MEMORIE RITROVATE
Durante quella sera di autunno inoltrato, una falce di luna appena sorta sulla distesa cinerea del cielo che si apprestava a colorarsi di tenebra, ammiccava empaticamente verso una solitaria coppia di fanciulli stretti l’uno all’altro, le mani intrecciate, i volti tesi e stanchi, volti di bambini resi adulti prima del tempo da una vita tutt’altro che generosa. Eppure erano sereni, per una volta almeno, mentre tornavano da un’esperienza intrisa di quella positività che non erano mai stati avvezzi a conoscere nel corso della loro travagliata esistenza.
I due ragazzi passeggiavano lentamente, come se volessero assaporare ogni singolo passo e ogni alito gentile della brezza leggera che accarezzava appena le loro capigliature bizzarramente folte.
Il più grande di quella singolare ed insolita coppia non aveva più di sedici anni ma la possente struttura fisica avrebbe ingannato ad un primo sguardo, benché il viso ancora imberbe e naturalmente liscio, insieme a qualcosa di infantile nei tratti, nonostante la precoce durezza di fondo, lasciavano pochi dubbi sulla sua effettiva età.
Il più piccolo aveva da poco compiuto i quattordici, anche se il suo sguardo di smeraldo recava in sé, nonostante l’immacolata innocenza di angelo dalle eterne fattezze di bimbo, una anomala, millenaria saggezza.
Era alquanto curioso il loro atteggiamento, non era certo un evento comune osservare due ragazzi di sesso maschile passeggiare mano nella mano, assorti l’uno nell’altro come due innamorati; ancora più curiosa sarebbe apparsa la situazione se coloro che occasionalmente, come muti fantasmi nell’imbrunire di Tokyo, incrociavano il loro cammino, avessero scoperto che i fanciulli erano fratelli, nati da stessa madre e da stesso padre, benché non fosse il genitore naturale l’uomo che, da piccoli, nell’unico periodo della loro esistenza in cui erano stati membri di un ambito familiare in piena regola, avevano potuto chiamare, con gioia, “papà”.
Nessuno dei due parlava, sorridevano soltanto, di quel sorriso che nulla ha a che vedere con la felicità comunemente intesa, ma pregno di emozioni contrastanti, spesso in lotta le une contro le altre, un sorriso non privo di tristezza, di malinconica, struggente nostalgia affrontata però, dopo tanto tormento, con quel barlume di serenità a lungo cercato e sempre sfuggente un po’ più lontano ogni volta che, tendendo le proprie mani, sembravano sul punto di afferrarlo.
Così sorridevano e, a tratti, si lambivano l’un l’altro con sguardi, essenza stessa del reciproco affetto, occhiate furtive nelle quali entrambi racchiudevano tutto ciò che li legava e che unicamente loro potevano comprendere fino in fondo. Avevano condiviso esperienze che nessuna coppia di fratelli si sarebbe mai sognata di poter attraversare indenne, si erano amati di un amore unico e completo fin dalla nascita del più piccolo ed erano stati strappati, solo pochi anni dopo, l’uno dalle braccia dell’altro per venire gettati come schiavi ancora inconsapevoli di una causa più grande di loro, nelle grinfie di una morte prematura alla quale solo il fato, per una volta misericordioso, li aveva sottratti; si erano ritrovati, alla fine di sei lunghi, angoscianti, terribili anni, nemici, entrambi con il cuore diversamente spezzato, per poi stringersi ancora in quell’abbraccio che non aveva pari nell’intero universo, un abbraccio che nuovamente la morte cercò di sciogliere e distruggere per sempre: il fratello maggiore aveva quasi ucciso, in nome di Giustizia, la sua stella, autoimmolatasi quale vittima volontaria per la salvezza del mondo.
Erano risaliti, letteralmente, dall’inferno e si erano immersi l’uno nell’esistenza dell’altro, in un reciproco sentimento che nessuna parola o frase d’amore abusata avrebbe potuto esprimere o spiegare, perché l’amore stesso da tale unione era travalicato, era assorbito in qualcosa di ancor più profondo, stabile, eterno.
Il più piccolo, mentre con una manina fine si aggrappava a quella tanto più grande e protettiva del fratello, nell’altra mano recava un coniglietto di pezza, vecchio e logoro eppur visibilmente colmato dall’affetto di quel fanciullo, che se lo stringeva al petto come prezioso tesoro ritrovato e strappato alle impietose sabbie del tempo.
Intorno, crisantemi fucsia e bianchi corteggiavano il loro cammino dai due lati del viale, quasi sembrava volessero avvolgerli e rinchiuderli, come per proteggerli da occhi indiscreti che mai li avrebbero compresi; in alto, il plumbeo tappeto di un cielo tendente alla notte, le stelle che cominciavano, una ad una, a spuntare, da sempre amiche antiche e segrete del loro spirito nobile e la luna, desiderosa di unirsi, festosa, al loro abbraccio d’amore.
E ad un certo punto, il più grande non poté più distogliere il proprio sguardo dal profilo morbido del fratellino e si immerse, inizialmente non visto, in una contemplazione devota, solenne, come se tutto il suo universo fosse racchiuso in quel volto dalla bellezza fatata.
Percependo con l’intuito a lui proprio l’insistente attenzione che gli veniva riservata, il fanciullo di quattordici anni a sua volta ricambiò l’occhiata, timidamente, umile come un cucciolo appena affacciatosi al mondo e altrettanto umilmente in quel sorriso del fratello adorato specchiò il proprio, mentre l’odore straniante, in qualche modo acre, dei crisantemi, così distante dall’amabile fragranza di tanti loro parenti vegetali, eppure in quel momento non sgradito ai due ragazzi che in esso trovavano il perfetto accompagnamento al loro umore agrodolce, li avvolgeva invitandoli a restare per sempre in una tale sospensione di onirica tenerezza.
“Le assomigliavo davvero così tanto?”
La voce del piccolo, che per la prima volta lungo il sentiero ruppe il sacro silenzio, era come un canto, come l’armonia perfetta delle stelle che si accesero un po’ di più nel momento stesso in cui la udirono; non era una voce effeminata ma neanche mascolina, semplicemente incarnava la perfezione angelica di una creatura troppo incantevole per appartenere a questo mondo corrotto.
“Più di quanto tu stesso immagini” sospirò in risposta il fratello innamorato “vorrei tanto avere una sua foto per potertela mostrare…”
Distolse lo sguardo il fanciullo, le gote deliziosamente arrossate da emozioni difficili da dominare ma non abbandonò quel delizioso sorriso di cherubino ritroso:
“Sai… un po’ ti invidio… mi chiedo come tu faccia a ricordarla così bene… eri talmente piccolo tu stesso…”
Il maggiore sollevò gli occhi alla distesa celeste e un nuovo sospirò fu accolto dagli astri che li ascoltavano, intenti, insieme alla luna:
“Io credo… che in gran parte sia merito tuo… lei rivive in te… otooto… mio Shun…”
L’inatteso dono che li avrebbe condotti a
quella passeggiata notturna nel viale dei crisantemi, venne da Saori-san… dalla
loro Dea… Athena.
Li convocò entrambi, durante la mattinata di
due giorni prima, nello studio dove svolgeva i suoi compiti di dirigente della
fondazione Grado, lei ragazzina quattordicenne, responsabile di una colossale
organizzazione giapponese e, più ancora, garante della pace mondiale e custode
dell’ordine e della tranquillità sulla Terra.
La trovarono seduta dietro ad una scrivania,
immersa in scartoffie che, immaginarono, probabilmente riguardavano faccende
burocratiche nelle quali loro si erano sempre ben guardati dal ficcare il naso;
non immaginavano che quelle carte, invece, contenessero qualcosa che
interessava loro, molto da vicino. Stranamente, alle spalle di Saori non c’era,
come al solito, Tatsumi, la solerte guardia del corpo dai metodi spesso
discutibili e il maggiore dei due fratelli non poté trattenersi dal domandarle
ironicamente se l’immancabile cane da guardia si fosse preso l’influenza.
La ragazza, che ormai aveva instaurato un
rapporto di confidenza esente da ogni formale imbarazzo con i suoi sacri
guerrieri, rispose con un condiscendente risolino e, alzandosi, aggirò il
tavolo per procedere a passi eleganti verso di loro:
“Non l’ho voluto io Ikki; è una cosa tra me
e voi, non voglio che ci sia sempre qualcuno a supervisionare ogni incontro che
ho con i miei amici.”
Shun sorrise chinando lievemente il capo,
come sempre amabile; Ikki rimase impassibile e si limitò a seguire, con leggere
variazioni del proprio inintelligibile sguardo, l’avvicinarsi della ragazza.
Lei non mostrò alcuna ostilità in risposta a quell’atteggiamento; lo conosceva
troppo bene e più di una volta il giovane aveva comunque messo a repentaglio la
propria vita per perseguire gli ideali di Athena. Nessuno avrebbe potuto
pretendere altro da lui, tantomeno di modificare una natura profondamente
radicata nel suo animo.
Quando giunse di fianco a Shun, la mano fine
della Dea si sollevò, per sfiorargli lievemente una guancia, come a volergli
trasmettere il calore del suo cosmo, come a volerlo rassicurare che lei mai li
avrebbe abbandonati, che era come una madre per loro e che mai avrebbero dovuto
sentirsi soli; particolarmente Shun suscitava in lei il bisogno di lasciarsi
andare a simili contatti affettivi, il suo santo di Andromeda, così buono, così
infelice e generoso nel donare tutto se stesso ad una causa che gli procurava
una sofferenza atroce, senza via di scampo, senza sollievo.
Quando le dita della sua signora gli
sfiorarono la cute morbida, il fanciullo rintanò il capo nelle spalle e chiuse
gli occhi, mentre il sorriso si arricchì di una gratitudine profonda, che gli
alleggerì il cuore, almeno per quei pochi istanti.
“Io devo molto a tutti voi, ne siete
consapevoli?"
Fremettero entrambi, mentre l’amore immenso
della Dea scendeva, sottoforma di cosmo lenitivo, nei loro spiriti sempre
tormentati; istintivamente, Shun incrociò le braccia e se le strinse al petto,
desideroso di afferrare quel flusso, perché non lo abbandonasse mai e persino
gli occhi di Ikki si addolcirono e persero, momentaneamente, la perpetua patina
di recidiva durezza.
Saori diede loro le spalle e tornò verso la
scrivania, per rovistare tra le carte sparse, evidentemente in cerca di
qualcosa; vinti dalla curiosità, i due fratelli allungarono un po’ il collo ma
la ragazza sembrò intuire le loro intenzioni e voltando appena il capo,
lasciando intravedere il proprio profilo sorridente, li prevenne:
“Vi starete chiedendo cosa io stia cercando
e perché riguardi voi, non è vero? Avvicinatevi.”
Obbedirono, Shun in testa e fecero qualche
passo, restando affiancati appena dietro alla loro Dea che, percependo il loro
avvicinarsi, si scostò, per invitarli a guardare con i loro occhi; così i due
ragazzi si ritrovarono a diretto contatto, loro due soli, con il caotico
mistero che Saori aveva distribuito sul ripiano. Ciò che in primo luogo colpì i
loro sguardi quasi come un susseguirsi di ferite inferte al cuore da un pugnale
la cui lama era stata intinta in una composizione di fiele, dolcezza, dolore e
nostalgia, furono delle fotografie, in gran parte istantanee di bambini, nelle
quali riconobbero se stessi e i compagni che con loro avevano condiviso il
destino crudele di chi non ha mai conosciuto le spensierate amenità
dell’infanzia… infanzia… avevano mai realmente conosciuto il significato di
quel termine?
Hyoga… Seiya… Shiryu… Jabu… Nachi… Ichi…
Ban… Geki… e tanti altri, tutti coloro che, dopo essere stati mandati, con gli
sguardi da cuccioli colmi di terrore e incertezza, alle scuole di
addestramento, non erano mai più tornati… tutti ritratti in momenti
particolari… presumibilmente appena giunti alla fondazione.
Le labbra di Ikki si strinsero segno che,
probabilmente, se le stava mordendo a sangue per reprimere una rabbia che mai
nessuno di loro sarebbe mai riuscito a debellare del tutto, i pugni si
serrarono e le sue membra fremettero; gli occhi di Shun si riempirono di
lacrime e cocenti singhiozzi lottavano per risalire dal profondo. Un sospiro di
afflizione indusse entrambi a voltarsi verso Saori: le guance della ragazza
erano rigate di un pianto che non si sforzava affatto di trattenere, non ce
n’era bisogno; ora che sapeva mostrarsi umana poteva ritenersi davvero tutt’uno
con i suoi ragazzi, perché aveva dimostrato di saper soffrire con e per loro.
Asciugandosi risolutamente una lacrima con
la punta delle dita affusolate, aggirò l’elegante secretaire di legno lucido e
tornò a sedersi, portandosi poi le mani alle tempie e rimanendo così per un
po’, a testa china, senza impedire alle stille della sua angoscia di scendere
come una pioggia gentile su quei visi di bimbi strappati prematuramente alla
vita.
Un braccio di Shun si levò, trepidante e
timido, verso di lei, ma poi il fanciullo, con altrettanta esitazione, lo
lasciò ricadere e scosse il capo con dolorosa lentezza, spostando lo sguardo
dalla sua Dea, che avrebbe voluto liberare da tutto quell’impotente dolore, al
pavimento di marmo talmente terso che per un istante lo smeraldo dei suoi occhi
vi si specchiò, in un effimero gioco di luci. Il suo animo solidale avrebbe
voluto avvicinarsi a lei e confortarla con tutto il potere della propria
generosa dedizione ma una parte di lui lo bloccava, gli suggeriva che in quel
momento Saori-san aveva bisogno di raccogliersi in se stessa… Athena che viveva
in lei le avrebbe indicato la via per sfuggire allo smarrimento che aveva
aggredito i frammenti più fragili del suo spirito. Infatti, dopo pochi secondi
che tuttavia, forse, sembrarono a tutti e tre durevoli come l’eternità, la
ragazza si drizzò, il viso alto, facendo danzare la cascata di capelli ramati
intorno al viso dai nobili lineamenti; non piangeva più ma le lacrime avevano
lasciato una traccia ancora visibile sulle gote rosee e negli occhi che si
attardavano in un ceruleo tremolio di stelle.
“Scusatemi… avrei voluto fare di più per
tutti loro cui non è stata data la possibilità di accettare e comprendere… cui
non è stata data la possibilità di combattere al vostro… al nostro fianco…” la
sua voce era ferma, voce di Dea addolorata e tuttavia consapevole di dover
essere lei ad infondere sicurezza, a rendere se stessa la guida, in grado di
non cedere neanche quando il suo cuore spezzato andava in frantumi. Li guardava
sicura adesso e proseguì, senza tentennamenti ma con l’inflessione di chi,
consapevole di un dolore che sempre avrebbe dovuto portare intatto dentro di
sé, lo accetta come espiazione, senza temerlo, mutandolo in un punto di forza:
“Ormai posso solo rendere loro gli onori
dovuti, in quanto guerrieri della Dea, nonostante non abbiano mai avuto modo di
sapere per quale causa sia stata loro richiesta una tale sofferenza. Ho
sbagliato, con loro, come con voi e spero di incontrarli un giorno nell’Elisio
dove sicuramente saranno stati accolti, per ringraziarli e chiedere perdono in
ginocchio. Nel frattempo posso solo promettere, e sperare con voi, che simili
atrocità non siano mai più necessarie, neanche in nome della Giustizia, perché non
vi è alcun senso nel farsi baluardi di Giustizia perpetrando iniquità tali nei
confronti di anime innocenti ed inconsapevoli… e spero che nelle generazioni
future, qualora ci sia ancora bisogno di voi sacri guerrieri, nessuno verrà
immolato senza il suo consenso, senza che nel cuore, fin da piccoli, si senta
forte il richiamo delle stelle…ah, se solo io fossi maturata prima, se avessi
avuto prima la capacità di parlare al vostro cuore… tutto sarebbe stato più
sensato… se vi fosse stata data fin da subito la possibilità di capire, di
accettare… di scegliere… tutto sarebbe stato più… giusto…”
“Saori-san…”
Il sussurro di Shun fu un singhiozzo
soffocato, mentre anche Ikki si ritrovò confuso a contemplare lo sguardo perso
della Dea, smarrito in qualche lontana dimensione nella quale, sicuramente,
stava scrutando, uno ad uno, gli occhi di coloro che non c’erano più e della
cui morte precoce ella si sentiva la principale responsabile. Si riscosse quasi
subito la ragazza e, desiderosa di non tormentare i due fratelli con la propria
angoscia, diede loro le spalle, tornando a rovistare sul tavolo, tra le carte e
i muti volti che li osservavano dalle distanze insormontabili di tempo e
spazio, la maggior parte di essi icone di esistenze che non sussistevano più in
involucri di carne e sangue.
I due adolescenti seguivano ogni suo
movimento, sempre più incuriositi e ansiosi di comprendere dove li avrebbe
condotti quella strana conversazione. Tra tutte le fotografie Saori ne raccolse
una, trovandola a colpo sicuro nonostante il disordine estremo, come se avesse
sempre saputo dove andarla a pescare e, l’attimo dopo, la porse a Shun. Il
fanciullo, dapprima esitante, la prese, le dita scosse da brividi talmente
intensi che quasi il sottile quadretto gli cadde ma riuscì a trattenerlo prima
che questo accadesse; Ikki si era avvicinato e, insieme, osservarono un bambino
scalzo, corrucciato, dai capelli arruffati e sporco da capo a piedi, che teneva
tra le proprie braccia un involto di stracci dal quale spuntava un visetto
bianco come la neve, un altro bambino, minuscolo, con ogni evidenza felice in
quell’abbraccio nel quale si sentiva sicuro, null’altro gli mancava per rendere
il mondo un posto meraviglioso ai suoi occhi, degno di quel sorriso radioso che
avrebbe voluto inglobare l’intero universo.
I due ragazzi deglutirono e, tremando, il
più piccolo si appoggiò al maggiore, ricercando istintivamente la sua mano.
“La riconoscete vero? Ne avete una copia
anche voi.”
Richiamati alla realtà dall’amabile voce
della Dea, nuovamente a lei rivolsero i loro sguardi e annuirono.
“Quella foto fu scattata il giorno in cui
giungeste qui, non lo posso ricordare, perché non ero più grande di te Shun,
probabilmente me ne stavo tra le braccia di qualche domestica come te stavi tra
le braccia di tuo fratello, ma dubito che stessi sorridendo come tu fai in
questa foto, non ne sono mai stata capace… di sicuro mi preparavo a qualche
nuovo capriccio…”
L’osservazione di Saori, incredibilmente,
strappò una risatina ad Ikki, fino ad allora sostenuto e quasi teso, restio a
lasciarsi andare almeno un pochino, mentre Shun scosse il capo, le guance
imporporate, nuovamente in preda ad un imbarazzante disagio.
“Insieme alla fotografia, ho trovato
questo…”
Saori estrasse qualcosa dallo scatolone che,
fino a qualche momento prima, di sicuro, conteneva tutto ciò che era stato
rovesciato senza ordine logico sul piano ricolmo del tavolo.
La scrutarono, senza chiedere nulla,
semplicemente attendendo; erano consapevoli che, ormai, tutte le risposte che
desideravano sarebbero giunte di lì a poco.
“Evidentemente mio nonno aveva raccolto un
sacco di dati su tutti voi e li custodiva qui, in questo scatolone che ho
recuperato da una cassaforte, in quella che un tempo fu la sua camera da letto.
Mi sembra chiaro quanto tenesse a che non andassero perdute queste preziose
informazioni… chissà… forse anche lui pensava che, prima o poi, avrebbe voluto
mostrare a voi tutto questo, come io sto facendo. E infatti ha fatto in modo di
lasciarmi il codice della cassaforte, non se ne è mai dimenticato… non vedo
altro motivo per tanto interesse…”
Si fermò e, per qualche istante, un nuovo
lampo di tristezza attraversò il limpido azzurro dei suoi occhi; non si
illudeva affatto che tali parole avrebbero assolto la figura di Mitsumasa Kido,
nettandola dalla rabbia che i suoi figli riversavano sulla sua persona. Infatti
Ikki represse un ringhio mentre Shun, incapace di decifrare le contorte
suggestioni che il ricordo di quell’uomo suscitava in lui, non riuscì a tacere
e pronunciò una singola frase, con voce timorosa ed incerta, per quanto egli
credesse fermamente al concetto che essa esprimeva:
“Non posso che essere in pace con lui,
adesso; ce l’hai insegnato tu stessa Athena… ogni essere vivente merita la pace
dopo la morte, non è giusto biasimarlo ancora, non è giusto tormentare ancora
la sua memoria.”
Ikki sussultò e, l’istante successivo, si
portò una mano agli occhi, chinando il capo; per lui era troppo difficile
ancora ma non poteva non ammettere a se stesso che la sua stella gentile aveva
ragione. Athena annuì, con gratitudine, verso il generoso fanciullo, quindi
distolse lo sguardo per portarlo sul foglio trovato poco prima all’interno del
grosso contenitore.
“Aveva fatto ricerche su tutti voi, ha messo
insieme le tracce dell’esistenza da voi condotta prima che approdaste qui…
prendete questo foglio.”
Siccome Shun, scosso da brividi fattisi
pressoché incontrollabili, non riuscì a muoversi con il necessario tempismo,
questa volta fu Ikki ad impossessarsi di ciò che Saori stava loro porgendo.
“E’ un indirizzo” osservò, posando gli occhi
sul candore ingiallito di quella vecchia pagina di quaderno e sulle tracce di
inchiostro lasciato da un pennino di antico stampo.
“L’indirizzo di casa vostra…” confermò la
ragazza “la casa dove abitavate prima di partire per
Un silenzio sacrale discese nella stanza,
turbato dal respiro di uno dei tre attori su quel palcoscenico che dava vita ad
un dramma dal sapore dolceamaro; Ikki lottava perché il fiato non gli mancasse
del tutto, era turbato, senza sapersi spiegare perché, mentre immagini indistinte
di un qualche sogno lontano e perduto si accavallavano, torbide ed offuscate,
le une sulle altre, nella sua mente in subbuglio: una piccola casa popolare,
alla periferia di Tokyo, un terrazzo affacciato sulla notte stellata, una donna
seduta con un neonato tra le braccia, un altro bambino ai piedi di un uomo dai
lineamenti bonari e felici che gli arruffava dolcemente la zazzera scura, un
astro lucente che si staccava dalla costellazione di Andromeda…
“Una scintilla di stelle…”
Parole sfuggite in un soffio alle sue labbra
tremanti fecero voltare verso di lui il fratellino, anch’esso caduto preda di
un’emozione che non era in grado di comprendere.
“La casa si trova in periferia, in una zona
molto isolata; ho fatto delle ricerche e sono in grado di darvi le esatte
indicazioni per raggiungerla.”
Nessuno dei due riuscì a parlare troppo
durante il cammino che li avrebbe condotti ad un passato che, fino a quegli
istanti, avevano creduto letteralmente in frantumi; ciascuno di loro si
rinchiuse, per un po’, come in un guscio, entrambi terrorizzati dalle
implicazioni emotive che quell’evento significava per loro.
Decisero di andare a piedi, lentamente,
senza fretta, il giorno successivo alla rivelazione di Saori-san; precipitare
le cose era spaventoso nella loro immaginazione, non sapevano spiegarsene il
motivo ma, in una parte profonda dei loro spiriti sommersi da timori e desideri
incontrollati, sentivano che correre, concludere tutto troppo in fretta,
avrebbe significato spezzare definitivamente qualcosa o, quanto meno, perdere
per strada dei pezzi fondamentali di se stessi.
Una parte di loro avrebbe desiderato
mettersi a correre verso quel luogo che solo Ikki ricordava un pochino ma che
Shun collegava spontaneamente a sogni rivelatori di un’esistenza distante e
vicinissima al contempo, una vita che non era certo gli fosse realmente mai
appartenuta ma che sentiva profondamente sua; un’altra parte, invece, suggeriva
ai ragazzi di rallentare, di non arrivare mai, di prolungare l’attesa
all’infinito, forse perché l’esperienza li terrorizzava, o forse perché non
volevano che quel momento avesse una fine e che entrasse, come tante altre
cose, a far parte di un passato al quale guardavano con estrema malinconia,
quando non con angoscia.
Ikki camminava un po’ più avanti, le mani
affondate nelle tasche e il volto basso, come immerso in riflessioni dalle
quali voleva tenere fuori il resto del mondo, nelle quali accettava l’esistenza
solo di se stesso e di quel passato, chiedendosi perché dovesse viverla così
atrocemente, perché non riusciva ad essere semplicemente, immensamente felice
di restituire a se stesso ed a Shun una parte di memorie smarrite? Forse
temeva, in un certo senso, che quella casa, quelle mura, non gli avrebbero
trasmesso assolutamente niente…
E non molto dissimili erano i timori del
fratellino che procedeva, ancora incredulo, alle sue spalle, tenendo le braccia
strette al petto, come se avesse freddo ma era semplicemente un gesto che il
fanciullo compiva quando cercava vanamente di tenere lontane il più possibile
le proprie paure e insicurezze; sì… il piccolo Shun temeva di perdere i propri
sogni quando, varcando la soglia di un ricordo che si sarebbe fatto concreto di
lì a poco, l’incanto sarebbe svanito in un pugno di fredda materia e niente
sarebbe più stato come prima… avrebbe significato rendersi conto
definitivamente che quel passato non esisteva più, perché, tramutatosi in
realtà, non sarebbe più riuscito a sognarlo.
Differentemente dal fratello, il suo viso di
neve non fissava costantemente il suolo ma vagava da quella posizione per
spostarsi, saltuariamente, a lanciare vacue occhiate intorno a sé, non di rado
posandole sulla schiena di Ikki-Niisan che avanzava come un fantasma dal quale
la folla sembrava scostarsi, in preda ad uno sconosciuto smarrimento, prodotto
dall’’influsso che quell’ombroso ragazzo emanava, un sentore di disumana follia
della quale mai si era liberato del tutto. Era facile, anche per chi non lo
conosceva, intuire quando Ikki pretendeva che gli altri gli girassero al largo,
lo si percepiva nell’aria che gli crepitava intorno come una fiamma infera.
Solo Shun aveva imparato a non temere questi atteggiamenti eppure, per quanto
lo desiderasse, per quanto avrebbe voluto, a sprazzi, avvalersi del conforto
della sua compagnia in quel momento di panico ed incontrollate emozioni,
comprendeva anche il bisogno di immergersi in quel totale isolamento, lui
stesso non era esente da tale bisogno, anche se la necessità di condividerlo
almeno con Ikki lo assaliva ad ondate sempre più insistenti.
Proprio in uno dei momenti in cui Shun era
tutto concentrato su di lui, Ikki si fermò, facendolo sussultare per la
sorpresa e si voltò a guardarlo; si sarebbe rivelato impossibile per chiunque
leggere qualcosa di positivo in quello sguardo oscuro, che all’apparenza
comunicava solo rabbia e disappunto ma il fratellino non ebbe dubbio alcuno,
perché nessuno sapeva decifrare ogni minima sfumatura delle manifestazioni
espressive di Ikki meglio di lui e così gli sorrise, ancor prima che il ragazzo
più grande sollevasse un braccio per tendergli la mano aperta in un invito. In
due leggiadri saltelli, il fanciullo dagli occhi di bosco gli fu accanto e posò
la propria mano bianca nell’altra tanto più grande.
“Scusami se ti ho ignorato fino ad ora”
mormorò il fratello maggiore, senza particolari inflessioni nella voce e senza
mutare quell’espressione che non avrebbe rassicurato nessuno che non fosse la
sua amabile stella sempre colma di fiducia nei suoi confronti. Il piccolo Shun
scosse semplicemente il capo poi, dopo aver circondato con le sue braccia dai
muscoli snelli un braccio decisamente più possente del fratello, distolse
nuovamente lo sguardo e lo portò alla polvere della strada, mentre riprendeva a
camminare al suo fianco, ora lievemente rincuorato, sentendosi meno solo ma con
le palpitazioni di un cuore prossimo ad esplodergli in petto.
Non dissero più nulla, in alcuni momenti,
tra loro, le parole non erano affatto necessarie; bastava il lieve contatto
delle loro anime, le carezze che i loro flussi interiori si scambiavano,
invisibili a chiunque ma assolutamente concrete per due fratelli uniti da
qualcosa che andava ben oltre il sangue, ben oltre l’affetto, ben oltre
l’amore.
Camminarono a lungo, nessuno dei due era in
grado di stabilire per quanto, non importava loro che fosse ancora mattina o
che fosse passata da un pezzo l’ora di pranzo; certo i loro corpi avvezzi a ben
altre sfacchinate non risentivano di alcuna stanchezza, pochi minuti o molte
ore di normale cammino non avrebbero fiaccato le loro energie. Molto più
stancante, per entrambi, era la tempesta interiore che, ben lungi dal placarsi,
li travolgeva sempre di più, ad ogni passo compiuto.
Emersero momentaneamente dal loro personale
universo per rendersi conto, in una veloce osservazione, che si erano lasciati
alle spalle la confusione metropolitana e si erano immersi nell’atmosfera più
dimessa e popolare di una periferia per tanti versi non meno caotica: si trattava pur sempre di
Tokyo.
Ikki frugò nella tasca dei pantaloni rossi
ed estrasse il foglietto con l’indirizzo consegnatogli da Saori, sul retro del
quale le mani stesse della Dea avevano tracciato una cartina approssimativa
della zona; ma orientarsi si rivelava comunque complicato senza precisi punti
di riferimento. Il ragazzo sbuffò e portò una mano a massaggiarsi la nuca,
mentre il fratellino lo scrutava con tenerezza, perché in un semplice intoppo
da vita quotidiana, il temibile saint di Phoenix, pronto ad affrontare a muso
duro qualunque pericolo mortale, si trovava smarrito come un bambino troppo
timido per decidersi sul da farsi.
“Dallo a me” ridacchiò Shun, impossessandosi
del biglietto con gentile fermezza e, colto alla sprovvista, Ikki non si
oppose; rimase a guardare il leggiadro fanciullo che, senza aggiungere altro,
era scappato via, in direzione di un capannello di persone riunite intorno ad
un tempietto scintoista, intente a compiere qualcuno di quei rituali in parte
del tutto misteriosi per lui. Scrutò da lontano il fratello che si fermò, restando
educatamente in attesa che quel gruppetto, formato da due anziane signore e da
un bimbo piuttosto piccolo, terminasse ciò che stava facendo, rispettando
discretamente il sacrale momento, poi si fece amabilmente notare e mostrò il
foglio alle due signore. Ikki ritenne che stesse chiedendo indicazioni sulla
strada da prendere e immaginò, immedesimandosi in loro, come le dolci nonnine potevano
essere rimaste ammaliate dall’approccio e dalla voce di quel ragazzino così
tenero e bello. Infatti, dopo aver dato una rapida occhiata alla grossolana
mappa, entrambe presero a gesticolare e a dare spiegazioni con voci così
entusiasticamente squillanti che in parte arrivavano fino ad Ikki, nonostante
la distanza di parecchi metri. Sembrava volessero fare a gara per aiutare
l’incantevole angelo che quel giorno aveva deciso di incrociare il loro
cammino.
Alla fine Shun chinò educatamente il capo in
segno di ringraziamento e quella che, a prima vista, sembrava la più anziana,
allungò una mano ad arruffargli amorevolmente la chioma dorata; il fanciullo
ringraziò ancora, seppur visibilmente imbarazzato e, dopo aver fatto qualche
piccola moina al bimbo, tornò sui propri passi con un sorriso raggiante.
“Credo di aver capito ma è ancora un po’
lontano; si tratta di una zona piuttosto isolata da quel che mi hanno detto.”
Ikki annuì, consapevole che per arrangiarsi
in un mondo “normale”, gli sarebbe sempre stato necessario l’aiuto di quel
fratellino che, per quanto timido, per quanto anch’egli spaesato in un universo
tanto distante da quello dei sacri guerrieri, poteva avvalersi di una maggior
propensione, quando serviva, ad instaurare contatti umani.
Quando le ombre cominciavano ad allungarsi,
indizio di un pomeriggio inoltrato, i ragazzi si fermarono all’imbocco del
viale di crisantemi; Tokyo sembrava distante, un mondo diverso e lontano che
nulla aveva a che vedere con quell’angolo idilliaco costituito principalmente
da giardini, alberi, tanto verde punteggiato a intermittenza da poche case, solitamente
a due piani, piccole, alcune con giardino, altre affacciate direttamente sulla
strada,. Assecondando un reciproco messaggio del cuore, entrambi interruppero,
nel medesimo istante, i propri passi e per un lungo, interminabile attimo, si
lasciarono rapire dal turbine violento del tempo che scorre, tanto che, tutti e
due, pensarono che solo le due mani strette l’una all’altra stessero impedendo
ai loro spiriti di naufragare alla deriva nell’oceano sconfinato e confuso di
ricordi poco nitidi ma comunque così intensi da fare male al cuore come
stilettate scarlatte affondate nel petto.
“Niichan” la vocetta da uccellino di Shun
ruppe il silenzio che si stava facendo denso e pesante, un silenzio che li
stava trasportando in un altro mondo.
“Che cosa c’è fratellino?”
Ikki non avrebbe saputo dire se avesse
risposto al fanciullo di quattordici anni al suo fianco o ad un esserino tanto
più piccolo che tendeva verso di lui due braccine minuscole, per supplicarlo di
prenderlo e stringerlo forte forte, forse perché si era fatto male o perché aveva
assistito a qualcosa di brutto che l’aveva fatto piangere.
“Credo… di avere molta paura…”
Il fratello maggiore si voltò a guardarlo e
vide un ragazzino profondamente raccolto in se stesso, la mano libera che
accarezzava distrattamente il braccio opposto, il volto abbassato a scrutare
chissà quale misterioso sassolino della strada… e tremava, come una foglia
giunta al termine della propria esistenza, prossima ad essere strappata alla
sicurezza del suo ramo dall’impietosa brezza d’autunno.
Avrebbe voluto trovare il modo per
proteggerlo, come sempre aveva fatto, ma questa volta era troppo difficile,
questa volta non vi era nulla da cui essere protetti se non le caotiche
emozioni delle loro due anime scombussolate e ciò che avrebbe impedito loro di
soccombere era solo lo stare uniti; così strinse ancor più energicamente la
piccola mano nella sua e gli rispose in un sussurro, sfiorandogli con le labbra
la guancia delicata:
“Anche io Otooto-kun… ma siamo insieme… non
dimenticartelo mai questo…”
Il viso di neve si sollevò, gli occhi
sbarrati, la bocca leggermente schiusa desiderosa di trovare il modo di
pronunciare una frase che non voleva saperne di uscire fuori; non si voltò però
verso il fratello maggiore il quale, da parte sua, si perse a contemplare il delizioso
profilo e l’elegante curva del nasino grazioso e ben proporzionato, le ciglia
lunghe, morbide, quell’espressione spersa e un po’ vacua. E una volta di più
Ikki ripeté a se stesso che mai nessuno, in tutta l’universo e nel corso della
propria esistenza, avrebbe mai scosso allo stesso modo le corde del suo cuore
che così difficilmente accettava di sciogliersi.
“Solo tu ci riesci, stella mia” rifletté tra
sé e sé mentre Shun si decise ad incrociare il suo sguardo e, come se gli
avesse letto nel pensiero, si sollevò sulla punta dei piedi e gli gettò le
braccia al collo, nascondendo per qualche istante il viso sulla spalla
accogliente del fratello.
Rincuorati entrambi da quel contatto che fu
per tutti e due come l’abbraccio affettuoso di una madre e di un padre cui il
destino aveva impedito di veder crescere i loro due gioielli, si addentrarono
in quello che pareva loro il passaggio per un’altra dimensione. I loro passi si
fecero ancora più lenti, cauti, solenni, come se stessero seguendo la
processione di una cerimonia sacra.
Fu ancora il più piccolo ad incrinare il
religioso silenzio, ma non stonava con esso il canto angelico che le
fanciullesche labbra sempre sapevano spontaneamente impostare, in un magico accordo
di armoniche note, qualunque fosse l’emozione, gioiosa o sofferta, che esse
volessero esprimere. In quel momento fu solo stupore reverenziale dovuto ad un
miracolo che non era in grado di spiegarsi:
“Io questo posto… credo di averlo già visto…
forse in un’altra vita…”
Ikki, turbato e scosso, si guardò intorno:
ai due lati del viale i crisantemi sembravano aprire un varco al loro
passaggio, quasi volessero invitarli in un universo di cui solo a loro era
concessa la rivelazione. Il bianco e il fucsia dei fiori, il verde delle loro
piantine, si fondevano in un melodioso arcobaleno dalle tinte cupe e soavi a un
tempo; il loro profumo straniante, se profumo poteva chiamarsi, gli solleticava
le narici come droga inebriante, un effluvio dal quale si lasciò volentieri
trascinare, con una spontaneità di intenti e desideri che, aveva creduto fino a
quell’istante, non gli apparteneva più da un pezzo. In una sorta di onirica
visione, rivide quello stesso viale, un’altra realtà che lì per lì gli sembrò
parallela a quella materialmente vissuta ma l’attimo successivo ogni cosa gli
fu chiara: si trattava del visionario ritorno di un evento passato, tanto
lontano nel tempo eppur così caro al suo cuore, fino a fargli troppo male
perché fosse sopportabile. Un uomo e una donna... attraversavano il viale
tenendosi per mano, come attualmente lui e suo fratello; ciascuno dei due
teneva tra le braccia un bambino, il più grande aggrappato al collo della madre
mentre, con una manina, cercava di attrarre, con incomprensibili vocalizzi
misti a qualche parola di senso compiuto, il neonato profondamente addormentato
contro il petto del padre… padre adottivo, aggiunse la mente di Ikki senza
ritenerlo, al contempo, un dettaglio importante, perché quell’uomo era, senza
dubbio alcuno, “papà” e nessuno avrebbe dovuto permettersi di mettere in
dubbio, davanti al ragazzo, tale verità.
L’uomo e la donna alternavano le reciproche
occhiate di due innamorati a quelle, altrettanto intrise d’amore, riservate ai
loro due tesori; quel quadretto familiare trasmetteva, nel contemplarlo, una
tale letizia che Ikki fu costretto a portarsi una mano al petto e a lottare,
per soffocare in gola il groppo di pianto che risalì improvviso e violento. Non
voleva far preoccupare Shun ma sentì più pesante che mai, su di sé, il fardello
di rimpianti che lo opprimeva da sempre, il pensiero di ciò che la loro vita
avrebbe potuto essere e non era stata, di quella felicità che il suo povero
fratellino, la sua stella, il suo amore, la sua vita, avrebbe meritato di avere
e che gli era stata spietatamente negata. In nome di Giustizia, gli era stato
ribadito più volte, fino alla nausea ma vi era giustizia in ciò che era stato
loro imposto? Vi era giustizia in ciò che una creatura innocente ed immacolata
come Shun aveva dovuto sopportare?
Ingoiando la rabbia disperata, le maledizioni
che, a intervalli regolari, ancora rischiavano di incastrarlo in un labirinto
di sconfortato cinismo, si impose di mettere a tacere le proprie pericolose
contorsioni mentali; in fondo, forse proprio in virtù di ciò che era, Shun era
stato donato a quella causa che, nonostante tutti gli sforzi che avevano fatto,
nonostante l’attuale, incondizionata dedizione, in alcuni momenti sembrava
tanto più grande di loro; forse davvero la purezza di Shun rappresentava, più
di ogni altra cosa, la speranza di cui i sacri guerrieri si facevano portavoce,
nel susseguirsi di secolari generazioni. Ma quanto era crudele e caro il prezzo
che tale servigio aveva richiesto? Shun non avrebbe potuto, in egual modo,
rendere il mondo migliore con la sua sola presenza, senza che fosse necessario
violentare atrocemente la sua natura benevola, immergendolo nel dolore e nel
sangue delle ferite subite e di quelle che era stato costretto ad infliggere?
“Basta Ikki!” avrebbe voluto inveire contro
se stesso. Shun era forte, Shun aveva affrontato e superato quella tortura
ininterrotta più volte e continuava coraggiosamente a percorrere la strada che
il destino aveva tracciato per lui ancor prima che nascesse, il coraggio che aveva mostrato, Ikki ne era
certo, non lo possedeva nessun altro, neanche lui stesso. E, se al punto in cui
erano, qualcuno avesse chiesto al suo fratellino di rinnegare gli ideali in
cui, nonostante tutto, credeva fortemente, Shun si sarebbe indignato, si
sarebbe sentito umiliato e sconfitto; se gli si fosse preventivata un’esistenza
normale, non l’avrebbe accettata, non avrebbe potuto accoglierla con gioia
finché avesse ritenuto che il suo dovere era un altro, finché avesse temuto
che, per il suo abbandono,
Per questo, a volte, Ikki si riscopriva a
desiderare di non aver mai conosciuto Athena e i sacri guerrieri: in tal modo
sia lui che Shun avrebbero potuto godere quella quotidianità che il suo
fratellino, con la grazia e la generosità che gli erano propri, non avrebbe mai
condotto banalmente.
Ma il senno di poi era inutile, non avrebbe
giovato a nessuno, tanto meno a Shun.
Non se n’era reso conto subito ma da un bel
po’ stava osservando il fanciullo al suo fianco il quale, infine, non poté fare
a meno di percepire su di sé la fissità di quello sguardo e si voltò; colpito
dall’adorazione assoluta che probabilmente lesse negli occhi color della notte,
arrossì vistosamente e, vinto dall’imbarazzo, rivolse nuovamente altrove
l’incantevole viso di bimbo troppo timido per sopportare con fermezza
l’ammirazione altrui.
“Un’altra vita…” ripeté un’altra volta, come
se ribadendo quel concetto volesse sviare l’attenzione da sé, mentre i suoi
occhi raggiunsero un punto lontano, probabilmente immaginario, davanti al loro
cammino “… o forse… un ricordo lontano…”
Ikki annuì, lasciando che anche il suo
sguardo vagasse fino a quel punto fittizio e soggiunse:
“Non cambia poi molto…”
Annuendo a propria volta, Shun rivolse lo
sguardo a terra e, durante il percorso che restava da compiere, nessuno dei due
parlo più, ma il contatto delle loro mani, l’effluvio dei crisantemi, li
rassicuravano e li indirizzavano lungo la via; non avrebbero più dovuto
chiedere indicazioni a nessuno, sempre che fosse davvero possibile incontrare
qualcun altro in quella personale dimensione che li aveva catturati e
trascinati con sé; era ancora il mondo concreto quello in cui si trovavano
immersi o qualche sogno pesantemente reale?
In ogni modo, non avrebbero sbagliato strada
e neanche temevano di sbagliarla, mentre avanzavano con naturalezza e a passo
lento ma sicuro verso un passato che avrebbe forse permesso loro di
ricostruire, più di quanto avevano potuto fare fino a quel momento, la loro
storia comune.
Infine si fermarono entrambi, senza che
sentissero il bisogno di consultarsi o confrontarsi sulla questione. Compirono
insieme l’ultimo passo e insieme, in un interminabile istante, smisero di
respirare.
La casa era davanti a loro, un edificio
semplice, i muri un po’ scrostati, una scala esterna che conduceva a quello che
poteva essere un solaio, nel sottotetto. Davanti alla porta, ai due lati del
viale d’accesso, una serie di siepi ben curate, chiaro indizio della presenza
di qualche attuale abitante; in un istante di ebbrezza e smarrimento, Ikki
pensò che la mamma era stata brava, come al solito, a rendere accogliente quel
loro nido familiare, poi si riscosse e credette di svenire per quel bizzarro
gioco mentale, mentre un’ondata di gelosia ed irrazionale sentimento di
possesso gli salì come un fiume in piena dalle viscere. Nel frattempo, il cuore
di Shun era stretto in una morsa di soffocante nostalgia di qualcosa che per
lui, ancora, non aveva un nome o una vera e propria identità.
Gli occhi del fratello maggiore percorsero
la parete che si innalzava davanti a loro e salirono, finché il ragazzo dovette
compiere uno sforzo estremo per inghiottire il groppo che gli si era formato in
gola: si mise a fissare, come in estasi, un terrazzino, piuttosto piccolo,
riparato da una tettoia e circondato da una ringhiera arrugginita e
all’apparenza cadente. Chiunque abitava lì, con ogni evidenza, non era
abbastanza agiato da permettersi una completa ristrutturazione e d’altronde,
chi avesse avuto disponibilità economiche anche poco più soddisfacenti non
avrebbe scelto quella casa; nonostante tutto, la cura e la pulizia atte a
rendere l’abitazione più presentabile, almeno a giudicare dall’esterno, erano
palesi.
Il ragazzo più grande non riusciva a
distogliere lo sguardo da quel balcone dal quale, quattordici anni prima aveva
osservato, forse per la prima volta con sentita attenzione, gli astri che
punteggiavano la notte… e mai erano stati più belli dopo che li aveva visti
riflessi negli occhi di quella che era la sua stella più preziosa, già da allora,
quando da pochi giorni illuminava l’universo con la sua luce appena sorta.
Mentre faticava a trattenere le lacrime,
Ikki lottava disperatamente per non lasciar straripare l’angoscia, si aggrappò
alla mano del fratellino, annaspando alla ricerca di una salda certezza in quel
naufragio dell’anima; la sua stella era ancora lì, in fondo, rifletté
sospirando di sollievo, era svanito per sempre quel passato di effimera gioia e
non sarebbe potuto tornare ma loro due erano ancora insieme, alla faccia di chi
non ci avrebbe mai creduto, di chi li aveva sempre canzonati, fin da piccoli,
per quel loro legame così strano, a dispetto di tutto e tutti loro erano lì,
vivi, uniti più che mai, più forti che mai.
Per un fragile istante gli parve di
barcollare, di perdersi, una voragine si aprì sotto i suoi piedi e lui iniziò a
precipitare ma fu proprio quel contatto a riportarlo in superficie, la voce di
Shun che lo attirava verso di sé fu come uno strattone che lo ricondusse al
presente e alla lucidità di pensiero:
“Ikki-Niisan!”
Fu come risorgere da un coma profondo ma
bastarono quegli occhi, tanto grandi da costituire una luce guida per le anime
smarrite e Ikki in essi si concentrò, così come nell’ansia evidente di
quell’espressione da cucciolo timoroso; evidentemente il fratellino si era reso
conto che qualcosa non andava.
“Si stava preoccupando per colpa mia” si
rimproverò mentalmente Ikki “Avevo promesso che non gli avrei più dato motivo
per preoccuparsi di me… non infrangerò più questa promessa.”
E così gli sorrise, tentando in tutti i modi
di mostrarsi rassicurante, ma non era facile ingannare quel cuore fortemente
solidale ed empatico con i risvolti emozionali di tutti gli esseri viventi. E
infatti, quando il fanciullo rispose al suo sorriso sorridendo a sua volta, il
fratello maggiore comprese che, anziché trasmettere sicurezza come avrebbe
voluto, quella sicurezza l’aveva ricevuta dallo spirito saldo del suo Shun.
L’improvviso trillare di un abbaio da
cucciolo, ricordò loro di essere circondati da un presente ben definito, che
richiedeva attualmente la loro partecipazione, in modo che potessero
ricollegarlo al passato, ricostituendo una catena i cui anelli adesso erano
confusamente sparsi nella loro incerta memoria. La porta si aprì e un batuffolo
bianco, le orecchie dritte e la coda folta arricciata sulla schiena, si
precipitò verso di loro; con un gridolino estasiato, Shun si piegò sui talloni,
permettendo al volpino festoso, inebriato
da quell’inattesa prospettiva di coccole, di saltare tra le sue braccia. Dietro
al cagnolino spuntò una signora, una giovane donna di poco più di trent’anni,
il viso gioviale ed aperto, mentre richiamava il fuggitivo con un sorriso
radioso:
“Pico, torna immediatamente qui! Ti sembra
il modo di assalire la gente?”
Shun si era rialzato, continuando a tenere
in braccio il volpino che si agitava tutto, nel tentativo di battere il personale
record di lappate al secondo e il fanciullo non si ritraeva mentre rivolgeva il
proprio sguardo alla nuova arrivata. Anche Ikki la guardò, incapace ancora di
stabilire esattamente dove si trovasse e cosa stesse accadendo.
“Vi prego di scusarlo” la donna parlò ai due
fratelli, profondendosi in inchini, senza abbandonare il proprio sorriso
disarmante “Vi ho visti per caso dalla finestra, mentre guardavate la nostra
casa e volevo venire a chiedervi se avevate bisogno di qualcosa… e non sono
riuscita a non farmi precedere da questa peste, non ho fatto in tempo a
fermarlo.”
“Non si preoccupi” rise Shun, felice come un
bambino “E’ adorabile!”
Le attenzioni di Ikki furono nuovamente
calamitate dal fratellino; era talmente bello vederlo così allegro e vederlo,
anche se per pochi istanti, calarsi perfettamente nelle sembianze di un
ragazzino di quattordici anni pronto a godere delle piccole gioie quotidiane.
Il miracolo di quella casa stava già per compiersi dopotutto? Inoltre, la
gelosia di Ikki era in parte svanita, come se una voce interiore gli suggerisse
che la loro vecchia casa e i loro ricordi erano nelle mani di retti custodi,
che per una volta il fato aveva agito con il chiaro intento di mostrarsi
generoso e di donare a due cuori smarriti la possibilità di trovare, nel nido
al quale tornavano dopo anni di assenza, qualcuno che li avrebbe condotti per
mano e li avrebbe accolti ricreando quel calore di cui avevano bisogno e che li
avrebbe aiutati a ricostruire il medesimo calore che i precedenti abitanti
avevano lasciato anni prima; si trattava, forse, del primo anello mancante?
Anello necessario per ricongiungere i due estremi della catena spezzata?
Seduti intorno al tavolo, dopo che la nuova
padrona di casa presentatasi con il nome di Kyoko li aveva invitati ad entrare, i due fratelli
raccontarono quello che poterono; tacquero ovviamente su Athena e i sacri
guerrieri, limitandosi a far sapere alla signora che, moltissimi anni prima,
loro avevano vissuto in quella casa, che dopo averla lasciata per trasferirsi
in Germania, erano rimasti orfani di entrambi i genitori in un incidente
stradale e che, desiderosi di rimettere insieme i tasselli di un’infanzia
trascorsa in modo caotico e complicato, con l’aiuto di un’amica, erano
riusciti, il giorno precedente, a risalire all’indirizzo esatto. Fu Shun, ben
consapevole delle difficoltà che Ikki aveva nel rapportarsi con altre persone,
a raccontare tutto con la sua amabile voce in grado di far sciogliere anche il
cuore più duro e la donna non rimase esente dall’inconsapevole malia del
gentile fanciullo; non gli staccava gli occhi di dosso mentre parlava e la
partecipazione che provava nell’ascolto, era resa evidente dalla commozione
degli occhi che si facevano sempre più
lucidi ad ogni parola pronunciata dal ragazzino. Shun non assunse un
atteggiamento vittimista, si limitava a narrare i fatti con dolcezza, perché la
loro ospite comprendesse i motivi che li avevano spinti fin lì e potesse
fidarsi di loro. Non tralasciò di aggiungere quanto lui fosse riconoscente nei
confronti del suo Ikki-Niichan che, pur essendo tanto piccolo egli stesso, si
era preso cura di lui, come un vero padre, un padre bambino che tuttavia non
gli aveva fatto mancare nulla.
Alla fine lei annuì; per nascondere le
lacrime che non poteva fare a meno di versare, diede loro le spalle e la videro
rovistare tra frigorifero, credenza e fornelletti. Quando tornò, posò davanti
ai ragazzi un invitante the bollente, con biscotti e dolcetti di ogni tipo.
“Non doveva disturbarsi” si schernì Shun ma,
dietro le insistenze di Kyoko, alla fine accettò volentieri quella
dimostrazione di ospitalità mentre, nel frattempo, continuava ad accarezzare il
pelo morbido di Pico che non aveva più voluto saperne di scendere dalle sue
ginocchia.
Dal canto suo Ikki, profondamente
imbarazzato, non pronunciò una parola, finché la donna non gli lasciò altra
scelta, indirizzandosi direttamente a lui, piegando il capo davanti al suo, facendo
in modo che i loro sguardi fossero costretti ad incrociarsi mentre, con una
mano, gli porgeva un biscotto:
“L’ho fatto io; modestia a parte sono
bravissima a cucinare e sono anche vanitosa, quindi sarei lieta di avere il tuo
apprezzamento.”
Nel parlare sorrideva, di quel suo sorriso colmo
di rassicurante attrattiva; Ikki deglutì e per un momento temette che ogni sua
difesa psichica crollasse senza possibilità di recupero. Il desiderio di
chiamarla “mamma” divenne così insopprimibile che ebbe paura di cadere vittima
di un’insensata follia. In realtà la signora Kyoko non assomigliava a sua madre
fisicamente, era anzi la tipica donna giapponese, dai capelli neri e gli occhi
a mandorla, un modello decisamente lontano dall’avvenenza irlandese della quale
Shun era lo specchio perfetto. Eppure, aspetto fisico a parte, era certo di
poter affermare che la sua mamma era stata del tutto identica a questa giovane
donna, comune se non insignificante nell’aspetto fisico ma non certo negli
incantevoli modi di fare.
Il volto in fiamme, come mai gli era
capitato prima d’ora, Ikki allungò timidamente una mano per prendere ciò che
gli veniva offerto e, sentendosi pesantemente osservato dalla condiscendenza
affettuosa della donna, portò il biscotto alle labbra; al primo morso, un
torrente di dolcezza scese a lenire il tormento del cuore, tanto che si chiese
se per caso, nella ricetta, non fosse compreso un qualche misterioso componente
benefico, ma era più portato a credere che tale influsso a quelle deliziose
cibarie lo avessero trasmesso le mani della cuoca, mani di mamma desiderosa
solo di portare felicità a coloro che amava, fosse anche con un gesto
apparentemente così semplice come la preparazione di qualcosa di gradevole.
“E’… buonissimo…” si trovò a sussurrare
senza neanche accorgersene, mentre rintanava la testa tra le spalle e i suoi
occhi vagavano da un punto all’altro del tavolo per sfuggire all’immaginaria
minaccia di un imbarazzo che non sapeva mettere a tacere.
Quando giunsero alla fine dello spuntino
fuori programma, Shun prevenne ogni mossa della loro ospite e si alzò,
nonostante le proteste della donna, per rimettere tutto in ordine; subito dopo
si offrì di lavare tazze e cucchiaini, senza voler sentire ragioni, riuscendo
al tempo stesso a dare a Pico, che non lo lasciava neanche per un attimo, tutte
le attenzioni che richiedeva.
Intanto, mentre il fanciullo si teneva in
tal modo occupato, la donna si sedette accanto ad Ikki e, prima che il ragazzo
potesse rendersene conto, gli mise una mano sulla spalla:
“E’ molto bello quello che hai fatto e stai
facendo per il tuo fratellino, ti ammiro molto…”
Qualcosa nel petto di Ikki si incrinò, fino
a fargli male e una voce molto simile a quella appena udita risuonò nella sua
mente, carezzevole, protettiva, rimembrandogli una promessa che gli aveva richiesto
la proprietaria di tale voce, circa
quattordici anni prima:
“Il tuo fratellino è speciale, voi siete
speciali, perché siete fratelli e al mondo non c’è nessuno come voi… abbi cura
di lui, sempre, finché avrete vita…”
Un forte giramento di testa lo fece
barcollare; aveva giurato e aveva infranto il giuramento, non una sola volta.
Scosse il capo, vinto nuovamente dall’ira senza controllo che provava verso se
stesso:
“Non ho fatto nulla, non merito nessuna
gratificazione.”
Si pentì subito della durezza che aveva
infuso nella frase, temeva di aver offeso quella donna gentile e gli sarebbe
dispiaciuto ma proprio non era mai riuscito e non riusciva tuttora a dominare
il proprio brutto carattere; invece lei non mutò la propria espressione e il
sorriso ancora aleggiava sul suo volto, sembrava comprendere davvero le
sfumature del cuore di Ikki.
“Come se mi conoscesse da sempre e potesse
leggermi dentro” si trovò a pensare il ragazzo e, nello stesso istante, una
mano di Kyoko si posò tra i suoi capelli. Era troppo per Ikki; forse la
fantasia e i suoi sogni gli giocavano brutti scherzi, forse era stato davvero
troppo piccolo per ricordare tanto chiaramente anche solo alcuni particolari di
tanti anni prima eppure… quello era il modo in cui sua madre era solita
accarezzarlo, mentre cantava le sue ballate irlandesi per farlo addormentare o
per calmarlo quando, già allora, un cosino sempre sporco e graffiato per quanto
precoce di fisico ed intelletto, si lasciava prendere dal nervosismo; non era
mai stato un bambino tranquillo e solo la madre sapeva controllare e dominare
quella fiamma interiore che era nata insieme a lui.
Per poco non si mise ad urlare; doveva
smetterla, non poteva ricordare tutte quelle cose, era la sua mente che creava
fantasmi e illusioni per rendere tutto più difficile e prendersi gioco di lui.
L’esplosione di una risata lo riscosse e lo
spinse a voltarsi, macchinalmente, verso il fratellino che da tanto non gli
appariva così radioso, come se improvvisamente potesse gustare, tutte insieme,
le soddisfazioni innocenti di un’infanzia ritrovata, anche se per poco.
“Ah, se potessi donarti tutto questo per
sempre angelo mio.”
Mentre formulava tra sé quella preghiera
che, sapeva, non sarebbe stata mai ascoltata, si immerse del tutto nella
giocosa lotta che il fanciullo aveva intrapreso con il cagnolino il quale,
sentendosi trascurato da troppo tempo, aveva preso d’assalto l’orlo inferiore
dei pantaloni bianchi, ben deciso a non lasciarsi scappare quell’essere umano
così ben disposto a lasciarsi piegare dai suoi capricci di cucciolo bisognoso
d’attenzione. Le labbra di Ikki si piegarono in un sorriso, era impossibile
resistere a quella scena deliziosa; quando infine Shun venne trascinato a terra
dall’impeto del gioco e Pico si mise letteralmente a calpestargli la nuca, il
fratello maggiore si alzò e andò verso di loro, lasciandosi finalmente del
tutto andare all’ilarità che non era più in grado di trattenere:
“Siete una coppia perfetta, vi assomigliate
come due gocce d’acqua!”
Ragazzino e cane riemersero dalla zuffa, il
primo tenendo tra le mani il batuffolo di pelo e rispondendo con una divertita
e disarmante linguaccia.
Kyoko era rimasta in disparte e osservava il
tutto visibilmente compiaciuta e lieta di poter offrire ai due fratelli
sfortunati quei momenti di spensieratezza che probabilmente mai avevano
conosciuto; infine si accostò e lambì lievemente il braccio di Ikki con le sue
dita gentili:
“Vado un attimo fuori con Pico che deve fare
la sua passeggiata; voi restate un po’ qui da soli e girate per la casa, senza
fare complimenti e prendetevi tutto il tempo che desiderate.”
Visibilmente commosso, Shun chinò il capo in
segno di ringraziamento e questa volta Ikki seguì il suo esempio e lo fece con
una gratitudine tale che Kyoko accentuò per un attimo il sorriso e annuì verso
di lui, sfiorandolo ancora con una carezza, prima di allontanarsi e raggiungere
la porta d’ingresso.
“Pico! Qui bello!”
Si voltò ancora per un attimo, invitando il
cane a raggiungerla, prese il guinzaglio appeso accanto allo stipite interno e,
seguita dal vivace animaletto scomparve oltre la soglia, lanciando un ultimo
saluto.
Rimasti soli, i due fratelli non si mossero
subito, ancora incerti, chiedendosi se quella che vivevano fosse la realtà,
tanto appariva confusa con il sogno, o forse con il passato… o semplicemente,
quella singolare atmosfera, era il risultato dato dal rinsaldarsi degli anelli
di quella catena che fluttuava nel tempo? Adesso che la casa era a loro
completa disposizione e non chiedeva altro ai ragazzi che l’immergersi in essa,
pronta ormai a restituire a tutti e due la loro storia, non sapevano da che
parte cominciare, i loro piedi erano inchiodati, così come le menti e i
pensieri. Il silenzio era scandito dal ticchettio monotono e straniante di un
orologio appeso al muro del soggiorno e dallo sgocciolio insistente del
lavello. Fu quest’ultimo particolare a riscuotere Shun che, scostandosi il
solito ciuffo ribelle dal naso, si diresse verso il lavabo e girò con forza il
rubinetto, finché la nenia snervante della goccia d’acqua si ridusse e pian
piano scomparve.
“L’avevo chiuso male” sospirò nervosamente
ma non era certo dovuta a quell’insignificante disattenzione la tensione dei
del suo spirito in tempesta. Aveva i nervi talmente a fior di pelle che, quando
la mano di Ikki si posò sulla sua spalla, fece un balzo, trattenendosi a stento
dall’urlare.
“Cerca di rilassarti, ti prego, non
crollarmi proprio adesso.”
Ikki si sentì egoista dopo aver pronunciato
quella supplica; dal momento esatto in cui avevano intrapreso insieme
quell’avventura Shun si era rivelato il più forte, sostenendolo con la sua
sola, generosa presenza e adesso che aveva mostrato un primo attimo di
cedimento, ora che forse richiedeva al fratello maggiore di fungere almeno per
un po’ da appoggio, quest’ultimo non glielo permetteva, pregandolo con il tono
di chi, in preda al terrore, pretende di essere costantemente condotto per
mano. Per questo l’istante successivo, costrinse il fratellino a voltarsi, fino
a guardarlo in faccia, per potergli sorridere e strizzare l’occhio con fare
complice. I lineamenti contratti di Shun si distesero e ricambiarono, grati, il
sorriso, quindi il fanciullo nascose il volto sul petto del fratello,
crogiolandosi per un po’ in un abbraccio che non gli venne negato.
Ikki sospirò di sollievo; finalmente era
riuscito ad assumere il ruolo del fratello maggiore ed a mantenere, per la
prima volta nel corso di quella giornata infinita, quella lontana promessa che
fece a sua madre.
Di comune accordo si separarono; ciascuno di
loro doveva compiere un percorso specifico e strettamente personale, per
ricostruire la storia che li aveva voluti uniti e fratelli; si mossero, i passi
di ciascuno in differenti direzioni, a cercare differenti risposte, a scovare
differenti memorie che alla fine avrebbero messo insieme, confrontandosi e
riconoscendole, riconoscendosi essi stessi, una volta di più, fratelli in
completa simbiosi e in perfetta comunione spirituale.
Fu l’istinto a prenderli per mano e a
condurli, ciascuno, verso una meta.
Fu così che, mentre Shun esplorava
l’interno, i passi di Ikki si diressero su per le scale e, infine, davanti alla
porta che dava sul balcone; la aprì, immergendosi nel primo imbrunire. Il sole
non era ancora scomparso ma il pomeriggio era avanzato e cominciava a smarrirsi
nelle ombre della sera che progredivano implacabili. Ikki chiuse gli occhi,
avrebbe voluto che la notte scendesse, in quell’istante, per ricreare le
immagini che presero a scorrere e a vivere, ora nitide, nel suo cuore. Poi poté
riaprire gli occhi, il presente non condizionava più nulla, bastava la sua
memoria non più ingannevole a ricostruire il tutto. Nessuno scherzo
dell’immaginazione questa volta, fu assolutamente certo della verità concreta
di ciò che stava rivivendo.
Non gli sembrò neanche strano di scorgere,
nell’angolo accanto alla porta, una panca, nel punto esatto in cui era
posizionata quattordici anni prima; si sarebbe forse stupito nel vedere il
proprio sorriso colmo d’amore, probabilmente da troppo tempo non sorrideva
così, forse non lo aveva mai più fatto da quand’era bambino.
I suoi occhi intrisi di sensazioni
nostalgiche e calde al tempo stesso, fissavano quella panca, una mano scese ad
accarezzare lo schienale, con un’affettività tale da far pensare che stesse
accarezzando un essere vivente. Non poteva essere la stessa panca, ne era
consapevole ma in fondo, in quel momento, non faceva troppa differenza.
Nella sua mente, in tal modo, non toccava il
legno nel quale era forgiato quel rozzo sedile, ma la donna che vi era seduta
sopra e poi il bimbo, che giaceva tra le sue braccia, gli occhioni da cucciolo
enormi, spalancati a osservare quel mondo che ancora non conosceva; povera
creatura innocente, pensò Ikki, mentre lacrime silenziose presero a scivolare
lungo le sue guance, come poteva sapere, allora, cosa quel mondo gli avrebbe
riservato?
“Ma non lo sapevo neanche io” sussurrò in un
soffio “e anche io ero piccolo e innocente, allora…”
E le sue carezze si rivolsero all’altro
bambino, poco più grande, seduto ai piedi dell’uomo dall’aspetto bonario e
felice in quegli attimi di assoluta gioia.
“Papà…”
Nessuno di loro immaginava in cosa si
sarebbe mutata la loro perfetta esistenza, nessuno di loro immaginava che
quella gioia, di lì a poco, sarebbe stata infranta senza alcuna pietà.
Una meteora attraversò in quel momento il
cielo immaginario della sua memoria, una scia di commozione mista a speranza
pianta dalla costellazione di Andromeda, brillante più che mai in quella
lontana notte settembrina, una fugace scintilla di stella, specchiatasi insieme
agli altri astri negli occhi del bimbo in fasce che sembravano contemplarli e
accoglierli in sé nella loro immacolata innocenza… e quella lacrima di infinito
battezzò il bambino…
“…il mio Shun…”
Le palpebre di Ikki, serratesi sull’ultima
immagine del se stesso di tanti anni prima saltellante intorno al fratellino
che aveva trovato il proprio nome, si aprirono nuovamente, proprio mentre
quelle del neonato Shun si chiudevano nel placido sonno dell’infanzia.
Ikki si portò una mano alla fronte, colto da
un incontrollato capogiro che rischiò di farlo cadere e lo costrinse a
sorreggersi, con l’altra mano, al muro davanti a lui, soffocando un gemito, di
disperazione, di nostalgia, di rabbia ma forgiato altresì in tante altre
emozioni a stento represse.
Il fanciullo dagli occhi di bosco e dai
capelli d’oro era rimasto dentro la casa, dapprima indeciso su cosa avrebbe
fatto ma il cuore e l’istinto erano le guide migliori e furono le uniche voci
che fu disposto ad ascoltare. Dopo aver salito le scale insieme al fratello,
mentre quest’ultimo imboccava la direzione che lo avrebbe condotto all’esterno,
Shun si avviò nella direzione opposta, avanzando in punta di piedi, quasi come
se quel luogo fosse un tempio e lui un devoto preoccupato di non offendere le
presenze sacrali che dimoravano in esso. Si era anche tolto le pantofole che
lui ed Ikki avevano indossato sulla soglia della casa, perché i passi
risuonassero ancora più delicati, le calze bianche frusciavano appena sul
pavimento di legno scuro, come una piacevole carezza intrisa d’affetto.
Un po’ più avanti lungo lo stretto corridoio,
un raggio di luce tracciava una strada per lui e i granelli di polvere danzanti
in quel barlume erano per il fanciullo altrettanti folletti usciti da una fiaba
e lì giunti a prenderlo per mano; forse l’avrebbero condotto in uno di quei
regni incantati nei quali gli esseri umani restavano per centinaia di anni,
convinti che fossero passati solo pochi giorni, forse non sarebbe più riuscito
a tornare indietro dopo aver deciso di intraprendere quella via.
Ma il desiderio di sapere, di scoprire, di
ritrovarsi, superava ogni timore irrazionale, così seguì i folletti, seguì il fascio
luminoso e svoltò attraverso una porta aperta; si fermò sull’uscio, a
contemplare il regno incantato nel quale era stato introdotto. Il bagliore
penetrava da una finestra abbastanza ampia da lasciare che la luce diurna, fino
all’ultimo, lottasse ad armi pari con l’oscurità, dando origine ad una penombra
che sfumava i colori in una morbida tavolozza di tinte delicate. La stanza era
abbastanza grande se si teneva conto delle dimensioni ridotte di tutta la casa
e, accostati alle pareti perpendicolari alla porta e alla finestra, c’erano due
lettini, chiaramente destinati ad accogliere il sonno di due bimbi. In
quell’ambiente abbastanza tradizionale, Shun si sarebbe aspettato di trovare
dei futon ma al tempo stesso sentiva che andava bene così… neanche lui ed Ikki
dormivano nei futon da piccini…
Scosse il capo velocemente, per scrollare
via l’ondata di smarrimento.
“Ma smettila” si rimproverò mentalmente
“Come posso saperlo? E comunque perché dovrebbe essere come allora?”
La sua attenzione però non era attratta
tanto dai giacigli ordinati, con i loro piumoni variopinti, quanto dallo
scatolone che campeggiava nel centro della stanza; in effetti non vi era molto
altro, il mobilio si riduceva ad un piccolo armadio, a due comodini e a due
tavolini a misura di bambino appoggiati contro il muro vicino alla finestra;
quell’arredamento decisamente spoglio accentuava l’ampiezza della stanza,
permettendo a quel contenitore dalle rispettabili dimensioni di concentrare su
di sé l’attenzione non appena si sbirciava dentro. Sembrava messo lì apposta
per invitare Shun a considerarlo, proprio come il raggio di luce, i folletti di
polvere, ogni elemento un tassello atto a comporre il puzzle che il fanciullo
aveva bisogno di completare.
Un passo dopo l’altro, lentamente, con la
sensazione di trovarsi su un filo sospeso al di sopra di un baratro senza fondo
e proprio per questo avanzando con la massima cautela, si diresse verso lo
scatolone e lì si chinò, con timore reverenziale, terrorizzato al solo pensiero
di sfiorarlo, forse perché gli sembrava di violare qualcosa che non gli
apparteneva… o che non gli apparteneva più… e quest’ultima sensazione gli
provocò una fitta straziante al cuore. Portandosi una mano al petto, credette
per un istante di svenire e serrò le palpebre, mentre gli occhi prendevano a
lacrimare.
Quando li riaprì, sussultò alla vista di
qualcosa che ancora non aveva notato… avrebbe giurato a se stesso che non ci
fosse prima… il momento in cui aveva chiuso gli occhi aveva assunto un qualche
particolare significato? Una sorta di spartiacque, di linea immaginaria tra il
presente e il passato?
“Sto vaneggiando…” mormorò, mentre allungava
una mano tremante a sfiorare ciò da cui non riusciva a distogliere lo sguardo
“C’era sicuramente anche prima ma forse… forse non ero ancora pronto… a
notarlo…”
Era un coniglietto di pezza, verde,
vistosamente vecchio e logoro; da molto tempo doveva aver perso la propria
originaria morbidezza. Al posto di uno dei due occhi vi era un bottone nero, un
tentativo di rappezzarlo al meglio dopo che, evidentemente, aveva subito un
incidente per mano di un bambino maldestro.
La scena che si dipinse nella mente di Shun
fu così nitida che il fanciullo credette di vederla prendere consistenza,
attimo dopo attimo, sotto il suo sguardo in preda ad un dolce smarrimento;
credette di poter toccare i due bimbi che giocavano seduti a terra, fantasmi
sulla tela tessuta dal tempo, spiriti testimoni di eventi dall’incerto
realismo, numi tutelari di ricordi che chiedevano di essere riafferrati.
Il più piccolo, un batuffolo nella sua
tutina rosa, i riccioli d’oro che incorniciavano un visetto bianco e
sorridente, gli occhi un po’ socchiusi, immersi nell’affetto che le sue
braccine stavano donando al coniglietto, verde come le sue iridi dal colore
sicuramente particolare in quella zona della Terra nella quale gli abitanti si
distinguevano per tutt’altre caratteristiche fisiche, si dondolava cullandosi
da solo e cullando, al contempo, quel coniglietto che per lui era sicuramente
il suo cucciolo in carne ed ossa. Il pupazzo era ancora intatto, pulito,
soffice, gli occhi entrambi al loro posto e anch’essi così simili a quelli del
suo minuscolo proprietario.
Il bimbo più grande, lui sì tipicamente
orientale nei tratti, si avvicinò e, un po’ bruscamente, tentò di strappare il
pupazzo dalle mani del piccolo; quest’ultimo, supplichevole, farfugliò alcune
parole incomprensibili per chiunque ma non per Shun… come poteva non
comprendere, il fanciullo, il linguaggio acerbo di quell’esserino vestito di
rosa? Sorrise Shun adolescente… il rosa doveva essere già allora nel suo
destino, colore della sua armatura e del suo caldo cosmo.
No, non poteva non comprendere le parole del
bambino… erano le sue stesse parole in fondo… e si trovò a pronunciarle insieme
al se stesso di tanti anni prima:
“Piano Ikki-Niichan, gli fai male!”
Era troppo tardi; il bimbo più grande afferrò
il coniglietto con una tale energia, stringendo le dita sul muso dell’animale
di pezza che, l’istante successivo, volò all’indietro, ritrovandosi seduto a
terra e stringendo nel proprio pugno uno dei due occhi finti.
Gli interminabili istanti di silenzio che
seguirono avevano un che di agghiacciante; il bambino più piccolo faceva
correre gli occhi, ora sgranati in tutta la loro ampiezza e accesi di miriadi
di umide stelle, dal coniglietto accecato che ancora teneva in mano alla mano
del fratello chiusa sul misfatto appena compiuto. Le labbra del piccolino
intanto tremolavano indizio, insieme al lucore liquido degli occhi di smeraldo,
dell’esplosione di pianto che sarebbe seguita. Gli occhi del fratello maggiore
non erano meno sgranati e terrorizzati, il corpicino scosso dai brividi tipici
dei bambini consapevoli di aver compiuto qualcosa che, nella loro mente
innocente, poteva essere la più terribile delle malefatte.
Al primo strillo del fratellino, il più
grande si mise carponi e, gattonando, avanzò verso di lui, tendendo le braccine
e stringendolo forte a sé mentre sussurrava, con i suoi vocaboli incerti:
“Non l’ho ucciso, non volevo fargli male,
vedrai che ora mamma lo cura.”
E la mamma giunse, bella, i capelli d’oro
che morbidamente danzavano intorno al corpo flessuoso, gli occhi grandi, dal
colore di foresta, come quelli del suo bambino più piccolo; si chinò in un
movimento degno di un’elfa dei boschi e abbracciò entrambi i piccoli:
“Su su, ora mettiamo a posto tutto.”
Dietro di lei avanzò un uomo, l’aspetto del
tipico giapponese; non era particolarmente attraente ma il sorriso amabile, i
lineamenti di un viso palesemente buono, spingevano immediatamente a volergli
bene.
“Che hai combinato Ikki?” rise rassicurante
“Quello che tocchi rompi!”
Quindi si accucciò accanto alla donna e,
mentre lei si incaricava del piccolino, l’uomo
prese in braccio il fratello maggiore, asciugandogli le lacrime che
inevitabilmente erano scese anche a lui:
“Dai, stai tranquillo, non è successo niente
di grave”.
Alla comparsa di quelle due persone, lo Shun
del presente si portò una mano alla bocca, soffocando un singhiozzo:
“Papà… mamma…”
La donna si sedette su una sedia accanto al
lettino che evidentemente apparteneva al bambino più piccolo, circondato da
sbarre imbottite per evitare che il suo proprietario cadesse nel sonno o si
facesse male sbattendo contro la barriera; adagiò il piccolo sulle coperte
morbide e si mise ad osservare il coniglietto con aria da esperta:
“Non ho molto materiale a mia disposizione
ma qualcosa di accettabile si può fare.”
Quindi si rivolse al bambino che, ormai
rassicurato, si era subito alzato, aggrappato con le manine al bordo della
recinzione protettiva, in punta di piedi, gli occhi enormi ed attenti, ancora
tersi e più lustri che mai per il pianto recente ma ora fiduciosi e convinti
che la mamma avrebbe trovato, come sempre, la soluzione giusta:
“Non temere Shun-chan, il tuo coniglietto
sta bene e ci vedrà di nuovo. Sarà anzi ancora più bello e particolare, perché
i due occhi differenti lo renderanno diverso da tutti gli altri coniglietti.”
Anche Ikki si era calmato e scrutava la giovane donna dall’alto della sua
posizione, aggrappato al collo del padre con una mano, mentre si metteva in
bocca il dito della mano libera, rosicchiandoselo nervosamente ma senza più timore, perché la mamma non poteva
sbagliare.
La scena sfumò e gli occhi di Shun
focalizzarono nuovamente solo il coniglietto; non si era reso conto di averlo
toccato, per poi prenderlo, sollevandolo da quello scatolone colmo di
giocattoli; si perse a contemplare quell’occhio sostituito da un bottone nero e
gli sembrò molto più bello dell’altro globo con la sua iride verde, viva e
perfetta. Sfiorò la parte rozzamente riparata con una delle sue dita lunghe ed
affusolate, non lo sfiorò neanche per un attimo il pensiero che l’autrice di
quella riparazione non doveva essere molto portata a cucire, per lui era
l’intervento colmo di amore di un angelo generoso… di una madre…
Non provando più a trattenere il nuovo
singhiozzo che lottava per uscire, si strinse il pupazzo al petto, chinando il
capo sulle ruvide orecchie e dando libero sfogo ad un’autentica invocazione:
“Mamma… papà… vi voglio bene!”
Rimase così, in lacrime, non seppe per
quanto, finché il sogno nuovamente lo rapì, sulle note di una melodia soave,
una ninnananna che lui conosceva molto bene, benché non potesse avere neanche
due anni l’ultima volta che l’aveva udita. Tuttavia seppe che quella era la
voce della sua mamma e che, per far addormentare lui ed Ikki-Niisan, o per
calmarli ogni volta che qualcosa non andava, intonava quelle tenere note con la
sua voce cristallina e dolce, le cui sfumature sembravano appartenere ad una
creatura uscita da una di quelle leggende incantate alle quali solo gli spiriti
puri e gli animi nobili erano ancora disposti a credere.
Non era un canto giapponese; Shun non sapeva
tradurre le parole di quella lingua ma, grazie ai dischi e ai generi musicali
che solitamente era avvezzo ad ascoltare, poté riconoscerla come gaelico o
comunque qualcosa del genere, qualcosa che affondava le proprie radici
nell’antica Europa del Nord.
Aprì gli occhi, certo che ormai il sogno
stesse svanendo del tutto, perché la realtà lo circondava, la stanza era
chiaramente quella del presente, i lettini erano quelli attuali, lo scatolone
ricolmo di giochi decisamente moderni a parte quel pupazzetto verde che ancora
stringeva a sé.
E allora perché il canto non cessava?
Si voltò, le sue iridi di smeraldo più che
mai simili a quelle del bambino che era stato, altrettanto grandi, altrettanto
innocenti ed intense; la sua mamma stava avanzando verso di lui… ma l’immagine
quasi subito si dissolse, per sovrapporsi e fondersi con quella di Kyoko, tanto
diversa e simile al tempo stesso; aveva così poco significato, in fondo,
l’aspetto fisico. Le braccia di Shun scivolarono lungo i fianchi, il
coniglietto si adagiò mollemente sul pavimento ma un arto del pupazzo rimase
prigioniero della mano sinistra del fanciullo che rimaneva inginocchiato,
inerte, a seguire con i suoi occhi immensi e intrisi di lacrime i passi della
donna, sempre più vicini. Lei continuava ad intonare la melodia, anche se non pronunciandone
le parole ma rendendone alla perfezione i complessi vocalizzi e, senza smettere
di cantare, si accovacciò accanto al fanciullo; lui non reagì quando la donna
lo avvolse nel suo abbraccio, attirandolo contro il proprio petto, si abbandonò
semplicemente a quella stretta, come se non avesse desiderato altro in tutta la
propria vita.
Fu per seguire quel canto a lui tanto caro
che Ikki si decise ad abbandonare il terrazzo, sulle tracce sonore di una
melodia caduta nella dimenticanza per troppo tempo. Era una ninnananna di
quelle che solo una madre avrebbe saputo intonare in quel modo, il ragazzo non
aveva più pensato a quel canto, fino a quegli istanti in cui le sue orecchie se
ne erano impadronite e ora continuavano a nutrirsene, insaziabili. Suo
malgrado, una lacrima scese ad accarezzargli la guancia e Ikki neanche provò a
scacciarla.
“Come ho potuto dimenticarla?” si disse,
senza pensare che probabilmente tante cose le aveva relegate nel profondo della
sua anima, non obliate ma nascoste, celate alla sua coscienza perché non lo
facessero soffrire troppo.
I suoi passi erano lenti, un po’ incerti
mentre si avvicinava alla sorgente del canto finché, svoltando un angolo,
giunse nella stanza in cui Shun giaceva tra le braccia di colei che dava vita a
quel motivo antico e fatato, forse composto da qualche elfo centenario,
abitante delle foreste irlandesi, nell’ arcana lingua che nessun umano poteva
comprendere.
Il ragazzo tese una mano ma non osò fare di
più e si immobilizzò così, il braccio teso in avanti, una gamba davanti
all’altra, in un movimento cristallizzato che ne aveva in potenza uno
successivo bloccato sul nascere da una qualche strana malia. E, nonostante non
emise alcun rumore nell’avvicinarsi alle due figure abbracciate, sembrò che la
donna fosse consapevole da molto prima della sua venuta e si voltò a guardarlo,
senza smettere di cantare, come se l’avesse atteso. In una mossa speculare a
quella di Ikki, anche lei tese un braccio, per formulare un chiaro invito senza
bisogno di parole.
“Mamma…”
Pronunciare tale termine e ritrovarsi tra le
braccia della donna, insieme al fratellino, fu tuttuno, come se Ikki non avesse
atteso altro nel corso di tutta la sua vita; non si preoccupò di trattenere i
singhiozzi, l’orgoglioso cucciolo di Fenice singhiozzava come un bambino che
aveva ritrovato la strada di casa dopo essersi smarrito in un incubo e, la cosa
che più lo avrebbe sempre stupito nel ricordare l’episodio, era il fatto che
non se ne vergognasse, che non si sentisse umiliato per quella dimostrazione di
fragilità estrema.
“Quale essere umano, anche molto più vecchio
di me, non proverebbe uno stravolgimento morale nel rivedere per un solo
istante la propria madre, dopo anni di esistenza da orfano?” era la spiegazione
che dava a se stesso e che avrebbe dato anche agli altri se mai avesse avuto
l’occasione o l’obbligo di raccontare la propria esperienza.
La fine del canto che coincise con lo
sciogliersi di quell’abbraccio, fu in un certo senso come una nuova perdita ma
al tempo stesso arricchita dalla consapevolezza di aver ritrovato qualcosa che
non li avrebbe mai più abbandonati. Rimasero inginocchiati davanti a Kyoko che
sorrideva loro con genuina innocenza, come se ciò che era appena accaduto fosse
stato per lei la cosa più naturale del mondo:
“E’ una canzone in gaelico, le parole sono
assolutamente incomprensibili, diciamo che le interpreto liberamente.”
Con una tenera risatina si alzò, li invitò a
prendere le sue mani e loro, ancora in balia del benevolo incantesimo con cui
quella fata li aveva stregati, accolsero spontaneamente quel gesto, mettendosi
in piedi a loro volta, incapaci di distogliere da lei gli sguardi commossi e
rapiti. Li condusse attraverso il
corridoio nella stanza attigua, un’altra camera, quella che lei, probabilmente,
condivideva con il marito; li lasciò sulla soglia e, dopo essersi diretta verso
uno scaffale sul quale erano accatastati ordinatamente dischi in vinile e
compact disc, raccolse qualcosa dall’angolino più nascosto, un oggetto che, in
mezzo a quel materiale musicale dal sapore moderno, sapeva di antico, di
artigianale e proprio per questo intriso dell’inconfondibile poesia propria
solo del materiale d’altri tempi. Si trattava di un vecchio nastro, senza
custodia ma amorevolmente avvolto in uno strato di carta, con l’evidente
intenzione di proteggerlo dagli agenti esterni:
“Io credo che questo appartenga a voi. E’ il
brano originale, non conosco il nome della cantante, vostra madre non l’ha
scritto ma è così bello che tutte le sere lo faccio ascoltare ai miei figli per
farli addormentare. Non preoccupatevi, ne ho un’altra copia, me l’ero fatta
perché non rischiasse di andare perduto.”
Fissarono entrambi la sua mano aperta a
mostrare la musicassetta ma nessuno dei due osava muoversi per prenderla in
consegna; allora Kyoko strinse tra le sue dita sottili il polso di Ikki e lo
obbligò a mostrarle il palmo, dove lei posò solennemente il nastro, tutto
questo senza abbandonare il proprio rassicurante sorriso, non privo di una
certa fermezza.
In quel medesimo istante, un abbaio al piano
inferiore, accompagnato dallo squillante trillo di risate infantili, riportò
tutti e tre allo scorrere naturale del tempo. Kyoko si riscosse e guardò
l’orologio appeso alla parete della camera:
“Ma è tardissimo! Mio marito e i ragazzi
sono già a casa, devo correre a preparare la cena!”
Si avviò verso le scale ma, prima di
imboccare il primo gradino, si voltò ancora verso di loro:
“Naturalmente vi fermerete anche voi, mi
farete felice e anche il resto della mia famiglia non potrà fare a meno di
amarvi… siete un po’ i fratelli maggiori dei miei figli in fondo…”
Sussultarono, colti alla sprovvista da una
tale asserzione, poi si guardarono e scoprirono il sorriso l’uno sul volto
dell’altro; la mano di Ikki si sollevò, si insinuò nella ciocca di capelli che
lambiva la guancia del fratellino e, accarezzandolo, la accompagnò dietro
all’orecchio, attirando il volto del fanciullo contro il proprio petto.
“Non domandiamoci nulla” concluse “lasciamo
che tutto sia così, assurdo e perfetto.”
Il resto della serata trascorse tra
un’ottima cena a base di verdure e tenpura vegetariano e la naturale allegria
di una famiglia unita e serena. I due bambini, Gentaro e Yukiya, erano deliziosi e, siccome il destino aveva
deciso di fare lo spiritoso fino in fondo quel giorno, tra loro vi erano due
anni di differenza, come tra Ikki e Shun e come loro si adoravano
incondizionatamente. Il padre era un uomo benevolo e dolce, non appariscente di
aspetto ma gradevole nei suoi lineamenti cordiali e li accolse con calore,
commuovendosi visibilmente mentre Kyoko gli raccontava la loro storia.
Shun si immerse completamente nei giochi in
cui i bambini e Pico lo trascinavano senza sosta, vittime tutti e tre dell’attrattiva
che il fanciullo inconsapevolmente esercitava intorno a sé e Ikki, che invece
ne era consapevole eccome, si perdeva a guardarlo e a desiderare per l’ennesima
volta, quel giorno, che il suo fratellino potesse giocare e ridere sempre così,
che potesse dimenticare ogni dolore, ogni paura, ogni lacrima pianta per colpe
che non gli appartenevano e delle quali, tuttavia, si faceva costantemente
carico.
Giunse l’ora di congedarsi, con la promessa
di non perdere i contatti e i due ragazzi, allontanandosi da quel piccolo
paradiso che aveva loro ridonato le memorie di un passato ora più vivo che mai
nei loro cuori, si voltarono più volte, a salutare la famigliola che li
osservava dalla soglia; Yukiya, il bambino più piccolo, teneva stretto al petto
il coniglietto verde e appariva pensieroso mentre non riusciva a distogliere
gli occhi dal fanciullo biondo che era stato tanto tenero e gentile con tutti
loro. Infine, mentre i due fratellini erano ormai a parecchi metri di distanza
e non si voltavano quasi più per salutarli, il piccolo spiccò una corsa
improvvisa, con Pico alle calcagna.
“Shun, aspetta!” chiamò con tutto il fiato
che la sua vocetta sottile gli permetteva.
Raggiunto da quell’invito e dagli abbai
concitati di Pico, il fanciullo interpellato si voltò e per poco non cadde
all’indietro quando entrambi i cuccioli di casa gli si catapultarono quasi in
braccio; il bambino si fermò un attimo prima di finirgli addosso, mentre il
cagnetto prese a saltellargli intorno e a raspargli con veemenza i pantaloni
bianchi, tanto che Shun, ridendo, non poté negargli un’ulteriore dose di
coccole. Ma l’istante successivo, la sua attenzione fu attratta dal cipiglio
serioso di Yukiya che, timidissimo, sembrava cercare il coraggio di dire
qualcosa.
“Che cosa c’è?” lo incoraggiò Shun, con la
sua parlata incantevole, alla quale era impossibile resistere, la sua capacità
innata di mettere a proprio agio gli altri era in grado di far passare ogni timore anche
alla più timida delle creature.
Il piccolo abbassò il capo e lo rintanò tra
le braccia sottili che tese in avanti, per portare il coniglio di pezza davanti
allo sguardo di Shun.
“Io credo che lui voglia venire con te!”
esclamò in un fiato, così velocemente che rischiò di mangiarsi le parole ma Shun
comprese benissimo e, dopo un attimo di stupore, sorrise e posò una mano sulla
testolina bruna, invitandola così a mostrarsi, con tutta la profondità dei suoi
occhi neri a mandorla.
“Ma il coniglietto abita con te adesso e
siccome te nei sei preso cura così bene, credo che sia giusto che continui ad
occuparti tu di lui.”
Yukiya lasciò ricadere le braccia ma non si
arrese e scosse veementemente il capo:
“Lui mi ha detto che vuole venire con te!”
Poi, storcendo le labbra come se si fosse
immerso in pensieri profondi e troppo complicati per la sua età, riprese, più
calmo, riflessivo come un piccolo adulto:
“Vuoi sapere cosa mi ha detto? Che siccome
lui è l’unico ricordo che ti resta della tua infanzia, di tuo papà e di tua
mamma, dovrebbe proprio venire con te… io ho ancora tutta la mia famiglia… tu
hai più bisogno di lui di quanto lo abbia io, perché in lui, ogni volta che lo
guarderai, ritroverai qualche nuovo ricordo forse… o forse rivivrai gli stessi
ricordi ma sarà bello guardarlo e riviverli…”
Accorgendosi che stava cominciando a perdere
il filo del proprio discorso, il piccolo pronunciò precipitosamente le ultime
parole poi si zittì, imbarazzato e confuso, le gote arrossate, i lineamenti del
viso atteggiati al broncio disarmante dell’infanzia.
Gli
occhi di Shun si erano inumiditi e il fanciullo non osava rispondere, non
voleva che il bimbo udisse la sua voce arrochita dal pianto; ringraziò
mentalmente il fratello maggiore quando questi gli fece percepire la propria
presenza, posandogli una mano sulla spalla, facendogli udire, l’attimo
successivo, la sua voce calda, carezzevole in quel momento come raramente Ikki
sapeva esserlo:
“Io credo che dovresti accettare,
otooto-kun.”
Così intrapresero a ritroso il cammino lungo il viale di crisantemi, abbandonando il passato per tornare al presente ma sentendosi finalmente completi, come se qualcosa di molto importante fosse stata loro restituita, qualcosa che avevano perso, qualcosa che sentivano da sempre presente dentro di sé ma confusa, impalpabile, nulla più che sogno indistinto ed irreale.
Adesso la storia della loro vita aveva acquistato un senso, la loro esistenza si era fatta più concreta che mai, non avevano perso del tutto il loro passato, come avevano temuto all’inizio di quella giornata complessa ma lo avevano riconquistato definitivamente e potevano stringerlo gelosamente a sé, proprio come il fanciullo di quattordici anni stringeva il suo coniglietto ritrovato, come il ragazzo di sedici teneva tra le dita, celato all’interno della tasca dei pantaloni rossi, il nastro con incisa la ninnananna che la mamma cantava quand’erano piccoli, anelli mancanti di una catena che si era ricostituita del tutto.
Procedevano più sicuri adesso di quanto non lo fossero mai stati, nessuno dei due avrebbe più sbagliato strada perché i volti della madre e del padre erano davanti a loro, a guidarli, a condurli per mano e anche in quel momento i fanciulli li vedevano sorridere nella loro direzione, vedevano i loro volti fare capolino tra gli astri che si schiudevano per loro e la luna illuminava il sorriso dei genitori, orgogliosi e lieti di quei due figli generosi e nobili.
Nella notte che calava sempre più fonda a cullare il sonno di Tokyo, per quella volta il lucore del cosmo si trasformò nell’abbraccio di un padre e di una madre a due ragazzini che, dopo tanto tempo, si sentivano meno soli nella lotta intrapresa fin da piccoli per sopportare il loro straziante destino.
Poi il più piccolo cominciò a cantare, con la sua voce dolce, quella che da allora entrambi avrebbero chiamato “la canzone della mamma” e il più grande chiuse gli occhi, aggrappandosi alla mano che l’avrebbe riportato a casa, non importava dove; l’universo intero era “casa” per loro, finché fossero rimasti insieme.