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Autore: Notthyrr    15/11/2012    3 recensioni
[Loki; Thor]
Si dice che un giorno Loki scommise la propria testa con i nani, sicuro di fornire agli dèi doni migliori di quanto loro potessero creare. Ma perse.
Per abile sotterfugio, il suo capo restò attaccato al collo, ma le minute creature trovarono un modo migliore per umiliarlo: le labbra gli furono cucite.
E tutto per aver tagliato i capelli della giovane sposa di Thor…
Genere: Drammatico, Introspettivo, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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E faceva male. Dannatamente male. Bruciava, sì, da impazzire. Quel sorriso che io — io, narcisista dannato — avevo osato chiamare splendido, rovinato. Quel sorriso altezzoso, così sicuro di sé… sfumato, morto.
Non sarebbe più tornato lo stesso, mi dicevo.
Quel maledetto laccio di cuoio giaceva sul pavimento, vicino ai miei piedi. Era buio e questo, almeno, me ne risparmiava la vista, anche se lo sapevo — eccome se lo sapevo! —: era macchiata del mio sangue. Come le mie mani. Quale allegoria migliore a indicare che era solo colpa mia? Era sempre stata solo colpa mia. Me lo meritavo, il dolore. Me lo meritavo tutto.
La mia mano corse a quelle morbide labbra che erano state così belle: gelo.
Le mie dita parevano di ghiaccio, o, forse, lo erano realmente diventate, in quel luogo di gelidi sentimenti dove per me non c’era calore.
Una sostanza viscosa le accolse; ancora. Se l’avessi potuta vedere, sarebbe stata cremisi. Sotto, un volto deturpato, un paio di sottili labbra punteggiate da piccoli solchi rossi: avevano proprio ragione! Mio padre lo diceva sempre: “Esiste un arazzo che in antico fu tessuto. Un ago può decidere il fato di molte persone.”
Con me ci era riuscito. E lui era rimasto lì a guardare mentre accadeva. Quale padre resterebbe a guardare mentre una vile creature sfregia il sorriso del figlio?
Non lo avrei mai più fatto, non avrei mai più sorriso: come avrei potuto, quando sarebbe apparso un ghigno di strega?
A lui non importava.
Sulle mie palpebre chiuse si profilò l’immagine di quel momento: mani tozze, robuste, strette attorno al collo; un ago infilato appena all’angolo della bocca. E, dietro tutto, mio padre che guardava.
Era colpa mia; lo meritavo tutto.
La schiena, stesa contro il muro, doleva anch’ella. Che non riuscisse più a sopportare il peso di tutte le mie colpe?
La testa mi cadde tra le ginocchia, il busto mi s’incurvò e lì rimasi. Quella testa… lo avrebbero dovuto fare! L’avrebbero dovuta staccare! Così era stato scommesso!
Era solo colpa mia…
E, invece, il rimedio era peggiore del male e l’umiliazione mi piegava ancora di più la schiena. Speravo che si spezzasse. Ma ero più forte di quanto volessero farmi credere.
La scena marchiata a fuoco su quelle palpebre sfumò nel bianco quando il candido colore inondò la stanza. Chi aveva aperto la porta?
Mi seppellii ancor di più tra le mie gambe, un miserabile verme che si contorceva su se stesso.
La tentazione fu troppo forte, il mio spirito debole. Aprii un occhio, uno solo.
C’era una figura nera contro il lattiginoso e annebbiato sfondo. Una figura alta e inequivocabile che scomparve presto, risucchiata nell’oscurità della stanza nel momento in cui, rapido, richiuse la porta.
Non così rapido: quella dannata stringa rilucette nella sua pozza vermiglia e me ne venne solo altro dolore, prima che i miei occhi fossero gettati nuovamente nel buio.
Avvertivo la sua presenza nella stanza assieme a un pungente odore di bosco.
Lo odiavo, quel profumo, ma non potevo farne a meno.
Come se potesse, come un gatto, avere chiara la visuale in quella fitta oscurità, lui si avvicinò.
Che cos’era venuto a fare? Voleva umiliarmi? Come se avesse potuto farlo più di così… Voleva picchiarmi? Ricordai l’immagine, fugace e nera, che, per un secondo solo, avevo visto oscurare l’ingresso: no, si sarebbe portato il dannato martello… E allora cosa voleva?
Era davanti a me, lo sentivo incombere sul mio corpo rannicchiato. Poi s’inginocchiò.
Avrei voluto gridare, avrei voluto sputargli in faccia tutta la mia collera, ma quelle maledette labbra non si schiudevano: solo pensarlo mi arrecava dolore. E il sangue tornava a sgorgare…
Mi sentii una mano sul collo. Ancora!
Strinsi gli occhi. No, non stava accadendo di nuovo: quella mano era gentile, era dolce. E stava cercando il mio mento.
Lo trovò.
Gridare. Era l’unico desiderio che mi ardeva in petto. Ma come potevano quelle fragili labbra solo sperare di proferire verbo? E come potevano quegli occhi di ghiaccio non arrossarsi, non esplodere in pianto, quando le lacrime premevano così forte per uscire? Quale figura ci avrei fatto? Quale, davanti al possente Thor che mi stringeva il mento e credevo volesse strangolarmi?
Dita calde si posarono sulla ferita aperta e io tremati: levando la stringa che mi teneva le labbra cucite — ci erano riusciti, finalmente, a mettermi a tacere! —, mi ero solo procurato ulteriore dolore. E allora non avevo forse ragione di ripeterlo? Era solo, solo e soltanto colpa mia! Ma non riuscivo — non potevo! — ammetterlo.
Quelle dita gentili mi portarono via la vischiosa sostanza dalle labbra e quella sgradevole sensazione parve finire.
Finire, terminare, annullarsi. Sembravano voler dirmi questo, quelle mani cortesi: “È tutto finito!” Ma era una bugia. Un’affascinante bugia, come quelle che mi avevano sempre riempito la bocca.
Sino a quel giorno.
«Loki.» mi sentii chiamare. C’era affetto, in quella parola, ma come potevo io percepirlo in un nome che urlava guai e sventura?
Gridare, ancora. Gridargli in faccia tutta la sua idiozia.
Come poteva venire lì, dopo quello che era accaduto, e dire solo… “Loki”?
«Fratello.» disse poi.
Alzai il capo e le sue dita mi abbandonarono. Un po’ — solo per un attimo — mi mancò quel contatto.
“Fratello”. Incredibile come una sola parola potesse portarsi dentro un tale significato, come potesse toccare il cuore di qualcuno, farne vibrare ogni singola corda come un abile bardo sfiorava la sua cetra. Come poteva valere tanto, valere più della mia intera esistenza?
Quel tocco tornò a farsi sentire e i miei occhi si aprirono: in quel buio così denso, mi parve di potere vedere i suoi.
«Fratello.» ripeté.
E io mi sentii già meglio.











Note: Occhei questa doveva sembrare una specie di nota su "qualcosa che poi scriverò", che invece è diventata un "Pazienza, è una nota un po' lunga. Cosa ne dici se la scrivo adesso?".
So alquanto bene che le cose si svolgerebbero un po' (tanto) diversamente: i rapporti di parentela -  per quanto con questi asgardiani ci sia dasbizzarrirsi - non sono certo esatti. Lo so. E Thor non se ne uscirebbe mai con un "fratello" quando, spesso, l'unico motivo per cui si portava Loki appresso era per tenerlo ben d'occhio.
Ma anche il "potente dio del tuono" ha un cuore, no? E quel piccolo castigo, in fondo, era dipeso anche un po' da lui. E dunque...

Finendola con questi vaneggiamenti, spero sia comunque apprezzata.
Grazie per la lettura.

  
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