Sumkinda Monster
by Coral Dana Rose
Sitting
on a corner all alone,
staring from the bottom of his soul,
watching the night come in from the window
La
prima luna piena che vedevo da quel punto di vista. O meglio, la prima luna piena che percepivo con ogni senso che non
fosse la vista. La prima luna piena di cui ero
in grado di sentire l’odore, la vibrazione del suo avvento nell’aria, il regno
dei cieli inondato dalla sua luce che riuscivo perfino ad udire con le
orecchie, lamento lontano e straziante, il pianto di un bambino o forse la
risata sensuale e capricciosa d’un demone che mi perseguitava senza sosta.
La
prima luna piena che mi entrava dentro, del tutto, uccidendomi e straziandomi.
It'll
all collapse tonight, the fullmoon
is here again
In sickness and in health, understanding so demanding
It has no name, there's one
for every season
Makes
him insane to know
La
notte filtrava attraverso gli spiragli fra le assi di legno. Penetrava dalla
finestra aperta, assieme alla luce della luna, come inchiostro
liquido. Assieme alla luce della luna. La luna piena, là fuori, il disco
pallido e chiaro come il volto di un vampiro, una perla sospesa nel buio della
notte priva di stelle. Raramente una nuvola riusciva a coprire la luna. Era
come se prepotentemente questa si facesse strada.
Come se la tortura fosse per lei irrinunciabile.
Stavo
rannicchiato nell’angolo della stanza. La notte mi sembrava antica. Stava per
finire. Dio, era quasi finita.
Avevo perso il controllo di me. Avevo ruggito e ringhiato e sibilato stringendo le fauci. Avevo sentito la saliva alla bocca e con essa il sangue, mi ero morso la mia stessa lingua, i miei muscoli non rispondevano ai miei comandi razionali… non avevo più una razionalità, no, ero fuori di me! Ero pazzo! E i movimenti che il mio corpo –no, non era il mio, non poteva esserlo- non erano nient’altro che lo sfocio della violenza che avevo dentro!
Non
ero più un umano.
Non
ero neanche un animale selvaggio.
Ero
un Lupo Mannaro, ero mezzo umano e mezza bestia, ero una creatura coperta di
peli, zanne e artigli, carne e il sangue ribollente del predatore assassino che squarta ogni cosa soltanto per punire il mondo
circostante della disgrazia che versa su di lui. Un semiumano. Questa, in
seguito, avrei imparato a riconoscere come mia classificazione, e con essa tutte le sventure che ne derivarono.
Ma
in quel momento non percepivo niente di tutto ciò. Non avrei potuto.
In
fin dei conti ero solo un bambino.
Non
avevo ancora l’istinto di ferire me stesso per evitare di ferire qualcun altro
o qualcos’altro. Così distruggevo. Per ore e ore avevo annaspato ferocemente
nel turbine della violenza e della rabbia, il furore più cieco, avevo
distrutto, rovesciato mobili, sradicato alberi, sradicato porte e finestre. E
l’umano che più non ero aveva assistito allo scempio,
docile come una pecora al cospetto del lupo, sì, io, io veramente, ero una
pecora, un agnello impotente incapace di opporsi al volere della creatura nella
quale m’ero tramutato.
Nella
quale lei mi aveva tramutato.
Pallore
angelico. Candido.
Ma
gelido.
Qualcosa
di gelido, sì, aveva la luna… mentre si beffava di me, brillando fra le nuvole,
come una perla iridescente sul fondale d’uno specchio
d’acqua perfettamente trasparente.
Sanguinavo
perché ripetutamente mi ero abbattuto contro la parete che ora mi stava alle
spalle, era stato l’ultimo sforzo prima di crollare.
Ora il mio corpo lentamente tornava umano, i vestiti laceri, la mente lacera,
lo spirito defunto, sbranato dalle zanne carnefici della bestia che avevo
dentro.
Avevo
devastato e distrutto.
Avevo
rovesciato e scardinato.
Avevo
ringhiato, graffiato, lacerato, avevo corso forse per chilometri nella foresta,
poi saltando di tetto in tetto, buttando giù gli alberi più piccoli al mio
passaggio, strappando alla terra i cespugli e ai cespugli le foglie e i rami
taglienti, sui sentieri selvaggi che avevo
attraversato le mie impronte restavano come attestato alla mia mostruosità, un
mostro che era passato di lì.. chiudete in casa le donne e i bambini, uscite
con le lanterne, cercatelo, cercatelo e uccidetelo!
Ma
gli uomini con le lanterne non vennero, e non udii alcun grido.
Udivo
solo il mio respiro affannoso che lentamente tornava normale, ma sentivo che
era un respiro sfibrato, non stanco, ma semplicemente privato di sostanza, ed
immaginai che un morto, se avesse potuto, avrebbe sospirato
proprio così.
Ancora
le mie mani tentavano di graffiare il pavimento già sfasciato, ma mi spezzavo
le unghie, ferendomi le dita con le schegge.
Ancora
le mie mascelle si stringevano e i denti quasi si spezzavano, serravo le
palpebre, dibattevo le gambe. Ancora e ancora. Dovevo distruggere. Ancora, sì,
ancora… ti prego, ancora una volta.
Ma…
no, no…
era finita.
Non avrei potuto. Non ne avevo più le forze.
Non
provavo ira per ciò che mi aveva condannato, provavo ira solo per tutto e avevo
voglia di distruggere, appunto, devastare ogni cosa, fin quando non fossi
rimasto soltanto io, dando allora sfogo all’autodistruzione che c’è, in fondo,
in ogni mostro qual ero –e quale sono- e mi sarei
ucciso o avrei trascorso tutti i miei anni dilaniandomi e uccidendomi. Fortunatamente… fortunatamente, non ero immortale. Come
doveva essere per un vampiro?
Venne
il torpore? Il sonno? La stanchezza ebbe la meglio? O svenni,
forse, distrutto psicologicamente e fisicamente? In
ogni caso persi conoscenza, lo so, perché quando mi svegliai, ero in un
altro posto e in un altro tempo, giorni dopo, o forse solo poche ore dopo.
Ma
avrei voluto perdere conoscenza completamente.
Invece
sognai. I sogni più orrendi della mia vita.
In
the mist of the morning he cannot
fight anymore
Thousands moon or more, he's
been howling
Knock on the door, and scream
that is soon ending
Mess on the floor again...
La
foresta era inondata di un sapore balsamico.
Sentivo
le felci e l’erba bagnata di pioggia, le gocce che cadevano dalle aghifoglie e
che ogni tanto mi si infrangevano sulla pelle. Per un
bambino tutto questo non avrebbe avuto poi nulla di speciale, o meglio così
sarebbe stato per un bambino qualsiasi. Ma io non ero
un bambino qualsiasi, come gli altri, ero semplicemente un bambino talmente…
“qualsiasi”, che non avevo mai trovato nessuno in grado di tollerare la mia
presenza per più di due ore. Ma la foresta, lei mi
tollerava. Lei parlava fitto e lasciava che decidessi se comprenderla o meno, se ascoltarla o lasciar perdere il suo messaggio
misterioso. Decisi di lasciar perdere, sì.
Decisi
di continuare a camminare, fin quando ne avessi avuto
la forza.
Le
raccomandazioni dei miei genitori non servivano a molto. Dopotutto ero piccolo
ed ero sì prudente, ma anche del tutto certo che non avrebbe potuto accedere niente di così spiacevole come mia madre e mio
padre pronosticavano. Avevano modi molto differenti per esprimere la loro
preoccupazione per me. La prima gemeva e a volte strillava, pur essendo una
donna eccezionalmente mite e tranquilla. Il secondo mi guardava severamente
come a volermi far sentire il colpa per la
responsabilità alla quale ero venuto meno.
La
responsabilità verso la mia vita e verso la loro.
La
responsabilità che tradii quella notte in modo tanto
irrimediabile che soltanto la morte –l’avvenimento più irreversibile che gli
umani conoscano- avrebbe potuto porvi rimedio.
Mi
aggiravo, semplicemente. Mi aggiravo senza meta.
Vagavo, erravo, insomma. Non aveva scopo quella camminata, come sentivo, quel giorno
più del solito, che niente di tutto quello che avessi mai fatto avesse scopo. Ero piccolo per sapere da dove venissi, per conoscere il modo in cui ero nato, perciò mi
dicevo che ero arrivato ad un tratto nella casa dei miei genitori proprio dopo
una camminata come quella, e sentivo quindi che il sapore di quella foresta era
lo stesso sapore che avevo percepito prima della mia “nascita” se così, in base
alla mia convinzione, poteva definirla…
Ma perché
ero venuto?
Non
potevo restare dov’ero?
A
chi mai avevo portato gioia se mia madre strillava e gemeva e mio padre mi
scoccava occhiate severe mentre leggeva il giornale, a che scopo, perché?
Ma
la foresta non voleva tollerarmi oltre. La foresta avrebbe voluto rigettarmi
come si rigetta una sostanza dannosa per l’organismo, e come i rifiuti vengono gettati nei raccoglitori per la spazzatura sui bordi
delle strade. Dapprima, la foresta ruggì e appena sentii quel rumore ostile mi
parve che tutti i contorni che avevo intorno si fossero inaspriti e fatti più
ostili. Vedevo volti perfidi sui tronchi degli alberi, nelle
nervature delle pietre distrutte, nei grumi di fango sul terreno bagnato, e
ogni suono lo percepivo come un avvertimento ai miei danni.
Dovevo
scappare.
Non
me ne accorsi subito. Sapevo solo che dovevo scappare,
e che la consapevolezza diveniva via via più forte e incontrastabile.
Dovevo scappare, e basta. Non temevo per la mia vita, stranamente. Non sempre
si teme per la nostra vita quando veniamo colti dal terrore. Semplicemente, ero
stato investito da un’onda di paura che ora mi consumava e mi ordinava di
andarmene da quella rappresentazione ingannevole dell’Inferno asceso fin sulla
terra.
Vattene.
Scappa.
Fuggi
via, corri più forte che puoi, e vattene per sempre.
I
miei passi si mossero sempre più velocemente. Ma era
buio. La luce della luna era pallida e funerea, non sufficiente a mostrarmi la
via del ritorno. Anzi, sentivo la risata o il lamento
infantile, o quel che fosse. Sentivo la beffa. L’insulto. La luna e la
foresta volevano tutto questo!
Era
figlio della luna e della foresta il demone che mi balzò addosso atterrandomi e
sbattendomi la schiena contro il tronco di una conifera. La terra tremò ma il
cielo restò impassibile e irraggiungibile, partecipante alla commedia tragica
che non interferiva mai con il copione. E la luna,
regina dell’impero celeste e dell’impenetrabilità della notte di madreperla, rideva
e assisteva divertita alla rappresentazione.
Inghiottii
accidentalmente il sangue del mostro, e lui inghiottì il mio. Il morso.
Il
dolore. No, non so se fu dolore. Ora l’ho dimenticato. Come tutti i grandi
dolori fisici della vita, ci sembrano inezie una volta che siamo
stati in grado di superarli. Ma credo che, sul momento, fu
semplicemente atroce.
Giacqui
lì, fin quando non mi trovarono. E mi trovarono mezzo
morto qualche giorno dopo. Non avevo mangiato né bevuto ma non sentivo il
bisogno di farlo. Volevo solo dormire per non risvegliarmi mai più. Perché certo io non potevo immaginarlo…
La
bestia che cresceva in me, e che era ben lontana del germoglio raffinatamente
violento e delicato dei vampiri, ma era molto più simile al cuore umano…
Negli
anni che seguirono sentii con certezza che io ero un essere umano. Avevo un
mostro dentro, è vero… Cioè, non è vero. Avevo dentro esattamente quel che avevo sempre avuto,
che tutti gli uomini avevano sempre avuto, soltanto che era intensificato e che
veniva chiamato sul palcoscenico della devastazione, a
suonare la sua sinfonia di violenza, ogni volta che la regina compariva in
cielo e pretendeva il suo spettacolo. Poi la regina si rattristava e si
spezzava, diventava una falce nel cielo, come una barchetta alla deriva. E il
ciclo ricominciava, e ricomincerà ogni notte, fin quando ci saranno
notti nel creato.
E
quando io sarò morto le cose non cambieranno. Semplicemente,
dopo di me ne verranno altri. C’è sempre stata
violenza.
In
me, in tutti. Sempre.
Tanta di quella violenza da poterne percepire l’alone
soltanto guardando un uomo o perfino una donna negli occhi. Il Lupo Mannaro non impianta in te il seme del
Diavolo o qualsiasi altra cosa, perché non ti rende immortale né tanto meno
opera cambiamenti su di te che ti consentano di servire il Diavolo per l’eternità;
no, non è così. Che Satana sia un’invenzione o meno…
Non
posso deciderlo. Io so soltanto che il Lupo Mannaro è la creatura più umana che
esista, o si potrebbe addirittura affermare che il
Lupo Mannaro sia l’umano. E’ l’umano, sì, lo è. E’
umano e asseconda tutto ciò che gli umani vorrebbero poter assecondare.
E’
la regina che ci da questo potere orrendo.
La
regina che ci libera dall’idea del peccato e dell’atto inconfessabile, e allora
tutto diventa possibile, e la bestia si risveglia, per la divina regina di
madreperla spezza le catene. Sì. E’ quando le catene non ci sono più… è allora,
è soltanto allora, che l’essere umano è veramente tale.
Un
mostro? No.
Alza
gli occhi, guarda la luna, osserva la regina e rispondi alla sua risata. Lei. E’
lei.
E’
lei e solo lei, il mostro…
(based on “FullMoon” by Sonata Arcitca)