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Autore: Yammi    07/11/2012    1 recensioni
Mantenere una promessa non è mai semplice, sopratutto se certe promesse le fai a te stesso. Non è mai facile rialzarsi, sopratutto quando sei stato costretto a farlo infinite volte. Ma una speranza c'è sempre, ma non la si trova sempre nel futuro. Spesso, anche ripensare al passato aiuta.
Genere: Introspettivo, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Sinceramente, non so questo scritto da dove sia uscito fuori. L'ho scritto più per me che per altro, per ricordarmi che ci sono più modi 
per ritrovare la speranza. Non l'ho revisionato molto, e non è scritto nemmeno così bene e non è ghermito di frasi particolari.
Sicuramente troverete qualche errore, sopratutto verbi sfasati. Perdonatemi. Non è il mio scritto migliore quindi, ma è
sicuramente quello più personale che io abbia mai scritto fin'ora. Ed è la mia prima storia originale. Buona lettura.
Yammi;

 

 

 

Made a wrong turn once or Twice 
Dug my way out Blood and fire 
Bad decisions That's alright
Welcome to my silly life 



Non vedevo l'ora che quella giornata finisse. Troppe lotte, troppe sconfitte. Svegliarmi stanco non mi aveva aiutato, e quel giorno venni distrutto facilmente. O forse lo ero già, chissà. La disperazione non sembra avere poi così tante sfumature, era difficile capire a quale grado di sopportazione fossi arrivato. Forse al limite, o forse tutto questo era solo l'inizio. Sospirai, fissando il soffitto. Le coperte erano fredde, e l'aria umida lasciata dalla pioggia non mi aiutava a riscaldarmi. Novembre non era di certo un mese caloroso. Cercai di dormire, rotolando da una parte all'altra del letto. Pensavo a tante cose. Volevo soltanto dormire, nonostante il domani mi terrorizzasse. Sospirai ancora, quasi sperando che quel sospiro fosse l'ultimo. Persi finalmente conoscenza, pregando segretamente di restare per sempre in quel dormiveglia sconfinato, e di non vedere più alcun domani.
 

*

Mi trovavo nel salone di casa mia, sospeso tra il balcone e il soggiorno, ammirando il cielo che quel giorno era di un azzurro brillante. Il sole era caldo, ristoratore. Cercai di distinguere gli odori nell'aria. C'era l'inconfondibile odore dei fuochi d'artificio subito dopo capodanno e dei carciofi arrostiti in strada che compravo sempre quando uscivo con mio padre la domenica mattina. La mia infanzia, la mia casa. Sembrava tutto così reale, nonostante fossi cosciente che tutto fosse un laconico sogno.
Sentii un rumore, e mi voltai.
C'era un bambino, seduto sul pavimento di mattonelle bianche del mio soggiorno. Giocava con una grande macchina blu dalle luci rosse. Era molto divertito, da quell'unico gioco. Alzò di poco lo sguardo, e i miei occhi verde scuro incontrarono i suoi, dello stesso colore dei miei. Aveva un maglioncino rosso, con su stampato Topolino, che ricopriva una camicetta scura. Alla vita dei piccoli jeans contornati da delle piccole scarpine. Era davvero buffo.
Mi avvicinai piano, inginocchiandomi d'avanti a lui.
«Ciao.» Sorridevo, e lui sorrideva. Osservai la macchina con cui giocava, sfiorandola piano «E' tua?» il bambino annuì con fierezza, porgendomela cosicchè ammirassi meglio il suo tesoro «E' molto bella.» commentai mentre facevo brillare le luci rosse. Gliela ridiedi, e lui sembrò contento della mia ammirazione verso il suo gioco. Tornò a farla marciare avanti e indietro, per quanto il suo piccolo braccio potesse permetterglielo.

Abbassai lo sguardo, e poi capii.
Tornai a guardarlo giocare. Era così sereno, immerso nella luce del primo mattino, con quel gioco a fargli compagnia. Non sapeva, non immaginava cosa avrebbe dovuto sopportare. Gli occhi mi si riempirono di lacrime, e lo strinsi a me in un gesto istintivo, quasi protettivo. Provavo tanta pena per quel bambino, e quanto avrei voluto risparmiargli tutte le orribile cose che avrebbe dovuto affrontare.
Il suo piccolo corpicino non si irrigidì, né si allontanò indignato come mi aspettavo. Lo fece solo per toccarmi le guance con le sue mani paffute, cercando di asciugarmi le lacrime che inondavano il mio viso. Mi guardò con un'espressione interrogativa. Mossi la testa per mimare un no, tirando su col naso.
«Devi promettermi una cosa» dissi prendendo le sue piccole mani nelle mie, ben più grandi «Devi promettermi che non ti fermerai, mai, per nessuna ragione al mondo. Incontrerai persone cattive, più in la, e avrai tutto il tuo piccolo mondo contro alle volte. Anche casa tua, la tua famiglia spesso ti farà sentire così, ma ascolta. Non mollare, non farlo mai. Verrai buttato giù infinite volte, e tu dovrai rialzarti altrettante infinite volte. Rialzati sempre e un giorno, forse, potremmo incontrarci di nuovo. Fallo, per tutti e due. Va bene?»
Il bambino non sembrava sconvolto, né avvilito, né spaventato...sorrideva, sorrideva sempre. Annuì di nuovo con fermezza, stringendomi lui questa volta. Sembrò attaccarsi al mio collo per un tempo che mi parve infinito. Tornai a guardarlo ancora. I folti capelli neri, le guance rosse, gli occhi cangianti contornati da un viso bianco. Lo guardai, e sapevo che ce l'avrebbe fatta.
Perchè almeno fino a lì, ce l'avevo fatta anch'io
«Allora, che ne dici di giocare un po', furbetto?» lo tirai a me, iniziando a baciargli le guance e il collo paffuti, sostituendo di volta in volta i baci con delle piccole pernacchie. Rideva, rideva e rideva.
Gli sorrisi, e lo baciai ancora e ancora, e lo abbraccia ancora e ancora.
La luce brillava più forte, fuori. Mi alzai sfiorando ancora la grande macchina blu, chiedendomi per una frazione di secondo dove fosse finita dopo tutto quel tempo.
Tornai a guardare il sole e il cielo, ma mi voltai di nuovo, un'ultima volta. Il bambino mi salutò agitando di poco la manina, e tornò al suo gioco. Mossi un passo fuori, chiedendomi quando l'avrei rivisto.


 

*

 

Mi misi a sedere, passandomi una mano tra i capelli. Era domenica mattina. L'odore del ragù circondava la nostra casa, e mia madre era indaffarata a cucinare il pranzo borbottando tra se come al solito. Mi sedetti a tavola, girando distrattamente il cucchiaio nella tazza di latte macchiato. La felpa mi stava ancora bene, nonostante l'avessi da due anni. La mia preferita.
La mia preferita. Il mio gioco.
Mi alzai, e andai in soggiorno, scavando nei cassetti. Trovai la chiave, ed uscii sul pianerottolo poco prima di udire mia madre urlare «Ma dove vai?!»
Scesi le scale, e uscii fuori dal mio condominio. L'asfalto era difficile da sfidare con le pantofole, e altrettanto difficile fu affrontare la discesa che portava al garage. Ci vollero cinque mandate per aprire la grande cancello d'acciaio che custodiva cose che non avevano più trovato spazio di sopra. Cercai per quelle che parvero ore. Scavai nelle ceste e nei mobili finchè le ginocchia dei jeans non divennero nere e le mie mani così sporche da farmi chiedere se fossero tornare mai pulite, ma finalmente la trovai.
La grande macchina blu, che mi sembrò molto più piccola di quella dei miei ricordi. Era impolverata, e un po' ammaccata. Ma c'era, e c'ero anch'io. Tentai di accenderla, ma ovviamente era impossibile che funzionasse. E poi, come per incanto, le luci rosse sul tettuccio tornarono a brillare per un istante. Ci sarebbe voluto un po' di tempo, per farle tornare a brillare come una volta. 
Ma le luci erano tornate in vita, e mi chiesi se dopo tutto questo tempo avrei potuto farlo anch'io. 
Avrei tenuto fede alla promessa fatta a quel ragazzo dalle mani grandi e dagli occhi simili ai miei?
Mi rialzai.
 

 

You're so mean When you talk
About yoursel You were wrong
Change the voices In your head
Make them like you.
- Fuckin'Perfect

   
 
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