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Autore: fanny_rimes    02/11/2012    7 recensioni
Non tutti hanno la fortuna di avere quello che, molti di noi, danno per scontato: una famiglia felice, l’amore dei propri genitori, un’infanzia spensierata. E quando, fin da bambini, ci si trova a dover affrontare delle situazioni dolorose, ci si ritrova, anni dopo, a chiederci se saremmo in grado di evitare ogni dolore ai nostri figli. Ad essere migliori di quelle persone che ci hanno fatto così tanto soffrire.
Dal capitolo:
L’ultima cosa che ricordo e il dolore alla testa, il bruciore al labbro e una sensazione di gelo. Poi il buio. Nel silenzio ovattato in cui caddi, ricordo di aver percepito un urlo «lascialo stare!», poi un tonfo sordo e un gemito soffocato.
[3a classificata al contest: Sad Contest indetto da Armony]
[6a classificata al contest: [Mini Original 7] La Polvere e... la Sera indetto da OriginalConcorsi]
[24a classificata O.o al contest: Amore? No, grazie indetto da SNeptune84]
[6a classificata al contest: There must be someway out of here indetto da WhatHasHappened]
Genere: Angst, Drammatico, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate
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La casa è un disastro. Provo ad aprire il cancellino di legno che conduce all’entrata principale: i cardini arrugginiti cigolano in segno di protesta e un paio di schegge si staccano e cadono sull’erba incolta.
Mi fermo un attimo a guardare il penoso spettacolo davanti ai miei occhi.
« Sta' attenta a dove metti i piedi, Michela » dico a mia moglie che, accanto a me, tenta di superare incolume delle schegge di vetro che giacciono sul prato.
Il cortile è in condizioni pessime. Le erbacce sono cresciute indisturbate, arrampicandosi su per i muri della villa. Qua e là si scorgono i segni di qualche violazione di domicilio: bottiglie rotte, lattine abbandonate, preservativi sudici in via di decomposizione.
Mi avvicino alla porta e mi sfugge un sorriso, anche se la situazione proprio non lo richiede. In un angolo in basso, lo smalto è graffiato. E’ stato Ronnie, il mio cucciolo di rottweiler. Mio padre non voleva che entrasse in casa, e lui passava le ore a grattare la porta. Il pannello di legno è consumato e sbiadito dal tempo, ma si distinguono nettamente i segni, dove le sue unghie hanno graffiato il legno.
Recupero le chiavi dalla tasca e faccio per inserirle nella toppa. Inutile. Senza bisogno di aprirla, questa cede con un sinistro clic e si spalanca cigolando.
Mia moglie mi guarda apprensiva, ma io la rassicuro con lo sguardo ed entro in casa.
L’interno è ancora peggio del giardino. Il salotto è illuminato dalla luce del sole che entra dai vetri rotti delle finestre. La polvere giace indisturbata, qua e là avvertiamo dei rumori che indicano, sicuramente, la presenza di topi o chissà quali altri animali.
L’arredamento, o quel poco che è rimasto, è stato distrutto dalle termiti e dallo scorrere del tempo. Dal divano, in un angolo, sporgono un paio di molle e ciuffi di imbottitura ingrigita. Sul pavimento c’è ancora l’alone rettangolare a indicare che, prima, lì si trovava un tappeto. Quante sere ho passato su quel tappeto, a giocare con i miei soldatini, mentre mio padre giaceva ubriaco sul divano.
Proseguiamo sulla destra e ci dirigiamo verso la cucina e, inevitabilmente, mi torna in mente mia madre. Resto immobile, sulla porta, incapace di proseguire. L’odore è nauseante, ci sono insetti dappertutto, ma quello che mi blocca non è l’odore terribile, ma qualche altra cosa. In un angolo, sul pavimento in legno, c’è una macchia scura. Michela non capisce. Quella macchia sembra uguale a tutte alle altre, l’ennesimo segno di degrado e abbandono in cui è stata lasciata la casa.
Ma io so che non è così. Ricordo perfettamente che quello è il posto in cui giaceva mia madre. L’ultima volta che l’ho vista.
Io ero sulla porta, proprio dove sono ora.
 
« Alessandro, non è vero, te lo giuro! » stava gridando in preda al panico.
Guardavo mio padre, ubriaco come al solito, torreggiare sul suo corpo esile e indifeso.
« Sei una gran puttana! » urlava lui senza controllo. « Lo so che ci hai scopato! »
Mia madre si era rannicchiata sul pavimento, coprendosi il volto, mentre mio padre la tempestava di calci e pugni.
Io ero immobile, incapace di reagire. Quante volte avevo visto quella scena, quante volte avevo immaginato di intervenire, di fermarlo, di salvarla.
Ma ero solo un bambino di dieci anni, che non poteva fare altro che restare a guardare, inerme.
« Avevi promesso che non sarebbe successo mai più! » avevo urlato, gli occhi pieni di lacrime, i pugni stretti per la rabbia.
Mio padre improvvisamente aveva smesso di picchiarla e si era voltato verso di me. In un primo momento mi era parso di scorgere qualcosa nei suoi occhi: dolore, rimorso, vergogna? Non lo so, e forse me lo sono solo immaginato. Qualunque cosa fosse, comunque, è durato un attimo e, subito dopo, lui aveva iniziato ad avanzare verso di me.
Mia madre ha urlato, io ho fatto istintivamente qualche passo indietro, ma non abbastanza in fretta.
« E tu, stupido moccioso ingrato. Avresti dovuto controllare tua madre, non permettere a nessuno di entrare qui. In casa mia! »
« Pa… papà, non è venuto nessuno qui! » avevo provato a dire, ma lui non si era fermato.
L’ultima cosa che ricordo è il dolore alla testa, il bruciore al labbro e una sensazione di gelo. Poi il buio. Nel silenzio ovattato in cui caddi, ricordo di aver percepito un urlo «lascialo stare!», poi un tonfo sordo e un gemito soffocato.
 
Istintivamente mi passo la lingua sul dente scheggiato.
Sussulto, mentre la mano di Michela si posa sul mio braccio.
« Non devi farlo per forza » mi sussurra dolcemente.
« Devo farlo, invece… Ho bisogno di affrontarlo e superarlo. Per lui » replico, carezzandole il pancione.
Lasciamo la cucina e saliamo al piano superiore. Evito la mia camera, e mi dirigo verso quella dei miei genitori.
 
Quando sono rinvenuto, mia madre era distesa sul pavimento. Sotto di lei, si allargava una pozza di sangue. Ricordo di averla chiamata, più e più volte. Ma lei non si era mossa. Da lì, non si era mai più rialzata.
« Se succede qualcosa, scappa via. Corri, finché non incontri qualcuno e chiama la polizia » mi aveva detto una volta.
Ma io le avevo disubbidito. Ero salito in camera da letto, a cercare mio padre.
E lo avevo trovato.
Era disteso sul letto: le lenzuola di lino erano inzuppate di sangue e, sul pavimento, una pistola.
Ricordo di aver soffocato un gemito, di essermi voltato e di aver corso. Non so nemmeno io per quanto tempo.
Quando mi hanno ritrovato, molte ore dopo, la polizia mi ha chiesto cosa fosse successo. Io sono scoppiato a piangere e ho raccontato loro tutto quello che ricordavo.
 
Non avevo mai più messo piede in quella casa. Per quindici anni. Fino ad ora.
« Tu non sei come lui » mi sussurra mia moglie, mentre rimontiamo in macchina per allontanarci da lì. « A tuo figlio non accadrà mai quello che è successo a te. Perché tu lo amerai, per sempre. » 
Sì. Sarò un padre migliore di te, papà. Manterrò le mie promesse e mio figlio non dubiterà mai del mio amore. Lui non dovrà mai chiedersi, un giorno, se gli ho voluto bene.
 

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