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Autore: itsjjoy    14/11/2012    7 recensioni
HTML della storia in revisione!
2018. Adam è sposato con Sauli, abita a New York e sta per adottare un bambino. Ma dopo 5 anni, Isaac torna a bussare alla sua porta e gli dice solo 3 parole: ‘è per Tommy’. Questo basta per far correre Adam a Burbank da quel ragazzo che già una volta gli aveva fatto riconsiderare tutte le proprie convinzioni e l'aveva cambiato da cima a fondo, e chissà che non l’avrebbe fatto ancora. La storia di due anime gemelle che la vita ha portato ad incontrarsi per poi separarsi ancora e di quel loro legame irrimediabilmente indissolubile che li porta, dopo essersi rivisti, ad un percorso di riscoperta di sé stessi, dei propri sentimenti, delle proprie passioni e delle proprie priorità. Un percorso difficile fatto di debolezza, ostinazione, rifiuto, fiducia, speranza, pentimento, affetto, perdono e accettazione; un percorso che forse non li porterà a tornare quelli di prima, a riavere indietro ciò che avevano, ma certamente li cambierà nel profondo.
[Adam/Tommy; Adam/Sauli; Isaac/Sophie]
Genere: Angst, Introspettivo, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Slash | Personaggi: Adam Lambert, Isaac Carpenter, Tommy Joe Ratliff, Un po' tutti
Note: OOC, What if? | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Titolo: Bright Light
Autore: itsjjoy
Fandom: RPF Adam Lambert
Genere: Angst, Introspettivo, Romantico
Tipologia: Long Fic
Conteggio Parole: (capitolo) 3151
Pairing/Personaggi: Adam Lambert/Tommy Joe Ratliff; Tommy Joe Ratliff/Isaac Capenter; Isaac Carpenter/Sophie Carpenter; Dia Ratliff; Matthew Davis;
Rating: Giallo
Avvertimenti: Slash, Het, What if?, OOC
Note: Questo capitolo mi piace molto, davvero molto *-*
Vi mando un abbraccio!










08 Goodbye






Isaac lo stringeva tra le braccia, mentre era in ginocchio sul pavimento.
Tommy singhiozzava, disperato come non era da tempo, e lacrime su lacrime bagnavano i vestiti dell'amico mentre lui vi si aggrappava con tutta la forza che aveva. Era peggio di quanto non fosse mai stato. Peggio di tutto, peggio di quella volta che  aveva ingurgitato dieci di quelle sue pillole insapore, sua madre l'aveva trovato e lui aveva implorato di morire.
Era peggio perché Isaac piangeva con lui e non per lui, piangeva per il proprio dolore.

–   –   –   –

“Non ce la faccio più.
Lo so che non è colpa tua, lo so che non è colpa sua, non è colpa di nessuno se non la mia, ma è così che stanno le cose: non ce la faccio più.
Isaac, io volevo una vita per noi. Volevo che fossimo felici. Volevo un figlio da te. Volevo la felicità che meritiamo. Volevo i nostri sogni. E lo so che la vita non va mai come uno vuole che vada, che bisogna prenderla così come viene, e che basta stare insieme e farsi forza...
Ma, vedi Isaac, io mi sto logorando dentro. Non vivo più. È tutto buio, è tutto insensato, è tutto stancante. Non ricordo neanche più come sia essere felici.
Tommy, io non riesco più a guardarlo negli occhi. Anche solo vederlo mi... mi priva della voglia di vivere.
Non fraintendermi, Isaac, io gli voglio bene, sai quanto gli voglio bene. Lo amo come un amico, come un fratello, come un figlio. Tommy è... ha una forza incredibile. Ma da quando quel dannato giorno, Adam è andato via, riesce a mantenere quella forza solo se ci sei tu. Vive grazie a te, Isaac. E io non posso chiederti di stare via da lui neanche per un giorno, perché so che ha bisogno di te.
Ma io, io ho bisogno di una pausa.
Andrò via per un po', starò da mia cugina Susie a San Francisco.”
Questo gli aveva detto Sophie, in lacrime, prima di prendere le sue cose ed andare via, ed a nulla erano valse le sue suppliche, le sue preghiere, i suoi pianti. Era forte, Sophie, e quando decideva qualcosa, nessuno le faceva cambiare idea. Era forte ed Isaac sapeva che poteva farcela ad esserlo anche per Tommy.
Il fatto era che non poteva essere forte per tutti e tre.
Ed era quello che aveva fatto, invece, per cinque lunghi anni: aveva trovato, da qualche parte, la forza per tutti; si era consumata per loro, aveva dato tutto e ora non ne poteva più.
Isaac comprendeva. Capiva che prendersi una pausa era la cosa giusta per lei, ma non riusciva ad accettarlo. Non riusciva a vedere il letto vuoto, non riusciva ad affrontare la sua vita senza gli occhi di lei a fargli coraggio – quei magnifici occhi castani –, non riusciva a fare tutte quelle cose di cui lei si prendeva cura da tanto tempo, perché lei era più brava, lei le faceva meglio. Sophie era perfetta, la sua personale isola di bellezza e di felicità, la sua ancora, la sua vela, il suo tutto. E quando scendeva la notte, quando c'era vento, quando le tende – quelle che lei aveva amorevolmente scelto – fendevano l'aria al ritmo della brezza, le porte sbattevano e la stanza era buia, tutto sembrava più freddo senza Sophie, la sua Sophie. In quei momenti, solo, ripensava alla sua giornata: un alzataccia per prendere Tommy a lavoro, preparargli la colazione, aspettare sua madre – era Dia a stare col figlio quando Isaac non c'era – e poi via a lavoro, tutto di corsa, tornare a casa, far mangiare Tommy e fissare quel posto sul divano, vuoto di lei, e crogiolasi nella propria solitudine mentre Tommy si cullava nella propria. A volte lo invidiava, invidiava quel suo sguardo vacuo ed assente, come se non sentisse il tempo passare e la vita correre via mentre lui la guardava, inerme, inutile, perso in se stesso. Ma poi Tommy parlava – sussurrava flebilmente, le sue labbra accarezzavano le parole con l'eleganza di qualcuno che sta per spirare, con la composta e impeccabile disperazione di un uomo che sa di essere condannato a morte ma non gl'importa. Parlava della sua giornata, di una certa Rose che lavorava al supermercato ed insisteva per socializzare con lui, poi si zittiva all'improvviso e Isaac glielo leggeva negli occhi il motivo. Adam, Adam, Adam, voleva lui, gli mancava lui. “Oggi l'ho pensato” oppure “Hai notizie di lui?”.
“Mi manca Sophie” diceva ogni tanto, e Isaac sapeva che era vero, e sapeva anche che Tommy poteva capirlo quando replicava semplicemente “Anche a me” con gli occhi spenti. Tommy, anzi, conosceva un dolore peggiore del suo. Tommy non chiamava Adam ogni sera; Tommy non si sentiva mormorare 'ti amo' o 'buonanotte' da lui, neanche da una fredda cornetta; e chissà quanto e da quanto desiderava lasciarsi cullare dalla sue braccia finché tutto il resto non avesse perso importanza. Solo in quel momento Isaac capì quanto Tommy fosse terribilmente forte: lui si sarebbe spezzato. Lui si sarebbe piegato sotto il peso di un'esistenza svuotata, e avrebbe lasciato il suo cuore infranto collassare ed abbandonarlo; si sarebbe lasciato morire.
Faceva quei pensieri, di notte, rannicchiandosi sotto le coperte e cercando invano un calore che non trovava, perché era terribilmente solo e si sa che la solitudine è fredda. Sentiva più che mai la mancanza della pelle chiara, morbida e calda di sua moglie, delle sue labbra rosse e saporite, delle sue mani delicate, della sua stretta dolce ma decisa; gli mancavano il suo corpo nudo che giaceva accanto al proprio, le sue gambe flessuose, il suo fondoschiena aggraziato e i seni sinuosi, e soprattutto quel ventre caldo ed accogliente in cui si rifugiava ogni volta. Non era lussuria, era un istinto ancestrale, il desiderio di vivere quella sensazione di sicurezza e di pace che provava ogni volta che facevano l'amore, la voglia di restare per sempre lì, al sicuro e al caldo, dentro di lei.
La sua Sophie non se n'era andata, ricordava a se stesso, si era solo presa una pausa. Sarebbe tornata presto: fino ad allora doveva andare avanti senza di lei. Doveva farlo per se stesso e per Tommy, doveva farlo per non deluderla. Stavolta, toccava a lui essere forte.

–   –   –   –

Prima di andare via, Sophie era entrata nella sua stanza, si era messa seduta sul bordo del letto e gli aveva baciato la fronte.
“Ricordati che ti voglio bene. Mi prometti che non ne dubiterai mai?”
Tommy non capì. Annuì, ovvio che non ne avrebbe dubitato, Sophie era stata come una seconda madre per lui e come tale lo amava.
E fu come una madre che capisce che il suo bambino è ormai grande che Sophie affrontò il discorso, senza bugie, senza inutili omissioni. Gli spiegò le cose come stavano. Gli spiegò che soffriva a stare lì. Gli spiegò che quella vita stava diventando una gabbia per lei, un tormento a cui non voleva sfuggire perché li amava troppo entrambi, ma da cui doveva proteggersi in qualche modo. Tentò di fargli capire come si sentiva, ma non ci riuscì, perché lui la bloccò. Fece un gesto, e scosse la testa, poi la guardò negli occhi e le sorrise.
Non c'era traccia d'allegria nel suo sguardo, solo un sorriso meccanico e rigido incollato sulla faccia. Eppure, per quanto forzato, non aveva nulla di freddo. Tra quelle labbra curve si potevano scorgere migliaia di parole mai dette perché la persona a cui erano rivolte non le avrebbe ascoltate. Guardando i suoi occhi spenti ed infossati, lividi di sonno, si poteva sentire tutta la sua sofferenza. E nel suo viso scavato dai lunghi giorni di digiuno e dalla fatica di vivere, c'era l'immagine del suo tormento, urla mute scolpite nelle pieghe della sua magrezza. Era terrificante, e contemporaneamente doloroso. In quel momento, Sophie si rese conto di stare scappando da lui, di stare facendo proprio ciò che rimproverava ad Adam, ed anche di comprenderlo. Capiva perché era corso via ed anche perché e quanto dovesse sentirsi in colpa: terrore e dolore; ciò che sentivano tutti quelli che guardavano con attenzione Tommy, anche solo per pochi secondi.
“Ti capisco, Sophie. Se potessi, anche io fuggirei da me stesso.” disse semplicemente, e poi non aggiunse più nulla. La abbracciò forte, tanto che a Sophie venne da piangere, perché tutto quello aveva il sapore di un addio.
“Io... Non starò via troppo a lungo, Tommy. Non sto scappando da te.” mormorò lei, guardandolo negli occhi ed accarezzandogli il viso. “Tornerò presto. E prima, vi verrò a trovare.”
Tommy indossò di nuovo quel sorriso triste e annuì.
“Proverò ad aspettarti.” disse, e Sophie non capì subito quella frase (o forse non volle capirla), ma fu in qualche modo consapevole che quel momento non aveva solo il sapore di un addio, era un addio.
“Grazie, Sophie... Grazie davvero.” aggiunse Tommy, in un flebile sussurro che aveva però un che di solenne, confermando le sue paure. Lei stava uscendo dalla sua camera, e quelle parole la fecero voltare un'ultima volta. Lo guardò, forte e fragile, eroe e vittima, amico, fratello e figlio.
Non gli chiese mai con precisione di cosa la stesse ringraziando.

–   –   –   –

Sophie l'aveva avvertito, e giorno dopo giorno Isaac ne aveva avuto conferma. Aveva notato quelle piccole cose – sguardi, parole, gesti – che Tommy faceva, ed ognuna di loro sembrava il tassello di un puzzle che stava per finire. Improvvisamente sembrava che nella sua mente ogni cosa avesse trovato la propria sistemazione, che la sua vita avesse trovato un proprio ordine, e che giorno dopo giorno stesse per arrivare a qualcosa. Meticolosamente, con un'attenzione ed una precisione quasi ossessiva e persino un po' d'affetto, Tommy stava facendo tutte quelle cose che ci si dimentica sempre di fare, che si trascurano perché si sa che si avrà sempre tempo per farlo. Pulì le sue chitarre, una per una, le accordò e le sistemò in camera, prendendosene cura ogni giorno, ma senza mai suonarle, quasi fossero soprammobili; sistemò i fiori che tenevano nei vasi sul balcone, li concimò e li aiutò a tornare belli e pieni di vita; andò a tagliarsi i capelli, e la barba, ed iniziò a prendersi cura del suo aspetto, facendone un rito; ricominciò a mangiare regolarmente, e a leggere alcuni libri che andava in biblioteca a prendere in prestito ogni lunedì. Diventò  taciturno e solitario, più di quanto lo fosse mai stato, ma ogni tanto, quando Isaac lo guardava, gli sembrava quasi soddisfatto – non felice, solo soddisfatto – come se avesse capito qualcosa, qualcosa di importante, e adesso sapesse cosa fare.
“Presto la smetterò di pesarvi così tanto.” disse un giorno ad Isaac, con quella smorfia soddisfatta, mentre lui finiva di fare colazione. Tommy si era infilato il pigiama e se ne stava seduto su una sedia fissando il piatto vuoto della propria colazione. Aspettavano insieme Dia. La madre di Tommy, infatti, da quando Sophie era andata via, dava una mano in casa. Era lei a tenere d'occhio il figlio mentre dormiva, dopo il suo turno di notte: lo svegliava poco dopo le quattro e lo faceva pranzare, poi lo salutava dopo appena un'ora, quando Isaac ritornava da lavoro, la ringraziava ed ogni giorno – ogni singolo giorno – la invitava a restare per un caffé o persino per cena. Ma ogni volta Dia reclinava l'offerta.
Quella mattina, la frase di Tommy spezzò il silenzio e colpì Isaac. Lo inquietò non poco e lui non voleva razionalmente accettare il dolore inspiegabile che provò a sentirla.
“Intendi perché adesso hai uno stipendio?” replicò, forzando un sorriso nervoso e voltandosi a guardarlo.
Il biondo lo guardò con una strana espressione. “Certo. Non sei contento?”, rispose pacatamente, abbassando lentamente le palpebre con l'aria stanca, come se parlare gli costasse un'enorme fatica.
Finì lì.
Isaac rimuginò su quelle parole per tutto il giorno. Lo avevano lasciato freddo dentro. Sembrava più che Tommy intendesse che presto se ne sarebbe andato e li avrebbe lasciati in pace. Ma Isaac non voleva essere lasciato in pace. Isaac amava Tommy.
Dia bussò e lui andò ad aprirle senza pensarci, senza neanche chiedere chi fosse. La salutò a stento, poi le diede le spalle e tornò da Tommy. Non voleva salutarlo. Non voleva perderlo d'occhio neanche un'istante. Non voleva separarsi da lui, ma lo fece lo stesso. Come ogni volta gli baciò la fronte e lo abbracciò senza aspettarsi da lui alcuna reazione che non fosse disagio. Ma poi, prima di sciogliere la stretta ed andarsene, lo guardò negli occhi e lo supplicò.
“Non lasciarmi.”
Una stupida lacrima gli sfuggì, ma non aveva importanza. L'importante era non perderlo, mai. Tommy era la sua forza, e Isaac voleva essere lo stesso per lui. Era quello che aveva cercato di fare da quando lo conosceva, eppure in tutti quegli anni non aveva mai avuto l'impressione di esservi riuscito.

–   –   –   –

“Come va il lavoro?”
“Mhhh...” le labbra di Tommy si contrassero in una smorfia. Ogni volta era la stessa storia. Sapeva che sua madre sarebbe stata felicissima se si fosse confidato con lei, ma odiava parlare. E soprattutto non voleva farlo perché lei cercava sempre di deviare la discussione su Adam, per dire la sua. Non perdeva mai l'occasione di ricordargli come lei l'avesse capito fin dall'inizio che qualcosa non andava e che non avrebbe mai funzionato con quel ragazzo che voleva sempre tutto e non dava nulla in cambio. Adam, che voleva mettere un piede in due scarpe e farci una scalata, Adam che non rispettava la sensibilità altrui, Adam che aveva fatto male a lei quanto a lui, perché Dia amava suo figlio. Tommy non riusciva a sopportare il peso di quelle conversazioni che risvegliavano dolori passati e rancori quasi dimenticati. Odiava parlarle perché Dia soffriva anche solo a vederlo e lui non poteva sopportare l'espressione triste nei suoi occhi. Sapeva di averla delusa, sapeva che non le aveva mai dato molte ragioni per essere fiera di lui, non un lavoro ben remunerato, non il successo che sognava di avere, non la grande casa in campagna che le aveva promesso per la vecchiaia. Non era indipendente, non le aveva dato nipotini né la soddisfazione di vederlo sistemato. Non poteva neanche dirle di essere felice. L'aveva delusa, una volta e poi mille ancora, e l'avrebbe delusa per sempre. E glielo aveva detto, le aveva detto che sapeva di essere una delusione, ma Dia si era limitata a stringerlo in un abbraccio profumato d'infanzia e di malinconia, e Tommy aveva pianto. “Non sei una delusione...” aveva tentato di consolarlo Dia, ma le lacrime cadevano e le ragioni per versarle si accumulavano nella sua testa fino a farla scoppiare.
Quel giorno Tommy non voleva piangere. Non voleva cedere un'altra volta. Ma forse Dia l'aveva capito, come una madre fa sempre, aveva capito il suo bambino. Gli porse il proprio cellulare per fargli leggere un messaggio. Aveva un'espressione indecifrabile, e disse solo: “Se gli do un'altra possibilità è perché tu ne hai bisogno, non perché lui se la meriti.”
Tommy non ebbe bisogno di leggere il destinatario per capire chi fosse. Era lui, chi altri? Il suo tormento, la sua ossessione e l'unico che avesse mai meritato il suo amore. L'sms non conteneva altro che il numero di Tommy, preceduto dal suo nome e seguito da un “fanne buon uso”. Non era firmato.
“L'ho inviato dieci minuti fa. Isaac e Sophie non sanno nulla, né devono saperlo.” gli spiegò la donna, sussurrando in tono complice, e Tommy si sentì tanto un bambino. Per la prima volta dopo tanto tempo sentì il bisogno di un abbraccio, un bisogno che sua madre non era preparata a capire e che non riuscì a cogliere. Ma d'altronde è sempre così con gli abbracci, mancano sempre quando ne hai bisogno, un po' come le persone che scappano via nei momenti peggiori.
Fu un dovere per quella madre distrutta dalla malattia del figlio assecondarne i bisogni e alimentarne le illusioni. Le persone sono come le cose, si rompono e non ritornano più come prima, non importa quanta colla si utilizzi, né quanto tempo vi si dedichi, né l'attenzione e la cura che vi s'impieghi. E come Tommy, anche Dia si era rotta e non aveva più la forza di fare quel che credeva giusto, ma solo di fare ciò che le imponeva il cuore. Diede una speranza a Tommy per darla a sé stessa, perché le preghiere non bastavano più. Gli diede una speranza perché voleva aggrapparcisi con lui e tenerlo stretto e pregare che li riportasse entrambi a galla. Lo fece perché voleva crederci nelle persone, voleva credere nell'amore e voleva credere che per Tommy ci fosse ancora tempo, ci fosse una vita, ci fosse un flebile Sole. Lo fece perché per una volta voleva fidarsi di quella buffa cosa chiamata destino e dimostrare a sé stessa che quello di suo figlio non era morire così, non era una palude d'oscurità, non era il dolore. Sapeva meglio di chiunque altro quanto il suo bambino meritasse di essere felice e non poteva vivere senza credere che prima o poi sarebbe arrivato il suo momento.
La speranza sa essere una cosa strana, e fu strano il modo in cui riuscì a distruggere Tommy, fu peculiare il modo in cui un soffio di nostalgia riuscì a causare un incredibile disastro in mezzo ai cristalli del suo dolore. Il baratro si spalancò per l'ennesima volta, infinito e senza pietà, proprio sotto di lui. Che stupido che era stato, a pensare di aver raggiunto il fondo! Si era tranquillizzato e aveva messo a posto la sua vita, aveva pensato che si sarebbe stabilito lì, si sarebbe abituato a quel freddo, tutto sommato lo aiutava ad anestetizzare il dolore, e forse sarebbe vissuto così, ad aspettare il nulla, svuotato da tutto, ma avrebbe vissuto. Quella sistemazione aveva anche iniziato a piacergli... ma doveva saperlo, doveva immaginare che la depressione è infinita come l'universo. Lui la conosceva bene, quella pozza buia e densa in cui puoi affondare senza fine, senza mai vedere la luce. E, anche se gli piaceva raccontarsi tutta un'altra storia, quelle stupide stelle che gli sembrava di vedere non erano nulla se non dolore così pungente da provocargli le allucinazioni, e quelle labbra che sognava di notte erano solo le briciole di un'illusione ormai vecchia, sfumata dal tempo e dalle lacrime. Non poteva continuare così, non poteva combattere per respirare in ogni istante della propria vita, non poteva aggrapparsi al fumo di inutili speranze, non poteva fingere che quello che ormai si prolungava da cinque anni non fosse che un lento, lentissimo omicidio e non poteva più fingere di non sapere che, come tutti gli omicidi, si sarebbe potuto concludere solo con una cosa: la morte.













   
 
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