemmo, senza aprir bocca. Andava bene così.

 

La duecentesima volta che ti vidi avevo ventotto anni, tu ancora trentacinque: ci ritrovammo tutti e quattro nel garage di Flea, come ai vecchi tempi. Attaccai il jack alla Stratocaster e mollai la prima pennata, accennando un motivo di Mother’s Milk che dapprima uscì incerto, per poi diventare sempre più definito e corposo. Fu un attimo e tu, Flea e Chad vi uniste a me, nel mio strano concerto, fino a che diventammo un’unica entità.

Sentii di essere rinato e voi, tu, lo eravate con me.

 

La duecentonovesima volta che ti vidi stavo sempre fermo ai miei ventott’anni, mentre i tuoi trentasei avanzavano: eravamo dietro le quinte del 9:30 Club, pronti a tenere un concerto insieme dopo tanto tempo. Rividi il me stesso di dieci anni prima, faccia tosta e cappello ben calcato sulla testa, ma la paura vivida nel mio sguardo spavaldo. Rividi te, il leader che non doveva mai chiedere nulla, avvicinarsi e darmi un buffetto affettuoso.

Alzai lo sguardo e cercai il tuo, dall’altro lato del backstage, e lo trovai: mi sorridesti come dieci anni prima e io feci altrettanto, sapendo che anche stavolta nulla mi avrebbe più fatto paura.

 

La duecentosedicesima volta che ti vidi erano passati pochi giorni dal mio ritorno in scena: mi precipitai come una furia in sala prove, gridando entusiasta che ce l’avevo fatta, avevo finalmente trovato la tua canzone. Imbracciai la White Falcon e suonai quel motivetto che col tempo sarebbe riuscito ad entrare nelle menti e nei cuori di migliaia di altre persone.

Quando ebbi finito incrociai il tuo sguardo colmo di approvazione e di sollievo e sorrisi tra me e me: ce l’avevo fatta, ero riuscito a catturare quella dannatissima melodia, e l’avevo fatto per noi, l’avevo fatto per te.

 

La duecentoquarantasettesima volta che ti vidi di anni ne avevo ancora ventotto, tu veleggiavi verso i trentasei: ce ne stavamo nel mio appartamento, io a strimpellare la chitarra e tu a buttar giù versi a tempo perso, quando notai che appoggiasti la penna sul foglio. Prendesti un grosso respiro e mi chiamasti, ottenendo la mia attenzione: dopodiché, mi chiedesti scusa per come mi avevi trattato durante i primi anni insieme, comportandoti con superficialità e poco tatto.

Appoggiai la chitarra e ti abbracciai: non erano necessarie altre parole, la mia insicurezza di un tempo era appena svanita come una bolla nel vento.

 

La duecentosessantatreesima volta che ti vidi avevo quasi ventott’anni e mezzo, tu eri sempre più vicino ai trentasei: bussammo alla porta, tu ci apristi con lo sguardo basso e tanto disprezzo per te stesso. Dicesti che ti dispiaceva esserci ricascato e ci domandasti scusa per la cazzata che avevi fatto, e mentre lo dicevi ci credevi per davvero. Flea ti disse di non preoccuparti, bastava tornare a casa e non pensarci più. Dal canto mio, non potei far altro che dirti di essere dispiaciuto per tutto l’orrore che avevi dovuto attraversare, ma quella sarebbe stata l’ultima volta in cui avresti provato un tale dolore.

Ci pigiammo nella carretta che Flea pareva aver rubato ad Arlecchino e andammo a mangiare messicano tutti insieme, finendo con il tirarci il cibo addosso e ridere come dei ragazzetti che sembravano non aver alcun tipo di preoccupazione…

E noi forse non lo eravamo?

 

La duecentonovantacinquesima volta che ti vidi avevo ventinove anni, tu trentasei e poco più: dopo otto anni eravamo tornati nel deserto, e una Pontiac Catalina del ’67 stava solo aspettando che io facessi ronzare il suo motore.

Presi posto sul sedile del guidatore e iniziai a calcarmi meglio lo strano cappello che avevo in testa o sistemarmi le maniche della camicia, tutti tic nervosi che non riuscivo ad evitare. Ti vidi accomodarti nel posto di fianco al mio e scompigliarti i capelli biondo platino, Dio solo sa se per smaltire la tensione o se per renderti innegabilmente affascinante di fronte alla cinepresa di Stéphane. Ti accorgesti del mio stato d’animo e ti affrettasti ad offrirmi una sigaretta, dicendomi di prendere esempio da Flea, che se ne stava stravaccato sui sedili posteriori, intento a salutarmi muovendo un anfibio.

Risi e girai le chiavi, facendo avviare subito il motore: eravamo stati schiacciati, strappati e quasi distrutti, ma questo non c’aveva impedito di ritornare come un tempo, se non addirittura in una forma migliore.

 

La trecentotrentaquattresima volta che ti vidi avevo ventinove anni e passa, tu quasi trentasette: eravamo tutti e quattro in cerchio, mano nella mano e con gli occhi chiusi. Fuori c’era un forte temporale e potevamo chiaramente sentirne l’energia. Flea disse la sua preghiera, tu sparasti una delle tue rime strambe e Chad raccontò una barzelletta del suo solito repertorio: quando fu il mio turno, non seppi bene che dire. Mi limitai a ringraziare tutto l’universo per averci fatti incontrare e avermi concesso una seconda chance. Non mi preoccupai di suonare troppo sdolcinato o sentimentalista, perché era quello che provavo veramente, e sapevo che voi non mi avreste giudicato.

Chad aumentò la stretta e in breve ci ritrovammo uniti in un abbraccio che trascendeva tutte le barriere di questo e di altri mondi.

 

La quattrocentocinquantunesima volta che ti vidi avevo trent’anni e un paio di mesi, tu trentasette abbondanti: mi dicesti che non era necessario farlo, che se non me la sentivo potevo benissimo farne a meno. Ti sorrisi e ti dissi di non preoccuparti: mi sfilai la maglia e lasciai che Jonathan, Valerie e tutta la troupe mi guardassero, le guardassero.

-Non c’è alcun problema- ti appoggiai una mano sulla spalla –Sono solo pezzi di carne, non m’importa dei segni.-

Tu facesti un sorriso tirato: si vedeva che non credevi totalmente a quello che t’avevo appena detto, ma apprezzai il tuo tentativo di comprendermi. Mi abbracciasti e insieme raggiungemmo Chad e Flea, già pronti alle loro postazioni.

Erano solo segni, eppure avevano contribuito a farci riavvicinare: con che coraggio avrei potuto rinnegarli?

 

La settecentotrentottesima volta che ti vidi avevo da poco compiuto trentun anni, tu ne avevi trentotto da qualche mese: aprii la porta di casa mia e ti ritrovai con gli occhi rossi. Capii immediatamente quello che era successo e ti strinsi a me: dovevi molto a quella donna, ma avevi fatto del tuo meglio per sdebitarti come potevi. Ti lasciai piangere per un po’, dopodiché entrammo.

Quel pomeriggio passò relativamente lento: fumammo insieme qualche sigaretta, ti feci un tè e ce ne restammo seduti in silenzio, certi che lei fosse da qualche parte, magari proprio lì con noi.

 

La millecentoduesima volta che ti vidi avevo trentatré anni e passa, tu andavi per i quarantuno: la musica diminuì e anche il frastuono del pubblico, quasi fosse consapevole del fatto che avresti sussurrato quegli ultimi versi. Mi avvicinai a te e poggiai la testa sulla tua schiena, quasi fossimo un cucciolo stremato dalla fatica dei suoi giochi e la madre pronta a farlo riposare e ad accudirlo.

Ti sentii sorridere e feci altrettanto, sentendo tutta la stanchezza svanire via come una vecchia moda.

 

La duemilatrecentoventiseiesima volta che ti vidi avevo poco più di trentasei anni, a te mancava un bel po’ per compierne quarantaquattro: io e gli altri cambiavamo i costumi in continuazione, ridendo come dei deficienti e dandoci amichevoli pacche sul sedere. Ti vidi in un angolo, intento a provare le tue mosse alla Presley, e ti sorrisi quando ti accorgesti di essere osservato: tu facesti altrettanto, sfilandomi accanto e trascinandomi con te verso il delirio che stava per iniziare, canticchiando allegro Jailhouse Rock.

Il contratto prevedeva che avrei dovuto portare zatteroni, parrucche e rossetti, ma giuro che in quel momento non avrei voluto essere da nessun’altra parte.

 

La tremilacinquecentosettantatreesima volta che ti vidi di anni ne avevo poco più che trentotto, tu invece andavi per i quarantasei: me ne stavo seduto sul divano in compagnia di Flea e Chad, quando facesti irruzione in sala prove con un’espressione che definire “entusiasta” sarebbe alquanto limitativo.

-Date il benvenuto al Vegetariano più sexy dell’anno!- esultasti, al che io e gli altri ti guardammo parecchio perplessi, gesto che però non scalfì affatto la tua gioia.

Ci sventolasti sotto il naso il comunicato stampa della PETA e ti bloccasti, attendendo fremente i nostri complimenti: dopo qualche minuto ti squadrammo in silenzio e scoppiammo a ridere, scatenando il tuo malumore.

-Non ci parlo più con voi, razza di stronzi!- borbottasti, sottraendoti agli abbracci che volevamo dispensarti –Siete degli insensibili, ho battuto persino Paul McCartney!-

Riuscimmo finalmente a placcarti e ad immobilizzarti in una stretta delle nostre, continuando a ridere incuranti del tuo ego, mentre tu non riuscisti proprio a nascondere il sorrisino che ti era appena nato sulle labbra.

 

La quattromilaquattrocentesima volta che ti vidi ero nell’ultimo anno dei trenta, mentre per te stavano per diventare quarantasette: nella stanza aleggiava un’aria di abbattimento generale, e io non lo potevo sopportare. Non era così che volevo andarmene, non con quegli sguardi tristi e quei –Ok, vai pure per la tua strada, mi sta bene- che in realtà celavano dei velenosissimi –Non avremmo mai dovuto istituire questa pausa, se ne sta andando di nuovo, ci sta abbandonando per l’ennesima volta…-

-Ragazzi- esordii, e voi tutti alzaste le vostre teste chine –volevo solo dirvi che non è colpa di nessuno se sto prendendo questa decisione: voglio provare a vedere se è veramente vero quel che si dice riguardo al fatto che la vita inizi a quarant’anni…-

-Vedi di non fare la stessa fine dell’ultimo che ha detto quella frase, eh!- abbozzasti un sorriso e te ne fui infinitamente grato.

Vi abbracciai e scesi in strada quasi correndo, temendo che le lacrime sgorgassero dai miei occhi prima di essere sufficientemente lontano da voi, da te.

Ero libero, libero come non lo ero mai stato fino ad allora… ma allora perché avevo soltanto una gran voglia di piangere?

 

La quattromilanovecentocinquantesima volta che ti vidi avevo quarantadue anni e un mese, tu eri ancora nell’ultimo anno dei quaranta: avevo ceduto alla tentazione e me ne stavo seduto davanti al televisore, intento a vedere quello che sarebbe dovuto essere uno dei più grandi eventi della mia vita. Dovevo essere uno dei protagonisti e invece, per una scelta che alcuni avevano reputato egoista, ero soltanto uno delle centinaia di migliaia di telespettatori che lo seguivano dalle case o dai locali.

Quando vi vidi salire sul palco e tenere i vostri discorsi uno dietro l’altro non potei non provare un po’ di rimpianto: declinare l’invito di prendere parte alla cerimonia era stata veramente la scelta giusta? Come ci saremmo comportati se ci fossimo trovati faccia a faccia dopo tre anni di quasi totale silenzio? Sarebbe andato tutto per il verso giusto o ci sarebbero stati antichi screzi a rovinare tutto quanto? E a cerimonia finita avrei avuto il coraggio di lasciarvi andare di nuovo o sarei tornato sui miei passi, costringendovi a sconvolgere tutto quanto per l’ennesima volta?

Quelli e molti altri interrogativi mi frullarono nella testa, ma fu nell’esatto momento in cui notai Josh arrossire e nascondersi nell’ombra che capii di aver fatto la cosa più giusta per me, ma anche per voi.

Non c’era alcun bisogno di provare rimpianto: avevamo dato il meglio di noi, avevamo convissuto per anni, condividendo interessi ed opinioni e migliorandoci a vicenda, e questa era la cosa più importante.

L’aver avuto l’opportunità di far parte di quella meravigliosa creatura, nata ormai la bellezza di quasi trent’anni fa, mi bastava. Eccome se mi bastava.

 

La cinquemillesima volta che ti ho visto avevo quarantadue anni abbondanti, tu ne compivi cinquanta: è successo cinque minuti fa, quando ho aperto il giornale sulla pagina dedicata alla rubrica musicale e la tua faccia è apparsa gigantesca, occupando l’intera facciata.

Non ho storto il naso, né ti ho chiamato per farti gli auguri: mi sono limitato a sorridere, a sorriderti, anche se tu non puoi vedermi.

Magari in questo momento sei impegnato, magari stai permettendo ad Everly di spegnere un po’ delle tue candeline oppure sei semplicemente ancora a letto, stanco per l’esibizione di ieri sera.

Ti sveglierai tutto d’un tratto e, facendo finta di niente, ti dirigerai verso lo specchio per controllare se le rughe sono aumentate o se hai una bella cera, nonostante il mezzo secolo che ti porti sulla groppa.

Ecco, magari in quel momento sarai troppo concentrato su di te per fartelo venire in mente, ma forse mi stupirai: forse mi penserai, forse ti chiederai dove sono ora e cosa sto facendo, e perché non sono nella lista degli invitati al party esclusivo che darai stasera, o forse non lo farai affatto.

Ma, comunque vadano le cose, voglio solo farti sapere che ti penso, ti penso nonostante tutti i giorni passati dall’ultima volta che abbiamo scambiato due parole, nonostante tutto quello che abbiamo dovuto attraversare e che ancora stiamo vivendo.

Ti penso ancora, e credo che questo sia il miglior regalo di compleanno che possa farti.

 

John  

 

 

 

-Perché ora so che questa cinquemillesima volta non sarà l’ultima.

Dovevo concludere la storia con la frase che ho usato come titolo delle ndA, ma alla fine ho cambiato idea: il finale che ho scelto mi sembra più “alla John”, non so.

Ok, passo subito a spiegarvi i vari paragrafi.

 

Volta #1: “La prima volta che ti vidi avevo sedici anni, tu ventiquattro”: [1986] non è ben chiaro se John avesse iniziato a vedere i RHCP in concerto a quindici o a sedici anni… ho scelto questa seconda opzione. Ed è vero, lui adorava Hillel, ma qui ho voluto sottolineare un’ipotetica adorazione per il Kiedis.

 

Volta #4: “La quarta volta che ti vidi avevo diciassette anni, tu quasi venticinque”: [1987] “In realtà, avevo conosciuto John prima di Flea. Più o meno quando era uscito “Uplift”, avevamo suonato a Pasadena, al Perkins Palace. Stavo ancora lottando con la mia dipendenza e avevo dovuto farmi un po’ di eroina prima dello spettacolo per essere a posto. Ero andato in macchina al concerto, avevo parcheggiato ad alcuni isolati di distanza e, attraverso il parcheggio adiacente al locale, mi ero cercato un posto dove farmi la pera. In quel momento, due ragazzi dalla faccia fresca mi erano venuti incontro pieni di entusiasmo. «Oh, mio Dio, Anthony. Volevamo solo farti un saluto. Siamo superfan della tua band.» Avevo chiacchierato con loro per un po’, poi ero andato a sedermi su un gradino e mi ero preparato un po’ di droga.” (Anthony KiedisScar Tissue)

 

Volta #16: “La sedicesima volta che ti vidi avevo diciotto anni, tu all’incirca ventisei”: [1988] “Dopo che Flea era rimasto così profondamente impressionato da John, cominciai a uscire con lui. Allo stesso tempo, Bob Forrest lo colmava di attenzioni perché suonasse nel suo gruppo, i Thelonious Monster. John mi disse che andava a fare un'audizione al garage di Bob e così ce lo accompagnai in macchina. Nella mia mente stava provando per i Red Hot Chili Peppers. Una sola canzone della sua esibizione e io seppi che era il nostro uomo.” (Anthony KiedisScar Tissue)

 

Volta #73: “La settantatreesima volta che ti vidi avevo diciannove anni, tu ventisette”: [1989] ho voluto descrivere un ipotetico pre-primo live di John con i RHCP, e sottolineare la differenza dal suo atteggiamento sbruffone e ciò che in realtà provava. Almeno, io me lo immagino così.

 

Volta #104: “La centoquattresima volta che ti vidi avevo quasi ventun anni, tu ventotto e qualche mese”: [1991] “Mi crollò il mondo addosso. Era passata, dalla sera alla mattina, dal ‘non vedo l’ora di rivederti’ al ‘non chiamare e non passare’. Non sapevo a chi rivolgermi, così chiamai John. Andò su tutte le furie per il modo in cui Sinéad [O’ Connor] mi aveva trattato e mi suggerì di scrivere qualcosa su quanto avvenuto. […] Andai da John intorno a mezzanotte: si comportava come uno scienziato pazzo; si immedesimava in me, era come posseduto dall’idea di finire la canzone. […] Alle cinque del mattino, finalmente, la canzone era finita: cassetta alla mano, ci precipitammo sotto quell’acquazzone degli acquazzoni a casa di Sinéad. Sarebbe stata la sua ultima notte a Los Angeles: non bussai, impacchettai il nastro e lo infilai nella sua cassetta delle lettere.” (Anthony KiedisScar Tissue, riguardo la nascita di I Could Have Lied)

 

Volta #127: “La centoventisettesima volta che ti vidi avevo ventun anni, tu non ancora ventinove”: [1991] “Un giorno, in sala prove, trovai che Flea e John stavano dandoci dentro con l’erba ed erano in uno stato mentale da ‘freghiamocene di Anthony’; mi resi conto che John non faceva più parte del mio mondo e provai un malinconico senso di abbandono. […] Ero un solitario nel mio gruppo, ma intorno a me avvertivo la presenza del luogo in cui vivevo. Cominciai a mettere insieme le parole per una poesia e a cantarle in una melodia mentre percorrevo la superstrada. […] «Perché non mostri a John e Chad quella cosa che ho visto a casa tua l’altra sera?» suggerì Rick. «No, no, non c’è nemmeno Flea» dissi. Ma John e Chad avevano sentito. Si sedettero e dissero: «Dai, facci vedere». […] Il giorno seguente John venne da me per rifinirla. Portò un piccolo ampli Fender, lo attaccò e disse: «Okay, prova a cantarla di nuovo. Come vuoi che suoni? Cosa vuoi che sembri? Dove vuoi che vada?»” (Anthony KiedisScar Tissue, riguardo la nascita di Under The Bridge)

p.s. Nel libro viene raccontata prima la creazione di Under The Bridge e poi quella di I Could Have Lied: ho voluto invertire l’ordine cronologico per far percepire il crescere della crisi tra John e Anthony, quella loro complicità che stava iniziando a venire meno.

 

Volta #175: “La centosettantacinquesima volta che ti vidi avevo ventidue anni, tu poco più che ventinove”: [marzo 1992] “Andammo a cercarlo nella stanza in cui si era rintanato. «Devo lasciare il gruppo, devo andarmene. Devo tornare a casa subito, non posso più andare avanti così» mi disse. «Morirò se non uscirò da questa band, adesso.» Lo guardai negli occhi, e capii che non c’era scelta. […] Fui sopraffatto da una grande sensazione di sollievo. […] Alla fine John accettò di suonare ancora una sera, prima di salire su un aereo e tornare a casa. […] Continuavo a guardare John e vedevo una gelida maschera di disprezzo. […] Quella sera John scomparve dal mondo in subbuglio dei Red Hot Chili Peppers.” (Anthony KiedisScar Tissue)

 

Volta #176: “La centosettantaseiesima volta che ti vidi avevo venticinque anni, tu andavi per i trentatré”: [agosto 1995] Even though John’s a huge Jane’s Addiction fan, he refused to listen to anything off One Hot Minute. He said it was like somebody else is fucking your girlfriend.” (Chad Smith in An Oral/Visual History by The Red Hot Chili Peppers) Dopo aver letto questa frase, ho sempre provato ad immaginarmi la reazione di John quando è venuto a sapere che la sua ex band stava per incidere un nuovo album senza di lui. Questo paragrafo è ambientato durante un’ipotetica intervista in occasione dell’uscita del singolo Warped, il cui video è sempre stato abbastanza, ehm, sconvolgente per me. Il tizio di fianco ad Anthony è, ovviamente, Dave Navarro, e Tony aveva ripreso con la sua dipendenza dalle droghe, abisso in cui era precipitato anche John qualche anno prima.

 

Volta #181: “La centottantunesima volta che ti vidi avevo ventisette anni, tu quasi trentacinque”: [1997] “Quando sentii che avrebbe fatto una mostra alla Zero Gallery su Melrose decisi di farci un salto il giorno prima dell’inaugurazione e dare un’occhiata ai quadri. Passai ed eccolo, John era lì ad appendere i quadri in prima persona. […] Era magro da far spavento, uno scheletro vestito, questo piccolo uomo tutto ossa, ma dava un’impressione di vigore perché aveva molta energia. […] Invece di dirci: «Vaffanculo, ti odio, mi fai schifo», eravamo contenti di vederci. I suoi quadri erano disturbanti ma bellissimi. Era strano, perché penso che desiderassimo detestarci più di quanto fossimo capaci di fare.” (Anthony KiedisScar Tissue)

 

Volta #182: “La centottantaduesima volta che ti vidi avevo ancora ventisette anni, tu trentacinque appena compiuti”: [1997] “I medici erano seriamente preoccupati che si formasse una cancrena e rischiasse di perdere un arto, a meno che non si lavasse e cominciasse a prendersi cura delle braccia, cosa che rifiutava di fare. Lo chiamai e gli chiesi se per lui andava bene che andassi a trovarlo. Era d’accordo e chiese se potevo portargli un sandwich pastrami con tanta senape. Così feci la mia comparsa, mangiò il panino e cercai di fargli lavare le braccia. Ancora una volta il nostro scambio fu cortese, affettuoso, pieno di calore.” (Anthony KiedisScar Tissue)

 

Volta #188: “La centottantottesima volta che ti vidi andavo per i ventott’anni, tu ne avevi trentacinque e passa”: [febbraio 1998] “Durante una delle mie visite, eravamo seduti a fare una di queste conversazioni minimaliste, quando John balzò dal letto e si esibì in una perfetta spaccata alla James Brown, 1968 circa. Poi si tirò su e si risedette. Non so perché lo fece, ma sembrava che si sentisse vivace e allegro e volesse mostrare che aveva ancora il fuoco per fare una spaccata alla James Brown, se necessario.” (Anthony KiedisScar Tissue)

 

Volta #191: “La centonovantunesima volta che ti vidi stavo per compiere ventott’anni, tu forse eri vicino al compierne trentasei, ma è molto probabile che ricordi male”: [aprile 1998] “Poi Flea fece un viaggio in Cambogia, che diede a me e a John il tempo di chiarire le cose e di parlare dei problemi che avevamo avuto in passato. […] Fui io a rompere il ghiaccio: «Hai qualche problema con me riguardo a qualcosa?». «No, non direi» disse. «E tu? Sei arrabbiato con me per qualche motivo?» «Pensavo di esserlo, ma non mi sento più così, adesso. Credo che dovremmo superare tutta questa cosa, ma non sono più infastidito» confessai. «Neanch’io» fu d’accordo John.” (Anthony KiedisScar Tissue)

 

Volta #192: “La centonovantaduesima volta che ti vidi erano trascorsi pochi giorni dal nostro ultimo incontro”: [aprile 1998] “Il problema principale era che John non aveva neppure una chitarra a suo nome. Così andammo al Guitar Center e gli comprai una bellissima Stratocaster del 1962.” (Anthony KiedisScar Tissue)

 

Volta #200: “La duecentesima volta che ti vidi avevo ventotto anni, tu ancora trentacinque”: [maggio 1998] “Ci radunammo nel garage di Flea, una porzione del quale era stata convertita in sala prove. […] John sembrava incerto, ma attaccò la chitarra e cominciammo a suonare. Ed eravamo di nuovo noi.” (Anthony KiedisScar Tissue)

 

Volta #209: “La duecentonovesima volta che ti vidi stavo sempre fermo ai miei ventott’anni, mentre i tuoi trentasei avanzavano”: [primi di giugno 1998] “All’inizio di giugno facemmo una pausa nelle prove per il primo concerto dopo il ritorno di John. […] La sera prima facemmo un concerto a sorpresa al 9:30 Club, giusto per prendere confidenza.” (Anthony KiedisScar Tissue)

 

Volta #216: “La duecentosedicesima volta che ti vidi erano passati pochi giorni dal mio ritorno in scena”: [giugno 1998] “Continuavo a dire a John che dovevamo finirla. […] All’ultimo momento, John arrivò di corsa in studio con la sua nuova chitarra White Falcon da trentamila dollari. Disse: «Ce l’ho! Ho Californication!». Si sedette e suonò questa combinazione di note molto breve, tuttavia ammaliante. […] Era una tale sensazione di sollievo e gratificazione sapere che non era finita nel cestino dell’immondizia, insieme a Quixoticelixer e a un certo numero di altre canzoni per cui nutrivo grandi speranze.” (Anthony KiedisScar Tissue)

p.s. dal libro si evince che questo fatto successe nel febbraio 1999, ma ho preferito anticiparlo.

 

Volta #247: “La duecentoquarantasettesima volta che ti vidi di anni ne avevo ancora ventotto, tu veleggiavi verso i trentasei”: [luglio 1998] fatto completamente inventato da me, ispirato da questo passo: “Non avevo ancora riconosciuto quanto fosse stata malata la mia relazione con lui prima che abbandonasse il gruppo. Non mi rendevo conto di quanto fosse sensibile e di quanto io potessi ferirlo. Non sapevo che tutte le battute, le stoccate, le prese in giro, gli sfottò e il sarcasmo avevano davvero urtato i suoi sentimenti, lasciando il segno.” (Anthony KiedisScar Tissue)

p.s. il passo del libro risale all’incirca al 1997, quindi ho posticipato il tutto.

 

Volta #263: “La duecentosessantatreesima volta che ti vidi avevo quasi ventott’anni e mezzo, tu eri sempre più vicino ai trentasei”: [agosto 1998] “Finii addirittura in un albergo di San Diego, di nuovo depresso. Non sapevo cosa fare, non avevo neppure la forza di andarmene, quando qualcuno bussò alla porta. Chi cazzo poteva essere? Andai allo spioncino a guardare, e c’erano John, Flea e Chad. […] «Mi dispiace davvero» dissi. «Non stare nemmeno a preoccuparti» replicò Flea. «Hai fatto casino. Andiamo a casa e torniamo a lavorare.» Era così concreto e non giudicava nulla. «Ehi, amico, mi dispiace tanto che tu sia dovuto passare in questo schifo» disse John. «Deve essere stato orrendo. Ma non puoi più farlo.» Ci pigiammo nella buffa Mercedes multicolore di Flea. […] Ci fermammo a mangiare messicano, e a quel punto stavamo ridendo, ci tiravamo il cibo e ci divertivamo.”  (Anthony KiedisScar Tissue)

 

Volta #295: “La duecentonovantacinquesima volta che ti vidi avevo ventinove anni, tu trentasei e poco più”: [maggio 1999] scena ambientata sul set del videoclip di Scar Tissue: la scena iniziale è molto simbolica, il fatto che John sia il primo a guidare l’auto (nella realtà non possiede alcuna patente), sta a simboleggiare il suo ritorno nella band, un ritorno deciso ed importante. Le ferite che i musicisti sfoggiano sono il segno di tutte le difficoltà che hanno dovuto affrontare durante la loro carriera di Red Hot Chili Peppers. Stéphane è Stéphane Sednaoui, regista di questo videoclip e di quello di Give It Away.

 

Volta #334: “La trecentotrentaquattresima volta che ti vidi avevo ventinove anni e passa, tu quasi trentasette”: [luglio 1999] scena ispirata ad un video che vidi tempo fa, in cui la band si raccoglieva in meditazione prima di un concerto. Ho preso ispirazione anche da un passo quasi alla fine del libro di Kiedis, in cui descrive i rituali che lui e gli altri erano soliti fare.

 

Volta #451: “La quattrocentocinquantunesima volta che ti vidi avevo trent’anni e un paio di mesi, tu trentasette abbondanti”: [maggio 2000] scena ambientata sul videoclip di Californication: Frusciante confessò che quello fu il primo video in cui mostrò le proprie braccia ricoperte di cicatrici dovute al passato da eroinomane, e io ho provato ad ispirarmi e a pensare a come si fosse sentito in quell’occasione. Jonathan e Valerie sono Jonathan Dayton e Valerie Faris, registi dei videoclip di Californication, Road Trippin, By The Way, The Zephyr Song e Tell Me Baby.

 

Volta #738: “La settecentotrentottesima volta che ti vidi avevo da poco compiuto trentun anni, tu ne avevi trentotto da qualche mese”: [marzo 2001] passo ispirato alla morte di Gloria Scott, la terapista che aiutò Kiedis a disintossicarsi e che fu amica della band. A lei è dedicata Venice Queen.

 

Volta #1102: “La millecentoduesima volta che ti vidi avevo trentatré anni e passa, tu andavi per i quarantuno”: [23 agosto 2003] passo ispirato dalla scena del Live at Slane Castle in cui, alla fine di By The Way, John appoggia la testa sulla schiena di Anthony. I miei ormoni vanno sempre in visibilio.

 

Volta #2326: “La duemilatrecentoventiseiesima volta che ti vidi avevo poco più di trentasei anni, a te mancava un bel po’ per compierne quarantaquattro”: [fine marzo 2006] scena inventata da me, ispirata al backstage del videoclip di Dani California.

 

Volta #3573: “La tremilacinquecentosettantatreesima volta che ti vidi di anni ne avevo poco più che trentotto, tu invece andavi per i quarantasei”: [giugno 2008] nel giugno del 2008 Anthony Kiedis è stato effettivamente nominato dalla PETA “Vegetariano più sexy dell’anno” e ha effettivamente battuto concorrenti del calibro di Chris Martin e del citato Paul McCartney. Siparietto ovviamente inventato da me.

 

Volta #4400: “La quattromilaquattrocentesima volta che ti vidi ero nell’ultimo anno dei trenta, mentre per te stavano per diventare quarantasette”: [agosto 2009] Nell’An Oral/Visual History by The Red Hot Chili Peppers si dà agosto 2009 come data dell’uscita di John dal gruppo. Scena ovviamente immaginata dalla mia fervida fantasia.

“La vita comincia a quarant’anni” fu una frase detta da John Lennon nell’intervista che rilasciò un paio di giorni prima di essere ucciso.

E sì, Frusci è totalmente OOC, assolutamente descritto inverosimilmente.

 

Volta #4950: “La quattromilanovecentocinquantesima volta che ti vidi avevo quarantadue anni e un mese, tu eri ancora nell’ultimo anno dei quaranta”: [14 aprile 2012] scena immaginata durante l’induzione della band alla Rock n’ Roll Hall of Fame di Cleveland. Perdonami, John, se ti ho fatto così melenso.

 

Volta #5000: “La cinquemillesima volta che ti ho visto avevo quarantadue anni abbondanti, tu ne compivi cinquanta”: [1 novembre 2012] scena ovviamente inventata. John, riperdonami per averti descritto così.

 

 

Grazie a chi ha perso tempo nel leggere tutto quanto, grazie davvero di cuore.

E ancora tanti auguri, Tone.

 

Dazed;

   
 
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