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Autore: Mrs C    13/11/2012    11 recensioni
John non si accascia sul marciapiede, quando si rende conto di aver corso fino a Baker Street.
John non piange davanti alla porta del 221, quando si rende conto che ha portato se stesso nell'unico posto in cui non sarebbe mai dovuto tornare.
John piange solo quando solleva lo sguardo verso il cielo e si rende conto che le finestre dell'appartamento B sono sigillate. E che nessun suono di violino proviene dall'interno.
[Accenni slash Johncroft, ma principalmente Johnlock because of reason]
Genere: Angst, Sentimentale, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: John Watson , Mycroft Holmes , Sherlock Holmes
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Consumato dal tempo

Consumato dal tempo








Vorrei rinascere per te e ricominciare insieme come se non sentissi più dolore.
Elisa







Piove. Oggi solo un po'. A Londra piove spesso, non è una novità. Nessuno ci fa più caso. Se ci vivi abbastanza a lungo, ti dimentichi anche di prendere l'ombrello prima di uscire di casa. 
A John piace la pioggia. Beh, piaceva. Ora in realtà non è sicuro che gli piaccia realmente qualcosa.
Non gli sembra normale, ma non lo ritiene un problema. È un medico, dopotutto. Sarebbe stupido da parte sua presumere di stare bene – e convincersi di questo – quando non è così. La differenza sta nel fatto che non ne è davvero preoccupato. La sua psicoterapeuta gli ha sempre fatto pesare il fatto di non riuscire a esprimersi. Ora lo fa anche troppo bene, e la prima cosa che ha espresso quando se n'è reso conto è stato il desiderio di abbandonare il suo studio e di smettere di spendere trecentocinquanta sterline al mese per sentirmi dire che ho bisogno di riprendere in mano la mia vita. La donna ne è rimasta talmente scioccata che John potrebbe giurare di averle provocato un attacco di cuore, ma non è sicuro, perché è uscito all'aria gelida dell'inverno poco dopo, troppo presto per sentirla strillare o piangere o qualunque cosa abbia fatto.
John, come medico di se stesso, sa di non stare bene. È ovvio, come potrebbe? Chiunque gli stia vicino può accorgersene. È come girare per la strada con un cartello luminoso sulla fronte, e un corvo che gracchia a ogni passo.
Ciò che realmente John ha fatto è stato smettere di autocompatirsi e di nasconderlo. Di mentire.
Non perché è un soldato, che sciocchezza, ma per il semplice fatto di essere un uomo vivo, nel senso più letterale del termine.
Non può dimenticare,
perché sarebbe tradirlo, non può uccidersi, perché sarebbe tradirlo, non può ricostruirsi una vita, perché sarebbe tradirlo.
E allora John fa l'unica cosa sensata da fare in questi casi: vive.
A John non piace, ma vive lo stesso, perché gli è stata donata. Ma nessuno può costringerlo ad essere felice per questo.
- Fa un po' freddo, eh?
John annuisce piano, senza voltarsi, ascoltando il suono ritmico del treno sui binari. È una donna sulla settantina, a giudicare dalla voce. Non ha figli, altrimenti qualcuno l'avrebbe accompagnata dal suo medico – le lastre che spuntano dalla borsa sono una prova lampante – in una giornata gelida come questa. Probabilmente suo marito è morto da poco, non indossa la fede ma ne porta ancora il segno all'anulare. Vive da sola, a giudicare dalla spesa esigua che ha fatto al supermarket vicino alla stazione e si ferma a dare cibo ai cani e gatti randagi del quartiere prima di rincasare, considerando le scatolette di vario tipo che fanno capolino dalla busta di plastica.
John sospira.
- Sì, davvero freddo.
La fermata per Baker Street è passata da un po'. Nessuno è sceso, nemmeno lui. Il treno è un po' affolato, ed è strano che neanche una persona abbia deciso di mettere piede in quella zona del centro. John non ci fa caso, ma una piccola, piccolissima, stretta al cuore gli intacca una parte del muro che si è costruito attorno.
- Dove stai andando con questo tempaccio, giovanotto? Senza ombrello ti ammalerai.
- Non lo so, Signora.
La donna rimane in silenzio per qualche istante. Il treno procede spedito verso la sua destinazione. John vorrebbe essere sicuro della propria meta quanto lo è il macchinista; per ora si accontenta di lasciarsi alle spalle i cattivi pensieri che stanno tirando calci alla sua scatola cranica e cercano di prendere possesso del suo cuore.
- Tieni, ragazzo. Ti servirà quando uscirai da qui.
La Signora gli porge un ombrello. È scuro, un po' consumato dal tempo. John si sforza di guardarla negli occhi per la prima volta da quando lei ha cominciato a parlargli e capisce subito il tremendo errore che ha commesso. Sono celesti, di un colore particolare e un po' più chiaro dell'estate. Ha la pelle segnata dalle rughe dell'età e il sorriso dolce di chi non ha mai perso la speranza. John è un po' invidioso di come la vita di questa donna deve essere stata felice, prima della morte del marito e nonostante l'assenza di prole.
A lui non rimangono nemmeno i ricordi a cui aggraparsi.
- Grazie. Ma no, Signora. Non ne ho bisogno.
Il treno si ferma in un punto qualsiasi di Londra e John schizza fuori dal convoglio senza voltarsi indietro, con il fiato corto e un principio d'incendio che gli sbriciolerà i polmoni, se non riesce a liberarsi della sensazione di essere ancora – di nuovo, e sempre – così irrimediabilmente triste.

L'acqua è fitta e un po' pesante. John la sente scivolare sui capelli e le spalle, infiltrandosi sotto il cappotto che non ha chiuso e il maglione un po' troppo largo che non lo copre abbastanza. Ha freddo, ma non è abbastanza attento a se stesso per rendersene conto. C'è troppo ghiaccio dentro per sentirlo anche fuori.
A John non importa, ma agli altri sì. 
E quel cartello luminoso sulla fronte dice a chiare lettere ho bisogno di lui.
John non vuole accettarlo, e questo forse è il vero nocciolo di tutta la questione. Perché se John accetta che ha bisogno di lui, allora sarà anche costretto ad accettare che è morto.
Non può permetterselo. Non può, non vuole.
Sherlock è ancora lì con lui: deve solo trovarlo.
Corre veloce, un po' più veloce di quanto il suo cuore martoriato gli consenta, e attraversa la strada senza accorgersi di una macchina che arriva e che quasi gli finisce addosso. Non chiede scusa, non si ferma, muove le gambe in maniera automatica, e il fiato gli si mozza in gola ogni volta che urta qualcuno perché potrebbe essere lui, ma non è lui, nessuno di loro lo è.
Forse avrebbe dovuto accettare l'ombrello di quell'anziana Signora.
Forse avrebbe dovuto dirgli tutto prima.
Forse avrebbe dovuto tante cose.
John non si accascia sul marciapiede, quando si rende conto di aver corso fino a Baker Street.
John non piange davanti alla porta del 221, quando si rende conto che ha portato se stesso nell'unico posto in cui non sarebbe mai dovuto tornare.
John piange solo quando solleva lo sguardo verso il cielo e si rende conto che le finestre dell'appartamento B sono sigillate. E che nessun suono di violino proviene dall'interno.
Così si siede sui gradini e piange. In silenzio, senza singhiozzare o emettere suoni.
Nessuno se ne accorge, perché la pioggia è fitta e tutti si nascondono sotto il proprio ombrello, per non essere costretti a guardare, a sentire, a vedere.
John è solo, lì, in mezzo a decine di persone. Perfettamente immobile, con la schiena dritta e gli occhi fissi – spenti, vuoti, diversi – come un soldato davanti alla tomba di un amico, morto per servire il suo paese, come ne ha visti tanti negli anni dell'Afghanistan. Perfetto nella sua uniforme, guanti bianchi e spada al lato sinistro del corpo.
La differenza sta che, oggi, John è vestito solo del suo dolore. Non c'è nessuna spilla a brillargli sul petto, né una serie di spari nell'aere a segnare la fine o l'inizio di una vita che ha forse cambiato il mondo o che, almeno, è morta provandoci.
Fa freddo.
A John non importa.
Importa invece il motivo per cui non hanno fatto un funerale di Stato anche a Sherlock. Sherlock che ha salvato la Nazione non si sa più quante volte, Sherlock che ha cercato, scovato e fatto arrestare metà dei criminali di Londra, Sherlock che è morto per proteggere tutti, Sherlock che...
Sherlock.
- Sherlock.
Inizia a fare buio qua fuori. John è seduto sul marciapiede da almeno un'ora e le lacrime si sono confuse con le gocce di pioggia. Nessuno si è fermato per domandargli se avesse bisogno di aiuto e John si chiede se sarebbe poi così sbagliato porre fine a una sofferenza che lo sta uccidendo dall'interno.
Sherlock gli ha permesso di vivere, ma quanto può ancora sopportare di farlo senza una ragione?
- Forse sta cercando nel posto sbagliato, Dottore.
La pioggia smette di battere improvvisamente e un'ombra scura lo ricopre come se volesse inghiottirlo dentro di sé. Gli occhi chiari di Mycroft Holmes lo fissano dall'alto e John lo guarda e basta. Non si sono mai veramente visti, e John non inizierà adesso. Ignora il dolore che legge riflesso nelle sue iridi, e ignora quel senso di colpa dilagante che gli arriva addosso come una frustata improvvisa.
A John non importa. Di niente, ormai.

- Posso offrirle un thé, John?

La Signora del locale ha guardato male John, quando è entrato sgocciolando per terra, prima, e sulle sue sedie nuove di zecca, poi. Mycroft le ha sorriso, freddo e affabile, e ha allungato una banconota da cento sterline e la donna si è zittita all'improvviso. John si è domandato se quei soldi portassero le macchie del sangue di Sherlock e un conato di vomito gli si è fermato in gola.
- Come sta, John? Ho saputo che ultimamente ha avuto dei... problemi.
- Di problemi ne ho tanti, Mycroft.
Il thé è buono, la compagnia meno. Tutto rende questa pantomima incredibilmente patetica e, oltre al disgusto, anche la rabbia blocca il respiro di John, ora.
- L'ho cercata nel suo appartamento, questa mattina. E anche all'ospedale non sapevano dove fosse.
- Avevo bisogno di stare solo. È un reato?
Mycroft sembra pensarci un attimo, continuando a girare il cucchiaino dentro la tazza bollente del thé.
- Certo che no, – dice alla fine – ma mi piacerebbe poterle essere d'aiuto. Se possibile.
John alza un angolo della bocca in un ghigno.
- Non è possibile.
- Mi lasci fare un tentativo, almeno.
John appoggia la tazza di porcellana sul tavolo un po' troppo forte e scheggia sia quella che il piattino.
- L'unico tentativo che avresti dovuto fare sarebbe dovuto essere quello di aiutare tuo fratello. Non l'hai fatto. Non è possibile che tu possa fare qualcosa, adesso.
Un silenzio pesante cala nel pub. La porta si apre un paio di volte e qualche ragazzino entra, godendosi il tepore caldo del locale rispetto alla temperatura gelida dell'esterno. John riesce a ricordare com'è essere giovani e felici. È una sensazione tanto brutta quanto spaventosa.
- John. Ho sbagliato. Lo so. Sto cercando di rimediare. Sherlock-
- Non. Nominarlo.
Mycroft lo guarda, sbattendo le palpebre un paio di volte. La mano di John, con l'indice puntato verso la sua gola, trema appena.
- Non dire il suo nome. Non davanti a me, Mycroft. Sto cercando in tutti i modi di mantenere la calma. Non... provocarmi, ok? Non dire il suo nome.
Ancora silenzio. Ancora tanto, pesantissimo silenzio. Mycroft non ha più detto nulla, e John non è intenzionato a parlare. Il thé, quel poco rimasto in entrambe le tazze, è ormai freddo. Fuori diluvia e John non ha un ombrello. Ma anche se continua a ripeterselo, la situazione non cambierà. Niente cambierà. Non smetterà di piovere.
- Mi ha chiesto di prendermi cura di te.
John lo guarda voltandosi piano verso di lui. Gli occhi di Mycroft sono profondi. Riesce a vederli adesso, non sa bene perché.
- Prima di... prima di fare quello che ha fatto. Mi ha fatto giurare che mi sarei preso cura di te.
Fa male.
- Gliel'ho giurato, John. È quello che sto facendo, che sto provando a fare. Lo farò senza che tu me lo permetta, se sarà necessario.
Solo un po'.
- Io non voglio niente da te. Se Sherlock è stato costretto a farlo è solo per colpa tua. È morto e io non potrò mai-
Si blocca, mordendosi le labbra e distogliendo gli occhi da quelli di Mycroft. Sbatte piano un pugno sul tavolo, e guarda fuori. Non c'è un raggio di sole in mezzo alle nuvole.
- Non m'interessa cosa gli hai promesso per lavarti la coscienza. Impara a convinvere con il senso di colpa, come ci convivo io.
Lascia venti sterline sul tavolo – forse troppe per due soli thé – e si allontana veloce, perché deve uscire da lì. Deve farlo, adesso, perché sta sentendo troppo e fa male più di quanto riesca a sopportare.
Ma una mano forte lo ferma prima che riesca e imboccare l'uscita, e John è pronto a caricare un pugno e ad uscire dal locale a forza, se serve. Però si blocca, lì dov'è, quando un'altra mano gli sfiora la guancia che friziona piacevolmente con la sua barba appena accennata. John guarda Mycroft negli occhi, e il suo respiro caldo gli solletica la pelle. Non sono mai stati così vicini. John vorrebbe allontanarsi ma la luce di quei colori chiari gli ricorda altro. Iridi tanto fredde da far male al cuore, e così calde da farlo battere un po' più forte.
Si chiede se sarebbe poi tanto sbagliato dimenticarsi di tutto e illudersi che quegli occhi siano di qualcun altro.
- L'ho giurato, John. Lascia che ti aiuti, che ti salvi. Posso farlo, sai che posso.
John aspetta un po'. Non tanto, solo un po'. Poi si divincola piano dalla stretta di Mycroft, allontanando la mano dalla sua guancia. È un sorriso triste, quello che gli rivolge. È il sorriso di chi è arreso, e non vuole essere salvato.
Di chi sa che non può illudersi. Che chi c'era non c'è più.
- È troppo tardi, Mycroft. Sai. Ho smesso di combattere.
Sì, lo sa. E forse è per questo che lo lascia andare via senza fermarlo più.
La porta cigola quando John esce. Mycroft non lo segue e – anche se nessuno dei due lo sa – questa sarà l'ultima volta che si vedranno. Il calore della sua mano perseguiterà John per un po', ma non sarà mai abbastanza per dargli quello che cerca e che non potrà mai più trovare. Cammina per un po', anche se non sa dove sta andando. Si allontana da Baker Street, dal 221 B, cerca di allontanarsi dai ricordi e dal dolore ma non ci sarà mai abbastanza distanza per dimenticarli, quelli.
Se potesse si allontanerebbe da Londra, dal mondo intero. Da ogni persona, da ogni sguardo.
Il freddo dell'inverno gli colpisce le ossa, dentro, fuori, intorno. È incredibile, perché ogni cosa va avanti anche senza di loro – senza di lui – ed è incredibile come adesso importi di tutto.
Importa che nessuno se ne ricordi. Importa che tutti abbiano già dimenticato.
Tranne lui, perché era suo. E lui non dimenticherà.

John sale sul primo treno che trova a dispozione senza pensare, come ha fatto qualche ora prima. Non sa davvero dove lo condurrà questa volta, e va bene così, come andrà bene da quel momento in poi.
Gli andrebbe bene anche se deragliasse e, in angolo remoto del suo cervello, quasi ci spera.
- Hai bisogno di un ombrello, giovanotto?
John si volta, e il sorriso della stessa Signora anziana di quel pomeriggio lo coglie impreparato e rimane in silenzio e ammutolito per qualche secondo. Lei non desiste e gli porge lo stesso oggetto con una radiosa gioia di vivere che lo investe in pieno e che per un po', lo ricorda, è stata anche sua.
- È un po' consumato dal tempo. Ma credo che servirà più a te che a me.
Il treno si ferma. John non sa cosa dire, finché le sue iridi non si posano all'esterno. Un timido raggio di sole colpisce le gradinate d'uscita. Le persone chiudono gli ombrelli, perché non piove più anche se fa ancora molto freddo. Gli occhi della Signora sono cristallini, celesti come l'estate.  
John piange e questa volta fa male e basta. Senza sconti.
- Lo prendo. Grazie, Signora.








Ps. I'm a Serial Addicted


Questa shot nacque in principio come una Johncroft.
È leggermenete deviata in qualcosa che non so davvero come definire. Angst senz'altro. Non ne sono pienamente soddisfatta ma mi ha fatto abbastanza male scriverla, per cui forse non è del tutto da buttare via. Non metterò l'avvertimento AU ma è giusto che lo sappiate, ecco, che Sherlock è morto per davvero in questa ff. Spero di non aver sminchiato i personaggi più del necessario, comunque. E vi chiedo scusa per questa paccata di angst. E non so nemmeno da dove è uscita 'sta cosa dell'ombrello, ma spero abbiate capito che la frase 'consumato dal tempo'... non si riferiva solo all'ombrello ma allo stesso John. Ecco perché l'ho scelto come titolo. E comunque è colpa di Blue Parrot, ecco. Mi ha talmente fatto male che mi sono messa a scrivere. Per cui questa cosina la dedichiamo a Cristina in modo particolare, e più in generale alle bellissime del TCTH, because of reason. Vi mando amore infinito, ecco (e se non avete letto Blue Parrot sciagura a voi, ANDATE!).
Ora mi ritiro nel mio cantuccio. A dondolare. E piangere. Specialmente a piangere.



Jess


   
 
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