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Autore: CharlotteB    18/05/2007    5 recensioni
[Tratto dal film "Memorie di una Geisha"]
Le parole di Hatsumomo, i suoi rimpianti, il suo amore per Koichi. POV del personaggio più misterioso del film, ma non è necessario averlo visto per leggere. [!]attenzione: non ancora corretta da un beta reader[!]
Spero vi piaccia...commentate e siate pure crudeli!
Genere: Malinconico, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Spero che la fanfiction vi piaccia…E’ ispirata a un film che ho trovato bellissimo, “Memorie di una Geisha”.
Ho scelto di fare “parlare”, assumendo il suo POV, quello che per me è il personaggio più misterioso dell’intero film, cioè Hatsumomo.
Non è necessario avere visto il film per comprendere la trama, quindi leggete pure ^^
ATTENZIONE:per ora la ff non è corretta da nessun beta reader!

Io sono Hatsumomo.
Ero la geisha più desiderata e invidiata dell’hanamachi di Gion, ero detestata, temuta, concupita, adorata. Ho sempre suscitato solo emozioni violente in coloro che mi guardavano, sono state la durezza e la violenza a segnare la mia vita.
Nessuna delle altre geishe dell'hanamachi è mai stata né sarà mai come me…Nemmeno Mameha, la grande Mameha, la bellissima geisha con un danna importante come il Barone, potrà mai eguagliarmi.
Io, Hatsumomo, ho avuto qualcosa che nessun’ altra delle geishe ha mai avuto: l’amore, nella persona di Koichi, mi si è manifestato in tutta la sua grandezza. Io sola ho potuto amare.
Koichi, Koichi…Non è che un nome, un semplice suono, ma provoca in me più scompiglio di una tempesta di fuoco. Lui nella geisha che ero ha saputo vedere la donna, cosa davvero rara: solo con Koichi mi sono sentita una donna, mentre come geisha sono sempre stata solo un oggetto. Un oggetto prezioso e bellissimo, ma pur sempre un oggetto: del resto non si dice forse che essere geishe significa essere valutate come opere d’arte? Il nostro stesso nome, geisha, significa artista, ma più che artiste e artefici di belle opere, noi siamo le opere. Il mio volto era nascosto dietro una maschera bianca, i miei occhi erano gelidi, dalle mie labbra disegnate dal rossetto uscivano sia parole taglienti e dure, la mia sola arma, sia carezzevoli lusinghe per i miei clienti.
A quel tempo amavo essere guardata, amavo i commenti che gli uomini scambiavano a mezza voce al mio passaggio, sapevo di essere bellissima e elegante negli splendidi kimoni della mia okyia e mi piaceva essere finalmente apprezzata.
Nella mia famiglia questo non mi era concesso: erano poveri pescatori, ignoranti e indifferenti alla bellezza, per la quale invece io ho provato dalla nascita un’enorme attrazione.
Li disprezzo, ma non li ho mai odiati, pur vergognandomi delle mie origini. Non furono loro a vendermi all’okiya, però: ci andai da sola, fuggendo alla cieca in un giorno di mercato, a Gion. Dopo ore spese a vagare a vuoto per la città, capitai per caso nei pressi dell’okiya Nitta, che sarebbe divenuta la mia casa.
A quei tempi l’okiya era ancora al massimo del suo splendore, Nonna la gestiva con una severità famosa nell’intera hanamachi e le sue geishe, tra cui quella che poi sarebbe diventata la Madre, erano le più belle della città. Fu proprio la Madre la prima geisha che vidi, mentre ammiravo la pietra scura che costituiva i muri esterni del cortile dell’okiya: era bellissima ai tempi, vestita di un ampio kimono dorato fermato da un obi colorato, e incedeva sui suoi zoccoli alti, di legno, con un’aria regale e leggiadra allo stesso tempo. Fu allora che decisi che anch’io, la piccola Miyako figlia di pescatori, sarei diventata geisha.
Supplicai la Madre per giorni perché mi facesse entrare nell’okiya, ricevendo in cambio indifferenza e velato disprezzo, fino a che infine non fui accontentata da Nonna.
Ero decisa a diventare la migliore geisha mai esistita, così lavorai sodo per ottenere quello che volevo. Fui mandata a scuola per molti anni, diventando la migliore nella danza e nell’eseguire complesse melodie con lo shamisen, e finalmente divenni una maiko, un’apprendista.
La Madre, che allora era chiamata Tokage, mi prese al suo fianco come sorella minore, mi insegnò a parlare, mangiare, dormire, servire il tè e il sakè come una vera geisha. Imparai in questo modo a recitare una parte, quella di geisha, che vissi come una continua sfida ai miei limiti e alle mie paure. Sconfissi tutti i miei demoni, e finalmente, il giorno del mio diciottesimo compleanno, la mia onee-san Tokage annunciò che avrei debuttato come geisha di lì a poco, per me sarebbe stato scelto un nuovo nome, e infine con la cerimonia del mizuage, in cui la mia verginità veniva venduta al miglior offerente, sarebbe stata sancita la mia entrata ufficiale nel mondo delle geishe.
Mi fu imposto il nome di Hatsumomo, e nell’inverno del mio diciottesimo anno il Generale Murasaki mi rese finalmente una geisha a tutti gli effetti. La somma pattuita per il mio mizuage fu pagata regolarmente, e iniziò la mia vita come Hatsumomo.
Ogni sera mi recavo nelle sale da tè per intrattenere gli ospiti, mascherando il mio volto e il mio cuore dietro la cipria bianca del trucco tradizionale, cosa che feci per molti mesi, fino all’inverno successivo. Nella mia diciannovesima estate si presentò a me un cliente, che disse di chiamarsi Koichi.
Era un uomo alto, con corti capelli scuri e occhi nerissimi, che sembravano ardere dall’interno, era un abile conversatore e –contrariamente a molti dei miei clienti- non era sposato. Veniva da me due volte al mese, non era molto ricco e faticava a pagare la mia compagnia, ma era sempre piacevole trascorrere del tempo con quel giovane, brillante e molto attraente.
Una sera d’inverno, dopo un incontro con lui, decisi di tornare all’okiya un po’ prima del solito, dato che il tempo stava rapidamente peggiorando e il cielo si stava facendo scuro, mentre all’orizzonte già apparivano i primi lampi. Appena svoltato l’angolo della via in cui si trovava la casa da tè, mi trovai di fronte Koichi. Sembrava leggermente ubriaco e mi afferrò il braccio destro, mentre passavo accanto a lui, facendo cadere il mio ombrello di carta di riso, che si ruppe.
Stavo già pensando alla bugia da raccontare alla Madre per evitare di dovermi scusare –Hatsumomo, la geisha più desiderata di Gion, non si scusa per uno stupido ombrello rotto-, quando Koichi mi trasse a sé stringendomi tra le braccia.
Confesso che in quel momento lo temei. Io, la glaciale e bellissima Hatsumomo, intimorita da uno sciocco ubriaco...Il ricordo ancora mi riempie di vergogna e mi arrossa le guance, ma non solo per la mia stupidità. Koichi, infatti, mi strinse ancora di più e, guardandomi dritto negli occhi, mi baciò. Fu il primo uomo a toccarmi dopo il Generale, e il primo in assoluto a baciarmi.
Sentii le sue labbra premere contro le mie, sentii il leggero odore di sakè del suo respiro –non mi ero sbagliata, aveva bevuto davvero!- e poi mi abbandonai completamente a quella sensazione. Lentamente, come se non riuscissi a controllarla, la mia bocca si dischiuse quel tanto che bastava a sentire la sua lingua passare dolcemente sulle mie labbra e poi aumentare la pressione, accarezzando la mia con movimenti lenti e sensuali. Mi staccai di botto da lui, spaventata dall’insolito calore che percepivo, e senza rivolgergli la parola fuggii verso la mia okiya. Per fortuna Tokage, diventata recentemente la Madre della casa, dormiva già insieme a Zietta e nessuna delle due si accorse del mio arrivo.
Mentre mi dirigevo a passi svelti verso la mia camera, ancora stupita dallo strano senso di calore che ancora mi pervadeva, vidi di sfuggita il mio riflesso nello specchio della Madre.
Alcune lacrime di cui non mi ero accorta rigavano di nero il biancore del mio viso, il trucco rosso sulle mie labbra era sbavato fin sulla guancia, mentre le labbra stesse erano rimaste senza trucco e tremavano, pallidissime, come quelle di una bambina.
I miei occhi, di solito freddi, brillavano per le lacrime e sembravano serbare una luce interna, che non avevo mai visto.
Fu in quell’istante, credo, che mi accorsi di provare qualcosa per Koichi. Faticavo a pensare che quel sentimento fosse amore, alle geishe non è permesso amare, ma lui era diverso…
Koichi, Koichi…Non è che un nome, un suono, ma è capace ancora oggi di provocarmi brividi sorprendenti. Rimasi nel dubbio per quasi un mese, quando Koichi si ripresentò alla casa da tè.
In quella occasione lo sguardo che ci scambiammo rese inutile qualunque parola. Seppi che era amore e che anche lui lo provava, e allo stesso tempo percepii l’incrinatura sottile nel mio futuro da perfetta geisha. Koichi parve accorgersi dei miei dubbi, così tentò di rassicurarmi avvicinando il mio volto al suo e baciandomi dolcemente sulle labbra. Poi sfilò il pettine di osso dai miei capelli, che ricaddero in una massa scura e liscia, e sciolse con pochi gesti il complesso nodo del mio obi. Passò il palmo delle mani sul mio viso, nel tentativo di togliere la mia maschera, il trucco. Glielo concessi, volevo che vedesse chi era veramente Hatsumomo, volevo che amasse me, non la geisha che ero.
In poco tempo, tutti i nostri abiti caddero a terra frusciando piano, facendomi tremare per il freddo e per la paura. Il Generale non era stato né gentile né attento nei miei confronti e mi aveva reso diffidente nei confronti di tutti gli uomini, ma Koichi fu diverso. Rendendosi conto dell’imbarazzo che provavo e della rabbia nei confronti di me stessa per la debolezza che dimostravo, passò le sue mani ruvide tra i miei capelli serici, accarezzandomi il viso e il collo, lasciato come sempre libero dalla cipria bianca, finché io non ricambiai le carezze, esplorando il suo corpo atletico e la morbidezza inaspettata della sua pelle, senza distogliere lo sguardo dai suoi occhi scurissimi.
Ci distendemmo sul mio kimono ormai sciupato, continuando ad accarezzarci e a baciarci finché con uno sguardo a metà tra l’interrogativo e il deciso Koichi si distese sopra di me e entrò per la prima volta in me con un lungo sospiro.
I nostri respiri affannati creavano piccole nuvole di vapore nell’aria fredda della stanza, il suo sguardo, entrambi sapevamo che quello era forse il primo momento in cui la fredda, crudele Hatsumomo svelava il fuoco che le bruciava dentro. Dovetti distogliere lo sguardo, perché gli occhi di Koichi sembravano vedermi nel profondo dell’animo.
I nostri movimenti si facevano sempre più rapidi, frenetici, finché entrambi non raggiungemmo l’orgasmo, il mio primo, che mi lasciò tremante e scossa per lunghi minuti.
Nessuno dei due parlò per lungo tempo, mentre ci rivestivamo e mi aiutava a rifare il nodo dell’obi, mentre raccoglievo alla bell’e meglio i capelli.
Infine, al momento di separarci, gli chiesi con voce roca e quasi irriconoscibile, facendo un enorme sforzo per riuscire a parlare e rompere quegli attimi magici, se ci saremmo rivisti. Koichi sorrise senza rispondere, ma prese la mia mano sinistra tra le sue e ne baciò il palmo, premendola poi contro il mio petto, all’altezza del cuore.
Continuò a incontrarmi sia alla sala da tè che nei pressi dell’okiya, quando riuscivo a ingannare la Madre dicendole che mi recavo alla casa dei bagni o da qualche cliente; eravamo molto attenti a non essere scoperti, ma alcuni cambiamenti si fecero evidenti in me e dovevo sforzarmi ogni giorno di più per tornare a indossare la mia maschera di geisha. Non cercavo più solo l’adorazione, il desiderio, io volevo l’amore. Ho sempre voluto qualcosa che sembrava al di là della mia portata. Io, Hatsumomo, definita da molti “la tigre” per la mia indole aggressiva, mi innamorai di Koichi. Sembra assurdo, vero? “Una geisha innamorata di un cliente non è una geisha, è una puttana qualunque” mi sembrava già di sentire la voce della Madre nella testa. Ma lei non capiva, non distingueva l’amore che provavamo io e Koichi dalla lussuria di una qualunque puttana, non avrebbe mai capito…E, infatti, quando quella piccola insolente, Chiyo, disse tutto su di noi alla Madre, lei mi impedì di rivedere Koichi, sbarrando i cancelli dell’okyia di notte e facendomi accompagnare da Zietta ovunque andassi.
Non rividi mai più Koichi.
Nessuno capì quello che provavo. La mia non era una storia di sesso, il mio era amore, nonostante tutti sostenessero il contrario. Il mio nome, come quando avevo debuttato, era sulle bocche di tutti, ma accompagnato da commenti molto meno lusinghieri.
Purtroppo non riuscii mai a ottenere una giusta vendetta.
Chiyo divenne geisha sotto l’ala protettiva di Mameha, gli anni passarono e non ebbi più notizie di Koichi per molto, moltissimo tempo.
Presi Zucca con me come sorella minore, nella speranza che ereditasse l’okyia dalla Madre, ma anche quello mi fu negato. Fu Chiyo, sempre lei, a ottenere ciò che desideravo, ma la sua fortuna non durò a lungo. Durante una lite furiosa con lei mi cadde una lampada che incendiò rapidamente l’okyia, costruita quasi completamente in legno, riducendola a un cumulo di macerie. Fui espulsa dall’okyia.
Poco dopo scoppiò la grande guerra, gli uomini furono reclutati in massa, così ogni mattina mi recavo vicino all’ufficio dove i militari di Gion dovevano presentarsi nella speranza di vedere il mio Koichi, ma di lui non c’erano tracce e fui costretta ad arrendermi.
Non l’avevo dimenticato, non lo dimenticai mai, nemmeno per un istante, ma vivere a Gion mi faceva troppo male: ogni angolo, ogni casa mi ricordava lui, così decisi di trasferirmi in un piccolo paese delle campagne, dimenticando il mio passato da geisha.
Ricevetti notizie su Koichi solo alla fine della guerra, un suo amico che era stato mio cliente mi cercò per tutte le campagne nei pressi di Gion per comunicarmi della sua morte in battaglia, pochi giorni prima della resa e della fine dei combattimenti.
Non riuscii a piangere per lui, la sua morte mi sembrava irreale e assurda, e mi trascinava controvoglia in un mondo al quale non appartenevo più.
Nonostante ciò scelsi di tornare a Gion per visitare la tomba dell’unico uomo che mi abbia mai considerato al di sopra di un oggetto, l’unico uomo che abbia mai amato, ma i miei passi mi portarono nella direzione della mia vecchia okyia.

(1948)

L’okyia non è che macerie ora, solo poche travi annerite restano in piedi, delimitando il perimetro della stanza della Madre, quella più lontana dal punto dal quale era partito l’incendio.
I miei piedi sembrano muoversi da soli verso quella stanza, vi entro cautamente, in punta di piedi, come se si trattasse di un tempio, di un luogo sacro.
L’unico oggetto rimasto nella stanza è il vecchio specchio, rotto in mille pezzi dal crollo di una trave. Ne raccolgo un frammento, quello più grande, e tenendolo in mano lo alzo fino a potermi vedere il viso.
Gli specchi sono merce rara in guerra, un lusso da ricchi. Nel piccolo paese che ho scelto per il mio esilio nessuno ne possiede, quindi sono anni che non osservo il mio riflesso se non in qualche pozza d’acqua. I miei occhi non sono preparati a ciò che vedo: il mio volto segnato dal dolore e dall’età, gli occhi spenti, l’incarnato pallido…Ormai la mia epoca, l’epoca delle geishe, è finita. Stringo con forza lo specchio, fino a ferirmi. Tutt’a un tratto sento una goccia d’acqua scorrere sulla mia guancia, sta iniziando a piovere, ma non mi interessa ripararmi, non ho begli abiti da non sciupare. Mi asciugo la guancia con la mano che regge lo specchio e solo allora, quando vedo la mia guancia sporca del mio sangue nel riflesso, capisco di essermi ferita, ma non lascio andare lo specchio. E’ l’unica cosa che mi tiene legata a un passato che sembra svanito, penso, mentre un tuono violento annuncia l’inizio di un temporale.
Tutto questo mi ricorda dolorosamente del primo bacio di Koichi, l’inizio della mia rovina e della mia più grande passione. Mi siedo sul terreno sporco, mentre dal tetto bucato entra una pioggia fitta e gelata che mi pulisce il volto e la mano sanguinante e le gocce d’acqua bagnano le mie palpebre chiuse mischiandosi alle lacrime che, finalmente, scendono libere.

PICCOLO GLOSSARIO:
onee-san: sorella maggiore.
hanamachi: quartiere di geishe.
okyia: casa di geishe, in cui vivono come in una famiglia.
danna: protettore, mecenate.
obi: cintura che fissa il kimono, con un ampio nodo sul retro.

Grazie per la lettura e per eventuali commenti!
CharlotteB

  
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