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Autore: Trick    17/11/2012    3 recensioni
[Civil War]
"E Valeria le martellava di nuovo nelle testa, nel centro di quell'universo di supereroi che si stava frantumando e continuava a implorarle di non andare, di restare, di portarle a casa il suo papà...".
Missing Moments di Susan Storm e dei Fantastici Quattro durante gli eventi di Civil War.
|SuexReed|
Prima classificata al "Marvel Contest, Prima Edizione: L'Introspezione" indetto da signorino_.
Genere: Introspettivo, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
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Titolo: La goccia nella tempesta
Fandom: I Fantastici Quattro
Personaggi: Reed Richards (Mr. Fantastic), Susan Storm (La Donna Invisbile), Johnny Storm (La Torcia Umana), Ben Grimm (La Cosa)
Generi: Introspettivo, sentimentale
Avvertimenti: Nessuno
Note: Questa storia si è classificata prima al Contest indetto da signorino_, Marvel Contest, Prima Edizione: L'Introspezione.

*

Ti prego, Reed.
Trova una soluzione.

L'autista del taxi sul quale stava viaggiando era di origini libanesi.
Susan non aveva dovuto spendere troppe energie per sfamare quell'improvvisa curiosità: non era una donna abituata a perdersi in inutili congetture – non quando poteva semplicemente chiedere. Glielo aveva domandato con la gentilezza di una bambina cresciuta a chilometri di distanza dalla riottosa città di New York e lui l'aveva scrutata dallo specchietto retrovisore e aveva accennato il sorriso nostalgico di un ragazzino che aveva dimenticato la strada per tornare a casa.
Forse non ci voleva nemmeno tornare, forse nessuno dei due voleva farlo. Eppure lei era lì, elegante e composta sul sedile posteriore del taxi che stava avanzando a singhiozzi nel traffico di Manhattan, e a casa, in effetti, ci stava davvero tornando.
La pioggia picchiettava incessante sul tettuccio dell'automobile, il sibilo delle ruote che affondavano nelle pozzanghere e le decine di clacson impazziti sembravano rimbombare attraverso i finestrini chiusi. L'acqua scivolava sul vetro, si portava via i contorni delle insegne a neon e creava una torbido accozzamento di colori, ma Susan continuava a fissare la pancia di quel gigante che era New York senza vedere niente. Non c'era rumore, non c'era confusione, non c'era niente che potesse trovare spazio nella sua testa.
I visi di Franklin e Valeria si affacciavano a ogni finestra della sua mente in continuazione. Erano lì quando Capitan America aveva accettato lei e Johnny nei Vendicatori Segreti; erano lì quando aveva implorato Namor di appoggiare la loro causa; erano lì quando avevano fatto irruzione su Rykers Island; erano lì quando aveva dovuto reggere lo sguardo carico di accusa di Reed; erano lì mentre veniva travolta dal caos della battaglia, mentre cercava di controllare che Johnny non si facesse male, mentre sperava di non dover affrontare il proprio marito in battaglia, mentre tutto attorno lei a sembrava scoppiare e non aveva altro che il sorriso inaspettato di Ben a spronarla ad andare avanti.
Ma quando Reed si era frapposto fra lei e Taskmaster, Franklin e Valeria se ne erano andati per un istante. Da lì in poi non c'era stata che l'immagine di suo marito esanime sull'asfalto distrutto, e Susan era crollata in ginocchio ancor prima di aver assaporato per l'ennesima volta il terrore di poterlo perdere per sempre.
Quando aveva deciso di andarsene, il candore della voce di Valeria l'aveva inchiodata davanti alla porta con più forza di quanto lei non avesse mai dimostrato nei panni della Donna Invisibile.
Mamma?” l'aveva colpita a tradimento. “Mamma, dove vai?”.
Mentirle aveva fatto più male di quanto non avesse previsto – si era perfino chiesta se Reed avesse sepolto tutto quel dolore dietro a ognuna delle menzogne che aveva raccontato a lei. E Valeria le martellava di nuovo nelle testa, nel centro di quell'universo di supereroi che si stava frantumando, e continuava a implorarla di non andare, di restare, di portarle a casa il suo papà... e Susan era sempre lì, accanto a Reed, e d'un tratto non aveva capito più niente di quello che stava facendo e di qualunque cosa avesse fatto.
«Signorina, non posso avvicinarmi più di così».
Susan distolse lo sguardo dal finestrino e allungò il collo per scrutare il tremendo blocco del traffico che ancora la separava dal Baxter Building. Avrebbe dovuto immagine che i mezzi di soccorso e di sicurezza sarebbero stati allertati nel più breve tempo possibile; non le era affatto difficile immaginare Tony tutto preso nel suo tentativo di sotterrare ogni prova di quell'ennesimo massacro che la loro diversità aveva generato.
«Potrebbe gentilmente aprirmi il bagagliaio?».
Il taxista sollevò appena la visiera del cappellino e si grattò pensieroso il testone pelato. Aprì di nuovo la bocca, ma Susan era già scesa dalla vettura e lo aspettava paziente sul ciglio del marciapiede. L'uomo inghiottì una bestemmia, alzò il colletto del giubbotto e s'affrettò ad aprire il baule.
«Senta, signorina, io non posso mica portare tutta queste valigie fino al--».
«Non si disturbi» lo interruppe con un sorriso premuroso. «Quanto le devo?».
«Fanno undici dollari e trentacinque centesimi».
La osservò meglio. Era una gran bella donna, come una di quelle che si era abituato a vedere affisse ai grattacieli sulla Trentacinquesima a fare da testimonial per i prodotti di Dior, ma il suo viso portava tutte le ombre che un bravo grafico avrebbe cancellato dalle fotografie di ognuna di quelle modelle. Non indossava altro che una semplice giacca scura su una camicia celeste e un paio di jeans, e guardandola di sottecchi mentre apriva il baule, il taxista si accorse che era perfettamente asciutta. Sebbene l'acqua gli avesse già inzuppato il cappello, la chioma bionda della donna non sembrava risentire nemmeno del vento.
Quando vide le valigie all'interno del portabagagli levitare da sole, all'uomo venne quasi un colpo. Fece un balzo indietro e le fissò galleggiare verso la giovane come se un paio di mani invisibili le avessero sollevate da terra. Ma non c'era proprio niente: c'era solo lui con il suo berretto fradicio e lei con i capelli ordinati e le scarpe immacolate. Capì in un istante.
«L-lei è... lei è la Donna Invisibile?» s'informò con voce incerta, passandosi una mano sul volto e guardandola con gli occhi sgranati. «Porca miseria, ma è davvero lei?».
La donna scostò una ciocca bionda dal volto e accennò un sorriso privo di allegria.
«No. Sono Susan Richards».
Il taxista la fissò dirigersi a capo chino in direzione del Baxter Building. Quando la gente notava le valigie che seguivano da sole la sua scia, si allontanava d'istinto, scontrava i propri ombrelli con quelli degli altri passanti e la guardava con la stessa espressione di confusa paura che avrebbe riservato ad un'invasione aliena. Rimase fermo accanto al taxi fin quando non l'ebbe perduta definitivamente di vista.
In Libano non c'erano mai stati extraterrestri come quelli.

So che dovrei essere felice.
Ma non lo sono.

Sfrecciavano fra le strade di New York già da diversi minuti e Johnny non aveva ancora aperto bocca. Susan iniziava a credere che il mondo si fosse ribaltato una volta per tutte. Johnny che taceva, Ben che la guardava attraversare l'ingresso di casa senza muovere un dito per fermarla e Reed che era stato lobotomizzato, che non era più l'uomo che aveva sposato, che era pronto ad appoggiare tutto quel feroce teatrino organizzato da Tony in nome di qualcosa che lei non riusciva a capire – in nome di qualcosa che lui non aveva nemmeno voluto spiegarle.
Mamma, dove vai?”.
«È la cosa giusta».
Susan voltò appena la testa verso il fratello. Teneva le mani saldamente ferme sul volante e gli occhi puntati sulla strada. Per qualche momento il solo rumore fu quello dei tergicristalli che spazzavano via l'acqua dal vetro.
«Ne sei sicuro?».
Johnny arricciò le labbra in un sorriso scanzonato.
«Non posso darti sicurezza, Sue. Quello è il tuo ruolo».
«Non cercavo sicurezza» rispose piano, appoggiando il gomito al finestrino e affondando il volto stanco nel palmo della mano. «Volevo solo sapere se c'era qualcuno in questa macchina in grado di dirmi cosa stiamo facendo».
Lui picchiettò con l'indice lo schermo della radio spenta.
«Accendi e chiedi a Bruce Spingsteen».
Susan camuffò una risatina isterica in un lungo soffio. Avere un fratello idiota era talmente sfibrante da rendere il desiderio di strozzarlo con le proprie mani talvolta irresistibile, ma Johnny era il suo personale Peter Pan e per quanto Peter Pan fosse un piccolo demonio, nessuno avrebbe mai sognato di strangolarlo. Era la magia di Johnny, quella, la stessa magia di Peter Pan: il ragazzo che non voleva crescere e che nessuno aveva mai avuto il coraggio di sculacciare.
«È la cosa giusta, Sue» ribadì d'un tratto Johnny, con lo sguardo serio e concentrato. «Fidati di me. È la cosa giusta».
L'unica certezza che Susan avrebbe potuto vantare era che non sarebbe stata certa di ciò che stava facendo fin tanto che la voce di Valeria avesse continuato a martellarle nella testa. Risuonava nella macchina, risuonava nella voce gracchiante nella radio, risuonava perfino nell'eco dei clacson di New York.
Mamma, dove vai?”.
«Ho mentito a mia figlia, Johnny» confessò in un mormorio rauco. Chiuse gli occhi e appoggiò la nuca al lussuoso sedile dell'automobile. Non si era mai sentita tanto provata e inutile.
«Io ho mentito a un amico. Gli ho detto che avevo una voglia matta di hamburger».
Susan sorrise con affetto al pensiero di Ben. Non credeva che lo avrebbe trovato sveglio a quella tarda ora della notte, né aveva immaginato che avesse intuito ciò che lei e Johnny avevano intenzione di fare. Eppure era lì, in piedi accanto alla finestra a fissare la fiammante automobile ferma davanti all'ingresso del grattacielo. Quando si era voltato per guardarla, sul suo viso di pietra non c'era una sola traccia del rimprovero che Susan aveva temuto di vedere. Le aveva sorriso e le aveva mostrato i palmi con aria rassegnata.
«Io resto, Suzie. Non posso mica lasciare Mr. Chewingum a tirare avanti la baracca da solo. Si dimenticherebbe di mangiare».
Susan aveva appoggiato le valigie sul pavimento, si era avvicinata all'amico e aveva fatto un profondo respiro. Poi aveva scosso debole il capo, aveva intrecciato le braccia e aveva lanciato un'occhiata distratta verso la strada, dove Johnny la stava aspettando già da diversi minuti.
«Ben, io...».
«Ehi, è tutto okay» cercò di rassicurarla lui, sfiorandole appena la spalla con una delle gigantesche mani. «Ci penso io a ricordargli di non fare scemenze. Non ti assicuro niente, eh?» aggiunse con una smorfia sarcastica. «Ti sei sposata proprio un bel cretino».
Lei sbuffò divertita. Rimasero in silenzio qualche secondo, poi la donna fece un passo in avanti e appoggiò la fronte contro il petto duro e massiccio dell'amico. Per un momento, Ben parve non essere in grado di reagire, ma poi la sua manona si alzò di nuovo, avvolgendo il corpo di Susan in un abbraccio di pietra.
«È la scelta più difficile che abbia mai dovuto fare...».
«Lo so».
«Dimmi che sto facendo la cosa giusta».
Ben sospirò affranto.
«Questo non lo so, Suzie... questo non lo sa proprio nessuno».
Seduta sul sedile anteriore accanto a Johnny, Susan continuava a domandarselo. L'abbraccio fraterno di Ben non le era stato di alcun aiuto; fare l'amore con Reed per l'ultima volta lo era stato ancora di meno; rimboccare le coperte ai suoi figli, chiudere la porta della loro cameretta e resistere alla tentazione di tornare indietro l'aveva sfinita del tutto. Perfino in quel momento, mentre tutto ciò che aveva di più caro al mondo dormiva al trentesimo piano di un grattacielo di New York, non riusciva a comprendere per quale motivo se ne stesse davvero andando. Era forse la sua guerra, quella? Si era detta di no, si era detta che lei non era mai stata Susan Storm e la Donna Invisibile: lei era solo Susan Storm, la Donna Invisibile che non aveva la più pallida idea di cosa fare.
L'indomani Reed si sarebbe alzato di buon'ora e avrebbe trovato un letto vuoto e un biglietto d'addio. Franklin sarebbe corso in cucina alla ricerca dei suoi cereali preferiti e forse non sarebbe riuscito a capire immediatamente per quale motivo zio Ben fosse impalato davanti alla finestra, in attesa di un'automobile rossa che forse non sarebbe più tornata. E Valeria... Valeria aveva il cuore riempito dalle menzogne che continuavano a mordere lo stomaco di sua madre.
Mamma, dove vai?”.
Devo andare in un posto con zio Johnny”.
Ma poi torni?”.
Tornerò presto”.
Non era difficile immaginare Valeria fare di quella frase il proprio personale mantra. Susan le aveva giurato che sarebbe tornata presto – e ignorando se sarebbe tornata, come aveva potuto dirle che sarebbe stato presto?
Forse aveva torto. Forse non era mai stato Reed a relegare i loro figli al secondo posto rispetto ad ogni altra cosa, forse non era lui quello che non aveva mai dedicato loro abbastanza tempo.
Dopotutto era sempre stata lei, quella invisibile.

Per questo abbiamo fatto l'amore
un'ultima volta.

Era trascorsa quasi mezz'ora da quando si era richiusa la porta del bagno alle spalle e si era aggrappata al bordo di ceramica del lavandino. Reed non aveva sollevato lo sguardo da quei dannati fogli che aveva studiato per tutta la serata – quelli di cui non doveva parlarle, quelli che lei non doveva conoscere – nemmeno per accertarsi che sua moglie stesse bene. Susan era convinta che il pensiero non lo avesse minimamente sfiorato. C'era già troppa roba importante a colmare il geniale cervello di suo marito, troppi affari segreti, troppe cose nelle quali lei non doveva rientrare.
Guardò il proprio riflesso allo specchio e inspirò profondamente.
Aveva deciso. Lui l'aveva costretta a decidere. Non passava un attimo senza che Susan si ripetesse che non era colpa sua, che non poteva più scegliere nessun'altra strada, che non c'era davvero rimasto più nulla nel suo matrimonio per il quale valesse la pena di combattere. Tornava sempre a scuotere il capo e ad accusarsi di essere una bugiarda e una vigliacca. Da qualche parte del mondo c'era ancora gente pronta a proclamare il nome della Donna Invisibile con la stessa passionale gratitudine con cui avrebbero seguito un idolo d'oro, come se lei non fosse strana, come se fosse soltanto speciale, ma Susan conosceva bene il suono della menzogna.
Nessuno di loro era un eroe.
Non lo era lei, davanti al riflesso di una donna con gli occhi stanchi che tentava di convincerla ad abbandonare i propri figli e il proprio marito; non lo era Reed, perso nell'inseguimento di quel progetto che stava distruggendo loro la vita; non lo era Ben, senza la forza di opporsi al proprio migliore amico; e non lo era nemmeno Johnny, troppo desideroso di seguirla in quell'avventura per interrogarsi su cosa davvero ritenesse giusto.
I Fantastici Quattro non le erano mai parsi meno fantastici – non le erano mai parsi più falsi.
Quando fu tornata in camera, Reed era ancora seduto dalla sua parte del materasso con quei fogli di cui lei continuava a ignorare il contenuto fra le mani.
A chiunque il suo sguardo sarebbe sembrato brillare della stessa vivace curiosità intellettiva con cui si era sempre lanciato nei più intrigati progetti scientifici. Era sempre stato così, Reed: incapace di darsi pace quando le sue equazioni rimanevano insolute. E ci si buttava dentro a capofitto ogni volta, e ogni volta lei era pronta a sopportare di perdere suo marito negli anfratti più complessi della scienza. Era sempre stato così, ma era anche sempre tornato da lei.
Susan aveva ormai capito che quella volta, quella dannata e particolare volta, Reed non sarebbe tornato da nessuna parte. E se anche fosse tornato, non sarebbe mai tornato del tutto. Nulla di lui sarebbe tornato indietro, non dopo essersi reso complice della morte di Bill Foster e dopo averne declinato ogni responsabilità in favore di un bene più grande che lei continuava a non vedere.
Si infilò sotto le coperte e rimase per un attimo a contemplare l'espressione di totale concentrazione sul volto di Reed. I suoi occhi erano circondati da pesanti occhiaie, la fronte aggrottata, le labbra strette in una linea rigida e tirata.
«Reed?» lo chiamò lei in un sussurro.
L'uomo non diede segno di averla udita.
«Reed, guardami» ripeté con più forza, affondando le unghie nel cuscino.
Parve trasalire come se non si fosse accorto dell'arrivo della moglie. Sembrava non averla sentita scivolare al suo fianco, sembrava non aver notato la sua assenza nell'ultima mezz'ora, sembrava non averla vista in quel momento così come non l'aveva vista nelle ultime settimane.
«Voglio terminare il controllo di questi dati prima di--».
Susan era scattata a sedere e gli aveva serrato duramente il polso sinistro. I capelli biondi le coprivano l'espressione tesa, ma il suo petto si alzava ritmicamente e ogni centimetro del suo corpo sembrava tremare.
«Io rivoglio mio marito. E lo rivoglio adesso».
Reed scosse la testa e fece un sospiro spossato, ma decise di riporre l'enorme plico di fogli sul comodino. Appoggiò la nuca alla testiera del letto e gli rivolse un'occhiata interrogativa.
«Per l'amor del cielo, Susan, non--».
«Perché non hai ancora lasciato perdere questa storia?».
«Perché stiamo lavorando a qualcosa di giusto. Qualcosa di grande» replicò con durezza lui, liberandosi dalla sua stretta con un gesto secco. Il suono secco con cui aveva enfatizzato la parola “grande” la fece rabbrividire. «È un sacrificio doveroso che porterà a ottimi risultati».
«La morte di Bill Foster rientra nell'elenco dei sacrifici doverosi o in quello degli ottimi risultati?».
Reed non riuscì a nascondere l'espressione di attonita delusione sul proprio viso. La scrutava in silenzio, con la bocca appena dischiusa e una luce di profonda accusa negli occhi sgranati.
Fu in quel momento che Susan si rese conto di quanto fosse infinito lo spazio che li divideva nel letto.
I suoi polpastrelli sfiorarono appena la liscia stoffa della manica del suo pigiama, risalirono incerti lungo il suo braccio, carezzarono appena la linea rigida della mandibola. Lui la evitò come se il tocco delle sue mani potesse bruciarlo. Susan serrò gli occhi e si ripeté che non aveva altra scelta. Eppure restava lì, cocciutamente in bilico sull'orlo del burrone a dondolarsi avanti e indietro, senza rinunciare alla speranza che qualcuno potesse aiutarla a gettarsi nel vuoto.
«La morte di Foster è stata un incidente».
Non aveva altra scelta – o forse l'aveva, ma non sarebbe stata quella giusta.
Posò un bacio tremante sulle sue labbra. Si stringeva spasmodica al suo colletto, temendo che i buchi neri che da sempre assorbivano l'attenzione del marito potessero tornare a reclamare anche il suo corpo.
«Hai ragione» mormorò.
Pregò che la propria menzogna fosse credibile almeno la metà di quanto lo erano state le sue. Reed sollevò un braccio, le sfiorò la clavicola e giocherellò con espressione distante con la spallina del suo reggiseno.
«Ho bisogno della tua comprensione» la implorò lamentoso. «Ho bisogno di mia moglie, Sue».
«Sono qui».
Si sentiva un'adultera. Mai come in quel momento, con le labbra di Reed sul collo, i suoi capelli fra le dita e le gambe attorcigliate con le proprie, la sensazione di essere sporca e perduta era stata tanto soffocante. Era l'addio più infido sul quale avrebbe mai potuto ripiegare. Avvertiva gli occhi di suo marito cercare il suo sguardo nella penombra della camera da letto.
Mai come in quel momento aveva desiderato essere invisibile.

Mi vergogno di te, adesso.
E mi vergogno di me stessa.

Avrebbe potuto allungare le gambe per evitare di fracassarsi sull'asfalto davanti al Baxter Building o rendere una delle sue braccia talmente lunga da permettergli di aggrapparsi a un lampione. Mentre precipitavano nell'inferno esplosivo in cui New York si era appena trasformata, Reed non aveva bisogno dell'aiuto di sua moglie. Era Mister Fantastic, lui, l'uomo di gomma più intelligente del mondo, eppure l'istinto e l'abitudine di Susan erano stati più forti: il suo sottile campo di forza si era avvolto come una sfera attorno al marito, ne aveva rallentato la caduta e l'aveva depositato con incredibile grazia accanto a una vecchia Ford blu.
Sulle labbra di Reed si aprì un momentaneo sorriso nostalgico. Quando si voltò, Susan era già alle sue spalle. La sua espressione seria e tirata era terribilmente in contrasto con i suoi occhi brillanti.
«I bambini sono in casa?» s'informò urgentemente.
Susan sperava che la sua voce suonasse ben più rigida e forte di quanto non fosse in realtà il suo cuore. Se solo avesse potuto, avrebbe acciuffato suo marito e suo fratello e si sarebbe lasciata alle spalle l'inconcepibile massacro che stava distruggendo i palazzi di Manhattan, ma qualcosa in lei continuava stoica a ricordarle quanto fosse giusto, quanto fosse doveroso.
«No, sono al sicuro».
Le aveva mentito per settimane, le aveva mentito al punto tale da non aver più necessità di nascondere ognuna delle sue menzogne, ma Susan sapeva che mai avrebbe mentito sui loro figli. E nonostante tutte le bugie uscite dalle sue labbra, Susan continuava a fidarsi di lui. Era una sciocca? Forse, ma nel fragore della battaglia civile che li circondava, per un attimo non ci furono che loro due, ed erano più vicini di quanto non lo fossero mai stati negli ultimi tempi.
«Non combatterò contro di te, Sue».
«Ti credo» rispose sinceramente. «Ma ti scongiuro di non costringere me a farlo».
«Lo faresti?».
Non c'era alcun tono di sfida. La sua voce sembrava pulsare di timida rassegnazione, di timore, forse perfino di rimpianto. Susan lo avvertì sulla propria pelle. Custodiva davvero la risposta a quella tremenda domanda? Avrebbe davvero avuto il coraggio di attaccarlo?
Le parole le uscirono strozzate.
«Sì, Reed».

Faccio questo per la più importante delle ragioni.

Lo sbigottimento sul volto di Reed le fece pensare ad un sola cosa. Non credeva sarebbe tornata. L'aveva pregata senza alcuna speranza, e ora Susan era nuovamente lì, in piedi davanti alla porta con i bagagli che le galleggiavano attorno e un'espressione tetra sul viso.
«Sue, sei... tornata».
Era tornata, alla fine, ma ancora non riusciva a capire per quale motivo.
Fece un respiro profondo, si passò una mano fra i capelli e si strinse nelle spalle.
«I bambini hanno bisogno di me».
Reed infilò le mani nelle tasche della vestaglia. Era pallido, fiacco, sconfitto. Una parte di lei si ritrovò compiaciuta nel vederlo finalmente piegato a ciò che quella stupida guerra aveva portato.
«Anch'io ho bisogno di te».
«Di questo non ne sono per niente sicura».
Fece per avviarsi lungo il corridoio, ma la voce del marito le arpionò con ferocia la schiena.
«Sue, ti prego... senza di te, che altro mi resta?».
«Una guerra vinta» sputò con durezza. «I miei complimenti, Reed».
«L'ho persa nello stesso istante in cui ho accettato di parteciparvi. Avrei dovuto ascoltarti».
Susan sapeva che non stava mentendo. Non lì, non in quel momento. Reed era sempre stato un pessimo bugiardo. Non che questo gli avesse impedito di mentirle, ma non era mai stato sufficientemente abile da incantarla. Nei suoi occhi non c'erano che paura e dolore.
«Avresti dovuto, sì, ma non l'hai fatto. Direi che questo non gioca a tuo favore».
Avrebbe voluto picchiarlo. Avrebbe voluto scaraventarlo giù dalla finestra, vederlo precipitare sull'asfalto di Manhattan. Mr. Fantastic non si sarebbe procurato nemmeno un graffio, ma l'onore di Reed Richards – l'uomo, il marito, l'idiota – quello sì che avrebbe sanguinato. Avrebbe davvero desiderato poterlo odiare, anche solo per un attimo di labile sicurezza. Odiarlo sarebbe stato facile. Restare immobile nel corridoio sotto lo sguardo ferito dell'uomo che nonostante tutto continuava ad amare, invece, era troppo difficile.
«Perché sei tornata?».
Una domanda stupida, si disse. Eppure lei non ne possedeva la risposta.
«Non lo so» gli disse. «Ma tu sei un genio, Reed, forse puoi aiutarmi a capirlo. Perché sono tornata?».
Reed esitò.
«Perché mi ami» mormorò piano.
«Questo è solo ciò che vorresti sentirti dire».
«Questo non significa che non sia vero».
Certo che era vero. Era innegabile. Quando si era frapposto fra lei e Taskmaster, ogni più infimo astio nei suoi confronti era svanito. Dinanzi al suo corpo esangue, per Susan non era contato più nulla. Aveva sentito i mostri della rabbia e della paura scorrerle sotto il sangue, la tremenda possibilità di non poter più vedere il suo viso, il suo sorriso, di dover dimenticare il calore delle sue mani e il suono della sua voce. La paura di perderlo, semplice e dolorosa, sbattuta così duramente sull'asfalto, alla fine aveva prevalso.
E lei, alla fine, aveva capito.
«Io non posso perderti, Sue».
Neanch'io” sussurrò una voce improvvisa nella sua testa. Eppure rimase in silenzio, con un ciuffo di capelli biondi a coprire un sorriso appena accennato.
Aveva sempre avuto la risposta.

Ti amo, Reed.
Più di qualunque altra cosa al mondo.
   
 
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