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Autore: Sisthra    17/11/2012    1 recensioni
- E' nato ora che è tornata la pace, perciò lo chiamerà Kazuhira.-
- Sperando che aiuti a farla durare, questa pace.-
Una One-shot sulla vita di Kazuhira ("Master") Miller, dalla nascita fino alla fondazione dei Militaires Sans Frontières e gli eventi di Peace Walker.
Genere: Generale, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
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Ho una certa tendenza ad innamorarmi di quei personaggi secondari di cui sappiamo poco o nulla. Master Miller era uno di questi già ai tempi del primo Metal Gear Solid, e questo la dice lunga dato che non era nemmeno "lui" nel vero senso della parola. Saranno stati gli occhiali a far scattare l'amore a prima vista xD Inutile dire che in Peace Walker ho fatto i salti di gioia quando abbiamo avuto l'occasione di sapere qualcosa in più su di lui...questa fic è il risultato. Ho più o meno raccolto tutto ciò che si sa sul suo passato e l'ho condensato in questa one-shot...buona lettura, i commenti(e le critiche) sono ben apprezzati visto che è la prima cosa abbastanza lunga che scrivo da anni e non mi convince particolarmente in alcuni punti.


L'occupazione americana in Giappone al termine della seconda guerra mondiale era stata accolta con sospetto e diffidenza da entrambe le parti, ma dal Giappone in particolare. Con le due bombe atomiche lanciate su Hiroshima e Nagasaki quando la guerra era ormai già conclusa gli americani avevano dimostrato di non riuscire a fermarsi di fronte a nulla.
Ma anche in situazioni così tese alcune persone riuscivano a mettere da parte odio e diffidenza. Un uomo e una donna camminavano lungo le strade notturne di Yokosuka; erano evidentemente felici uno affianco all'altro, eppure non si tenevano neppure per mano. Il motivo era semplice: lui era americano, lei giapponese. Era ovvio che i rapporti di quel tipo non erano visti di buon occhio. Ogni tanto si scambiavano qualche parola, parlando un miscuglio di inglese e giapponese che ognuno aveva insegnato all'altro. La donna sospirò.
<< Quindi domani parti.>> disse solo. L'uomo sorrise appena.
<< Sì, mi hanno richiamato in patria. Il mio servizio qui è finito.>> disse, voltandosi poi a lanciare una veloce occhiata lungo la strada. Non c'era nessuno, perciò le cinse le spalle con un braccio.
<< Ma te l'ho detto. Vieni con me: staremo bene e non dovremo più preoccuparci di vederci di nascosto.>> le vide scuotere la testa ancor prima che avesse terminato la frase.
<< Non posso. Questa è la mia patria.>> rispose semplicemente, come aveva già fatto altre volte.
<< Ma...>> l'uomo si bloccò, prima di dire qualcosa di cui si sarebbe pentito. 'Ma la tua patria è stata sconfitta.', 'Ma in Giappone non c'è più nulla da fare ormai.'
Sospirò e chino il capo.
<<...capisco. Allora immagino che questo sia un addio.>> disse, a bassa voce. La donna sorrise tristemente, annuendo piano.
<< Temo proprio di sì.>>
I due rimasero in silenzio e ripresero a camminare, ma ormai l'atmosfera era stata rovinata. Si salutarono con un semplice e fugace bacio, poi la donna lo guardò allontanarsi con un altro sorrisetto triste sulle labbra. Alla fine, non era riuscita a dirgli la cosa più importante...non era riuscita a dirgli che era incinta.
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Il bambino piangeva con tutte le sue forze nella culla del reparto maternità, insieme a tanti altri neonati. Benchè fosse ben avvolto nelle coperte, quando si fermava a riprendere fiato-il che accadeva in effetti per solo pochi secondi- era possibile vedere di sfuggita gli occhi azzurri,così diversi da quelli di tutti gli altri neonati vicino a lui. L'infermiera si voltò verso la neo-madre.
<< Ha già deciso come chiamarlo?>> chiese.
La donna sorrise, osservando il bambino e allungando una mano per accarezzargli piano la guancia.
<< Sì...è nato ora che è tornata la pace, perciò lo chiamerò Kazuhira.>>
L'infermiera si voltò a osservare il neonato.
<<...sperando che aiuti a farla durare, questa pace.>> commentò, con un sospiro.
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Kazuhira si rialzò dopo essere stato spinto a terra da un gruppo di ragazzini della sua età. Frequentavano tutti la stessa scuola elementare, ma non aveva la minima confidenza con loro.
A dir la verità, erano pochi quelli che anche solo gli parlavano. In classe lo odiavano tutti: perchè era sveglio e veloce nell'apprendere, ma soprattutto lo odiavano perchè era diverso. Un bastardo, lo aveva chiamato una volta uno dei ragazzi più grandi. Kazuhira non sapeva cosa significava, ma dal tono offensivo se n'era fatto un'idea. Il bambino si voltò ad osservare i bulletti, stringendo i pugni.
<< Invece siete soli invidiosi.>> ribatté. Era vero anche questo, era il migliore in educazione fisica. Anche se aveva solo dieci anni, il suo maestro gli aveva già suggerito di iniziare ad allenarsi ed iniziare a praticare qualche sport. Se si manteneva in forma, con quel fisico avrebbe fatto carriera, aveva detto.
Gli altri bambini si irrigidirono a loro volta. Kaz si mise in posizione, sapendo cosa sarebbe successo.
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Tornò a casa con dieci minuti di ritardo; aprì la porta e si sfilò le scarpe, tastandosi cauto i graffi e gli altri punti in cui era stato preso a pugni. Almeno non poteva dire di non essersi difeso.
<< Mamma, sono a casa.>> annunciò, pensando a come lei lo avrebbe sgridato per aver fatto di nuovo a botte. Non ci fu risposta.
<< Mamma...?>> udì un rumore dalla sua camera da letto, prima di vederne uscire un uomo sulla cinquantina. Il bambino si spaventò: chi era quell'uomo? Cosa ci faceva in casa sua?
<< Tutto a posto, sono un dottore.>>
Questo non lo calmò affatto.
<< Tua madre si è sentita poco bene, per questo mi ha chiamato. Ora è a letto e sta riposando.>> spiegò, gentile.
<<...guarirà?>> chiese, timidamente.
Il dottore esitò.
<< Ma certo, a patto però che tu la aiuti. Tu e...dov'è tuo padre?>>
Il bambino chinò il capo,arrossendo.
<< Mio padre non c'è.>> disse solo, a bassa voce. Il dottore non indagò oltre.
<< D'accordo, allora...parlerò con l'ospedale e vedrò di far mandare un'infermiera tutti i giorni, va bene?>> propose.
<< Va bene.>> rispose il bambino, senza nessuna convinzione.
L'uomo uscì di casa scuotendo il capo. Ce n'erano state tante, di donne così. Ragazze che durante e subito dopo la guerra erano state costrette a prostituirsi per guadagnare, correndo il rischio di subire abusi e ovviamente di contrarre malattie. E qualcuna, immancabilmente, finiva incinta. I danni si vedevano solo dopo, a distanza di anni. Come anche la bomba atomica: i danni che aveva causato e le radiazioni avrebbero aleggiato sul paese per anni e anni.
Maledetti americani.
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Sua madre aveva un negozio che aveva aperto grazie ai soldi lasciatele da suo padre, ma ora che era a letto, Kaz se ne occupava ogni giorno da solo. Aveva cambiato gli orari tenendolo aperto solo di pomeriggio e studiava tra un cliente e l'altro. Al negozio venivano spesso i soldati americani stanziati lì, un pò perchè era vicino alla base, un pò perchè avevano preso in simpatia il bambino. A tanti uomini quel ragazzino dagli occhi azzurri e i capelli biondo cenere non poteva fare a meno di ricordare i figli che li attendevano a casa. Gli avevano insegnato un pò d'inglese, e spesso si fermavano a fare quattro chiacchere.
Uno di que giorni, mentre riordinava il cassetto in cui custodiva i guadagni, notò una foto nascosta sotto un plico di banconote. La sfilò: ritraeva sua madre, più giovane di quanto l'avesse mai vista, insieme ad un uomo dai capelli biondi e gli occhi azzurri.
Il bambinò alzò lo sguardo sul soldato che stava accuratamente frugando nello scaffale delle sigarette.
<< Ehi! Conosci quest'uomo?>> chiese, allungandogli la foto. L'uomo la osservò attentamente, poi fece un sorriso di scuse.
<< Sorry piccolo, ma non lo conosco.>> rispose, scompigliandogli i capelli prima di sfilare un pacchetto di sigarette dallo scaffale e allungargli una manciata di monete.
<< Prendo queste; tieni pure il resto e compratici un gelato, ok?>> disse.
Kazuhira abbassò lo sguardo sulle monete, poi sulla foto.
<< Va bene.>> sussurrò.
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Mostrò la foto a tutti i soldati americani che vedeva entrare, chiedendo a tutti se conoscessero e sapessero come si chiamava l'uomo nella foto: sua madre non glielo aveva mai detto, e ora non era in condizione di farlo.
Passarono un paio d'anni; ormai aveva iniziato a perdere le speranze e lo faceva più per abitudine che per vera convinzione, ma un giorno finalmente una giovane recluta guardò la foto e si illuminò.
<< Ma è il Colonello Miller!>> esclamò.
Il cuore del ragazzo perse un battito.
<< Quindi lo conosci?>> chiese.
<< Diamine, sì! Si è ritirato dal servizio attivo appena è tornato dal Giappone, ma ha continuato a lavorare come insegnante per le reclute: ora penso sia in pensione...non è più giovanissimo.>> commentò.
<<...per caso sai l'indirizzo?>> chiese, trepidante. L'uomo annuì.
<< Certo, sono stato uno degli ultimi a cui ha insegnato. Immagino tu voglia vederlo, eh? Beh, buona fortuna. Se lo incontri, digli che il soldato Ryan deve ancora 'ripagarlo' per quelle 500 flessioni.>> commentò, con una risatina. Kaz annuì distrattamente, pensando a cosa avrebbe fatto ora...
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Decise di scrivergli una lettera: voleva conoscerlo e, anche se si sentiva un pò in colpa ad ammetterlo, voleva andarsene dal Giappone. Voleva andare in America:li nessuno lo avrebbe preso in giro per il suo aspetto, sarebbe stato uno dei tanti. Con il poco di inglese che sapeva, scrisse e imbucò la lettera contenente solo poche righe:
" Sono tuo figlio. Voglio conoscerti."
Poi iniziò l'attesa. Ormai aveva lasciato la scuola per occuparsi a tempo pieno del negozio, e i giorni passavano lentamente; Kaz non sapeva se aspettarsi o meno una risposta. Si stava forse facendo troppe illusioni?
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Era mattina presto. Come tutti i giorni, il ragazzo arrivò in anticipo per sistemare il negozio prima dell'arrivo dei clienti; nemmeno 10 minuti più tardi, udì lo scampanellio della porta che si apriva. Aggrottò le sopracciglia, uscendo dal retro.
<< Non è ancora aperto.>> commentò, prima di riconoscere la figura del postino. L'uomo aveva una lettera in mano e l'aria leggermente perplessa.
<< Kazuhira-kun, è arrivata una lettera con il tuo indirizzo, ma il nome non corrisponde, perciò sono venuto a chiedere di persona...da quando fai "Miller" di cognome?>> chiese, inarcando un sopracciglio.
Il ragazzo sussultò, tentando di calmarsi.
<<...da adesso. Grazie, Irata-san.>> rispose solo, prima di strappargli praticamente la lettera di mano, correre a girare il cartellino con la scritta "Chiuso" appeso alla porta e sparire nel retro, lasciando l'uomo senza parole.
Con dita tremanti, aprì la lettera, scritta in inglese. Lesse velocemente le poche righe scritte dalla grafia spigolosa del padre, la grafia di una persona abituata a tenere in mano ben altre cose che una penna: era rimasto sorpreso dalla lettera, ma era ben felice di accontentare il desiderio del figlio di vederlo.
" Non posso venire di persona, perciò manderò qualcuno a prenderti. A presto, Mcdonald Benedict Miller."
Il ragazzo deglutì, trepidante, poi gli venne in mente una cosa che avrebbe dovuto fare prima di partire.
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La camera di sua madre era tenuta sempre al buio dato che la luce le dava fastidio, ma quando entrò, Kaz lasciò la porta socchiusa in modo che almeno una striscia di luce illuminasse l'angolino in cui era sdraiata sua madre.
<< Mamma...>> disse, a bassa voce, e lei voltò lentamente la testa a guardarlo, stanca.
<< Kaz...è già ora della visita?>> chiese, aspettandosi evidentemente l'arrivo del dottore. Il ragazzo scosse la testa, prendendole la mano.
<< No...c'è una cosa che devo dirti.>>
Le disse tutto, della foto, della lettera, e infine, esitando leggermente, le disse del trasferimento in America.
 Sua madre rimase in silenzio, poi aprì lentamente e con fatica gli occhi, osservando il figlio attraverso lo spiraglio di luce che entrava dalla porta. Ormai aveva 18 anni; lo aveva lasciato bambino quando la malattia l'aveva costretta a letto, ora se lo ritrovava già quasi adulto...e per tutto quel tempo, lui si era preso cura di lei, senza dire una parola. La donna annuì lentamente, stringendo debolmente la mano al figlio, ma non riuscì a rispondere.
Kaz capì ugualmente.
<< Grazie.>> sussurrò. Si chinò a darle un'ultimo bacio sulla fronte, poi uscì chiudendosi la porta alle spalle e chiamò l'ospedale.
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La "macchina" che Benedict Miller aveva mandato a prenderlo era una limousine nera: Kaz si chiese perchè mai avesse dovuto farlo se non per attirare l'attenzione. Praticamente tutto il vicinato era uscito o affacciato alla finestra a guardare; si avvicinò alla macchina con aria imbarazzata, ma poi notò lo sguardo dei figli dei vicini, i coetanei che non gli avevano reso l'infanzia una delle più felici: erano rimasti sbalorditi, e fissavano ora lui ora la macchina, a bocca aperta.
Cercando ora di non mostrarsi troppo compiaciuto, salì a bordo.
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Suo padre viveva da solo in una piccola casa che aveva acquistato una volta andato in pensione. L'autista lo lasciò davanti all'ingresso,e il ragazzo esitò davanti alla soglia, la mano alzata per bussare. Cosa doveva dire?
"Sono arrivato"? "Ciao"?
Intravide un movimento al di là di una finestra accanto all'ingresso, e la portà si aprì risparmiandogli il dilemma. Apparve un uomo vicino ai 60 anni, il viso segnato da rughe profonde. I capelli biondi iniziavano a sbiadirsi, e gli occhi azzurri, seppur ancora brillanti, avevano uno sguardo spento, stanco. I due si fissarono in silenzio per un lunghissimo istante, senza sapere cosa dire.
<< C-ciao...>> balbettò infine Kaz, in inglese. Gli occhi dell'uomo si animarono un pò, e allargò le braccia per abbracciarlo piuttosto goffamente.
<< Entra. Abbiamo...abbiamo un sacco da dirci.>> disse, con un vago sorriso. Kaz lo seguì, ancora imbarazzato. Mentre lo conduceva nel soggiorno e lo faceva accomodare, Kaz scrutò il padre: forse era perchè viveva da solo, ma aveva un'aria sofferente e stanca. Fu preso da una vaga sensazione di disagio che non riuscì a spiegarsi, ma prese posto di fronte all'uomo su una poltrona, guardandosi timidamente attorno. Su una parete campeggiavano foto, la maggior parte in bianco e nero e risalenti al tempo della guerra, altre più recenti a colori.
<< Allora...>> Benedict Miller sembrava imbarazzato almeno quanto il figlio.
<<...come sta Yoko?>>
Kaz abbassò lo sguardo.
<< N- non troppo bene.>> rispose.
La tensione tra i due si sciolse pian piano, e ben presto si ritrovarono a parlare animatamente del più e del meno, o forse era più corretto dire che Benedict parlava, mentre il ragazzo ascoltava avidamente. Gli mostrò parecchie foto di lui insieme a sua madre, raccontando come, appena tornato in America, aveva pensato spesso di tornare in Giappone, ma non era mai riuscito a farlo.
<<...e ora?>> chiese Kaz. L'uomo ci pensò un istante, poi sorrise e scosse il capo.
<< No...ormai è passato troppo tempo, ci siamo allontanati troppo l'uno dall'altra.>>
Mentre continuavano a parlare, notò su un tavolino alcune foto incorniciate dall'aria recente:ritraevano Benedict fianco a fianco con un ragazzo biondo sui vent'anni, entrambi in divisa.
<< Chi è?>> chiese.
La voce dell'uomo si smorzò,e l'ex militare cadde in un silenzio addolorato.
<< Il tuo fratellastro...è morto in Vietnam un anno fa.>> rispose, a bassa voce.
Kaz borbottò delle scuse e chinò il capo; la sensazione di disagio si acuì.
Aveva la netta sensazione che se il suo fratellastro non fosse morto in guerra, suo padre non si sarebbe interessato a lui quanto stava facendo ora.
Si sentì un rimpiazzo.
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In ogni caso Benedict fece del suo meglio per far sentire a suo agio il figlio, trascorrendo l'estate impegnandosi al massimo ad insegnare a Kaz l'inglese impartendogli lezioni private in modo che potesse iniziare subito la scuola, dato che il ragazzo sembrava ansioso di riprendere la sua istruzione.
Sapeva che non doveva aver avuto un'infanzia felice, un pò a causa sua, e ora tentava di farsi perdonare.
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<< 'Kazu-hira'?>> John, il suo compagno di stanza al college, per qualche motivo era andato su di giri quando Kaz gli aveva detto di essere nato in Giappone. Inoltre insisteva nel chiamarlo con il suo nome completo, ma la pronuncia dell'americano bastava a fargli venire il mal di testa.
<< ...senti, chiamami Kaz. E' più semplice.>> rispose.
 John alla fine acconsentì, ma non smise di tempestarlo di domande. Aveva mai mangiato il sushi? Che sapore aveva il saké?
Il ragazzo si pentì ben presto di aver tirato in ballo le sue origini, e si ripromise di non menzionarle più a meno che non fosse stato strettamente necessario. In ogni caso, John si ripromise di mostrargli "la vita americana."
E lo fece. Alla grande.
Kaz studiava con impegno per recuperare gli anni persi,leggendo oltre ai testi scolastici saggi di scienza e storia, ma nulla riuscì a sottrarlo agli inevitabili party e festini organizzati dai ragazzi...non che a lui dispiacesse:finalmente si sentiva ben accolto; impiegò poco ad abituarsi al modo di parlare informale degli occidentali, così diverso dal giapponese, pieno di suffissi onorifici e forme di cortesia. Scoprì inoltre che gli occhi dal taglio leggermente a mandorla gli davano un'aria che alle ragazze piaceva parecchio: la ragazza di John lo definiva "esotico".
Quando, alcuni anni dopo, si diplomò, aveva fatto da testimone alle proteste via via crescenti contro la guerra in Vietnam: suo padre, come anche altri veterani di guerra andati in pensione o tornati dal fronte, si unì immediatamente alle manifestazioni. Kaz sapeva che, più per la guerra in sè, lo faceva per rabbia.
Decise di tornare in Giappone.
---
L'infermiera cercò di bloccarlo prima che potesse entrare nella stanza in cui era ricoverata sua madre.
<< Signor Miller-san, prima che lei entri, c'è una cosa che deve sapere...>> disse.
L'uomo la fissò.
<< Cosa? C'è qualcosa che non va con mia madre? E' peggiorata?>> chiese.
La donna scosse la testa, impaziente.
<< N-no, ma vede...aspetti!>> esclamò, lanciandosi in avanti, ma Kaz era già entrato. Si bloccò sulla soglia, pensando all'ultima volta che l'aveva vista, poi si avvicinò al letto in fondo alla stanza, dove riconobbe la figura smunta e magra della madre, appoggiata alla spalliera del lettino e intenta a guardare fuori dalla finestra: non voltò nemmeno la testa quando lo sentì avvicinarsi.
<<...mamma. Sono io. Sono Kazuhira.>> disse, a bassa voce.
La donna si voltò lentamente a guardarlo quando parlò, fissandolo con sguardo vacuo.
<<...chi sei?>> chiese. Kaz rimase immobile, troppo stupefatto per reagire, sentendo a malapena i passi frettolosi dell'infermiera alle sue spalle. La donna gli posò una mano sulla spalla e lo convinse con un cenno gentile a voltarsi e allontanarsi di qualche passo;l'uomo trovò difficile staccare lo sguardo dal viso della madre.
<<...le condizioni di sua madre sono stabili, ma purtroppo la malattia sembra essere passata al cervello...>>
Non lo disse esplicitamente, ma non vi fu bisogno di specificare di quale malattia si trattava. Nel frattempo, Yoko continuava a osservarlo, curiosa
<< ...Benedict?>> chiese infine.
<< Sei tu? E' passato tanto tempo...>>
Lo aveva scambiato per suo padre.
Kaz deglutì, non sapendo cosa dire: d'un tratto gli parve che la stanza fosse caduta nel silenzio e che tutti lo fissassero. L'infermiera era sul punto di scoppiare in lacrime.
<<...mi dispiace.>>
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Gli dissero che non c'erano cure per la malattia, ma non gli interessava; i soldi che aveva messo da parte vendendo il negozio prima di partire erano quasi finiti, e in ogni caso voleva assicurarle le migliori cure possibili. Si arruolò nelle JSDF, le Forze di Auto Difesa Giapponesi; un pò perchè la paga era buona, un pò perchè gli ultimi fatti accaduti gli avevano messo addosso una voglia tremenda di fare qualcosa.
L'ispettore che aveva accettato la sua domanda di arruolamento aveva però espresso i suoi dubbi sul fatto che lui fosse tagliato per quel ruolo, ma l'uomo non aveva voluto sentire ragioni...e l'ispettore aveva ceduto davanti a quello sguardo animato da una determinazione incrollabile e una frustrazione crescenti.
---
Due anni dopo, la previsione dell'ispettore si rivelò esatta: anche se non l'avrebbe mai ammesso, le JSDF non facevano per lui. Lui voleva combattere, mentre le forze armate giapponesi intervenivano solo per difesa, mai per attacco. Inoltre, si sentiva di nuovo vittima di una sottile discriminazione. I suoi superiori, nonostante lo lodassero spesso per le sue capacità, non lo avevano nemmeno mai promosso: temevano cosa avrebbe fatto se fosse giunto ai ranghi alti.
A queste considerazione Kaz stringeva i denti, ma non ribatteva; aveva bisogno di quel posto.
Andava a trovare sua madre ogni volta che poteva; la donna attraversava ogni volta vari stadi di lucidità. A volte sembrava cosciente di cosa le stava accadendo e scoppiava a piangere, altre volte sembrava convinta di essere ancora nel 1940, negli anni della sua gioventù.
<< Sai, ho un figlio.>> gli disse un giorno, passandosi una mano tra i capelli. Le era sempre piaciuto farlo, ricordò Kaz, e spesso quando era piccolo lasciava che fosse proprio lui a intrecciarglieli o pettinarli.
<< Un così bel bambino...ma è partito per l'America, a trovare suo padre. Chissà come sta...>> commentò, con un sospirò.
Kaz deglutì, poi le prese una mano.
<< Sono sicuro che sta bene.>> rispose, la voce tremante. La donna sorrise, radiosa.
<< Sei sempre così gentile, giovanotto...com'è che ti chiami?>>
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Sua madre morì pochi mesi dopo; al funerale non c'era quasi nessuno.
Ora che non c'era più bisogno di pagare l'ospedale, iniziò a chiedersi cosa fare. Nelle JSDF non aveva futuro. Doveva cercare un altro lavoro?
Rimase a lungo chiuso in camera, a riflettere, poi scosse il capo e sospirò. Quella non era la sua patria. Il Giappone lo aveva sempre disprezzato e rifiutato. Sarebbe tornato in America.
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Al suo ritorno in America ebbe un'altra brutta notizia.
<< ...come sarebbe a dire...suicidio?>> chiese, apatico, al direttore della centrale di polizia. L'uomo si limitò a passargli un paio di documenti, senza avere la minima idea di come gestire la situazione: sì, all'anagrafe risultava che Benedict Miller avesse un altro figlio, ma non avevano idea...
Kaz lesse i documenti più volte, senza in realtà capire una sola parola oltre alle prime righe. Suo padre si era tolto la vita sparandosi un colpo in testa e nessuno aveva pensato di avvertirlo. Depressione per la morte del primo figlio, avevano detto.
Mentre fissava l'ammasso di caratteri stampati, sentì salire lentamente la rabbia.
<<...perchè non me l'avete detto?>> chiese, alzando lo sguardo sul poliziotto; vibrava di rabbia.
<< Noi non...>>
<< Non pensavate fosse importante? O non ve n'è fregato proprio nulla? Ero suo figlio, maledizione!>> si ritrovò a gridare.
<< Sono...sono...>> si bloccò, d'un tratto di nuovo calmo mentre realizzava cosa era successo. Era solo. Non aveva più nessuno a cui affidarsi, nessun luogo in cui tornare.
Lasciò cadere i fogli sul tavolo e uscì senza dire una parola. Aveva bisogno di riflettere.
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Dieci minuti dopo era alla vecchia casa di suo padre: Benedict non aveva lasciato un testamento, ma essendo l'unico erede era per metà sua, e per metà della sua ex-moglie. A lui bastava che fosse sua per quella notte, poi avrebbe anche potuto rinunciare alla sua parte;non gli interessava.
Entrò e si lasciò cadere su una poltrona del soggiorno, la stessa in cui si era seduto qualche anno prima, prima di seppellire il viso tra le mani. Non aveva la benchè minima idea di cosa avrebbe fatto. Si alzò e attraverso a passo pesante la stanza, fermandosi ad osservare il muro coperto di foto incorniciate. Ne staccò un paio, prese da un vecchio album un'altra dei suoi genitori insieme, poi l'occhio gli cadde su un piccolo mappamondo poggiato su un tavolino. Iniziò a farlo girare distrattamente con il dito; c'era un che di ipnotico nel modo in i continenti si susseguivano.
Giravano e giravano, sempre uguali, tutti fermi al loro posto, eppure non si fermavano mai...
Fermò il mappamondo con il dito indice, poi osservò il punto in cui era caduto il dito: Alaska.
Non gli sarebbe dispiaciuto andarci, rifletté.
In effetti, non gli sarebbe dispiaciuto andare in un sacco di posti...fu un piccolo shock rendersi conto che niente e nessuno glielo impediva.
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Girò l'America in lungo e in largo, e quando si fu stancato, iniziò a girare il mondo. Non si fermava mai a lungo nello stesso posto, godendosi lo spirito di libertà dei primi anni 70. Quando finirono i soldi che aveva ottenuto rinunciando alla sua parte di casa, iniziò a lavorare come mercenario; in quel periodo gli scontri armati, piccoli o grandi che fossero, non mancavano.
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Era stato messo a capo di una piccola unità di rivoluzionari in Colombia, dove era scoppiata una guerriglia tra ribelli e governo. Aveva addestrato quei soldati improvvisati ed avevano portato a termine più di un'operazione.
<< Miller.>> lo chiamò uno dei soldati, affiancandoglisi mentre marciavano di ritorno al loro punto di raccolta.
<< L'ultima ricognizione è andata bene.>> commentò, soddisfatto.
Kaz annuì leggermente, poi il sorriso si spense; d'un tratto ebbe la netta, istintiva sensazione di essere in pericolo. Si guardò attorno e fece un cenno, ordinando a tutti di fermarsi. Gli uomini obbedirono, serrando i ranghi e strizzando gli occhi per vedere oltre l'oscurità che iniziava a calare.
Qualcosa si muoveva lì, giusto oltre il loro campo visivo...l'uomo fu percorso da una scarica di adrenalina.
<< Attent-!>> gridò, ma venne soffocato dalla prima scarica di mitra. Il soldato al suo fianco cadde a terra, colpito più volte al viso, e Kaz si tuffò di lato mentre soldati del governo li circondavano, ma senza avvicinarsi.
Accadde tutto così in fretta che in seguito avrebbe ricordato solo una serie ininterrotta di spari ed esplosioni: rotolò a terra e si rialzò, chiedendosi perchè i loro attaccanti mantenessero le distanze, poi un altro dei suoi uomini cadde a terra, sopra un piccolo oggetto semisepolto nel terreno sabbioso....
la mina Claymore esplose scaraventando frammenti di roccia e metallo ovunque, innescando una reazione a catena che fece ne saltare altre due o tre disseminate nella zona. Venne scaraventato via a sua volta e investito da una pioggia di frammenti, sentendo a malapena il breve grido di quelli che si erano trovati proprio al centro dell'esplosione....poi calò il silenzio. Niente più grida, niente più spari. L'uomo era stupefatto: spazzati via in un solo istante...udì dei passi, e si costrinse ad alzare lo sguardo.
 Un uomo si era fatto largo tra i soldati e scrutava attento il terreno; passò in rassegna con fredda efficienza i corpi, poi distolse lo sguardo e voltò le spalle alla scena.
<< Abbiamo fatto il nostro dovere. Andiamocene.>> disse solo, cupo. Kaz lo scrutò con rabbia: lo lasciava così? A morire dissanguato?
 << Ehi!>> gridò, stringendo i denti e tirandosi faticosamente a sedere. L'uomo si fermò. << Non sono arrivato fin qui per morire dopo un finto atto di misericordia.>> ringhiò.
<< Se proprio devi uccidermi, fallo tu stesso!>>
L'uomo si voltò lentamente a guardarlo, e Kaz vi riconobbe un volto vagamente familiare. Il comandante nemico lo scrutò in silenzio per qualche lunghissimo istante, poi imbracciò il mitra e si avvicinò lentamente.
Kaz lo guardò avvicinarsi, mentre fingendo di strisciare all'indietro come a volersi riparare allungava una mano a prendere l'ultima granata che gli era rimasta...
Chiamando a raccolta le ultime forze, si scaglio contrò l'uomo e fece per tirare la linguetta.
Passò un secondo. Poi due. I due si ritrovarono uno di fronte all'altro, e Kaz impiegò un altro secondo a registrare cosa era successo: lo sguardo dell'uomo era fisso sulla sua mano, e Kaz lo seguì. Con un movimento fulmineo aveva gettato via il mitra e gli aveva stretto entrambe le mani attorno alla sua che reggeva la granata, serrando la presa al punto da impedire al meccanismo di scattare. L'uomo alzò lentamente lo sguardo su di lui. Il biondo tremava, malfermo sulle gambe, sentendo mancargli le forze.
<< Non...>> balbettò << non lascerò che nessuno->> la frase venne troncata a metà quando il biondo perse i sensi. La granata cadde a terra, ancora chiusa, e rotolò via.
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Big Boss osservò l'uomo crollare a terra. Quando lo aveva visto scagliarglisi contro, non aveva potuto fare a meno di ammirarlo. Aveva messo da parte il suo orgoglio e aveva deciso di combattere fino all'ultissimo istante, anche davanti a morte certa. Non lo aveva fatto per la gloria o per un ideale. Lo aveva visto semplicemente come un suo dovere personale.
<< Portiamolo alla base.>> sentenziò, brusco. I suoi uomini lo fissarono sbalorditi.
<< Ma...Boss...>>
<< Ha bisogno di cure, o morirà per l'emorragia. Muovetevi!>>
Osservò i soldati di cui era stato messo a capo obbedire. Quell'uomo...era il tipo di persona di cui si poteva fidare. Era il tipo di vero alleato che gli sarebbe piaciuto avere al suo fianco. Mentre saliva sull'elicottero, un piano prese forma nella sua mente. Non appena si fosse ripreso, avrebbe dovuto fargli una proposta.
   
 
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