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Autore: SAranel    15/11/2012    12 recensioni
Qualche volta, la mancanza di qualcuno può togliere il fiato. Qualche volta, la mancanza dolorosa di qualcuno, può essere alleviata soltanto con un dolore ancora più forte. Cosa succederà?
[...]“Mycroft non riesce mai a tenersi qualcosa per sé” sibila, acido.
“Ha fatto bene, Sherlock. Da chi saresti dovuto andare, altrimenti?” Molly lo rimprovera. “Sei stato folle. Hai lasciato che quell'uomo ti sparasse quando tu eri armato e pronto a difenderti”.
Le mani di Sherlock tremano, a quelle parole. I suoi occhi sembrano brillare, come irrorati da un velo di lacrime che però scompare prima ancora che Molly potesse scorgerlo meglio. Gli occhi azzurri di Sherlock guardano il vuoto davanti a sé come se vi vedessero qualcosa, come se nello spazio vuoto tra la poltrona e il divano vi fossero immagini invisibili a chiunque tranne lui.
“Volevo avere qualcosa di lui” Sherlock sussurra infine, e Molly potrebbe dire con certezza di non averlo mai sentito parlare in quel modo. “Qualcosa che rimanesse per sempre. Qualcosa che facesse tanto male quanto io ne sto facendo a lui”.[...]
Genere: Drammatico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: John Watson , Molly Hooper, Sherlock Holmes
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
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Ciao adorabile fandom!
Perdonatemi per tutto questo. Mi manca poco per sfogarmi completamente. Nel frattempo, ahimè, temo che dovrete sopportarmi!
Sperando in bene (e augurandomi di non avervi spaventato, eh!) vi auguro buona lettura!

S.

Something of you
*

 

 

[…]“Ormai non l’ho più, è vero, ma forse l’amo ancora.

E’ così breve l’amore e così lungo l’oblio.

E siccome in notti come questa l’ho tenuta tra le braccia,

la mia anima non si rassegna d’averla persa.”

-P. Neruda

 

 

Sherlock afferra la tazza che Molly gli porge, senza guardarla negli occhi.
Sembra ipnotizzato dalle lievi increspature sulla superficie ambrata del suo tè, come se in ognuna di quelle piccole onde fosse scritto qualcosa, qualcosa che Sherlock vorrebbe assolutamente decifrare, ma senza successo.
Dopo qualche secondo sembra però non tollerarne più la vista e distoglie lo sguardo, avvicinando la tazza alle labbra e bevendone un sorso minuscolo, qualche goccia appena.
“Bevi. Ti sentirai meglio” Molly dice, come fa solitamente. Non ci crede davvero, ovviamente, ma è qualcosa che l’ha sempre rassicurata.
Sherlock, stranamente, non obietta, non dice assolutamente nulla. Prende un altro piccolo sorso e sospira, come impotente, come se non riuscisse a fare altro in quel momento.
“La ferita ti da ancora problemi?” la donna domanda, sistemando le maniche del maglioncino rosa antico che indossa quella sera. Sherlock non reagisce, o almeno non immediatamente: tutti i suoi movimenti sono lenti, placidi, come al rallentatore.
A Molly sembra di trovarsi davanti ad una vecchia cassetta dalla pellicola ormai consumata.
“Non importa” risponde finalmente il detective toccandosi la spalla ferita e reprimendo un mugolio di fastidio. “Non ci penso”.
Molly storce il naso, indispettita e piena di rancore. Non sono sentimenti a cui è abituata, affatto, ma non può fare a meno di provarli, in quel momento. Sa tutta la storia, e sa bene quello che Sherlock ha fatto, o meglio non ha fatto.
“Sei stato uno stupido Sherlock. Uno stupido incosciente” si sorprende a dire, e vorrebbe scappare, fuggire da quella stanza nei pochi secondi che Sherlock gli concede prima di guardarla sconvolto. Poco dopo però ci ripensa, e non va via. Rimane a guardarlo, perché è ciò che pensa davvero, ciò che vuole. Non c’è spazio per la Molly timida e impacciata, adesso, ma solo per la donna forte, soltanto la buona amica.
Sherlock, come previsto, la guarda con occhi spalancati, sbalordito, le labbra leggermente socchiuse e apparentemente senza parole.
“Che cosa stai dicendo?”.
Molly posa la sua tazza sul tavolino di vetro e si siede di fronte a Sherlock, guardandolo decisa, severa, austera come il detective non l’ha mai vista.
“Quello che hai fatto. Tuo fratello me l’ha detto” la dottoressa fuga ogni dubbio al detective.
Sherlock guarda altrove e beve un altro sorso dalla tazza ormai semifredda, stringendo la coppa di ceramica come se potesse dargli un sostegno, come fosse un appiglio per la salvezza da qualcosa che nemmeno lui conosce.
“Mycroft non riesce mai a tenersi qualcosa per sé” sibila, acido.
“Ha fatto bene, Sherlock. Da chi saresti dovuto andare, altrimenti?” Molly lo rimprovera. “Sei stato folle. Hai lasciato che quell’uomo ti sparasse quando tu eri armato e pronto a difenderti”.
Le mani di Sherlock tremano, a quelle parole. I suoi occhi sembrano brillare, come irrorati da un velo di lacrime che però scompare prima ancora che Molly potesse scorgerlo meglio. Gli occhi azzurri di Sherlock guardano il vuoto davanti a sé come se vi vedessero qualcosa, come se nello spazio vuoto tra la poltrona e il divano vi fossero immagini invisibili a chiunque tranne lui.
“Volevo avere qualcosa di lui” Sherlock sussurra infine, e Molly potrebbe dire con certezza di non averlo mai sentito parlare in quel modo. “Qualcosa che rimanesse per sempre. Qualcosa che facesse tanto male quanto io ne sto facendo a lui”.
Molly resta in silenzio e non fa nulla, rimanendo immobile sulla sua poltrona ad ascoltare la malinconica quiete che pervade la stanza. Vorrebbe scuoterlo, urlare, gridargli che è un incosciente e uno stupido e uno stronzo, ma non ci riesce. Non riesce perché allo stesso tempo vorrebbe stringerlo a sé e dirgli che quello che ha fatto non ha bisogno di rimorsi o di rimpianti e che se John sapesse gli perdonerebbe ogni più piccolo momento.
Però, non fa nemmeno quello.
Non lo fa perché in fondo, non lo crede. Immaginandosi in John, estraneo all’intera situazione, lei non sa se gli concederebbe un’altra possibilità.
“Ti fa male?” Molly poi domanda ancora, anche se gliel’ha già chiesto nemmeno dieci minuti prima. Vuole la verità, solo quella.
Sherlock vuota la tazza di tè, finalmente, e tira un sospiro stentato accompagnato da un gemito di rassegnazione.
“Fa male” ammette.
Molly annuisce.
“Tanto?”.
“Tantissimo. Ogni giorno di più” esclama, stringendo i denti e chiudendo gli occhi, con un sibilo di pura sofferenza. “Ma è stata la cosa più bella che potesse capitarmi, Molly”.
La ragazza guarda altrove, respingendo una lacrima capricciosa.
Lui non lo desidererebbe, vorrebbe dire, ma sa però che anche quella sarebbe menzogna, soltanto un’altra piccola, sporca e dolce bugia per mascherare un'amara verità.
"Lascia che la veda" propone la dottoressa, ma è consapevole che la risposta del detective non sarà quella sperata. Sherlock posa il palmo sulla propria spalla, e stringe. Molly può quasi immaginare la scabrosità umida di sangue e mercurio cromo sotto la pelle ruvida di quelle mani. Sherlock la custodisce, la ripara agli sguardi indiscreti come se quella fosse un tesoro inestimabile, una perla rara, un gioiello prezioso da preservare.
"No. Deve far male, Molly. Voglio che lo faccia" sussurra. “Che continui per sempre”.
Molly scioglie la coda di cavallo che le raccoglie i capelli, in preda ad un furioso e martellante mal di testa. Stringe le tempie con le mani, tentando di scacciarlo e di pensare razionalmente. Non sa cosa fare, è combattuta. Vinta.
Vorrebbe che Sherlock smettesse di soffrire, desidererebbe onorare il suo giuramento di Ippocrate e mettere fine a quel dolore masochista, ma sa che Sherlock starebbe più male di quanto già non stia e non può fare a meno di pensare a quanto si sentirebbe ancora più in colpa, colma di mille rimorsi.
Molly getta la spugna, fisicamente spossata. Non combatte più.
"Va a letto, Sherlock" Molly lo esorta, senza guardarlo. "Concedimi almeno questo. Riposa" il tono di voce con cui lo chiede lo sente quasi estraneo a se stessa. È lamentoso, supplichevole.
Sherlock incrocia gli occhi scuri della donna e un angolo delle labbra si piega leggermente, ma è solo un lampo. Fugace quanto un fulmine in una notte tempestosa che volge alla fine.
Il detective non pronuncia un’altra parola, quella sera. Dopo la preghiera di Molly, si solleva, con fatica evidente, e si avvicina a lei a passo lento e traballante come in una danza sconosciuta.
Allunga una mano verso Molly e le sfiora una guancia con la punta delle dita, un lieve e quasi impercettibile tocco pelle contro pelle. I polpastrelli di Sherlock sono freddi mentre la guancia di Molly è calda, rossa d'emozione. Sherlock si allontana subito dopo, salendo le scale e chiudendosi nella stanza che la donna gli ha preparato poco prima.
La dottoressa si sfiora il volto, nell'esatto punto in cui la mano di Sherlock l'ha accarezzata. E' freddo adesso, come quelle mani, come se lui avesse trasmesso in lei quel gelo. L'unica cosa che Molly spera è che il proprio perduto calore adesso pervada Sherlock. E nel caso non potesse essere per sempre, anche soltanto per quella notte.

 

 

§


 

Molly è in un tormentato ed etereo oblio, quando un incessante bussare alla porta la ridesta sul suo giaciglio improvvisato. La ragazza si guarda intorno, cercando di capire dove si trovasse e dove fosse finita la sua familiare stanza da letto, prima di ricordare di essere sprofondata in un sonno inquieto sul divano neppure due ore prima.
Il bussare alla porta diventa sempre più forte, intenso come una mandria di belve feroci intente a grattare contro il legno solido dell’ingresso, affamate. Molly non vorrebbe aprire, ma allo stesso tempo è spaventata da quello che potrebbe succedere se non lo facesse. Aprendo lo spioncino, tutto ciò che riesce a vedere è una sottile zazzera di capelli biondo sporco.
Le basta. Sa benissimo a chi appartiene e il cuore le sale in gola, immobilizzandola sul posto all’istante.
“John” lei dice, senza poter frenare la lingua, come se quella avesse volontà propria.
“Molly” l’uomo dall’altro lato della porta risponde con voce roca, persa, innaturale. “Fammi entrare” la esorta.
Una cosa è chiara, chiarissima a Molly sin dalla prima sillaba. Qualcosa non va. Qualcosa decisamente non va.
Apre la porta, non può lasciarlo fuori nonostante tutto e spera vivamente che Sherlock non decida di uscire e scendere proprio in quel momento. Vuole fidarsi del buon senso del detective, in quel momento più che mai.
Appena riesce a vederlo in viso, Molly trattiene il respiro.
John non è John. Nemmeno un po’, neanche lontanamente.
E’ un’ombra. Un riflesso. Un baluginio lontano di qualcuno conosciuto una volta di cui si ricordano solo vagamente le fattezze.
Gli crolla quasi fra le braccia quando entra, e Molly ha appena la forza di sostenerlo, spingendolo contro il muro e cercando di trattenere la presa, per evitare che si facesse male.
Il corpo dell’uomo è scosso, in preda ad un tremore violento e spasmodico che non trova spiegazione nella mente della donna.
“John, calmati” Molly dice, spaventata. Lancia allo stesso tempo uno sguardo verso le scale, pregando ancora, dentro di sé. “John guardami, guardami!” lo incita, stringendo la mascella del dottore tra le dita.
John respira pesantemente, madido di sudore freddo e con gli occhi arrossati e iniettati di sangue. Le pupille sono dilatate, un cerchio rosso scuro a delimitare il sottile anello blu delle sue iridi e Molly può sentire il suo cuore battere a mille, talmente forte da sembrare che volesse uscire dal suo petto, aprendosi la strada con furia inaudita.
Molly posa una mano sul petto dell’uomo, ignorando il sudore che inzuppa la maglietta fine con cui ha affrontato il freddo artico di quella notte, e cerca in tutti i modi di calmarlo. E’ spaventata davanti a qualcosa che non ha mai affrontato prima, a una situazione più grande di lei e per di più riguardante un amico.
“Molly” John ripete ancora, afferrando una manica del maglioncino della donna. “Molly, io l’ho visto” sussurra.
Molly lo stringe a sé, senza capire, senza effettivamente avere la forza di capire, ma non indebolisce la stretta, non lo lascia andare. John la stringe a sua volta, e la dottoressa può sentire lacrime calde inzuppare la lana intrecciata sulla sua spalla, in singhiozzi silenziosi.
“John, che hai fatto?” gli domanda, cullandolo a sé, come se l’uomo tra le sue braccia non avesse quarant’anni ma due, un bambino bisognoso di cure e affetto.
Il cuore di John sembra sedare la sua frenesia quanto basta per permettergli di riaprire gli occhi e di rendere il suo respiro più regolare. Non riesce nuovamente a parlare ma tenta, vuole, ha bisogno di farlo.
Un bisbiglio attira l’attenzione di Molly, che allenta la presa sulle sue spalle, accarezzandogli i capelli con dolcezza, per dirgli silenziosamente che è lì per lui, che vuole sapere, che è pronta ad ascoltare qualunque cosa abbia da dire.
“L’ho trovata” John sillaba, con fatica. “L’ho trovata, e l’ho visto” la voce trema e non appartiene a John, o almeno, al John che Molly conosceva.
“Che cosa hai trovato, John?” Molly domanda, ma se ne pente un secondo dopo. Non è sicura di voler sapere, ma continuare a girare la testa dall'altra parte sarebbe come arrendersi. Lei vuole aiutarlo e deve sapere come.
John boccheggia, con un sorriso vuoto che non si addice ai suoi lineamenti dolci ed espressivi, tentando di articolare nuovamente una frase di senso compiuto.
“La sua scatola” John riesce a dire, con sforzo quasi palpabile. “Quella che lui teneva nascosta”.
La dottoressa lo lascia andare, il volto divenuto cereo all’improvviso. La forza sembra aver abbandonato ogni arto e ogni singolo frammento del suo corpo, lasciandola lì debole e vuota. Deglutisce, tirando un respiro profondo, sperando dentro di sé che non intendesse quello che pensa, quello che in cuor suo già sa. E’ una speranza senza radici, e Molly ne è consapevole. Un’illusione destinata a morire prima ancora di nascere.
“Non dirmelo, John” Molly non vuole guardarlo, non ha il coraggio di vedere quell’uomo cadere a pezzi. “Dimmi che non lo hai fatto davvero”.
John ride, e Molly può sentire una nota incredula in quella risata falsa, innaturale. E’ come se John non capisse, come se non tollerasse la ritrosia e la disapprovazione di Molly. Lei vorrebbe solo scappare, evadere da tutto, fuggire via da quella follia che la coinvolge ormai da troppo. Sta raggiungendo un punto di non ritorno, ormai.
“E’ stata la cosa migliore che potesse capitarmi, Molly” lui scandisce ogni parola come un bambino inesperto intento a sillabare la sua prima frase complessa. Molly sente un brivido gelido attraversarle la schiena quando si accorge di quanto poco tempo prima ha udito la stessa identica frase da un’altra voce. Le medesime identiche parole.
“Sei pazzo, John. Sei pazzo” Molly non può piangere, perché John cerca un sostegno, un appiglio. Stringe gli occhi e sfiora di nuovo i suoi capelli, con delicatezza.
“Lo so” John dice, ancora sorridendo. Molly sa che è solo una maschera. “Ma l’ho visto, Molly”.
La donna scuote la testa con vigore.
“E’ solo finzione, John” si costringe a dire, anche se ogni parola fa male come una lama che scalfisce la pelle prima di affondare. “Sai che è così”.
No no no no l’altra donna dentro di sé sta dicendo, gridando, urlando a squarciagola senza poter trovare sfogo al di fuori di quel guscio. Lui è vivo, è di sopra e vuole vederti e si sente come te, muore dentro lentamente per amor tuo esattamente come stai facendo tu.
“Non m’importa” John si solleva contro il muro, le mani a stringersi convulsamente le ginocchia rannicchiate contro il petto. “Per un secondo io l’ho visto, e questo mi basta”.
Molly non risponde e corre in cucina, a prendere un bicchiere d’acqua fredda. Tornando dal dottore, s’inginocchia nuovamente davanti a lui e posa il vetro freddo sulla sua fronte, tentando di donargli un po’ di refrigerio. John mugola, tirando un profondo sospiro di sollievo.
“Ti stai solo facendo del male” Molly è nuovamente insofferente e infuriata, per la seconda volta in appena tre ore. Non si è mai sentita tanto impotente e piena di astio e risentimento come in quella notte. “Stai solo cercando di distruggerti con le tue stesse mani. Cosa sarebbe successo se non fossi venuto da me?”.
A quella frase John ride ancora, trovandola chissà per quale motivo incredibilmente divertente. Poi scuote la testa, guardando Molly con viva compassione negli occhi, occhi che sembrano quasi commiserarla, dicendole silenziosamente: povera ignara ragazzina.
“Mi ha detto lui di venire da te” John dice, e sembra perdersi in ricordi nemmeno troppo lontani, per un secondo. “Lui ha voluto che lo vedessi e allo stesso tempo ha fatto sì che potessi salvarmi”.
Molly gli porge il bicchiere, scuotendo la testa, assordata dal battito incessante del proprio cuore, questa volta. Guarda John bere avidamente, piccole goccioline d’acqua fredda che scivolano sulla pelle bollente, dandogli sollievo.
“John, perché credi ancora?”¹ la donna sente se stessa chiedergli, senza poter bloccare prima la propria voce.
John trema, le mani sul pavimento ai lati dei suoi fianchi, ferme e salde.
“Perché devo. Perché è l’unica cosa che mi resta” bisbiglia. “E non voglio rassegnarmi a non vederlo mai più”.
La donna gli prende una mano nella sua e la stringe. E’ con lui, anche se non approva. Gli vuole bene, tiene a lui come a pochi, pochissimi altri.
“Lo hai fatto per questo?”.
“Sì. Volevo sentire, vedere come lui vedeva…prima” è la sua risposta sincera. “Volevo avere qualcosa di lui”.
E’ il colpo di grazia, per Molly. Ha sopportato il dolore e l’enorme significato che quella frase porta con sé già una volta quella sera e non può quasi credere di essere riuscita ad incassare nuovamente un colpo simile senza crollare miseramente. Forse, è più forte di quanto si sia mai reputata; forse, ha sempre avuto troppa poca fiducia in se stessa.
“Non ne vale la pena. Non… non tutto questo” la ragazza sfiora il viso di John, asciugando una lacrima sfuggita al controllo del dottore. “Non a questo prezzo”.
John scuote il capo, convinto, assolutamente certo. Glielo si legge negli occhi, nelle linee sempre più marcate del viso, nella piega sottile delle labbra rosee. Molly vorrebbe baciarle in quel momento, ma non per fini egoistici, assolutamente no. Vorrebbe catturare quella sensazione sulle sue labbra, carpire la morbidezza setosa di quella bocca e concederla all’uomo che adesso dorme nella sua stanza degli ospiti, per donargli sollievo dalla sua pena. E lo stesso farebbe con John, senza nessuna esitazione.
“Vale la pena, Molly” l’uomo risponde. “Vale ogni piccolo attimo di sofferenza. Ogni minuscola sensazione”.
John crolla lungo il muro, esausto dopo quell’ultima, inaspettata e per niente convenzionale, dichiarazione d’amore.
Molly s’impone di non singhiozzare e solleva John con quanta più forza riesce a trovare, combattendo contro il peso morto del corpo semi cosciente del dottore. Piano piano si dirigono verso le scale, che John sale con lentezza esasperante e con le gambe pesanti quanto macigni, e a Molly quella scalinata non è mai sembrata tanto lunga e ripida.
Una volta arrivati al pianerottolo delle stanze da letto, John apre gli occhi, sbattendo più volte le palpebre per mettere bene a fuoco il corridoio, riprendendo piena lucidità per qualche minuto.
Il dottore poi si guarda intorno con attenzione, studiando l’ambiente intorno a sé, come se avesse percepito qualcosa, come se avesse sentito una forza irrefrenabile attirarlo.
Con sommo terrore, Molly lo vede abbandonare il sostegno delle sue braccia per dirigersi verso la stanza degli ospiti, ancora –grazie al Cielo-, chiusa saldamente. Molly vorrebbe correre verso di lui per fermarlo, con una scusa qualsiasi, ma ha paura che John possa sospettare, intravedendo un barlume di verità in quella coltre di bugie con cui Molly è costretta ad obliarlo.
Una parola, Molly non ricorda neppure quale, gli si ferma in gola, inespressa. Forse, dentro di sé, Molly è davvero al limite e vuole solo che tutto abbia fine, che John abbassi la maniglia d’ottone di quella stanza e veda finalmente il segreto che essa custodisce quella notte. Si sente in colpa a negarglielo ancora. Si sente un’ignobile ladra che nasconde la preziosa refurtiva al suo legittimo proprietario.
“E’…strano” John sussurra, reggendosi allo stipite della porta. Il legno cigola sotto la sua mano.
“Che cosa è strano?” la dottoressa domanda, esitante. Non c’è modo che capisca, salvo che Sherlock non faccia capolino dalla stanza in quel momento. John non può sapere. E’ impossibile e lei lo sa, ma questo non basta a tranquillizzarla del tutto.
John sfiora il legno grezzo e striato di venature chiare, osservandolo intensamente come se cercasse di guardare attraverso la porta, dentro l’oscurità della stanza. La mano si sposta al centro della porta, quasi accarezzandola, con dolcezza infinita. Molly ricorda una volta, l’unica, in cui aveva visto John compiere lo stesso gesto, tempo prima.
Era successo di sera al Barts, quasi notte, dopo un inseguimento folle di un killer o un ladro, Molly non ricorda bene.
Sherlock era crollato su una delle vecchie sedie della sala d’aspetto e John aveva chiesto a Molly di portargli qualcosa di caldo. Quando la ragazza era tornata, con una scodella di minestra della mensa in mano, aveva esitato ad annunciare la propria presenza davanti alla scena che si era trovata davanti.
John era vicino a Sherlock, inginocchiato di fronte a lui con uno sguardo che tradiva tutta la sua enorme preoccupazione per la salute del detective. La sua mano destra era posata sul cuore del suo migliore amico, come se necessitasse di una prova tangibile che tutto fosse finito, che tutto fosse andato per il meglio. Come se sentirgli il polso non fosse abbastanza, come se gli occhi attenti e le rassicurazioni di Sherlock non gli fossero bastati. Come se avesse bisogno di percepirlo con le sue stesse mani, con il suo stesso cuore.
John ha la stessa identica espressione sul volto, in quel momento a casa di Molly. Non ha ancora risposto alla sua domanda, e la donna comincia a pensare che non l’abbia neppure udita.
“Mi è sembrato…” John esordisce infine, senza distogliere lo sguardo. “Mi è sembrato di sentire il suo…” non conclude la frase, non ci riesce, e scuote il capo con rassegnazione. Torna da Molly, che bianca come un cencio gli prende la mano, aprendo la porta della propria stanza.
John non ha più finito la frase e la patologa, in fondo, è contenta così. Non può permettersi errori, non adesso, non quando tutto è finalmente ad un passo dalla soluzione definitiva. Arriverà il momento in cui John avrà il diritto di sapere, ma non quel giorno, non in quella notte fredda di settembre.
Il dottore crolla sul materasso ancora coperto dalla trapunta, ma Molly non ha cuore di dirgli di sollevarsi per poterlo sistemare. Afferra un vecchio plaid dall’armadio e rimane per un secondo a fissare la carta da parati color pesco, pensando al da farsi, prima di tornare al letto e rimboccare la coperta fino al mento di John.
Il dottore sospira ma è inquieto e Molly lo vede, lo percepisce chiaramente, come se il suo disagio si potesse toccare, come se l’inquietudine del dottore fosse solida e materiale.
“Molly” dice, improvvisamente. Il cuore della donna le balza nel petto.
“John”.
“Ho sentito il suo respiro” John dice, le labbra tremanti e gli occhi fissi al soffitto. Probabilmente crede di essere diventato pazzo o, cosa più plausibile e veritiera, che la cocaina non abbia ancora smaltito i suoi effetti. Molly cerca in tutti i modi di controllarsi, di fare la vaga, di incoraggiarlo a riposare e dimenticare.
“Stai tranquillo” Molly dice, ignorando il groppo in gola che quasi gli inibisce la parola. “Dormi, domani andrà meglio” lo incoraggia, sforzandosi di sorridere.
John però, non sembra intenzionato a darle retta.
“L’ho sentito” afferma di nuovo. “Era il suo. Io lo conosco. Lo riconoscerei tra mille”.
Molly guarda altrove, verso la porta per di più. Non può rischiare.
“E’ solo un effetto collaterale” esclama. “Solo un’altra bugia”.
La bugiarda è lei, e questo fa male, ma non può dirgli altro. Non le è permesso. John chiude gli occhi e le volta le spalle, affondando la faccia nel cuscino e stringendolo fin quasi a lacerare la stoffa con le sue sole unghie.
Molly poggia esitante una mano sulla sua spalla, per confortarlo. E’ un gesto ipocrita, schifosamente falso ma non può farne a meno. John poi sposta leggermente il viso per poterla guardare negli occhi, per porle un ultima, fondamentale domanda.
Molly ne è spaventata.
“Giuralo, Molly” il dottore le dice, inaspettatamente. La carezza di Molly si blocca e lei è come pietrificata.
“Che cosa, John?”.
“Giurami che Sherlock non è in quella stanza” la esorta, mettendola con le spalle al muro. Gli occhi di Molly sono spalancati adesso, e le sue labbra corrucciate in una smorfia di panico e impotenza.
John la fissa, non distoglie gli occhi dai suoi nemmeno per chiudere le palpebre, carpendo ogni piccola sfumatura delle emozioni che in quel momento si rincorrono folli sul viso della donna.
Molly si morde un labbro, facendolo sanguinare e tentando di trovare in quel dolore qualcosa che la distragga da quello che sta succedendo nella sua testa. Deve trovare il coraggio di rispondere: non può agire altrimenti, anche se è l’ultima cosa che vorrebbe fare.
“Te lo giuro” sussurra, infine. “Su quanto ho di più caro al mondo”.
John abbassa lo sguardo, perso in qualcosa che Molly non riesce a comprendere.
“Sherlock è morto” dice ancora, per fugare ogni dubbio, per cancellare ogni più piccola incertezza nella mente di John. “Non tornerà da me come non tornerà mai più da te”.
Tanti piccoli coltelli sembrano assalirla nell’esatto momento in cui l’ultima sillaba di quella frase lascia la sua bocca. Lame affilate come rasoi che lambiscono ogni parte scoperta di lei, facendola sanguinare, ma di un sangue invisibile a chiunque altro a parte se stessa.
John annuisce, chinando il capo e chiudendo gli occhi.
Lui le crede, e quello fa ancora più male. Ha fiducia in lei, fiducia che lei continua a tradire sin dal giorno della caduta, sin dalle prime luci dell’alba di quel mattino di giugno che lei maledice e sempre maledirà.
“Aiutami, Molly” John sussurra, senza altri dubbi, senza nessun’altra domanda a riguardo. “Aiutami”.
“Sono qui. Non vado via” gli dice, mentre lo guarda scivolare in un sonno profondo, soccombendo al dolore, alla stanchezza e alla falsa felicità che ancora scorre nelle sue vene. Spera che non sogni, Molly. Spera che almeno fino al mattino dopo la vita lo sollevi da quel macigno che grava sulle sue spalle e sul suo cuore.
Si volta verso la porta, senza sapere perché, ormai libera dal pensiero che l’uomo nella stanza accanto possa scoprire la presenza di John prima che lei lo avvisi di stare attento. Sussulta con sorpresa, ma forse nemmeno tanta, stringendo la coperta sulla quale e seduta quando sull’uscio della stanza intravede gli occhi azzurri e luminosi di Sherlock, la cui attenzione, però, non è affatto concentrata su di lei.
Sherlock guarda John come se non desiderasse altro che spalancare la porta fino a scardinarla e insinuarsi lentamente nel letto accanto a lui, baciandolo e stringendolo con tutta la forza e la dolcezza repressa per tutto quel tempo, senza mai lasciarlo andare. Allo stesso tempo, e quel disappunto è palese sul viso del detective, è combattuto, arrabbiato, infuriato con se stesso per non poterlo fare.
Alla fine sposta lo sguardo su Molly, che gli sorride appena, dolcemente, per fargli capire che sa quello che prova e che gli è vicina più di quanto lui creda.
Il detective abbassa gli occhi e non ricambia il sorriso, infilandosi nel suo cappotto scuro con un fruscio leggero, il respiro pesante e affaticato udibile sin dall’altro lato della stanza.
Non dice una parola prima di scivolare via dalla vista della donna, scendendo velocemente le scale fino all’anticamera dell’ingresso, ma Molly non sente il bisogno di altre parole, in quel momento.
Gli basta il lieve luccichio di una lacrima sulla guancia di Sherlock, che quella volta ha visto chiaramente e che probabilmente non vedrà mai più.
Molly si affaccia dalla scalinata, attenta a non far rumore e Sherlock si ferma sulla porta, lanciandole un’ultima occhiata fugace.
“Prenditi cura di lui” sussurra piano, appena muovendo le labbra. Per Molly però, quel bisbiglio è chiaro quanto un grido che echeggia in una stanza vuota.
La porta si chiude con un rumore debole, soffocato, ma lei riesce a sentire ugualmente anche quello.
Non sa quando lo rivedrà. Forse sarà tutto finito, la prossima volta.
Quando torna da John, il suo respiro lento e profondo è l’unico rumore che adesso pervade l’atmosfera della stanza e dell’intero appartamento.
Molly si sdraia accanto a John, ma non ha secondi fini, neppure uno, nemmeno un’ombra.
Lo stringe a sé con affetto, con un amore profondo che si ferma però all’amicizia, impossibilitato a varcare confini già delimitati da qualcuno che lo ama più di quanto lei sarebbe umanamente capace.
Chiude gli occhi e affonda il viso nell’incavo della spalla di John, respirando l’odore pungente della sua pelle e desiderando con tutto il cuore, dentro di sé, che lui possa perdonarla quando saprà.
Molly prega.
Molly spera. Con tutto il cuore.



*

 

1) riferimento all’ultimo capitolo di una meravigliosa raccolta di Jessie, Io miro con l'occhio, io sparo con la mente, io uccido con il cuore che vi raccomando caldamente. E’ stupenda.

  
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