Salve a tutti. Novità,
guarda guarda.
Queste sono cinque flash
–massimo 500 parole, un esperimento- legate da un comune tema che, come avrete
capito, è quello dei quattro elementi più uno (quindi cinque elementi, se la
matematica non è un’opinione) incentrate su un personaggio e un momento
temporale unici. Aria, terra, acqua, fuoco e spirito.
Il personaggio, se mi
conoscete già, sapete chi è.
L’idea proviene da fanfic100_ita e
dalla Big Damn Table.
Se volete farmi pervenire
una vostra opinione, ve ne sarò riconoscente.
suni
Elementi
Correva sulle quattro zampe da ore, come non aveva mai
corso in tutta la vita, senza badare ai muscoli stanchi ed atrofizzati e alla
paura. Corse finché non gli sembrò di non poter arrivare più lontano, e solo
allora si fermò, sfinito.
E poi era un uomo, immobile e solo, nella silenziosa oscurità
della campagna buia.
Aria
Inspira.
Espira.
Inspira.
Espira.
Ossigeno lungo la trachea, nei polmoni, nel sangue.
Una scossa fresca lungo i nervi, una carezza che percorreva muscoli logorati e
sfiniti.
Un altro inspiro, più intenso e lungo, prima di
sollevare timidamente e desiderosamente gli occhi verso l’alto.
Stelle.
Il cielo, finalmente, nero e buio spruzzato di
bagliori infinitesimali, tremuli e splendenti. Così tanto tempo, era passato,
dall’ultima volta che lo aveva visto, che smise per qualche secondo di
respirare, troppo riempito da quello spettacolo per avere spazio per l’aria.
Chiuse gli occhi, prima di sorridere prendendo fiato
un’altra volta. Un sorriso che a raccontarlo non sarebbero bastati mille anni,
tanto era rilucente persino in quel buio pesto, schiarito solo dalla luce
lunare bianchissima; il volto gli si allargò all’istante, perse per qualche
secondo la tetraggine allucinata per ritornare a comporsi in se stesso.
Indescrivibile quella freschezza sulla pelle,
quell’alito di energia che la brezza gli faceva scivolare sui pori, fino ad
annegarlo: aria fresca, mossa, viva dopo dodici anni di mortifera atmosfera
stagnante. Una spinta lungo tutto il corpo, e dentro, con l’ossigeno pulito che
entrava ed usciva dai suoi alveoli come una carezza morbida.
Come se il mondo lo stesse riaccogliendo alla vita con
un abbraccio.
Nonostante quel che aveva fatto.
Soltanto in quel momento riaprì gli occhi, trovandosi
di nuovo davanti le stelle, luminose sorelle notturne. E il loro bagliore
controllò almeno in parte il nascente senso d’angoscia portato da
quell’involontario pensiero, quell’invasione di passato doloroso e cupo nel
momento di rinascita. Inspirò di nuovo intensamente, piegando appena il capo
indietro, mentre il cespuglio zozzo di capelli gli ondeggiava sulla schiena.
Fece un passo avanti, dopo l’immobilità attonita, inclinò la testa ancora di
più indietro ed allargò le braccia senza più muoversi, assaporando il tocco del
vento che sembrava volerlo sollevare da terra.
Inspira.
Espira.
Lentamente girò su se stesso, le braccia gli
disegnarono un cerchio intorno, lo spostamento d’aria fece ondeggiare la tunica
lercia che gli dondolò addosso. Aumentò la velocità, vento contro il viso, le
braccia, le gambe, attraverso il tessuto sfarfallante e consumato, come una
stentata danza di ubriaco. L’aria sembrava sul punto di fargli spiccare il
volo.
Nemmeno un suono nella radura deserta e buia delle
ombre di rami, soltanto quel fruscio e quell’aria sibilante. Fuori dal mondo e
fuori dal tempo, un momento sospeso tra il cielo e la realtà, una realtà odiosa
che per un istante, finalmente, si fece da parte per gioire della fuga. Solo
per qualche istante abbandonò il rimorso e il dolore per lasciare il ricambio a
nuovo ossigeno, nuova vita.
Continuò a girare finché la testa non gli si fece
troppo pesante, e con un lungo gemito che gli liberò la gola compressa si
lasciò cadere a terra scompostamente, abbandonando il peso sulle gambe.
Il cuore gli rimbalzava in petto, lo sentiva di nuovo
battere dopo tanto tempo, il respiro accelerato che spingeva più aria nei
polmoni, più veloce, aria.
Atterrò senza fare rumore, le mani affondate
nell’erba.
Respira.
Libertà.
Terra
Morbida.
Morbida e umida, l’erba sotto le dita, mentre il
respiro gli si calmava.
Serrò le dita intorno a quegli steli delicati, li
sentì con l’interezza della pelle della mano, contro tutto il palmo,
sfregandolo lentamente, chiudendo di nuovo gli occhi.
Strinse e tirò, e gli sembrò quasi che il rumore dello
strappo fosse come un tuono, mentre la sua mano tratteneva gli steli prima di
lanciarli sopra di lui, facendoli piovere sulla sua testa leggermente sollevata
verso l’alto.
Poggiò di nuovo i palmi sul prato e affondò le dita
più che poteva.
Trattenne il fiato mentre sprofondavano, più giù,
sotto l’erba. Il terriccio era compatto ma soffice, lo accolse come un vecchio
amico.
Sembrava che le dita gli si fondessero con quella
terra ritrovata, come le radici di un albero che penetrano in profondità. Come
quelle stesse radici assetate sentì forza ed energia provenire dalla terra,
balsamiche, che lo colmavano con un brivido.
Chinò la testa fino quasi ad appoggiarla ed annusò il
profumo del terreno, madre generosa, lo riconobbe con un sussulto di puro
stupore, ritrovandone perfettamente l’essenza nella memoria, dopo anni ed anni
trascorsi circondato dalla fredda pietra.
Un odore acre, intenso ma vellutato, il profumo della
terra feconda, fonte di vita. Mischiato a quello dell’erba, e dell’aria che
portava sentori lontani. La terra era tutta sua, di nuovo, ovunque, la poteva
calpestare e percorrere e toccare. Come un albero, poteva finalmente tornare a
piantare i piedi in terra e protendersi col capo verso il cielo.
Mosse le mani per sentirle conficcate nel terreno, le
strinse e le sollevò portandole verso il viso; aprì un poco le dita.
Nella notte, vedeva solo una macchia nera sulla sua
pelle chiarissima, un qualcosa di scuro e granuloso, ma che ogni centimetro di
lui riconosceva al tatto come se stesso, perché era umano ed era fatto di
terra. E sorrise di nuovo, pienamente, prima di allargare ancora un po’ le mani
e passarsele sul volto, in una carezza ruvida di terriccio che cadeva e gli
sporcava il viso come un dipinto.
Rise nel silenzio: appena sottovoce ma sembrò un suono
forte, troppo forte per un uomo che poteva solo scappare. Si sentì d’un tratto
scoperto, visibile. Anzi, già visto. Con uno scatto dettato dalla paura si
appiattì al suolo come per nascondersi.
Ma non c’erano altri suoni, solo il respiro della
campagna addormentata.
Fosse stato sdraiato sul più sontuoso materasso si
sarebbe sentito scomodo, al confronto di quella sensazione meravigliosa di
naturalezza e appartenenza. Era dura, la terra, eppure così cedevole sotto il
suo peso, era come essere un tutt’uno. Chiuse di nuovo gli occhi, respirò.
Era una culla, quel terriccio, in cui perdersi per
l’eternità, ora che l’aveva ritrovata.
Si accorse appena in tempo di essere sul punto
d’addormentarsi, spalancò di scatto gli occhi con urgenza.
Doveva andare via di lì, più lontano.
Si alzò malvolentieri, ma concentrato sulla sensazione
delle piante dei suoi piedi a terra, quel profumo ancora nel naso.
Respira.
Annusa, tocca.
Libertà.
Acqua
Quel suono.
Era tornato cane, per spostarsi più in fretta,
ma quando lo udì si fermò.
Un canto sussurrato, acuto e sottile,
frusciante.
Ed era di nuovo un uomo quello che s’inerpicava
a quattro zampe sul leggero declivio tra le piante, aggrappandosi a rami e
radici per fare più veloce, prima di sporgersi oltre il limitare della salita e
lanciare un involontario grido di stupore e meraviglia.
Era arrivato al fiume.
Col fiato spezzato rimase immobile a guardare.
La fioca luce della notte rifletteva i suoi bianchi raggi sulla superficie
dell’acqua, che li rifletteva con bagliori perlacei e cangianti, vibranti delle
minuscole onde che scorrevano. Riverbero di luce liquida, irreale ed etereo:
gli riempì gli occhi fino a strabordare, riflessa in argento.
Non gli sembrò di aver mai visto nulla di più
bello, si sentì vivo solo per ciò che i suoi occhi osservavano, e dondolò la
testa seguendo lo sciabordio melodioso dell’acqua contro la riva, come una
musica senza note. Dai timpani quell’armonia divina s’insinuava nei nervi, fino
ad arrivare al cuore ed accompagnarne il ritmo come un tutt’uno primordiale,
una nenia riposante.
Sorpassò la sommità del terreno e scivolò,
caracollò fino alla riva del fiume incespicando nel sottobosco umido e
sdrucciolo. Nemmeno esitò prima di lasciasi cadere in avanti.
L’acqua non era più profonda di dieci
centimetri, ma gli sembrò di cadere in mare, ogni terminazione nervosa affogata
in quel piacere gelido e rigenerante. Come uno schiaffo amoroso, l’acqua lo
ricevette benevola cantando di maggiore allegria.
Era il proprio gemito quello che udì,
perfettamente intonato con il fruscio dell’onda.
Mosse le braccia e si spinse avanti fino a
bagnarsi completamente, percependo il pulito e la purezza che si portavano via
anni di stanchezza, di sudori freddi e risciacqui melmosi. Il battesimo della
rinascita lo investì, fece qualche bracciata in avanti fino a raggiungere un
punto dove l’acqua più profonda lo staccò dalla terra.
E lì, pazzo di gioia, si allungò sul dorso,
restando fermo, muovendo appena i piedi e le mani per restare a galla, gli
occhi di nuovo alle stelle e lo sciacquio dritto nelle orecchie.
Vivo, vivo, vivo, cantava il fiume. Bentornato,
fratello sventurato.
L’acqua lo sosteneva sospeso fra il cielo e la
terra, quasi fosse stato incorporeo e senza peso. Lo coccolava come una donna
dopo l’amore, ricordo vago e suadente.
Di scatto, si raddrizzò ed immerse tutta la
testa, trattenendo il fiato.
Aprì gli occhi, e vide luce sfocata,
fiochissima, confusa, un fruscio sordo nelle orecchie e un massaggio delicato
sul viso. Restò sotto finché non si senti scoppiare i polmoni e riemerse con un
lungo inspiro.
L’acqua gli gocciolava sul viso, rivoli di
depurazione benefica.
Lentamente tornò verso la riva, emergendo poco
a poco, o forse nascendo.
Quando fu fuori restò immobile a sentire
l’acqua scorrergli addosso, tornò a guardarla risplendere nella notte e ad
ascoltarne la voce, ignorando il freddo cui comunque era abituato. Si scrollò
piano, guardando le gocce saltare via.
Sorrise ancora.
Respira.
Annusa, tocca.
Guarda, ascolta.
Libertà.
Fuoco
Aveva freddo.
Da dodici anni.
Anche cane, aveva freddo: era fradicio d’acqua,
stanco e sperduto.
Se avesse solo potuto scaldarsi, un momento
soltanto. Accendere un fuoco e sedersi davanti alla fiamma. Ma avrebbero visto
il fumo anche da lontano. Era una notte troppo luminosa, non avrebbe forse
risaltato nel cielo, la fumata?
Proseguì ancora per qualche decina di metri,
caracollando silenzioso; le zampe vellutate non facevano rumore sul terreno,
sembravano scegliere da sole il punto più stabile su cui posarsi.
Non potevano sapere che cercavano un cane. Al
primo rumore si sarebbe trasformato e nessuno l’avrebbe visto. Doveva scaldarsi
e sedere qualche istante, non poteva continuare.
Doveva trovare un punto riparato, nascosto;
quando individuò la rientranza nella roccia scodinzolò, prima di tornare uomo.
Raccolse rami secchi tutt’intorno, li strinse
sentendone il peso lieve e l’odore della corteccia. Sapeva accendere un fuoco,
perlomeno in teoria. Sfregare due bastoncini, si ripeteva, sfregarli finché non
fanno la scintilla.
Continuò a ripeterselo mentre strofinava un
rametto contro l’altro facendolo turbinare tra i palmi delle mani unite. Non
funzionava, non riusciva. I capelli bagnati gli si incollavano al viso, la
tunica gocciolava ancora. Gli tremavano le gambe, sporche di terra e fogliame.
Strofina. Più veloce, di più, senza bagnare il legno. Ancora. Più in fretta.
Strillò, con voce di ragazzino, quando la
fiammella illuminò il terreno davanti a lui. Rimase a guardarla imbambolato per
qualche secondo mentre attecchiva, poi aggiunse qualche legnetto; funzionava.
Altra legna, tutt’intorno.
Si abbandonò a sedere in terra, come avesse
speso l’ultimo residuo di energia, gli occhi sgranati e fissi sulla fiamma che
s’ingrandiva, la bocca semiaperta.
Timidamente, lentamente, allungò le mani
tremanti in avanti e soffocò un gemito.
Calore, lo sentiva espandersi intorno alla luce
rossastra del fuoco, che spingeva intorno un riverbero tremante ed irregolare;
lo spazio intorno a lui pareva più accogliente ed amichevole tinto di un caldo
arancione, ma non aveva importanza, perché non poteva spostare lo sguardo.
Il legno si anneriva e la brace brillava
incandescente; e appena sopra un fantasma rossastro faceva ballare i suoi veli
linguacciuti in un crepitio gentile, dondolavano e si piegavano e si tendevano
verso l’alto senza fermarsi mai, e irradiavano luce e vapore caldo. L’aria conduceva
la danza ipnotica della fiamma guidandola su, giù, destra, sinistra, ogni
lingua indipendentemente dalle altre.
Scaldava la pelle, il sangue, i muscoli e il
cuore. Lo avvolgeva generosamente in un abbraccio ardente e amico, dopo tanti
anni che aveva freddo si sorprese di notare come gli sembrasse in quel momento
di non aver bisogno di niente altro, mai più, tranne quel fuoco caldo.
Tutta la superficie del suo corpo riprendeva
forza e si distendeva sempre più, si beava di quella sensazione di rinnovamento
e disgelo del sangue a lungo dimenticato. Il tepore lo cullava e finalmente
respirò con naturalezza, il battito cardiaco normalizzato come non lo era da
troppo tempo.
Sollevò gli occhi di nuovo verso il cielo,
trovando un soffio di calma e lucidità.
Respira.
Annusa, tocca.
Guarda, ascolta.
Riscaldati, senti.
Libertà.
Spirito
E guardò il cielo.
Lo osservò razionalmente come se non l’avesse
ancora visto, e in un certo senso così era. Con la mente libera prese coscienza
di quanto avvenuto, di dove si trovasse e chi fosse, lì in quella notte
luminosa.
Luminosa, sì, e guardò per la prima volta
lucidamente la Luna.
Luna piena.
Sussultò, l’uomo, osservando il tondo di perla
nel cielo.
Notte di lupi. Notte di Licantropi, quasi si
aspettò di udire un ululato.
Lunastorta.
Gli occhi spiritati si spostarono dal cielo per
tornare sulla fiamma, spaesati.
Non gli avrebbe creduto. L’avrebbe riportato là
nella fortezza e lui ne sarebbe morto. Non gli avrebbe mai creduto, Lunastorta:
assassino, traditore e assassino. Venduto, miserabile.
No. Lui non l’aveva fatto. Non aveva
dimenticato le promesse, e le notti di luna come quella. Anche volendo non
avrebbe potuto dimenticare.
Ricordava bene quell’altra vita, tanto tempo
prima. Secoli, forse, centinaia di anni. Quel ragazzo che rideva sempre e
giocava al ribelle. Era così ingenuo quel ragazzo, così sciocco. Così fiducioso,
povero Sirius. Se lo ricordava come ci si ricorda di qualcuno che si è
conosciuto e poi perso di vista, e gli faceva tenerezza, e pena, perché era
tanto innocente e boccalone. Quel ragazzo con le mani pulite, non sporche di
sangue. Le sue ne grondavano inesorabilmente, erano coperte di sangue. Ma si
ricordava.
Lunastorta, Felpato.
Ramoso.
Ramoso. James.
Gli occhi ora guardavano immobili il terreno,
lo guardavano persi e disperati. L’uomo si stringeva le ginocchia
spasmodicamente.
“E’ morto”
La sua voce suonò irreale, ma non lo era e lui
lo sapeva.
Era suo, il sangue sulle mani. Era il sangue di
James che gli gocciolava dalle dita da dodici anni, mischiato alle lacrime e
accompagnato dai singhiozzi. Non poteva dimenticare, neanche desiderandolo.
Aveva ucciso suo fratello. Gemette nel
silenzio, si portò le mani al viso e le tenne lì, strette, come artigli sulla
pelle. Era maledetto, sporco, aveva l’anima marchiata e corrotta.
Aveva tanto voluto salvarlo.
Aveva tanto pregato e sperato.
Strinse le palpebre con una smorfia sofferta.
Ma non era stato lui.
Non era stato lui.
Codaliscia.
Sollevò la testa quasi ringhiando.
Quel nome l’aveva bestemmiato tutto il tempo.
Codaliscia, Peter, traditore vigliacco. Assassino del proprio fratello, immondo
essere inferiore.
Strinse i pugni con collera e odio, vero,
scritto negli occhi riverberati dal fuoco.
Doveva pagare. Assassino, doveva essere punito.
Ad Hogwarts, era lì che l’avrebbe trovato. E l’avrebbe ucciso, perché era
giusto e perché lo voleva.
L’avrebbe guardato morire e avrebbe riso di
gioia.
Si riscosse, stralunato.
Ad Hogwarts c’era Harry.
Avrebbe visto il figlio di James.
Sorrise, un barlume di tenerezza a rendere
umano il volto spettrale.
Povero orfano della guerra, ragazzino
abbandonato. L’avrebbe rivisto dopo tanto tempo, il suo figlioccio amato e
perduto. Come desiderava abbracciarlo, aiutarlo. L’aveva promesso, l’aveva
promesso a James.
D’un tratto lo invase il desiderio di vederlo,
subito, di scoprirlo sano, salvo. Di cercare nei suoi occhi la discendenza di
James. Vederlo, adesso.
Non aveva più freddo.
Era tempo di andare.
Libero.