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Autore: dilpa93    02/11/2012    5 recensioni
Quando succede qualcosa di brutto non puoi fare altro che chiederti 'Perché?'.
Ma il più delle volte la risposta che troviamo è quella sbagliata...
Parte della serie ‘everything can change’. Da collocarsi tra ‘Live… Again’ e ‘Una gabbia per proteggersi’
Genere: Introspettivo, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Alexis Castle, Kate Beckett, Rick Castle
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Nel futuro
- Questa storia fa parte della serie 'Everything can change'
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Se lo era domandata spesso i primi giorni della sua prigionia; credeva che tutto avesse a che fare con Kate, con quella sua stramaledetta battaglia, quella che aveva portato avanti per anni.
Certo, il colpevole lo avevano preso; rinchiuso in una cella in un penitenziario ai confini della città, forse più confortevole del posto dove si trovava lei adesso.
 
 
Avevano brindato; ancora ricordava il tintinnio dei bicchieri pieni di champagne, le lacrime sul viso di Kate, così simili eppure così diverse da quelle che stava versando lei notte dopo notte, giorno dopo giorno.
 
 
Le giornate erano fredde; così la sciarpa le scaldava il collo bianco mentre il sole pallido illuminava i contorni di New York. Le cuffie rilasciavano prepotentemente nelle sue orecchie le canzoni dei Green Day, mentre con la mente pensava a quanto bello sarebbe stato fare la sorella maggiore.
 
Meno di otto mesi...
 
Spalleggiare la sua sorellina -o fratellino, perché no?- nei momenti difficili, oppure mettersi dalla parte di Kate, con tanto di occhiatacce e alzate di sopracciglia, quando si fosse coalizzato con suo padre.
 
In un istante si ritrovò con un guanto sulla bocca, l’altro attorno alla vita costringendo le braccia lungo i fianchi; i suoi piedi non toccavano più terra, la sua voce non poteva uscire, le sue mani muoversi, la sua bocca mordere, le sue unghie graffiare...
 
Sbatté le palpebre ancora stordita. Possibile che stesse sognando?
Scosse la testa scacciando quel pensiero; no, lei era sveglia, era successo qualcosa. Si sforzò a passare la mano lungo la fronte per scostare i capelli che vi si erano appiccicati, ma le risultò impossibile. Il nastro isolante le teneva legate dietro la schiena, e per un attimo le tornò alla mente l’immagine di lei che legava il padre ad una sedia nel mezzo del salotto... In quel momento avrebbe davvero desiderato sapere come aveva fatto a liberarsi, e invece si ricordò unicamente che lei era uscita sorridente dalla porta non prestandogli più di tanta attenzione.
Dopo aver gettato una rapida occhiata alle gambe, a cui era toccata la medesima sorte dei polsi, si concentrò sulla stanza.
Piccola; le pareti spoglie e grigie mostravano delle chiazze scure agli angoli, simbolo di una possibile infiltrazione e, forse, della formazione di muffa. Con la coda dell’occhio guardò alle sue spalle, e vide solo una sedia a dondolo in vimini malandata. Ai lati una finestrella rettangolare, come quelle nei bagni agli autogrill, era stata lasciata aperta permettendo così al vento gelido di entrare. Doveva essere pomeriggio inoltrato...
Davanti a lei notò un piccolo calorifero al centro della parete; vi ci si avvicinò lentamente, strisciando. Ci si accostò, e dandogli le spalle riuscì a sfiorarlo con la punta delle dita.
 
Era gelato.
 
Dalla manopola perdeva acqua, e la moquette cominciava ad assorbirla generando una pozza pian piano sempre più grande.
Sbuffò sonoramente, urlò, con tutto il fiato che aveva... con il poco fiato che aveva. Si dimenò, non riusciva a fare nulla, nessuno sembrava essere presente, nessuno sembrava accorgersi della sua presenza all’interno di quella  camera. L’unica cosa che le teneva compagnia era lo sgocciolare del termosifone che segnava i secondi.
Il tempo scorreva goccia a goccia.
Ma mai avrebbe pensato di preferire la compagnia dello sgocciolio a quella che di lì a poco sarebbe arrivata.
 
 
Troppo spaventata per reagire quando le sue mani furono libere, rimase a fissare il suo carceriere imprimendo nella sua mente, contro la sua stessa volontà, vasti dettagli. Alto, spallato, lo stomaco pronunciato, i capelli corvini, gli occhi scuri, neri come la pece illuminati unicamente da sottili strisce verdi vicino all’iride. Il labbro superiore stranamente sottile rispetto a quello inferiore; una cicatrice, probabilmente lasciata da una ferita infertagli da un coltello data la forma, troneggiava sul braccio sinistro all’altezza del gomito lasciato scoperto da una maglietta nera a mezze maniche dei Pink Floyd.
Sottili rughe facevano da contorno agli angoli della bocca e agli occhi; non doveva avere più di quarant’anni.
Si accovacciò davanti a lei prendendole una ciocca di capelli e attorcigliandola tra le dita; la portò appena sotto il naso inspirando poi a fondo. Gliela sistemò accuratamente dietro le spalle e sparì lasciandole davanti un piatto con una fetta di pizza ai peperoni e un bicchiere d’acqua.
Ricorda che mentre sentiva la chiave girarsi nella toppa non poté fare a meno di pensare che quel gesto fosse uno tra i più viscidi che le fosse mai capitato di vedere, e tra le ciglia cominciarono a restare intrappolate minuscole goccioline.
 
Le prima settimane venne trattata a pane e acqua, o una misera fetta di pizza che la maggior parte delle volte si rifiutava di mangiare. Nessuna parola, nessun tipo di maltrattamento fisico, in un certo modo credeva di doversi ritenere fortunata, forse tutto quello che voleva era un riscatto. No, era passato più di un mese, suo padre avrebbe pagato subito, qualsiasi cifra, in qualsiasi modo. Non poteva essere così semplice, ed è così che ha cominciato a pensare che tutto fosse ancora legato al drago.
 
Né Castle, né tanto meno Beckett avevano voluto dirle molto su quella storia, avevano preferito tenerla all’oscuro per accertarsi la sua sicurezza, e per quanto poteva saperne quell’uomo poteva ancora avere qualcuno lì fuori. Qualcuno che, anche se a distanza di un paio d’anni dall’arresto ‘del capo’, aveva voluto vendetta.
E per un momento il risentimento che aveva provato per Kate quando aveva scoperto che lei e suo padre erano diventati una coppia, dopo tutto quello che lei gli aveva fatto passare, tornò a diffondersi nel suo cuore prepotente e selvaggio come un’ombra che oscura il sole.
 
Sul bordo in legno del letto, che si trovava nella stanza in cui era stata condotta, con le unghie segnava ogni giorno una piccola tacca... 134 giorni.
134... Ancora lo ricorda con esattezza, perché in quel preciso istante qualcosa era cambiato.
Lui era entrato, come faceva ogni mattina; le aveva dato il buongiorno e l’aveva annusata. Ma quella mattina non aveva aperto quel buco che si affacciava probabilmente su un lato periferico della strada, aveva messo un piede fuori dalla porta e allungato le braccia. Quando era tornato tra le mani stringeva un sottile bastone cilindrico.
Lo aveva fissato con occhi increduli, azzurri come il ghiaccio.
“Tranquilla, se farai ciò che voglio questo sarà inutile”.
 
Tranquilla...
 
Ancora quella parola le rimbomba nella testa. Come poteva stare tranquilla, come poteva riuscire a calmarsi? Era impossibile. Aveva sempre giurato di essere una ragazza forte, ma in quel momento la sua forza, come una codarda, l’aveva lasciata sola insieme alla sua fragilità.
 
Era indietreggiata , facendo scivolare il corpo lungo la moquette rovinata fino a quando la schiena non aveva sbattuto conto il muro. Lui le aveva afferrato la caviglia e l’aveva tirata verso di sé.
Il respiro le si fece accelerato, e dei piccoli mugolii uscivano dalle labbra serrate; l’uomo non poté fare a meno di sfiorarle il viso.
“Shhh, te l’ho detto, andrà tutto bene.”
Le aveva sbottonato il golfino blu, lentamente lo aveva fatto cadere a terra, poi aveva infilato le mani sotto la maglia, e lei fu scossa da un brivido.
“Scusa, forse sono un po’ fredde.”
Le aveva sganciato il reggiseno, e poi era passato ad armeggiare con i bottoni dei jeans.
Rimasta solo con gli slip si sentì terribilmente inadeguata, terrorizzata da quello che spesso aveva visto accadere nei film, da quello che aveva visto accadere nella vita reale attraverso i casi di cui discuteva con Kate; in quei momenti spesso lei e la detective si erano sentite richiamare da Martha “Darling, non avete niente di meglio di cui parlare? Non lo so, teatro, scarpe, gioielli... Si, un po’ di shopping non vi farebbe male”; loro sorridevano per poi rimettersi al lavoro, non prima di aver guardato con la coda dell’occhio la donna scuotere la testa sconsolata.
 
Si riscosse dal torpore, tirando poi un calcio al suo aggressore.
Perché non lo aveva mai fatto prima? Perché non aveva mai pensato a ribellarsi?
Erano domande a cui ancora oggi non riusciva dare una risposta.
 
Ripreso l’equilibrio l’uomo la sopraffece facendola sdraiare a terra buttandocisi sopra. “Buona piccola.” Soffiava tra i denti ingialliti per via del fumo.
Bloccata completamente contro il pavimento riuscì solo a muovere la mano sinistra e graffiarlo.
Lui si staccò per una manciata di secondi massaggiandosi il collo rosso. Poi, preso il bastone, le si avvicinò. “Te lo avevo detto. Dovevi solo fare la brava. Avevo organizzato tutto; ho aspettato che fossi pronta, ho aspettato così tanto. Volevo che fosse speciale, ma tu... Ora sarà peggio per te.”
Le pupille le si muovevano velocemente, passando dagli occhi dell'uomo all’arma che teneva stretta nel pugno.
“Scu-scusami. Anche io voglio che sia speciale. P-perdonami.” Faticava a far uscire quelle parole; doveva sembrare convincente, ma come più volte sua nonna le aveva detto, lei non era adatta al palcoscenico.
“Non funziona così, adesso la paghi.”
 
Da quel giorno, da quel 4 giugno, cominciarono le percosse.
L’uomo cambiava umore repentinamente; da dolce, sensibile, improvvisamente diveniva scontroso e violento. I lividi che aveva sul corpo, sul volto, i tagli sulle labbra, erano provocati da quel bastone, o dalle sue stesse mani, che più di una volta l’avevano profanata, facendola poi piangere in un angolo, con le gambe strette a sé, mentre lentamente costruiva quel muro che aveva visto prigioniera per anni anche Kate e di cui Alexis, fino a quel momento, aveva sempre avuto timore.
Timore che si ricostruisse più forte, indistruttibile e che lei li lasciasse; paura che un giorno potesse accadere lo stesso anche a lei. Ma adesso non ne aveva paura, anzi, lo vedeva come l’unico modo per liberarsi pur restando in quella ‘prigione’, come l’unico amico che in quei momenti poteva starle accanto e proteggerla.
 
E nei pochi e rari istanti in cui era sola e cosciente, in cui il sangue non usciva dalle sue ferite e non le impastava la bocca riempiendola di un sapore ferrigno; in cui il dolore che provava alla schiena, al costato, alla sua intimità non le impediva di pensare lucidamente, si rannicchiava a ridosso della parete, oppure sotto il leggero lenzuolo e pensava al piccolo di casa Castle che, secondo i suoi conti -era agosto, o settembre? Neanche le tacche sulla sponda la aiutavano a capirlo, i giorni si somigliavano tutti troppo- sarebbe nato di lì a poco.
Fantasticava sul nome che gli avrebbero dato. Lei avrebbe dovuto aiutarli a sceglierlo; quanto le sarebbe piaciuto poterlo fare... Ogni tanto ancora sperava di riuscire ad andarsene da lì, dovunque fosse questo lì.
Se fosse stata una femmina non le sarebbe dispiaciuto Amelia, Georgia, Andra, ma anche Johanna le sarebbe andato bene, e sapeva che Kate ne sarebbe stata felice. Per un maschietto la cosa si faceva più complicata, però... Alexander le era sempre piaciuto, e visto che suo padre aveva cambiato il suo secondo nome, sarebbe stato bello ‘riaverne’ uno in casa. Anche Aron, Gabriel, o... Ethan, si Ethan sarebbe stato perfetto.
 
Più ci pensava più la convinzione che sarebbe dovuta riuscire ad andarsene si faceva forte.
 
Provò a scappare più e più volte, era riuscita addirittura ad arrivare alla porta principale, ma ogni volta quel minuscolo istante di esitazione rovinava tutto e le botte e le molestie si facevano giorno dopo giorno più pesanti.
 
 
“Sai, mi stupisco che tu non ti ricordi di me.” Aveva esordito un giorno; tranquillo, come se a parlare fossero due amici.
“Eppure dopo tutti questi mesi passanti insieme, in cui mi hai guardato a lungo, be’... Dovresti ricordarti.”
 
Ricordarsi di cosa? Di lui?
 
“Io non ti avevo semplicemente guardata piccola, io ti avevo notata. Tra mille, avevo scelto te. Eri tu quella che volevo, quella... Perfetta! Camminavi così elegantemente nel tuo cappotto viola. Le luci natalizie si riflettevano nei tuoi occhi chiari, i capelli si muovevano soffici tra i fiocchi di neve. Amo come hai cominciato a volteggiare su quella pista da pattinaggio sotto il cielo stellato.” Fece una pausa guardando distrattamente un punto del muro grigio “L’uomo che era con te teneva per mano un’altra donna.”
 
‘Papà e Kate’ pensò.
 
“La guardava come fosse l’unica. Possibile che non si fosse accorto che la vera bellezza era in te?!” Domandò infuriato picchiando violentemente il pugno sul pavimento provocandole un lieve sussulto.
“Sembravi una bambola. Di quelle di porcellana, preziose, delicate.” Diceva delineando con l’indice le sue curve, dallo zigomo sinistro fino all’altezza del ginocchio. “Da quella sera sei diventata il mio unico e solo pensiero ti ho seguita, ti sono stato accanto, come un angelo custode per più di un mese. Ho aspettato che arrivasse l’anno nuovo. Tu eri uno dei miei buoni propositi”.
 
Alexis deglutì, e gli occhi le divennero lucidi. Possibile che lei non si ricordasse di quest’uomo, che non si fosse accorta del modo morboso in cui la guardava.  Che non avesse fatto caso al suo viso tra la folla, mentre era al college, o al pub con gli amici, o anche sotto casa a prendere un caffè e un cornetto al bar all'angolo.
‘Stupida, stupida!’ Si era ripetuta; stupida per aver dato la colpa a Kate, stupida per non essersi accorta di nulla.
 
“Ho avuto altre ragazze.” La voce fattasi più profonda la fece trasalire, e tornò a fissarlo “Ma nessuna era come te, nessuna mi capiva!” Fece una pausa, inspirò profondamente e poi, con lentezza, infilò la mano nella tasca dei pantaloni estraendone qualcosa, nulla che lei riconobbe al momento.
“E tu? Tu mi capisci?” Chiese con tono perentorio facendo scattare il piccolo coltellino così che la lama arrivasse a pochi millimetri dalla sua gola.
 
Pensando ‘ora, o mai più’, si fece mentalmente coraggio per quello che stava per fare.
“Si, si, io ti capisco.” sussurrò dolcemente “Ma non come pensi tu!” Gli si buttò addosso facendogli sbattere la testa contro la gamba del letto.
Era indebolita dai pasti saltati, dalla poca acqua ingerita, dal molto sangue perso, dagli ematomi che, non appena venivano sfiorati, le infliggevano un dolore insopportabile. Nonostante questo però l’adrenalina in corpo la fece combattere come una tigre. Il coltello continuava a restare saldo nella mano dell'uomo,  e in breve tempo la lama le aveva già inferto parecchi tagli, fino a conficcarsi nella sua gamba.
Urlò per il dolore mentre lui sorrideva beffardo “No, no, non si fa così.” Ripeteva divertito, simile ad uno dei personaggi psicotici dei film horror.
Stesa a terra lo guardava, ma questa volta i suoi occhi azzurri erano pieni di odio, risentimento, rabbia, furia.
Con un colpo deciso estrasse il coltello, per poi andargli contro e colpirlo ripetutamente.
 
Sette, otto, nove, dieci volte... E altre se ne susseguirono, fino a che la camicia non fu completamente impregnata di quel liquido vermiglio, lo stesso liquido che ricadeva sulla moquette e che le sporcava viso, mani e vestiti.
Lasciò cadere il coltello accanto al corpo; lo sguardo improvvisamente si svuotò, e fu così che in pochi minuti la tigre si era trasformata in una ragazza amorfa, terrorizzata, shoccata. Si alzò quasi come in trans, attraversò il corridoio buio, illuminato a mala pena da un piccolo faretto sopra di uno specchio.
 
Era incapace di riconoscere il suo riflesso, i suoi occhi trapassavano la sua immagine; vedeva ma, allo stesso tempo, era come se non vedesse nulla realmente.
 
Passò accanto al piccolo bagno; sporco, impregnato di un odore acre e pungente, dove lui la lavava, la trattava dome un bambina piccola incapace anche dei più semplici gesti, come passarsi una spugna lungo il corpo.
 
Arrivò alla porta d'ingresso, tolse il catenaccio, fece strisciare il chiavistello, che  produsse un forte stridio dovuto dallo sfregamento del metallo col legno, ruotò un paio di volte il piccolo pomello e uscì.
Si ritrovò davanti ad una rampa di scale in cemento; la percorse lentamente e, una volta in cima, la luce del sole al tramonto di autunno inoltrato la investì.
Camminò e camminò per il quartiere, tra la folla che la guardava inorridita e non si accingeva a prestarle soccorso. Fino a che sfinita, sanguinante, stremata, non si accasciò sul marciapiede.
 
 
 
‘Driiiin… driiiiin’
 
Quella sera, mentre Kate allattava il bambino, aggrappato con la manina ai suoi capelli, il telefono di casa  Castle squillò. Ma andando a rispondere Rick di certo non poteva minimamente immaginare che si trattasse della chiamata che aspettava da quasi un anno.
 




ANGOLO AUTRICE:
Ed ecco svelato cosa è accaduto alla piccola di casa Castle...
A voi 'l'ardua sentenza'... :)
Alla prossima
Notte
P.s. Quasi dimenticavo... Piccole speciaficazioni:
Alexis viene rapita il 23 Gennaio e ritrovata in Novembre
Il piccolo Ethan nasce a Settembre
Inoltre l'anno è il 2015, perché hanno arrestato il drago nel 2012 e sono passati un paio d'anni dalla sua cattura. In più il rapitore ha aspettato l'anno nuovo :)
  
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