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Autore: suni    02/06/2007    3 recensioni
Cinque flash a tema unico.
Quando per troppo tempo si è vissuto privi delle più basilari componenti della normale esistenza, si arriva più vicini a cogliere la reale essenza delle cose.
Genere: Malinconico, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Sirius Black
Note: Raccolta | Avvertimenti: nessuno
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Elementi

Salve a tutti. Novità, guarda guarda.

Queste sono cinque flash –massimo 500 parole, un esperimento- legate da un comune tema che, come avrete capito, è quello dei quattro elementi più uno (quindi cinque elementi, se la matematica non è un’opinione) incentrate su un personaggio e un momento temporale unici. Aria, terra, acqua, fuoco e spirito.

Il personaggio, se mi conoscete già, sapete chi è.

 

L’idea proviene da fanfic100_ita e dalla Big Damn Table.

 

Se volete farmi pervenire una vostra opinione, ve ne sarò riconoscente.

suni

 

 

Elementi

 

 

 

Correva sulle quattro zampe da ore, come non aveva mai corso in tutta la vita, senza badare ai muscoli stanchi ed atrofizzati e alla paura. Corse finché non gli sembrò di non poter arrivare più lontano, e solo allora si fermò, sfinito.

E poi era un uomo, immobile e solo, nella silenziosa oscurità della campagna buia.

 

 

Aria

 

Inspira.

Espira.

Inspira.

Espira.

Ossigeno lungo la trachea, nei polmoni, nel sangue. Una scossa fresca lungo i nervi, una carezza che percorreva muscoli logorati e sfiniti.

Un altro inspiro, più intenso e lungo, prima di sollevare timidamente e desiderosamente gli occhi verso l’alto.

Stelle.

Il cielo, finalmente, nero e buio spruzzato di bagliori infinitesimali, tremuli e splendenti. Così tanto tempo, era passato, dall’ultima volta che lo aveva visto, che smise per qualche secondo di respirare, troppo riempito da quello spettacolo per avere spazio per l’aria.

Chiuse gli occhi, prima di sorridere prendendo fiato un’altra volta. Un sorriso che a raccontarlo non sarebbero bastati mille anni, tanto era rilucente persino in quel buio pesto, schiarito solo dalla luce lunare bianchissima; il volto gli si allargò all’istante, perse per qualche secondo la tetraggine allucinata per ritornare a comporsi in se stesso.

Indescrivibile quella freschezza sulla pelle, quell’alito di energia che la brezza gli faceva scivolare sui pori, fino ad annegarlo: aria fresca, mossa, viva dopo dodici anni di mortifera atmosfera stagnante. Una spinta lungo tutto il corpo, e dentro, con l’ossigeno pulito che entrava ed usciva dai suoi alveoli come una carezza morbida.

Come se il mondo lo stesse riaccogliendo alla vita con un abbraccio.

Nonostante quel che aveva fatto.

Soltanto in quel momento riaprì gli occhi, trovandosi di nuovo davanti le stelle, luminose sorelle notturne. E il loro bagliore controllò almeno in parte il nascente senso d’angoscia portato da quell’involontario pensiero, quell’invasione di passato doloroso e cupo nel momento di rinascita. Inspirò di nuovo intensamente, piegando appena il capo indietro, mentre il cespuglio zozzo di capelli gli ondeggiava sulla schiena. Fece un passo avanti, dopo l’immobilità attonita, inclinò la testa ancora di più indietro ed allargò le braccia senza più muoversi, assaporando il tocco del vento che sembrava volerlo sollevare da terra.

Inspira.

Espira.

Lentamente girò su se stesso, le braccia gli disegnarono un cerchio intorno, lo spostamento d’aria fece ondeggiare la tunica lercia che gli dondolò addosso. Aumentò la velocità, vento contro il viso, le braccia, le gambe, attraverso il tessuto sfarfallante e consumato, come una stentata danza di ubriaco. L’aria sembrava sul punto di fargli spiccare il volo.

Nemmeno un suono nella radura deserta e buia delle ombre di rami, soltanto quel fruscio e quell’aria sibilante. Fuori dal mondo e fuori dal tempo, un momento sospeso tra il cielo e la realtà, una realtà odiosa che per un istante, finalmente, si fece da parte per gioire della fuga. Solo per qualche istante abbandonò il rimorso e il dolore per lasciare il ricambio a nuovo ossigeno, nuova vita.

Continuò a girare finché la testa non gli si fece troppo pesante, e con un lungo gemito che gli liberò la gola compressa si lasciò cadere a terra scompostamente, abbandonando il peso sulle gambe.

Il cuore gli rimbalzava in petto, lo sentiva di nuovo battere dopo tanto tempo, il respiro accelerato che spingeva più aria nei polmoni, più veloce, aria.

Atterrò senza fare rumore, le mani affondate nell’erba.

Respira.

Libertà.

  

 

 

Terra

 

Morbida.

Morbida e umida, l’erba sotto le dita, mentre il respiro gli si calmava.

Serrò le dita intorno a quegli steli delicati, li sentì con l’interezza della pelle della mano, contro tutto il palmo, sfregandolo lentamente, chiudendo di nuovo gli occhi.

Strinse e tirò, e gli sembrò quasi che il rumore dello strappo fosse come un tuono, mentre la sua mano tratteneva gli steli prima di lanciarli sopra di lui, facendoli piovere sulla sua testa leggermente sollevata verso l’alto.

Poggiò di nuovo i palmi sul prato e affondò le dita più che poteva.

Trattenne il fiato mentre sprofondavano, più giù, sotto l’erba. Il terriccio era compatto ma soffice, lo accolse come un vecchio amico.

Sembrava che le dita gli si fondessero con quella terra ritrovata, come le radici di un albero che penetrano in profondità. Come quelle stesse radici assetate sentì forza ed energia provenire dalla terra, balsamiche, che lo colmavano con un brivido.

Chinò la testa fino quasi ad appoggiarla ed annusò il profumo del terreno, madre generosa, lo riconobbe con un sussulto di puro stupore, ritrovandone perfettamente l’essenza nella memoria, dopo anni ed anni trascorsi circondato dalla fredda pietra.

Un odore acre, intenso ma vellutato, il profumo della terra feconda, fonte di vita. Mischiato a quello dell’erba, e dell’aria che portava sentori lontani. La terra era tutta sua, di nuovo, ovunque, la poteva calpestare e percorrere e toccare. Come un albero, poteva finalmente tornare a piantare i piedi in terra e protendersi col capo verso il cielo.

Mosse le mani per sentirle conficcate nel terreno, le strinse e le sollevò portandole verso il viso; aprì un poco le dita.

Nella notte, vedeva solo una macchia nera sulla sua pelle chiarissima, un qualcosa di scuro e granuloso, ma che ogni centimetro di lui riconosceva al tatto come se stesso, perché era umano ed era fatto di terra. E sorrise di nuovo, pienamente, prima di allargare ancora un po’ le mani e passarsele sul volto, in una carezza ruvida di terriccio che cadeva e gli sporcava il viso come un dipinto.

Rise nel silenzio: appena sottovoce ma sembrò un suono forte, troppo forte per un uomo che poteva solo scappare. Si sentì d’un tratto scoperto, visibile. Anzi, già visto. Con uno scatto dettato dalla paura si appiattì al suolo come per nascondersi.

Ma non c’erano altri suoni, solo il respiro della campagna addormentata.

Fosse stato sdraiato sul più sontuoso materasso si sarebbe sentito scomodo, al confronto di quella sensazione meravigliosa di naturalezza e appartenenza. Era dura, la terra, eppure così cedevole sotto il suo peso, era come essere un tutt’uno. Chiuse di nuovo gli occhi, respirò.

Era una culla, quel terriccio, in cui perdersi per l’eternità, ora che l’aveva ritrovata.

Si accorse appena in tempo di essere sul punto d’addormentarsi, spalancò di scatto gli occhi con urgenza.

Doveva andare via di lì, più lontano.

Si alzò malvolentieri, ma concentrato sulla sensazione delle piante dei suoi piedi a terra, quel profumo ancora nel naso.

Respira.

Annusa, tocca.

Libertà.

 

 

Acqua

 

Quel suono.

Era tornato cane, per spostarsi più in fretta, ma quando lo udì si fermò.

Un canto sussurrato, acuto e sottile, frusciante.

Ed era di nuovo un uomo quello che s’inerpicava a quattro zampe sul leggero declivio tra le piante, aggrappandosi a rami e radici per fare più veloce, prima di sporgersi oltre il limitare della salita e lanciare un involontario grido di stupore e meraviglia.

Era arrivato al fiume.

Col fiato spezzato rimase immobile a guardare. La fioca luce della notte rifletteva i suoi bianchi raggi sulla superficie dell’acqua, che li rifletteva con bagliori perlacei e cangianti, vibranti delle minuscole onde che scorrevano. Riverbero di luce liquida, irreale ed etereo: gli riempì gli occhi fino a strabordare, riflessa in argento.

Non gli sembrò di aver mai visto nulla di più bello, si sentì vivo solo per ciò che i suoi occhi osservavano, e dondolò la testa seguendo lo sciabordio melodioso dell’acqua contro la riva, come una musica senza note. Dai timpani quell’armonia divina s’insinuava nei nervi, fino ad arrivare al cuore ed accompagnarne il ritmo come un tutt’uno primordiale, una nenia riposante.

Sorpassò la sommità del terreno e scivolò, caracollò fino alla riva del fiume incespicando nel sottobosco umido e sdrucciolo. Nemmeno esitò prima di lasciasi cadere in avanti.

L’acqua non era più profonda di dieci centimetri, ma gli sembrò di cadere in mare, ogni terminazione nervosa affogata in quel piacere gelido e rigenerante. Come uno schiaffo amoroso, l’acqua lo ricevette benevola cantando di maggiore allegria.

Era il proprio gemito quello che udì, perfettamente intonato con il fruscio dell’onda.

Mosse le braccia e si spinse avanti fino a bagnarsi completamente, percependo il pulito e la purezza che si portavano via anni di stanchezza, di sudori freddi e risciacqui melmosi. Il battesimo della rinascita lo investì, fece qualche bracciata in avanti fino a raggiungere un punto dove l’acqua più profonda lo staccò dalla terra.

E lì, pazzo di gioia, si allungò sul dorso, restando fermo, muovendo appena i piedi e le mani per restare a galla, gli occhi di nuovo alle stelle e lo sciacquio dritto nelle orecchie.

Vivo, vivo, vivo, cantava il fiume. Bentornato, fratello sventurato.

L’acqua lo sosteneva sospeso fra il cielo e la terra, quasi fosse stato incorporeo e senza peso. Lo coccolava come una donna dopo l’amore, ricordo vago e suadente.

Di scatto, si raddrizzò ed immerse tutta la testa, trattenendo il fiato.

Aprì gli occhi, e vide luce sfocata, fiochissima, confusa, un fruscio sordo nelle orecchie e un massaggio delicato sul viso. Restò sotto finché non si senti scoppiare i polmoni e riemerse con un lungo inspiro.

L’acqua gli gocciolava sul viso, rivoli di depurazione benefica.

Lentamente tornò verso la riva, emergendo poco a poco, o forse nascendo.

Quando fu fuori restò immobile a sentire l’acqua scorrergli addosso, tornò a guardarla risplendere nella notte e ad ascoltarne la voce, ignorando il freddo cui comunque era abituato. Si scrollò piano, guardando le gocce saltare via.

Sorrise ancora.

Respira.

Annusa, tocca.

Guarda, ascolta.

Libertà.

 

 

 

 

Fuoco

 

Aveva freddo.

Da dodici anni.

Anche cane, aveva freddo: era fradicio d’acqua, stanco e sperduto.

Se avesse solo potuto scaldarsi, un momento soltanto. Accendere un fuoco e sedersi davanti alla fiamma. Ma avrebbero visto il fumo anche da lontano. Era una notte troppo luminosa, non avrebbe forse risaltato nel cielo, la fumata?

Proseguì ancora per qualche decina di metri, caracollando silenzioso; le zampe vellutate non facevano rumore sul terreno, sembravano scegliere da sole il punto più stabile su cui posarsi.

Non potevano sapere che cercavano un cane. Al primo rumore si sarebbe trasformato e nessuno l’avrebbe visto. Doveva scaldarsi e sedere qualche istante, non poteva continuare.

Doveva trovare un punto riparato, nascosto; quando individuò la rientranza nella roccia scodinzolò, prima di tornare uomo.

Raccolse rami secchi tutt’intorno, li strinse sentendone il peso lieve e l’odore della corteccia. Sapeva accendere un fuoco, perlomeno in teoria. Sfregare due bastoncini, si ripeteva, sfregarli finché non fanno la scintilla.

Continuò a ripeterselo mentre strofinava un rametto contro l’altro facendolo turbinare tra i palmi delle mani unite. Non funzionava, non riusciva. I capelli bagnati gli si incollavano al viso, la tunica gocciolava ancora. Gli tremavano le gambe, sporche di terra e fogliame. Strofina. Più veloce, di più, senza bagnare il legno. Ancora. Più in fretta.

Strillò, con voce di ragazzino, quando la fiammella illuminò il terreno davanti a lui. Rimase a guardarla imbambolato per qualche secondo mentre attecchiva, poi aggiunse qualche legnetto; funzionava. Altra legna, tutt’intorno.

Si abbandonò a sedere in terra, come avesse speso l’ultimo residuo di energia, gli occhi sgranati e fissi sulla fiamma che s’ingrandiva, la bocca semiaperta.

Timidamente, lentamente, allungò le mani tremanti in avanti e soffocò un gemito.

Calore, lo sentiva espandersi intorno alla luce rossastra del fuoco, che spingeva intorno un riverbero tremante ed irregolare; lo spazio intorno a lui pareva più accogliente ed amichevole tinto di un caldo arancione, ma non aveva importanza, perché non poteva spostare lo sguardo.

Il legno si anneriva e la brace brillava incandescente; e appena sopra un fantasma rossastro faceva ballare i suoi veli linguacciuti in un crepitio gentile, dondolavano e si piegavano e si tendevano verso l’alto senza fermarsi mai, e irradiavano luce e vapore caldo. L’aria conduceva la danza ipnotica della fiamma guidandola su, giù, destra, sinistra, ogni lingua indipendentemente dalle altre.

Scaldava la pelle, il sangue, i muscoli e il cuore. Lo avvolgeva generosamente in un abbraccio ardente e amico, dopo tanti anni che aveva freddo si sorprese di notare come gli sembrasse in quel momento di non aver bisogno di niente altro, mai più, tranne quel fuoco caldo.

Tutta la superficie del suo corpo riprendeva forza e si distendeva sempre più, si beava di quella sensazione di rinnovamento e disgelo del sangue a lungo dimenticato. Il tepore lo cullava e finalmente respirò con naturalezza, il battito cardiaco normalizzato come non lo era da troppo tempo.

Sollevò gli occhi di nuovo verso il cielo, trovando un soffio di calma e lucidità.

Respira.

Annusa, tocca.

Guarda, ascolta.

Riscaldati, senti.

Libertà.

 

 

 

 

Spirito

 

E guardò il cielo.

Lo osservò razionalmente come se non l’avesse ancora visto, e in un certo senso così era. Con la mente libera prese coscienza di quanto avvenuto, di dove si trovasse e chi fosse, lì in quella notte luminosa.

Luminosa, sì, e guardò per la prima volta lucidamente la Luna.

Luna piena.

Sussultò, l’uomo, osservando il tondo di perla nel cielo.

Notte di lupi. Notte di Licantropi, quasi si aspettò di udire un ululato.

Lunastorta.

Gli occhi spiritati si spostarono dal cielo per tornare sulla fiamma, spaesati.

Non gli avrebbe creduto. L’avrebbe riportato là nella fortezza e lui ne sarebbe morto. Non gli avrebbe mai creduto, Lunastorta: assassino, traditore e assassino. Venduto, miserabile.

No. Lui non l’aveva fatto. Non aveva dimenticato le promesse, e le notti di luna come quella. Anche volendo non avrebbe potuto dimenticare.

Ricordava bene quell’altra vita, tanto tempo prima. Secoli, forse, centinaia di anni. Quel ragazzo che rideva sempre e giocava al ribelle. Era così ingenuo quel ragazzo, così sciocco. Così fiducioso, povero Sirius. Se lo ricordava come ci si ricorda di qualcuno che si è conosciuto e poi perso di vista, e gli faceva tenerezza, e pena, perché era tanto innocente e boccalone. Quel ragazzo con le mani pulite, non sporche di sangue. Le sue ne grondavano inesorabilmente, erano coperte di sangue. Ma si ricordava.

Lunastorta, Felpato.

Ramoso.

Ramoso. James.

Gli occhi ora guardavano immobili il terreno, lo guardavano persi e disperati. L’uomo si stringeva le ginocchia spasmodicamente.

“E’ morto”

La sua voce suonò irreale, ma non lo era e lui lo sapeva.

Era suo, il sangue sulle mani. Era il sangue di James che gli gocciolava dalle dita da dodici anni, mischiato alle lacrime e accompagnato dai singhiozzi. Non poteva dimenticare, neanche desiderandolo.

Aveva ucciso suo fratello. Gemette nel silenzio, si portò le mani al viso e le tenne lì, strette, come artigli sulla pelle. Era maledetto, sporco, aveva l’anima marchiata e corrotta.

Aveva tanto voluto salvarlo.

Aveva tanto pregato e sperato.

Strinse le palpebre con una smorfia sofferta.

Ma non era stato lui.

Non era stato lui.

Codaliscia.

Sollevò la testa quasi ringhiando.

Quel nome l’aveva bestemmiato tutto il tempo. Codaliscia, Peter, traditore vigliacco. Assassino del proprio fratello, immondo essere inferiore.

Strinse i pugni con collera e odio, vero, scritto negli occhi riverberati dal fuoco.

Doveva pagare. Assassino, doveva essere punito. Ad Hogwarts, era lì che l’avrebbe trovato. E l’avrebbe ucciso, perché era giusto e perché lo voleva.

L’avrebbe guardato morire e avrebbe riso di gioia.

Si riscosse, stralunato.

Ad Hogwarts c’era Harry.

Avrebbe visto il figlio di James.

Sorrise, un barlume di tenerezza a rendere umano il volto spettrale.

Povero orfano della guerra, ragazzino abbandonato. L’avrebbe rivisto dopo tanto tempo, il suo figlioccio amato e perduto. Come desiderava abbracciarlo, aiutarlo. L’aveva promesso, l’aveva promesso a James.

D’un tratto lo invase il desiderio di vederlo, subito, di scoprirlo sano, salvo. Di cercare nei suoi occhi la discendenza di James. Vederlo, adesso.

Non aveva più freddo.

Era tempo di andare.

Libero.

 

 

 

 

 

 

 

   
 
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