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Autore: minerva74    18/11/2012    11 recensioni
Esistono molti tipo di amore. Molti tipi di solitudine. Di dolore. Di vendetta.
E poi esiste l'ossessione.
Esiste John Watson.
Ed esiste Sebastian Moran
Genere: Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Altro personaggio
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
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Stay

 
“Sono contenta di averti visto. E sono contenta che tu stia meglio.”
Il sorriso di Molly era sincero, carico di quella comprensione che per tanto tempo lo aveva infastidito. John abbozzò una smorfia in cui si incrociavano gratitudine e leggerezza.
Attorno a loro, il clamore impastato di un pub a Covent Garden, ingombro di turisti e di avventori alticci impediva una conversazione decente. Scrutò i suoi amici attraverso il vetro opaco del bicchiere.
Molly cercò con lo sguardo Greg Lestrade, fermo al bancone in attesa che venissero preparate le bevande. L’uomo le rispose con un’occhiata di disappunto: il barista stava servendo altri clienti e non era ancora arrivato a lui. La coda in cui la ragazza aveva raccolto i capelli rosso mogano ondeggiò per il cenno di assenso. Adesso le sfioravano le spalle coperte da una sciarpa di seta rossa, ed erano curati, lucidi. Veva messo anche un velo di rossetto.
Era diventata carina, Molly Hooper
John colse l’occhiata di Molly. Le sue labbra si piegarono in un sorriso indulgente. Non riusciva a immaginare una coppia meno probabile di quella eppure… eppure qualcosa c’era.
Occhiate. Sorrisi accennati, mani che si sfioravano impacciate, dita che si allontanavano in tutta fretta. John accarezzò il bordo del bicchiere con un dito e lo ritrasse, umido di birra.
Ricominciare a vivere.
Lo stava facendo. A fatica ma ci stava riuscendo.
Glielo avevano detto, quei pochi amici che gli erano rimasti vicini. Glielo avevano urlato, suggerito, consigliato: di andare avanti, vivere la vita, trovare qualcosa oltre il lavoro. Una storia, un hobby, un cane, qualunque cosa.
Passati le prime settimane di sconforto, John si era abbandonato alla vita ed essa l’aveva preso con sé. Si era trasformato in una barca abbandonata alla corrente, trascinata dal vento della quotidianità. Lavoro, amici, Harry. Unico impegno, seguito con una determinazione metodica: evitare tabloid e giornali. Non voleva più leggere nulla.
Era una fase del lutto, come la rabbia prima, e la disperazione poi.
Aveva evitato luoghi carichi di memoria. Rimuovere ciò che lo legava a Sherlock. E quindi, via da Baker street, via gli oggetti che lo legavano a lui, via il suo stesso pensiero, bandito dalla memoria cosciente.
C’era voluto tutto il suo impegno, ma ci stava riuscendo. Sherlock era una stanza della mente in cui non poteva e non doveva entrare: se lo impediva, esercitando su di sé un ferreo controllo. Anni di disciplina militare e psicoterapia gli avevano insegnato a evitare ciò che procurava dolore. Il pensiero si ritraeva di scatto, contraendosi dinanzi a quella ferita aperta che l’acido della sofferenza continuava a corrodere.
John aveva capito di volersi salvare. Poteva farlo solo se avesse dimenticato, se avesse dato le spalle agli anni migliori della sua vita, se avesse chiuso quel passato meraviglioso e terribile in un luogo irraggiungibile come una catacomba sepolta.
Forse, tra alcuni anni, avrebbe avuto la forza di affrontare ciò che sentiva. Il dolore, il vuoto, il senso di tradimento, il disperato bisogno di risposte che ancora gli stringeva la gola… ma non adesso, non ora. Non c’era più forza a sufficienza.
Greg in particolare aveva compreso il suo bisogno di silenzio, e più ancora, il disperato bisogno di vivere. Gli aveva letto lo sguardo, i gesti, lo aveva protetto. Magari non era uno sbirro molto dotato, ma era una gran brava persona.
Sua era l’idea di quell’uscita. “Una serata tra noi” aveva detto. Poi aveva aggiunto “E’ da una vita che non vedo Molly. Fuori dall’obitorio, intendo…”
Ripensandoci, John si rese conto che Lestrade aveva avuto un’esitazione nella voce, e aveva abbassato gli occhi senza guardarlo in viso. Che anche lui aveva ripreso a vivere. Che lo stesso stava facendo Molly.
Molly Hooper,dolce e imbranata, con la coda da adolescente e la cotta per Sherlock.
Tutti stavano andando avanti.
Greg si voltò a osservare il loro tavolo. Si stava spazientendo. John lo notò dal gesto stizzito della mano che stringeva le banconote per la birra e il rhum e coca di Molly.
La sensazione di solitudine aggredì John all’improvviso, così violenta e fisica da causargli un conato di nausea.
Solo.
Fuori posto.
D’improvviso, tutto gli sembrò eccessivo, chiassoso. La voglia di fuggire dal locale gremito di gente sudaticcia e sull’orlo dell’ubriachezza si impossessò di lui. Via, lontano. Silenzio e tranquillità.
“Molly… guarda, vado via. Non mi ero reso conto che fosse così tardi e domani sono di turno in clinica. John si alzò in fretta, afferrando la giacca con la mano, mentre con l’altra scostava la sedia per farsi largo.
Molly spalancò i dolci occhi scuri, sorpresa. “Ma non sono nemmeno le nove!” obiettò cercando di fermarlo. “Ci stavamo divertendo…” mormorò, la voce impregnata di una delusione che scalfì la corazza di John.
L’uomo abbozzò un sorriso stanco. “Davvero, Molly… mi sento stanco. Ti ringrazio ma ho bisogno di una notte di sonno. Ti chiamo nei prossimi giorni, se vuoi.”
Lei annuì con forza. “Volentieri”, rispose, sorridendogli. “Ci conto, sai.”
Rapido, John le diede le spalle e si avvicinò a Greg. Poteva sembrare un naufrago, così aggrappato al bancone del locale, ma lo sguardo arrabbiato tradiva l’esasperazione.
“Questi ci stanno mettendo una vita...” Greg spalancò gli occhi, notando la giacca che John teneva in mano. “Dove stai andando?”
“Sono esausto, amico. Ho bisogno di dormire.”
“Avevi detto…”
“No, sul serio. Sono stanchissimo.”
La mano di Lestrade gli afferrò il braccio in un presa salda, piena di calore.
“Resta. Resta, John.” Il suo sguardo era comprensivo, la voce bassa, rassicurante.
John avvertì un groppo in gola.
Un brandello di memoria lo aveva aggredito all’improvviso. Una lama rovente sino al cuore capace di incidere il tessuto ferito e riaprire piaghe che non aveva più la forza di curare. Un gesto simile, molti mesi prima. Una mano sottile e affilata, una voce roca, uno sguardo carico di una richiesta che le labbra non erano state in grado di formulare.
Stay. “Resta”.
Il sasso che gli bloccava il respiro divenne pesante, impossibile da inghiottire. John distolse lo sguardo dal viso dell’amico. “Sono distrutto. La stanchezza mi è piombata addosso così…” Allargò le mani in un gesto di resa.
Greg strinse il braccio con forza prima di lasciarlo andare e il medico avvertì una sorta di calore benefico scivolargli addosso, tiepido e consolatorio. Dopotutto, Greg gli era affezionato e aveva intuito il disagio che provava.
“Ti chiamo domani, quando avrò una pausa.” Il medico sorrise. “E comunque, c’è chi ti aspetta al tavolo. Credo che tu e Molly abbiate bisogno di un po’ di…”
Il resto della frase si perse nel frastuono del locale. Greg lo intuì e si massaggiò il collo, impacciato.
Mentre si allontanava tra i clienti del bar, John cercò di scrollarsi di dosso la sensazione di amarezza che lo aveva staffilato. Si aggrappò all’idea che, ancora una volta, la vita avrebbe avuto la meglio, che la sofferenza sarebbe divenuta solo un’eco, come stava già accadendo
 “Chi muore giace e chi vive si da pace” non era una menzogna: la vera forza della vita era la sua indifferenza al dolore.
 
Pioveva. Londra era popolata da ombre che correvano lungo i muri per ripararsi dalla pioggia. Auto e taxi sollevavano spruzzi di acqua sporca; le luci delle strade erano isole di luce pallida che rischiaravano i visi dei passanti rendendoli lividi o accesi dalle luci dei neon.
Un po’ correndo, un po’ camminando, John raggiunse la fermata della metro. Attorno a lui, gente infreddolita correva verso i tornelli, scrollandosi di dosso la pioggia e la fatica di una giornata uguale a tante altre. John si fermò in un angolo, scostandosi i capelli bagnati dalla fronte. Si asciugò le mani bagnate sui pantaloni, cercò a tentoni la Oyster card nel giubbotto. La custodia del documento strisciò sulla pattina della tasca e scivolò tra le dita umide, finendo a terra.
“Accidenti!”
Si chinò per raccoglierla ma un’altra mano lo precedette. John la vide richiudersi attorno all’astuccio, sollevarlo da terra, stringerlo tra le dita. Intravide il disegno di un tatuaggio sul polso, seminascosto dalla manica di un giubbotto di pelle. Qualcosa si mosse nella sua memoria. Aveva già visto quel disegno,  era un tatuaggio militare… ma dove?
“Grazie” disse. Prese la Oyster card dalle mani dell’uomo che l’aveva raccolta. Alto, scattante, vestito con un abbigliamento che solo all’apparenza poteva sembrare casual ma che era estremamente curato.
Giubbotto di pelle, pantalone scuro, stivali. Capelli chiari che gli sfioravano appena la nuca. Annuì, piegando le labbra in qualcosa che assomigliava a un sorriso e John ricambiò in fretta. Si immerse nella folla stringendo la Oyster card tra le mani, senza voltarsi indietro. L’uomo e il suo tatuaggio furono messi alla porta della sua mente, soppiantati dalla memoria.
Voleva restare solo con il suo lutto, quella notte.
 
LUI. ERA. VIVO.
Aveva dovuto farsi forza. Costringersi a dominare la sua mano che era impaziente di stringersi attorno al collo del biondo dottorino fino a farlo soffocare. Fino a vedergli rovesciare gli occhi, fino a diventare cianotico, fino a ucciderlo. Lo avrebbe fatto e non avrebbe provato un brivido.
Lui era vivo.
Jim no.
Jim con lo sguardo da bambino capriccioso e il cuore crudele, Jim con le mani abili e la bocca di raso, con la mente perversa. Jim che lo aveva trasformato da reietto in un uomo da temere, Jim che ne aveva paura e lo umiliava.
Scacciato con disonore dall’esercito. Accusato di atti di crudeltà nei confronti di civili in Afghanistan. Il grado, Colonnello, risuonava con un’eco di beffa nelle parole dei suoi ex commilitoni. Sua moglie lo aveva lasciato, incapace di reggere allo scandalo.
Poi, Jim.
Jim che sapeva cosa chiedergli, che sapeva cosa fargli fare. In ogni senso. Era il suo fucile. Il suo braccio destro. Il suo amante.
Non il suo confidente, no… questo non lo avrebbe mai permesso. Perché lo temeva. Oh, sì… a suo modo Jim aveva paura di lui. E insieme ne aveva bisogno.
Jim era suo. Con le unghie, i denti, e la rabbia, e la dedizione che sfociava nella venerazione. E Jim… Jim rideva perché non apparteneva a nessuno. A nessuno tranne che a lui, quel dannato detective che era divenuto la sua ossessione.
Tornò sui suoi passi. Fuori, oltre l’uscita della metropolitana, Londra stava annegando i dolori della sua gente in lacrime di pioggia.
Cacciò le mani in tasca. Camminò, gli occhi fissi sul pavimento di cemento grigio, l’anima che svolazzava attorno ai fuochi fatui dei ricordi.
Un letto. Il profumo di sandalo e cannella della colonia di Jim. La bocca che scivolava dalla schiena al collo, che si avvinghiava alle sue labbra sfregandogli la lingua contro i denti, contro il palato. Le mani che lo afferravano, che gli stringevano la pelle tesa della schiena, che gli dilatavano i glutei.
La prima volta… la prima volta era stata un inferno. Con Jim che lo derideva chiamandolo checca del cazzo e lui che soffriva e smaniava stringendo i denti, chiedendosi che fine avesse fatto il maschio eterosessuale che fotteva la moglie contro il tavolo della cucina. Allora lo aveva afferrato al collo, schiacciandolo sotto di lui, cancellandogli la risata dalle labbra. Le gambe di Jim erano sottili ma asciutte, ben diverse dalla proprie, rese muscolose da lunghi anni di disciplina militare.
“Non osare ridere mai più di me” gli aveva ordinato schiacciandogli la testa contro il pvimento. “O ti ritroverai una pallottola su per il cranio.” Non gli aveva dato il tempo di provare incertezza. Lo aveva afferrato per i capelli, scopandolo in bocca, così come aveva fatto con le mogli e le figlie dei talebani nel Karakorum.
Ricordò le dita di Jim che si stringevano attorno al pene, la risata aspra, il viso stravolto dal piacere che rasentava il dolore. Poteva sentirne quasi il sapore. Il tatto. Velluto, duro e setoso, e un aroma che non aveva pari.
Ricordò, Sebastian Moran. Ricordò mentre la pioggia fredda cadeva su di lui, bagnandogli il colletto e infradiciandogli i pantaloni.
Pochi giorni prima. Quando già il cappio attorno a Holmes si stava chiudendo.
Lui era scappato dall’abitazione di quella miserabile Kitty. Sebastian se lo era trovato dinanzi, in casa propria, appoggiato allo stipite della porta. Indossava una maglietta sgualcita e un berretto che gli copriva per intero il viso. Lo aveva guardato in tralice.
“Ho voglia di scoparti, colonnello” gli aveva detto semplicemente. Scoparti.
“Chi ti dice che io ne abbia voglia?” aveva risposto lui dandogli le spalle.
“Te lo ordino io.” Aveva sentito la sua voce dietro la nuca, carezzevole e derisoria. “Sono il tuo capo, no?”
Lo aveva odiato. Jim sapeva che detestava sentirsi subordinato a lui; eppure glielo sbatteva in faccia di continuo, provocandolo fino a fargli perdere le staffe.
Non gli aveva dato il tempo di rispondere. Si erano strappati i vestiti di dosso. Lo aveva preso senza precauzioni, in fretta, conficcandogli i pollici callosi nelle spalle, tirandogli i capelli. Alla fine si era accasciato al suo fianco, restando vicini. Jim a occhi chiusi. Lui a fissarlo in silenzio, da sotto le palpebre pesanti di sonno, dubbi e rabbia che gli bruciava sottopelle.
Poi, di colpo, Jim si era riscosso. Si era voltato e, dandogli la schiena, si era rivestito in fretta.
Lui aveva allungato il braccio. Gli aveva sfiorato la schiena pallida come quella di un bambino, arrivando fino al collo non sbarbato.
“Resta” aveva chiesto. Cercando di respingere il nodo che gli stringeva la gola, lasciando spazio all’irritazione. Detestava sentirsi usato così. Lo faceva sentire una puttana a pagamento.
Jim si era voltato a guardarlo. Negli occhi, un velo di derisione che sfumava durezza, persino fastidio.
“Sei un fottuto maniaco, colonnello. Non ti basta mai.” Jim aveva allungato la mano verso di lui, gli aveva accarezzato il viso.
Sotto la pioggia, Sebastian riusciva a sentire ancora il tocco di quelle mani calde. Si sfiorò il volto trovandolo umido, freddo.
Jim si era chinato su di lui. Lo aveva baciato. Sebastian lo aveva rovesciato sul letto, si era aggrappato alla sua maglietta sgualcita, stringendolo al petto, nascondendo in un angolo delle viscere la propria rabbia. Quella rabbia che adesso lo stava divorando. Che lo teneva in vita.
Jim lo aveva baciato a lungo, dappertutto. Lo aveva fatto godere con la sua mano e con la bocca, tormentandogli lo scroto fino a farlo gemere, massaggiandogli il punto sensibile all’apice dei glutei.
L’ultima volta che aveva avuto Jim nella sua bocca. L’ultima volta che lo aveva stretto, che lo aveva toccato.
Prima di quel maledetto render vous sul tetto del Saint Bart.
Ora non aveva più nulla.
Solo un sapore. Un ricordo. Un obiettivo. Cancellare Sherlock Holmes dalla faccia della terra.
Distruggergli ciò che aveva di più caro al mondo.
 
 
NOTA: anora una volta grazie 1000000 alla mia Beta Lucia e alle ragazze del fandom che mi hanno incoraggiato a inoltrarmi in un territorio sconosciuto. Grazie di cuore, ragazze!!
 

e se volete vedere la stupenda fan art che ha ispirato questa storia andate qui : https://www.facebook.com/photo.php?fbid=286089401511452&set=oa.368372353225128&type=1&theater
   
 
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