*Autore: Mattie Leland
*Personaggi: Ivan Braginski (Russia), Yao Wang (Cina). Piccolo cameo di Lituania.
*Pair : RuChina
*Numero capitoli: 1 + Epilogo
*Generi: Storico, introspettivo, sentimentale
*Avvertimenti : Shonen Ai
*Rating : Giallo
*Numero parole : 5.043 per il primo capitolo 699 l’epilogo.
*Note dell'autore: Ho deciso di narrare un po’ la storia di Russia attraverso dei flash back, in modo da non rendere la FF troppo pesante.
Il simbolo * separa i flash back dal tempo presente.
*Note storiche: A piè di pagina.
Slav’sia
Rus’
Славься
Русь
Nacque spuntando dalla terra gelida, dopo che qualcuno ebbe deciso di
dargli un nome.
Le manine bianche tastarono il terriccio umido e scuro, e subito dopo
lo artigliarono; le dita sprofondarono un poco.
Si issò, emergendo come una sirena dal mare
Cos’è una sirena?
Cos’è il mare?
e
ispirò profondamente. L’aria fredda gli
penetrò i polmoni,
bruciante, e il bimbo quasi si pentì di aver respirato.
I capelli grigi e fini erano sporchi di terra e foglie, il viso
arrossato ed anch’esso sporco. Non si poteva certo pretendere
la perfezione da
un bambino appena nato.
Si mise in piedi, dando le spalle al suolo che lo aveva generato.
Ci mise un po’ a mettere tutto a fuoco, ad abituarsi alla
luce bianca
di quel posto.
E poi la vide.
Una distesa di infinite pianure gelate ma tuttavia imponenti, una
cintura di montagne enormi, spolverate di bianco, che sembravano essere
state
dipinte sul cielo. Tutto qui, tutto taceva. Quella era casa sua.
Alzò le manine e le osservò controluce.
I raggi del sole sferzarono le nuvole e si intrufolarono fra le sue
dita, arrivando agli occhi viola.
< Russia > lo disse con un altro suono; suonò come Russìya e decise che andava bene così < è questo il mio nome. E la mia casa. >
Sorrise,
primi di iniziare a sentire il gelo sulla pelle.
Si chiese se ci fosse qualcuno lì, a condividere
quell’enorme casa con
lui. Qualcuno che calpestasse con lui quel terreno ghiacciato, che gli
tenesse
la mano e lo esplorasse al suo fianco.
Non video nessuno, solo un cielo infinito.
*
Lo
scoppiettio del fuoco risuonò nell’enorme salotto.
Era rilassante e piacevole,
un suon caldo come la sua fonte, che donava ad Ivan pace e
serenità.
Quest’ultimo
era proprio di fianco al caminetto; il suo viso pallido e ovale era
illuminato
per metà, come se indossasse una maschera da teatro fatta di
luce.
Anche il suo
sorriso sembrava quello di una maschera. Immobile, definito,
imperscrutabile.
< A-ah… >
< Shhhh. >
Quel
suono
fastidioso smise, bastò stringere un poco più
forte.
Si guardò
attorno, beandosi della pace che regnava in quella stanza, che quel
giorno non
era fredda e spaventosa come al solito. I muri non parevano mostri
enormi che
gli si stringevano addosso per divorarlo, le finestre non erano delle
gelide bocche
dentate, e la luce del fuoco non si perdeva in
un’oscurità soffocante.
No; le pareti erano
semplici pareti, le finestre
non avevano denti, ma solo qualche stalattite di ghiaccio attaccata, ed
il
fuoco era caldo e vivo, non una fiammella insignificante che veniva
soppressa
dal buio.
< L-lascia… mi, perf... >
Il
suo
sguardo tornò sul ragazzo sotto di lui. Il suo viso era
rosso, gli occhi lucidi
e socchiusi e teneva entrambe le mani avvinghiate al polso di Ivan, nel
tentativo di allontanare la sua mano guantata dalla gola.
Russia lo
guardò per qualche secondo, per poi sorridergli dolcemente.
Gli posò un
dito sulle labbra, facendo apparire quel momento brutale come qualcosa
di
tenero.
< Shhh. >
Lo
zittì
come si fa con un bambino piccolo o con un amante durante un momento
intimo.
Cina smise
di muoversi e di cercare di parlare; i suoi occhi si fecero
più grandi, le
pupille si allargarono, come se volessero cercare di inghiottire
l’immagine di
Ivan. Stava cercando di parlargli attraverso gli occhi.
< Starai buono, da? >
Macchie
colorate iniziarono a danzargli davanti alle iridi marroni, sentiva la
gola e
la testa pulsargli… fu per evitare di smettere del tutto di
respirare che annuì
leggermente.
La presa di
Russia si allentò leggermente, permettendo
all’ossigeno e al sangue di
ricominciare a viaggiare per il corpo di Yao.
Il cinese si
rilassò quasi involontariamente sul pavimento, facendo
profondi respiri e
portandosi una mano sul petto, come se volesse accertarsi del proprio
cuore che
batteva.
Ivan
osservava il tutto senza cancellare dal proprio viso quel sorriso dolce
e
bambinesco, e per un attimo parve tirarsi all’indietro, come
per allontanarsi
da Cina, ma tutto ciò che fece fu mettersi comodamente a
cavalcioni su di lui,
schiacciandogli lo stomaco all’improvviso.
< Buah! >
Alle
orecchie di Russia quel verso suonò buffo, e fu quasi
tentato di alzarsi e
atterrare di nuovo sulla pancia di Yao, ma la cosa gli passò
di mente quando
vide la mano si quest’ultimo allungarsi velocemente e
afferrargli la sciarpa.
Cina
ansimava (forse per il dolore o perché non respirava bene) e
gli occhi gli
lacrimavano; probabilmente stava cercando di issarsi o di far togliere
Ivan da
sopra di lui, ma al russo non interessava.
Il suo
sguardo si assottigliò e a Yao sembrò di essere
ferito da una lama gelida; Ivan
gli schiaffeggiò violentemente la mano, dopo di che si
esibì in un materno
segno di negazione con l’indice.
< Ah, ah, ah, nie trogaj mienya. >
Yao
strinse
i denti, facendosi quasi male, e ringhiò contro Ivan come
una cane maltrattato.
Per tutta
risposta, Russia si chinò su di lui e gli prese il viso tra
le mani per poi
farlo voltare violentemente verso il camino. Nelle iridi marrone scuro
di Cina
si specchiarono le fiamme calde e danzanti: Ivan guardava nella sua
stessa
direzione, con aria sognante e… sì, quasi
adorante.
< Non è bellissimo? >
In quel momento Yao non seppe dire se Russia stesse parlando a lui o al fuoco.
*
Gli
piaceva
correre, gli scaldava il corpo.
Casa sua era
spaziosa, immensa, poteva fare tutto quello che voleva lì. A
volte si metteva a
correre e perdeva la cognizione del tempo; le manine e i piedi gli si
gelavano,
perché l’aria invernale li investiva, ma lui poco
se ne curava.
Era in uno
di quei suoi momenti di gioco che aveva incontrato Lituania.
Era la prima
volta che vedeva qualcun altro come lui, e non gli aveva più
tolto gli occhi di
dosso. Vedendolo addentrarsi in casa sua, l’aveva spiato,
scrutato, come se
stesse osservando un animale raro.
Lituania era
diverso da lui. I capelli erano castani, gli occhi verdi, il viso
più piccolo
così come la statura.
Ad un certo
punto era spuntato fuori dal suo nascondiglio e gli aveva dato un
leggero
spintone, facendo urlare il povero Lituania per lo spavento. Ma Russia
non si
era curato dell’urlo, affatto.
< Priviet! Kak vass savùt? >
< Eh? L-laba diena. >
< Uh? Shto? >
L’altro
sembrò in difficoltà; tremava, ed il sole pallido
nel cielo non riusciva ad
arrivare al suo viso per via del corpo di Russia che gli stava di
fronte.
Iniziò a
farfugliare parole che Russia non riusciva a capire, e quando vide che
quel
bimbo così alto si stava irritando, provò a
parlargli in quella che tra le
varie terre di quel mondo veniva riconosciuta come lingua universale.
< I-io non parlo la tua lingua. Mi chiamo Lituania. >
Il volto di Russia si distese in un sorriso che in un primo momenti Lituania trovò addirittura rassicurante.
< Oh, capisco. Non ho mai sentito parlare di te. Io sono il signor Russia. >
< S-signor Russia? >
< Da. Qualcosa non va? >
Ovviamente
no. Lituania scosse subito la testa, accettando così
tacitamente di chiamarlo
Signor Russia, nonostante quel bambino così alto non potesse
essere, in termini
d’età, molto più grande di lui.
D’improvviso
il bimbo dai capelli bianchi lo prese per mano ed iniziò a
trascinarlo con sé
come un sacchetto.
< Andiamo a giocare ora. >
Lituania non osò replicare. C’era qualcosa di strano in Russia, qualcosa che non andava. Era come se non si rendesse conto di avere davanti agli occhi un altro essere vivente… come se fosse rimasto solo troppo a lungo per poterne riconoscere uno.
*
Gli occhi
stavano iniziando a lacrimargli. Il calore del fuoco sembrava crescere
man mano
che Cina lo fissava; cercò di muovere la testa, di
spostarsi, ma le grandi mani
di Ivan lo tenevano bloccato.
Chiuse gli
occhi stanchi, due lacrime sgorgarono involontariamente.
< Lasciami andare. >
Fece sì che suonasse come un ordine. Si sentiva accaldato in viso, e probabilmente aveva anche la fronte e le guance rosse.
< Niet, niet > si accasciò su di lui, mozzandogli per un attimo il respiro; i suoi capelli chiari gli sfioravano il collo, la sua testa era poggiata sul petto di Cina che faticava ad alzarsi e abbassarsi normalmente < resta qui ancora un po’. >
Le
sue mani
si spostarono dal viso del cinese verso il suo collo e le dita ne
sfiorarono i lati,
come per far intendere a Yao che se non avesse acconsentito, avrebbe
avuto
nuovamente molte difficoltà a respirare.
Non era una
cosa che Russia fece di proposito o con criterio in realtà.
Gli venne naturale,
forse perché sapeva fin dal profondo che chiedere
semplicemente di restare non avrebbe
avuto alcun effetto su Yao. Oltretutto, Cina aveva le mani libere; non
tenerlo
“sotto controllo” sarebbe stato sciocco.
< Che cosa vuoi? >
Ivan
fu
sicuro che quelle parole furono pronunciate solo per irritarlo, ma non
se ne
curò più di tanto. Forse Yao stava cercando di
fargli perdere la calma, di
farlo andare via, ma lui non si sentiva in collera. Le sensazioni che
provava
erano un po’ strane, confuse, e non era sicuro al cento per
cento di ciò che
sentiva e pensava… neanche di quello che voleva.
Fissò il
fuoco; le sue dita toccarono in maniera un po’ meno leggera
la gola di Cina
quasi senza che Russia se ne accorgesse. Davvero, non lo fece apposta,
ma le
mani di Yao scattarono in maniera automatica verso
Ivan, nel tentativo disperato di liberarsi.
Quest’ultimo
non gli diede nemmeno la possibilità di sfiorarlo. Le sue
dita si strinsero
attorno alla sua gola in modo talmente violento che Russia si spinse
anche in
avanti, scivolando sul corpo di Cina e spingendo la sua testa
all’indietro. Sembrava
in procinto di staccargliela, mentre Yao aveva fermato le mani a
mezz’aria per
poi portarle su quelle di Russia per cercare di toglierselo di dosso.
< Niet! Avevi detto che saresti stato buono! >
Yao stava iniziando a diventare rosso in viso.
< T-tu ha… > faticava a respirare, figurarsi a parlare < …hai provato a s-strozzarmi di nu… >
< Ma io non l’ho fatto apposta! >
Non
era un
buona giustificazione, e a sentirlo sembrava assurdo, ma Russia era
sincero. Il
suo gesto non era stato qualcosa di voluto, ma era stato come se le
fiamme del
camino gli avessero… parlato.
Lì, in mezzo
al fuoco, aveva visto Yao… ma non quello sdraiato sotto di
lui, ma uno lontano,
circondato dal suo popolo che pareva sul piede di guerra; le fiamme
erano il
suo corpo, lo facevano vibrare, come se stesse per saltargli addosso.
Ivan si era
spaventato.
Quella parte
di Yao, così distante da lui, non gli piaceva per niente.
Trasmetteva
odio da tutti i pori, ma soprattutto trasmetteva forza.
Non amava
essere vicino a qualcuno più forte di lui, che non gli dava
retta, che si
imponeva sulla sua volontà. Il Cina che stava sotto di lui
in quel momento era davvero
meglio di quello in mezzo al fuoco.
Sembrava che
stesse per piangere.
*
Alcuni dei
suoi vicini si era fatti sentire. Non direttamente (e Russia
l’aveva trovato un
po’ maleducato) ma attraverso quelli che erano stati nominati
come “vichinghi”.
Erano omoni
alti, che incutevano un certo timore. I loro capelli erano biondi o
rossi, e le
loro vesti erano strane, parevano quasi pericolose.
Tuttavia,
Russia non ne era spaventato.
Erano
feroci, sì, ma in quell’epoca tutti lo erano, e
per lui non faceva differenza
se si trattava di scandinavi o altro. Anche se doveva ammettere che i
vichinghi
si facevano riconoscere; sembravano divertirsi, questo era
ciò che li rendeva
famosi.
Trucidavano
le popolazioni che prendevano d’assalto anche se erano
totalmente indifese,
saccheggiavano luoghi che erano poveri e aridi, e non disdegnavano la
schiavizzazione. Non erano pochi i bambini e le donne che Russia aveva
visto
trascinarsi in catene, ed anche se era cresciuto un po’ a
volte aveva il
sospetto che quegli enormi nordici volessero incatenare anche lui.
Certo, si
sarebbe dovuto versare parecchio sangue se ci avessero provato.
Il loro
arrivo gli impediva di giocare con Lituania come facevano prima, e
questo lo
disturbava parecchio, però era anche incuriosito da loro e
non aveva voglia di
cacciarli via.
Gli avevano
anche portato un sacco di vasche in cui fare il bagno ogni sabato
(erano stati
molto chiari), anche se aveva sentito che ad un tizio di nome
Inghilterra,
quella cosa non piaceva per niente.
Un’altra
cosa che spingeva Russia a far restare i vichinghi a casa sua, era il
fatto che
finalmente non si sentiva più tanto solo. Non giocavano con
lui, ma almeno
erano lì, almeno cercavano di insegnarli cose nuove e gli
stavano accanto con
interesse.
Un giorno, mentre era lì che osservava le loro imprese,
truculente o
meno che fossero, gli venne da pensare che anche se si proponevano a
tutti come
“vichinghi”, ora quelle persone vivevano in casa
sua.
Sapeva che ce n’erano molti altri in giro, ma lui voleva che
quelli
che conosceva lui fossero… suoi. Dovevano distinguersi dagli
altri, avere un
posto speciale all’interno del mondo, la gente doveva pensare
a lui ogni volta
che avrebbero rimembrato le gesta di quegli uomini violenti.
Non aveva pensato che forse, in questo modo, avrebbero ricordato anche
lui come un violento.
Si avvicinò ad uno degli uomini, la cui statura lo
sovrastava di molto
(cosa a cui non era abituato) e gli tirò un lembo della
veste fatta di
pelliccia.
L’uomo barbuto si girò verso di lui e lo
osservò con curiosità.
< Hej… >
< Sdravstvuitie. >
Non era tanto sconsiderato da usare dei modi informali con un bestione del genere. Un giorno se lo sarebbe potuto permettere, ma non adesso.
< Vorrei darvi un nome. >
< Abbiamo già un nome.>
< Niet, niet. Voglio che voi che vivete qua da me abbiate un nome particolare. Non siete come gli altri, dovete distinguervi. >
L’omone non pareva infastidito. Sembrava, anzi, curioso. Forse si sentiva lusingato da tanta attenzione, o gli piaceva l’idea che lui e i suoi compagni avessero qualcosa che li distinguesse dagli altri vichinghi.
< Tu sei Russia, vero? >
Ivan annuì. Dopo di lui lo fece anche l’uomo biondo.
< Rus’ andrà bene. >
Gli
occhi viola del bambino si dilatarono, e all’improvviso si
sentì
lusingato… felice.
L’uomo si allontanò, mentre Russia rimase al suo
posto, ad osservare
ciò che gli accadeva di fronte.
C’erano ancora bambini e donne schiavizzati, sangue che
macchiava la
neve come una sorta di malattia, e gente che veniva
trucidata… ma ora non gli
importava più nulla di questo.
Osservava il tutto con un sorriso e la mani congiunte dietro la
schiena, pensando che quello che stava osservando era un popolo che
portava
parte del suo nome.
In molti lo videro fare questo, in molti lo videro imbrattarsi di
sangue con il sorriso e senza fare nulla.
Qualcuno iniziò a parlare e a farsi un’idea su
Russia; un’idea
negativa, e forse non così lontana dalla realtà.
Kiev
non era
esattamente all’interno della sua casa.
Da lì non
riusciva a vedere la cintura di monti che aveva scorto da appena nato,
ma i
Rus’ avevano decretato quel territorio come il migliore per
fondare quello che
volevano definire come uno stato a parte.
L’uomo alla
quale aveva suggerito il nome “ Rus’ ” si
chiamava Rjurik, aveva scoperto, e si
era proposto di guidare la stirpe vichinga verso quella terra che ora
portava
il loro nome.
Fu in
quell’occasione che conobbe le sue sorelle.
Ucraina era
la prima persona più alta di lui che incontrava, escludendo
i vichinghi.
Il fatto che
fosse un femmina lo infastidiva un po’, perché non
credeva che le femmine
potessero essere più alte dei maschi. Ma Ucraina era gentile
con lui, e questo
compensava la sua statura.
< Sei contento di essere il mio fratellino? >
Gli aveva chiesto una volta, mentre gli pettinava i capelli.
< Non lo so. Non pensavo di poter essere il fratello di qualcuno. >
< E come mai? >
Lui si era voltato verso di lei, guardandola con un misto di curiosità e irritazione.
< Perché non c’eri quando sono nato? >
Lei
non
aveva risposto, ma si era messa a piangere e aveva iniziato a scusarsi
nella
sua lingua. E lì Ivan aveva capito che benché
fosse la sua sorella maggiore,
quella ragazzina non era forte come sembrava, anzi era piuttosto
sensibile e
piagnucolona.
Questo
permise a Russia di prendere le redini del comando quasi fin da subito.
Da fuori
sembrava che Ucraina si prendesse cura di Ivan, che gli stesse dietro e
si
occupasse delle sue esigenze; la verità era che lei era
semplicemente molto
gentile col proprio fratellino, ma era lui a gestire tutto, a
provvedere ai
bisogni di Ucraina e a farla sorridere.
Era anche in
grado di farla piangere, però.
Non era
difficile, bastava mostrarsi scontento ai suoi occhi, o fare un
po’ i capricci.
Ivan non sapeva bene perché di tanto in tanto la facesse
piangere di proposito;
forse perché voleva mostrarsi forte anche se era il fratello
minore, forse per
punirla, visto che non era stata presente alla sua nascita…
o forse solo per
affermarsi.
Aveva sempre
trovato il modo di farlo fino a quel momento. Aveva lasciato Finlandia
in balia
degli slavi, aveva tenuto Lituania attaccato a sé fino quasi
a fargli male, e
ora faceva stare al suo posto la sorellona Ucraina.
Le voleva
bene (almeno un po’) ma voleva che diventasse come Lituania:
sottomessa a lui e
sempre disponibile a stargli vicino.
Con
Bielorussia, invece, si comportava in modo diverso.
Lei era la
più piccola di loro; molto carina, bassa e con lo sguardo
sempre fisso sul viso
di Russia. Lo seguiva come un pulcino segue la propria mamma, senza che
Ivan le
chiedesse nulla, senza che fosse costretto a trascinarsela dietro.
Questo
sarebbe andato bene… se non fosse stato per il fatto che
Bielorussia non si
comportava come voleva lui. Voleva stargli sempre attaccata, ma doveva
decidere
tutto lei. Che gioco fare, dove andare, quali persone frequentare. E
quest’ultimo punto era la cosa peggiore di tutte.
Bielorussia
non voleva che lui giocasse con nessun’altro, e se lo
scopriva a parlare con
altri bambini li attaccava, facendoli scappare via.
Anche se
quella terra denominata Rus’ di Kiev era composta da tante
nazioni con la quale
Russia avrebbe voluto fare amicizia, per un po’ sempre come
se esistessero solo
lui e le sue due sorelle.
Per la prima
volta in vita sua era circondato dalla propria famiglia, e la compagnia
lo
rendeva felice in un certo qual modo. Era meglio essere trascinato in
un angolo
buio, fatto di pianti e di affetto violento, piuttosto che rimanere da
soli.
*
In modo
inconscio, probabilmente Russia aveva appreso da sua sorella minore il
modo
peggiore per dimostrare il proprio affetto, o anche solo un minimo
interesse
emotivo.
Temeva che
tutti gli scivolassero via dalle dita come fumo sottile; per lui, le
persone
avevano bisogno di essere trattenute, non importava con quali mezzi.
Perché non
appena intravista una via di sbocco, lo avrebbero lasciato solo.
Lui, ancora
oggi, non riusciva ad allontanarsi del tutto da Bielorussia,
semplicemente
perché lei non glielo lasciava fare; otteneva quello che
voleva, era felice… e
anche Russia voleva esserlo.
< Mi sei mancato.>
Lo disse sorridendo, come se fosse un piccolo bambino che parlava al padre appena tornato a casa.
< Bel modo di dimostrarlo. >
Ivan,
a
quelle parole, cercò di stringere di nuovo le mani attorno
alla gola di Yao, ma
quest’ultimo riuscì finalmente a bloccarlo
afferrandogli i polsi. Non riuscì
però ad allontanarlo abbastanza da sé, e Ivan
abbandonò tutto il proprio peso
sul corpo di Cina, come se si trovasse su un letto.
Quella situazione
era ridicola e anche inquietante, agli occhi di Cina.
Ivan aveva
cercato di strozzarlo più volte, e lui non aveva cercato di
liberarsi poiché le
sue mani erano sempre state strette attorno al suo collo, e Yao aveva
temuto
che al minimo tentativo di difesa Russia sarebbe stato in grado di
spezzargli
il collo.
Solo ora
realizzò che non ne aveva mai avuto l’intenzione.
< Non dire così! Io ci provo davvero, sai?! >
Non tentò di liberare i polsi dalla presa del cinese, ma abbassò il viso, appoggiandosi al suo petto.
< Ma che fai…? >
< Io ci provo… >
Cina sbarrò gli occhi; avvertì una sensazione calda sul petto, e quando vide la testa di Russia muoversi a piccoli scatti capì che si era messo a piangere.
< … ci provo, ma tu non vuoi mai stare con me… e allora io devo fare così. >
Strinse
tra
le mani i lembi della veste rossa di Yao ed iniziò a
singhiozzare
rumorosamente. Perché Cina ancora non capiva? Lo aveva fatto
portare lì, lo
aveva accolto in casa propria, invitato a cena e invece Yao si era
arrabbiato,
aveva detto che voleva andarsene… e lui era stato costretto
a bloccarlo.
Non avrebbe
voluto, ma aveva dovuto farlo,
altrimenti… altrimenti sarebbe rimasto di nuovo solo. Forse
a Cina non era
piaciuto essere stato portato lì da alcuni cosacchi (Russia
non lì utilizzava
più ufficialmente, ma solo per faccende private) ma Ivan non
aveva visto altro
modo per averlo vicino.
Sapeva che
sarebbe stato rifiutato se lo avesse semplicemente invitato, e che
sarebbe
stato cacciato via se si fosse recato a casa di Cina di persona; ma lui
lo
voleva vicino, e così si era arrangiato.
< T-tu sei pazzo, io… >
Russia lo strinse. Era un abbraccio, a dire il vero, ma dal momento che era sdraiato non riuscì a farlo sembrare tale; parve solo intenzionato a stringere Cina più possibile, fosse anche a fargli male.
< Mi piace stare con te, mi piace poterti parlare, anche di cose brutte! >
Non
sapeva
se Cina lo comprendesse o meno, ma lui non era in grado di esprimere
ciò che
sentiva in una maniera migliore. Non perché fosse sciocco,
ma perché era…
semplice. Si era sempre ritenuto una persona semplice, ma stranamente
la gente
non riusciva a comprenderlo, lo fraintendeva sempre.
Avvertì il
lieve alzarsi e ad abbassarsi del piccolo petto di Yao e per un attimo
pensò
che gli sarebbe piaciuto addormentarsi lì, con lui, al caldo.
*
Si nascose
in mezzo a dei cespugli secchi, sedendosi sul freddo ghiaccio e
aspettando di
non udire più il suono dei passi della sorella minore.
Attese, affondando
il viso nella sciarpa. Non aveva mai avuto qualcosa di così
caldo e morbido con
cui vestirsi, e si sentì come cullato.
Senza
accorgersene, si assopì, rimembrando le sensazioni del
giorno in cui era nato.
Qualcosa
di
duro e freddo lo colpì in faccia.
Sbarrò gli
occhi sorpreso e cadde nella neve, sentendo il sapore di sangue in
bocca. Lo
sputò sul suolo bianco, e lo fissò tremante.
Era la prima
volta in vita sua che vedeva il proprio sangue.
La testa gli
faceva male per il colpo ricevuto, il viso gli pulsava, si sentiva
confuso e
delle strane macchioline colorate iniziarono a danzargli davanti agli
occhi.
Tremava in
modo incontrollabile; provò ad alzarsi in piedi, ma senza
successo.
< “Alzati!” >
Una voce roca gli urlò qualcosa che Russia non capì. Fu colpito ancora, questa volta allo stomaco. Gli mancò il respiro, dalla bocca uscì altro sangue.
< Sh-shto? >
Guardò in alto, spaventato e confuso. La guancia gli pulsava e non riusciva ad aprire bene un occhio, riuscì a vedere solo una sagoma alta e scura in controluce, con i raggi del sole che la circondavano.
< “Alzati!” >
La stessa parola di prima, e Ivan, ancora una volta, non la comprese. Ricevette un altro colpo, e tutto fu buio.
Non
era come
quando aveva visto l’operato dei vichinghi.
Non poteva
sentirsi distaccato, non badare al sangue sulla neve, perché
ora non si
trattava più solo del sangue di semplici
contadini… c’era anche il suo sulla
neve, ora.
Questa era
la prova che quello che stava subendo non era un danno minimo, un
qualcosa che
stavano attraversando bene o male anche altri stati; ciò che
stava passando era
grave, molto.
Aveva visto
gente ridotta in schiavitù, frustrata, e spesso uccisa, ma
tutto ciò gli era
sembrato estraneo dal momento che lui, il centro, il cuore della sua
terra, era
stato lasciato in pace.
Urtò
qualcosa col piede; abbassò lo sguardo con riluttanza e
appena i suoi occhi
scorsero una folta chioma nera, rialzò la testa, cercando di
fingere di non
aver visto nulla.
Di fronte a
lui stavano due uomini che sebbene non fossero più grossi
dei vichinghi,
sembravano alti come alberi ed altrettanto imponenti.
Uno di loro
in particolare emanava una strana forza. Era il capo dei mongoli.
Non era più
massiccio degli altri, ma era evidente che li controllava; incuteva
timore, una
sua espressione accigliata bastava a scuotere gli animi di coloro che
gli
stavano attorno… ma erano le sue mani che attiravano
costantemente l’attenzione
di Ivan.
Non aveva
mai visto una persona con le mani così lorde di sangue e che
nonostante ciò
riusciva a mantenere un’espressione tranquilla, quasi
benevola ed affidabile.
Non era
passato molto dall’arrivo di quel tale con la sua orda di
uomini, ma avevano
già messo in ginocchio Rjazan’, e non ci sarebbe
voluto molto prima che
decidessero di distruggere quello che era il nodo che univa lui e le
sue
sorelle: Kiev.
< Ehi, tu! >
Avevano
capito che parlandogli nella loro strana lingua non avrebbero concluso
nulla,
per tanto si erano decisi ad utilizzare la lingua universale.
Ivan vide il
capo dei mongoli avvicinarsi a lui con passo fermo, tenendo le mani
congiunte.
< Che c’è? >
Gli afferrò un braccio e parve esaminarlo. Russia non si divincolò solo per paura di essere malmenato, ma era molto infastidito da quel contatto.
< Sembri forte. >
Disse l’uomo. Genghis Kahn era il suo nome, aveva una lunga barba fine e scura e dei baffi sottili. A dispetto del suo aspetto pacato, quasi rassicurante, quello era un uomo deciso ed autoritario e Ivan aveva avuto modo di constatarlo.
< Sono alto, non so se sono forte. Io non combatto. >
Russia non sapeva cosa dire, e decise di esternare semplicemente i propri pensieri, anche i più sciocchi.
< Non voglio farti combattere > gli prese la mano e gli fece girare il palmo verso l’alto < sei un bambino, ma hai le mani grandi. Ho un compito per te. >
Riscuotere.
Vagava di
casa in casa, riscuotendo i tributi che i mongoli esigevano. Oramai era
quello,
Russia. Un sottomesso che si occupava dei soldi, suoi e non, e che non
aspettava altro se non un passo falso da parte di Kahn. Aveva preso
Kiev, Ivan
non aveva più visto le sue due sorelle, che probabilmente
non erano in una
situazione migliore della sua.
I mongoli
avevano tanti possedimenti, ma li tenevano tutti accuratamente
separati. Russia
non aveva ancora incontrato nessuno, solo paesani che gli consegnavano
sacchi
pieni di denaro. Vagava nei villaggi coperti di neve, trascinandosi
dietro ciò
che aveva riscosso durante la giornata, con addosso quasi le medesime
sensazioni dei suoi primi periodi di vita; eccetto per il fatto che,
quando era
appena nato si sentiva sì solo, ma non si sentiva pressato o
sfruttato. Ora sì,
e avvertiva anche una tremenda stanchezza farsi largo nelle sue ossa
gelate,
una stanchezza sia mentale che fisica che gli faceva passare la voglia
di
andare avanti.
A che
serviva?
Non poteva
più vedere le sue sorelle o Lituania, non poteva
più vagare liberamente per la
propria terra, e giorno dopo giorno il lago di sangue in cui nuotava
pareva
farsi sempre più profondo.
Perché
continuare, a questo punto?
< Ni hao. >
Una
voce
piccola, calda e sconosciuta ruppe il silenzio freddo di quel villaggio.
Ivan si
voltò, e vide in mezzo alla neve un bambino molto basso
rispetto a lui. Portava
i lunghi capelli castani raccolti in un codino poggiato sulla sua
spalla; le
sue vesti erano stravaganti, di un brillante rosso fuoco, decorate con
strani
disegni. Le maniche gli coprivano totalmente le mani, e le sue scarpe
sembravano quasi fasciargli i piccoli piedi. Sarebbe anche potuto
sembrare una
bambina, ad un primo sguardo, anche per gli occhi scuri e affusolati,
abbastanza somiglianti a quelli dei mongoli.
< Priviet… > lo disse piano, come se non si fosse ancora reso conto di avere qualcuno davanti. I sacchi di denaro iniziarono a pesargli sulla schiena; Ivan barcollò e cadde in ginocchio, le sue mani affondarono nella neve. Il bambino dagli occhi a mandorla mosse qualche passo verso di lui con le mani in avanti e l’aria preoccupata.
< Ni shen ti hao ma? >
Russia cercò di rialzarsi senza molto successo.
< Io non parlo la tua lingua. Non capisco quello che dici. >
Lo disse con un brutto tono di voce, come se fosse arrabbiato. Non avrebbe voluto, ma gli facevano male le gambe e le braccia, e parlare quasi lo infastidiva.
< Fa niente, ti aiuto. >
Ivan
sentì
qualcosa che cercava di tirarlo su, alzando lo sguardo vide che il
bambino gli
aveva circondato le spalle e ora cercava di issarlo senza tuttavia
riuscirci.
Era troppo piccolo se confrontato con la mole di Russia.
Tuttavia
anche solo il fatto che ci provasse, fece sentire Ivan un poco meglio.
Mise una
mano sulla spalla del bambino e riuscì ad issarsi, ma
l’altro non lo mollò
nemmeno quando fu in piedi.
< Tutto bene? >
Ivan si tolse i sacchi dalla schiena. Fu un sollievo indescrivibile, e ci mancò poco che il suo corpo non si accasciasse per terra per via della sensazione di leggerezza. Guardò il piccolo viso ovale del bambino con gli occhi a mandorla. La sua pelle era di un colorito diverso rispetto al suo, gli ricordava il sole… gli piacque.
< Chi sei tu? >
L’altro sorrise.
< Io sono Cina. >
Continua…
Il titolo: Salv’sia
Rus’ è
il titolo di una canzone del gruppo russo Arkona. Vuol dire
“Gloria alla
Russia”.
Nie trogaj mienya: (Не трогай меня) “Non mi toccare” in russo.
Priviet: (Привет) E’ un saluto russo informale per quando si arriva.
Kak vass savùt?: (Как вас завут?) Letteralmente è “ Come voi vi chiamate?” perché in Russia si da sempre del voi, ma lo si può tradurre benissimo con “Come ti chiami?”.
Laba diena: Corrispondente lituano di “Buon giorno”
Shto?:( Што?) vuol dire “Cosa?” in russo.
Sdravstvuitie: (Здравствуйте) “Salve” in russo.
Dal momento che non conosco nemmeno una parola di questa lingua ma volevo che ci fossero comunque dei discorsi in mongolo, ho adottato questo espediente.
Dopo aver unificato le tribù mongole, fondando l'Impero Mongolo, le condusse alla conquista della maggior parte dell'Asia Centrale, della Cina, della Russia, della Persia, del Medio Oriente e di parte dell'Europa orientale, dando vita, anche se per breve tempo, al più vasto impero terrestre della storia umana. Fu sepolto in un luogo tuttora ignoto della nativa Mongolia. (cit. Wikipedia)
Ni
shen ti hao ma: (你身体好吗 ? )
vuol
dire “stai bene?” in cinese. Letteralmente si
può tradurre con “Il tuo fisico
sta bene?”.