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NdA:
Non
so bene cosa dire, ad esser sincera. Non pubblico da
tanto, troppo tempo. Ho solo dei rimasugli di
quell'ispirazione e pace
che avevo trovato durante quest'estate, e che mi avevano permesso di
scrivere
qualcosa che riuscisse vagamente a piacermi. Non trovo più
la concentrazione
adatta, nonostante abbia continui pensieri ormai ridondanti e sugli
stessi
soggetti. Ho paura che anche la strada della scrittura non sia quella
adatta a
me, che forse sono una che è fatta soltanto per immaginarle,
le storie, forse
per viverle. Non so se riesca a raccontarle, a porle al lettore nella
maniera
che vorrei, ma tanto... Insomma, leggete questa one-shot qui. E'
così
tremendamente aperta che non so neanche come possa
pretendere di dare a
chi legge un'immagine nitida di quello che ho in testa.
Vvvva beh, in ogni caso, spero che possa essere di gradimento a
qualcuno e, vi
prego, aiutatemi a capire cosa manca a questo scritto, che avrei voluto
fosse
qualcosa di più... Completo, penso, e, semplicemente, di
più bello.
[Love is a verb]
Love
is a doing word
Per Kim Kibum
nulla era difficile né
lo era mai stato né lo sarebbe mai stato. Per Kim Kibum era
facile
raccapezzarsi con due lavori, mettere da parte i soldi per potersi
permettere -
chissà quando - di studiare e di pagare le tasse del
cimitero per sua nonna
defunta, e tutte le bollette del suo appartamento che erano, fra
l'altro,
esageratamente elevate. Qualche conguaglio.
Per Kim Kibum era facile sopportare il distacco dei suoi genitori che
gli
stavano dando conferma di quanto sentiva quando era ancora un bambino:
di lui
gli importava quel che bastava, come se fosse un suppellettile della
loro vita,
ma uno di quelli quasi ingombranti, superflui e
pacchiani, che non erano
neanche degni d'essere un completamento. E Kim
Kibum alzava le spalle,
faceva roteare gli occhi, calciava una lattina che gli ingombrava la
strada e
pensava "Ma cosa può importarmene?".
Per Kim Kibum, che era riuscito ad ottenere un posto di lavoro in uno
dei più
rinomati negozi della città, era facile sopportare le altre
commesse o qualche
superiore che con lui alzasse troppo la cresta. Ma, alla fine, a lui cosa
poteva importargliene? Non era mai stato tipo da dare troppo
peso alle
parole degli altri, insomma. Non era neanche in grado, fra l'altro, di
rispondere a modo. Purtroppo, le parole di tutti si posavano dentro di
lui con
la discrezione di macigni da quando era piccolo. Faceva semplicemente
finta di
nulla. La sua abitudine di lamentarsi e far notare qualsiasi cosa non
gli
andasse bene era letteralmente andata a farsi fottere.
La notte Kim Kibum moriva. Moriva quando aveva un orgasmo come
tanti
altri stretto fra le braccia di un uomo come tanti
altri. E nei
pochi minuti che aveva a disposizione per potersi sistemare, non faceva
altro
che pensare: pensare a quanto ancora avrebbe resistito chiuso per
cinque notti
a settimana in quella stanza illuminata di blu, ad attendere che
accadesse
qualcosa che potesse liberarlo.
Mi è davvero difficile descrivere come si sentisse quando
usciva da quel
locale, di notte, precisamente alle tre. L'aria di Seoul, per quanto
non
proprio pulita, gli sembrava come quella fresca di montagna.
Riprendendo a
percorrere le strade per raggiungere la fermata del bus - dato che
ancora non
poteva permettersi una macchina - Kibum riusciva ad immergersi ancora
nei suoi
pensieri, ma in maniera decisamente più sana.
Doveva semplicemente
pensare e non farsi del male toccando e facendosi toccare da chi gli
capitava
quella sera. Perché lui non parlava quando aveva rapporti
con quegli
sconosciuti. Non rispondeva quando gli veniva chiesto il suo nome
né qualsiasi
altro tipo di informazione venuta fuori, fra l'altro, magari per
semplice
curiosità. Non diceva Gamsahabnida
quando qualche uomo tornava per
lasciargli dei regali. E per necessità,
alcune di quelle camicie, di
quei pantaloni costosissimi, li aveva anche indossati. In un'altra
situazione
avrebbe buttato tutto nell'immondizia. In un'altra situazione non
avrebbe
lavorato in quel posto.
Lì lavoravano cinque persone. Il proprietario, quello che
dirigeva tutti gli
affari e si occupava di trovare, di tanto in tanto, nuovi giovani a cui
dare
lavoro, un buttafuori e, infine, tre ragazzi. Non credete fosse un
posto in cui
venissero esposti come delle attrazioni, in maniera inumana, come se
fossero
davvero soltanto della merce. Il plesso passava inosservato. Non vi
erano
insegne di alcun genere, era anche molto piccolo, di un grigio anonimo,
e di
soli due piani. Finestre solo al secondo, quelle dell'ufficio del
proprietario,
sempre illuminato. Una porta di legno come entrata e fine della storia.
Chi
cercava servizi del genere, poteva arrivare a quel locale solo per via
di
conoscenze, di direttive di altre persone. La pubblicità
veniva fatta con dei
semplici bigliettini da visita. Kibum, ormai lì da un anno,
sapeva che ne erano
stati consegnati in giro in quantità limitata diverso tempo
prima. Eppure i
clienti continuavano a fioccare come nulla ogni santo giorno. Ma lui
lavorava
solo di venerdì, sabato e domenica.
In ogni caso, non sapeva spiegarsi per quale motivo M - così
si faceva chiamare
il proprietario - avesse adottato questo metodo di gestione
dell'attività.
Eppure, per essere uno che riusciva ad arrivare tranquillamente a fine
mese a
quel modo, M era decisamente diverso da quello che pensava potesse
essere un
uomo tanto inserito nel mondo della prostituzione. Perché si
diceva che avesse
anche altre attività. Kibum, effettivamente, non aveva
sentito provenire nulla
dalle labbra di quell'uomo riguardo a quel posto, come fosse nato, e di
cos'altro lui si occupasse. L'unica cosa che aveva sentito dire era
stato «Non m'interessa sapere nient'altro di te, a
parte se sei davvero
intenzionato a lavorare qui o meno». Quando Kibum aveva
risposto di sì, gli
aveva semplicemente detto di chiamarlo M, gli aveva dato gli orari dei
suoi
turni, e gli aveva assegnato la sua stanza fra le tre presenti, fra le
tre che,
una adiacente all'altra, occupavano interamente il piano terra. A lui
era
andata la stanza blu.
All'inizio a Kibum toccò lavorare lì tutti i
giorni. Gli si sconvolse
totalmente il suo ritmo giornaliero. Dormiva la mattina e si svegliava
per le
sette della sera. Viveva di notte, e non gli dispiaceva, almeno
finché non
entrava lì. Ma tanto non aveva altri lavori all'infuori di
quello, ed era
finito con l'essere un periodo in cui passava le ore tranquillamente
agitato,
in attesa delle dieci, quando iniziava il suo turno. E tante
volte,
mentre lui entrava nella sua stanza, aveva visto i suoi colleghi uscire
dalle
due accanto con le loro borse per poi non tornare mai più.
Non riusciva a
capire se li invidiasse o meno. Non riusciva a capire neanche per quale
motivo
non si fosse ancora licenziato, se tutto quello non gli andava bene.
Quando
dopo due mesi M gli ridusse le giornate lavorative a cinque, prese a
pensarci
molto più intensamente. Capì che, prima o poi, i
giorni - e quindi le ore - in
quel posto si sarebbero ridotti ancora. Il tempo che mancava alla nuova
convocazione da parte del proprietario era tempo in cui doveva
elaborare,
capire.
«Solo venerdì, sabato e domenica. E' meglio,
giusto? Ora va'.»
Ed erano, così, sei mesi. Sei mesi, in verità,
passati veloci come un battito
di ciglia, quasi. Erano mesi, giorni ed ore sempre uguali, e gli
sembrava
fossero trascorsi in maniera insolitamente rapida. Da un certo punto di
vista,
si era sentito come in un sogno. Addirittura aveva quella strana
sensazione di
vedere tutto ovattato. Si rese conto solo quella sera che, ad essere
ovattata,
era stata la sua mente e lui stesso.
Quando uscì dall'ufficio di M, dirigendosi poi fuori dal
locale, prese a
guardarsi intorno, spaesato. Di colpo l'aria era pesante, riusciva a
sentirla,
e riusciva a sentire anche che iniziava a non essere tanto pungente
come prima.
Forse era già arrivato maggio. Di colpo la città
si era riempita di rumori
assordanti. Di colpo le strade avevano profondità. Di colpo
il cielo era così alto,
era così pieno. Di colpo Kibum era
arrabbiato. Di colpo aveva capito che
era rimasto in quel posto soltanto per attendere.
Ma lui non avrebbe
dovuto attendere. Avrebbe dovuto lavorare normalmente, guadagnare
normalmente,
vivere normalmente. E più pensava queste cose,
più si arrabbiava, più sperava
che il periodo di attesa si azzerasse.
Ora che vedeva i colori nitidamente, ora che udiva nitidamente, ora che
sentiva
quello che succedeva nitidamente, aveva paura di dover ritornare a
lavorare lì
nel fine settimana. Passò i quattro giorni di distacco dalla
sua stanza blu, a
casa, nel letto, alzandosi solo per andare in bagno, nutrendosi di
pensieri, e
quando dormiva, vedeva soltanto la porta di quella saletta, circondata
da
lucine azzurre, fioche. Sognava le pareti dipinte di blu di prussia con
dei
raffinati motivi floreali. E poi le applique dalle quali proveniva luce
anch'essa blu. E poi il letto, lì, al centro. Coperte blu,
cuscini blu,
baldacchino blu. Avrebbe voluto dormire fra quelle coltri dall'aspetto
tanto
morbido. Così iniziava a muovere dei passi per raggiungere
il centro della
stanza, ma quando guardava sul letto, questo era sporco, c'era del
fango, ed
una chiave arrugginita. Poi si svegliava, apriva gli occhi lentamente,
e
fissava il soffitto.
«Sai, Kibum, la tua stanza è la
più bella di tutte. M quando assume qualcuno
ci vede bene. Questo posto è aperto da cinque anni, e ne ho
visti un sacco
uscire da qui e non tornare più. Sei quello che è
durato più a lungo,
nonostante la tua stanza sia la più difficile e
richiesta.»
«Per quale motivo?»
«La tua è l'unica in cui entrano solo uomini. In
quella rossa solo donne,
quella bianca entra chiunque. Una volta mi sono ritrovato a parlare con
un
tipo... Mi pare fosse un avvocato. Non vogliono quella bianca
perché ritengono
che i bisessuali siano... No, aspetta... Diano un amore impuro o
qualche
stronzata del genere.»
Kibum rise.
«Non chiedermelo, eh. Non so cosa cavolo abbiano in testa
questi altolocati del
cazzo. Paradossalmente lì ci entrano più donne
che uomini. Quella rossa non è
troppo frequentata, infatti. Credimi, questo posto è strano.
Ma fare il
controllore... Beh, il palo, qui fuori, non mi pesa per nulla. Anzi, mi
diverte. Che poi non ho neanche mai capito a cosa cavolo gli serva un
buttafuori quando qui ci entra solo gente per bene. Non
vorrà mica assumere
anche me al posto di uno di voi, eh?»
«Non penso, Iseul. Per la tua stazza li faresti tornare a
casa con qualche
frattura.»
Tentava di comprendere meglio il significato delle parole di Iseul -
che gli
suonavano quasi ingenue, per qualche motivo - intanto che era ancora
steso nel
letto. Quindi era una punta di diamante? Era riuscito - non sapeva
neanche lui
come - a guadagnarsi la permanenza in quella stanza tanto complicata e
dai
clienti così difficili da soddisfare? Chissà che
il suo segreto non stesse nel
suo incrollabile silenzio?
Stava chiacchierando con una giovane donna, intanto che le porgeva dei
vestiti
che gli aveva chiesto di scegliere per lei.
«Oh, guarda, hai davvero buon gusto!» si
trovò a dire quella, prendendo un abito
in chiffon blu scuro. «E' anche un bel colore.»
Kibum inclinò appena la testa di lato, lanciando una veloce
occhiata al
vestito. «Sì, è vero.»
asserì, con un'impercettibile smorfia.
Lei si inchinò appena e, sorridendo, iniziò a
dirigersi verso i camerini.
Riprese quindi a sistemare delle magliette lasciate in disordine,
alcune che
venivano via dalle grucce, alcune a terra. Di tanto in tanto sistemava
sul naso
i grandi ed alla moda occhiali da vista, si voltava verso degli specchi
per
controllare che la bombetta che portava non fosse sbilenca, che i bordi
della
giaccha grigio scuro non fossero piegati in qualche maniera strana. Ma
era
raro, e cercava di fare tutto velocemente. Sapeva di avere gli occhi di
quelle
arpie di colleghe puntati addosso, ed infatti, per quanto fosse rapido,
queste
non facevano altro che riprenderlo, o lanciargli frecciatine. Ma Kibum
continuava a fare come se nulla fosse, continuava a consigliare le
donne - ed
occasionalmente anche gli uomini - che si rivolgevano a lui e,
credetemi, erano
davvero tante. E le altre commesse se ne stavano con le mani in mano.
Intanto si chiedeva quando si sarebbe potuto permettere una linea
d'abbigliamento tutta sua. Ma, soprattutto, se
sarebbe mai riuscito a
permettersela. Doveva ancora frequentare una buona scuola di moda. Si
diceva
che doveva resistere, probabilmente, ancora pochi mesi. Ma era
venerdì,
iniziava un lungo fine settimana, e così quei pochi mesi gli
sembravano un
lasso di tempo infinito.
Quel giorno pioveva. Intanto che andava alla fermata del bus, dopo il
lavoro al
negozio, si era rovinato i mocassini, s'era infradiciato i piedi e
rovinato la
piega ai biondissimi capelli che aveva impiegato un sacco di tempo per
sistemare. Non vedeva l'ora di arrivare a casa per poter dormire un
paio d'ore
e recuperare almeno un po' di energie. Tutto sommato, comunque, stava
tornando
nel suo monolocale decisamente soddisfatto. Una cliente era andata a
complimentarsi con la proprietaria del negozio per la competenza di «Quel
ragazzo vestito tanto bene», e non aveva potuto
tirarsi indietro, stavolta,
dal riconoscere a Kibum i suoi meriti. Meriti che lui si era preso con
un
ringraziamento decisamente tacito ed un inchino forse troppo profondo.
Prima di andare a riposarsi non mangiò. Svogliatamente aveva
lasciato i vestiti
poggiati sulla sedia accanto al letto, svogliatamente, solo con una
salvietta,
aveva tolto il trucco dal viso, e svogliatamente aveva dato da mangiare
al
pesce rosso che se ne stava tranquillo nell'ampolla sul ripiano della
piccola
cucina. Cercava di tenere quel posto - ovviamente in affitto - nella
maniera
più ordinata possibile. Non c'era mai un filo di polvere in
quella
"casa". Ciò che era perennemente in disordine,
però, era il letto.
Per carità, cambiava le lenzuola ogni settimana, ma odiava
doverlo riordinare
anche più di dover lavare i pochi piatti che sporcava o
passare lo straccio a
terra.
Così, si era lasciato andare a peso morto su quel letto
sfatto, mezzo nudo, coi
capelli ancora un po' umidi. Infilò le cuffie collegate al
suo vecchio, ma
ancora perfettamente funzionante, mp3. Senza alcuna esitazione
andò a
selezionare l'artista, i Massive Attack. Teardrop.
Così si chiamava la
canzone che ascoltava perennemente da un anno, quando andava a
riposarsi prima
del suo turno, e non riusciva per nulla a stancarlo. Quando stava ad
ascoltare
quella voce tanto delicata, le parole in inglese che lui comprendeva
senza
problemi, riusciva a visualizzare alla perfezione
il suo stato d'animo
che non variava da mesi. E si vedeva tranquillo, con un respiro
regolare, lo
sguardo calmo, che stava in equilibrio su un filo sottile. Sotto di lui
un
abisso, tanto profondo che era del nero più scuro che avesse
mai visto. Ma quel
Kibum celava una tensione ed un'ansia quasi insopportabili. Sentiva
chiaramente
la morsa che circondava senza pietà il torace di quel Kibum,
e di quel Kibum
sentiva quanto il cuore battesse veloce, intanto che, pian piano,
continuava ad
avvicinarsi all'estremità del filo, e quindi al momento in
cui avrebbe toccato
la terra, sarebbe stato salvo. E gli mancava così poco...
Così poco...
Love, love is a verb. Love is a doing word.
Riaprì gli occhi sulla frase iniziale di quella
canzone, lo sguardo
immobile al soffitto. La luce era cambiata. C'era solo quella
proveniente dalla
cucina e, guardando fugacemente verso la finestra, notò
subito che fuori era
tutto scuro. Aveva dormito di più, ne era certo. L'mp3 quasi
scarico segnava le
otto. In vero si sentiva decisamente rincoglionito,
ma leggero.
Sì, aveva dormito troppo, ed in più avrebbe
dovuto fare a meno di prendere il
bus per poter fare il giro più lungo di Seoul, se fosse
voluto arrivare in
tempo per il suo turno. Si alzò, con un forte giramento di
testa che lo portò a
poggiarsi al muro con una mano. Serrò gli occhi, intanto che
attendeva che la
visione di tutti quei punti colorati sparisse, e che la testa smettesse
di
pesare così tanto. Mise a caricare il lettore musicale e si
diresse nel piccolo
bagno, infilandosi subito nella doccia.
Uscì di casa che erano le otto e mezza, con la borsa con il
cambio sulla
spalla. Anche quella era un regalo che gli era stato fatto da un
cliente. Non
avrebbe potuto permettersene di tanto costose, e quella era anche
abbastanza
capiente e comoda. Ben composto sul sedile, guardando fuori dal
finestrino, si
chiedeva quando sarebbe arrivato il momento in cui avrebbe potuto
buttarla via
e comprarsene una, più o meno dello stesso prezzo, con i
suoi soldi. Nel
frattempo, continuava a guardare la città tanto viva ed allegra.
Ricordava, Kibum, che una volta amava l'inverno; era la sua stagione
preferita.
I giacconi, le sciarpe, i guanti morbidi ed i cappelli di lana con i
ridicoli
pon-pon. La cioccolata ed un cornetto caldo per colazione, zuppe
bollenti e
saporite da trovare a tavola quando si torna a casa. Lo stringersi nel
cappotto
intanto che si va a scuola, lo stare in classe e sentire un po'
più di calore
intanto che fuori fa freddo. Le vacanze di Natale, i regali, le luci,
la neve,
la famiglia, gli amici, i negozi, le compere. Un amore.
Un quadro tanto allettante quanto, per lui, irrealizzabile.
Kibum, in verità, odiava l'inverno.
«Ehi, Kibum.»
«Buonasera, Iseul.»
Salutava quell'omaccione con cui parlava sempre tanto in maniera
così composta
da far sembrare che fosse praticamente uno sconosciuto, e nonostante
l'altro
insistesse nel dirgli che non ce n'era bisogno, lui continuava a fare
di testa
sua.
«Devi andare da M. Dice che deve parlarti.»
Si allarmò immediatamente. Ringraziandolo, entrò
nel locale, passando davanti
alle tre stanze senza neanche volerle guardare, e raggiunse le scale,
bussando
alla porta dell'ufficio del proprietario. Quando lo sentì
dargli il permesso
d'entrare, varcò la soglia con aria che a momenti poteva
sembrare remissiva.
«Kibum, hai una prenotazione per tre ore.»
Boccheggiò. Era troppo.
«M, stiamo scherzando...?»
«Guarda, Kibum, non va neanche a me. Non è uno che
conosco, ma paga davvero e
davvero bene. Avresti il compenso decisamente aumentato.»
Sospirò ed andò a sistemare uno dei manici della
borsa che si era discostato
dalla sua spalla.
«E' davvero troppo...»
«Provaci soltanto.»
E tutta quella gentilezza ancora non riusciva a capirla. Non riusciva a
capirla
davvero. Non vedeva come potesse essere adatta a quell'ambiente. O,
magari, era
solo prevenuto.
«Fra un quarto d'ora sarà qui.»
Lasciò M, o meglio, la sua schiena - perché fino
a quel momento gli aveva
sempre parlato intanto che gli dava le spalle, senza dargli modo di
vederlo in
viso - e si diresse verso la sua stanza. Aveva di nuovo davanti il
Kibum in
equilibrio sul filo, ma tanta era l'agitazione ed il nervosismo che gli
scorrevano in corpo, che non riusciva a capire se si stesse
ulteriormente
avvicinando al punto in cui si sarebbe salvato o se stesse per cadere.
Ma
riuscì comunque ad andare in bagno, a sistemarsi, a
truccarsi - perché questa
volta non aveva avuto voglia di farlo a casa - e poi attese, sul bordo
del
letto, seduto senza badare alla postura. Per tutto il tempo restante
all'arrivo
del cliente, non fece altro che fissare la bottiglia di champagne nel
contenitore col ghiaccio poggiata sul tavolino lì accanto.
Blu, blu, blu.
Sfumature blu ovunque. Iniziava ad averne le tasche piene.
Sentì bussare. Il cuore andato in accelerazione gli aveva
provocato una
fastidiosa fitta al petto. Si mise composto, le gambe incrociate, ed
attese che
la porta si aprisse. Rimase stranamente deluso.
Tanti soldi per poterlo prenotare per tre ore volevano decisamente dire
parecchio lavoro; parecchi anni di lavoro e, generalmente, quelli che
vedeva
entrare erano uomini sulla quarantina - che magari, purtroppo, ne
dimostravano
di più - vestiti di tutto punto, spesso con una pancia
strabordante, per via
del loro impiego che non richiedeva troppi sforzi fisici. Trovarsi di
fronte un
ragazzo che sembrava avere la sua stessa età, vestito con
anfibi e giacca di
pelle e, fra l'altro, senza alcuna traccia di grasso sul giro vita, lo
mandò
nel panico più totale. Assottigliò gli occhi nel
tentativo di mettere a fuoco
quella figura, della quale erano visibili solo i contorni appena
illuminati da
una luce azzurrastra. Quello richiuse la porta dietro di sé.
Il rumore destò
Kibum dagli attimi di concentrazione che si era concesso per
osservarlo. Non
riusciva a muoversi.
Generalmente si sarebbe alzato, avvicinandosi con passo lento e
sottilmente
provocatorio al suo cliente. Tremando dentro di sé,
ribellandosi dentro di sé,
l'avrebbe preso per mano, vedendolo - come tre quarti delle volte
accadeva -
intimidito. L'avrebbe condotto vicino il letto, fermandosi poco prima
del
bordo. Gli avrebbe quindi porto uno dei calici precedentemente riempiti
con
dello champagne e, insieme a lui, avrebbe mandato giù solo
un sorso, a mo' di
rituale. E ancora tremando, ma lanciando occhiate ammiccanti, avrebbe
iniziato
a sbottonare la sua camicia bianca con movimenti lenti, facendola poi
scorrere
sulle spalle e lungo le braccia, fino a lasciarla ricadere a terra. E,
ora
sanguinando, avrebbe preso a baciarlo, a far scontrare la sua lingua
con una
sconosciuta che sapeva di qualcosa che a volte poteva essere anche
rivoltante.
Una lingua che, spesso, in tanto che questo cliente torreggiava sopra
di lui,
tenendogli le braccia sopra la testa, stringendogli i polsi, pareva
essere un
verme viscido, infimo, disgustoso, repellente. E poi avrebbe sentito il
suo
odore, troppo acre, troppo pungente, troppo soffocante, troppo...
Lo champagne era intoccato, i calici puliti, i vestiti caduti a terra
per gesti
automatici e molto, molto poco meccanici. Erano
caduti a terra,
scorrendo sui loro corpi, con una delicatezza ed una naturalezza
che
Kibum non pensava d'aver mai sentito in tutta la sua piatta e breve
vita. E la
calma, e la normalità con cui tutto quello stava accadendo,
erano state il più
grande sconvolgimento che si fosse trovato a provare fino ad allora.
Ricordava bene l'irruenza del padre intanto che lo spingeva fuori da
casa,
permettendogli a malapena di trascinare il borsone con qualche vestito.
E
ricordava bene il volto segnato dal pianto e dal dolore della madre. E
ricordava anche come era successo tutto in un batter d'occhio, in venti
minuti
o poco più, in cui gli era stata data la colpa di aver
rovinato la vita di
un'intera famiglia, di essere la più grande vergogna che un
padre possa avere e
provare, di essere il più infimo, malefico e malato
essere che possa
esserci su tutta la Terra. E dovette scappare correndo in camera sua,
rischiando di cadere, per po chiudersi a chiave e riuscire a raccattare
in meno
di mezzo minuto qualche maglietta e dei jeans. Venti minuti o poco
più, ripeto.
Venti minuti o poco più che si erano insediati dentro di lui
in un tempo
lunghissimo, che continuavano a recargli dolore gradualmente.
Kibum non
sarebbe riuscito a parlare di uno sconvolgimento. Sarebbe riuscito a
parlare di
usura, ad esempio.
Sconvolgimento erano state quelle tre ore,
così lente, così improvvise,
così inaspettate. E si ritrovò a pensare che, se
avesse saputo tempo addietro
che, prima o poi, quelle tre ore gli sarebbero toccate, che qualcuno
avrebbe
deciso di fargliele vivere, si sarebbe risparmiato tutte quelle volte
in cui
aveva pensato di dimettersi da quel lavoro, con conseguenti ore ed ore
di
dilemmi, di drammi, di domande.
Forse Kibum aveva smesso di stare così calmo in
bilico su quel filo.
Dopo un po' di tempo - ed il riferimento non è, comunque,
solo ed
esclusivamente a Kibum - iniziò a chiedersi se tutto quello
avesse almeno un
minimo riferimento alla realtà. Perché, a dirla
tutta, dopo un'ora e mezza che
quel ragazzo era entrato nella sua stanza blu, ecco, aveva i sensi
completamente appannati, il cervello in stand-by. Ovviamente giocava in
gran
parte l'eccitazione sessuale. Il problema, però,
è che sentiva diversa
addirittura quella.
Dal canto suo, Kim Jonghyun stesso, giovane e promettente musicista, si
era
ritrovato spaesato, una volta aperta quella porta, non solo
perché la luce ed
il colore che vi aveva trovato dietro erano più brillanti,
più vivi, ma,
stranamente, anche più irreali di come
gli si erano presentati di notte,
intanto che dormiva, ma anche perché non aveva per nulla
immaginato che genere
di persona avrebbe potuto trovarci. Era una domanda che non si era
proprio
posto. E come Kibum, inconsciamente, camminava su un filo, stringendo i
denti,
per una volontà che a momenti non reputava propria, Kim
Jonghyun si tormentava
da anni, e girava in tondo, che fosse per Seoul o per tutto il globo,
così come
faceva la sua anima, che percorreva cerchi concentrici, pareva
confluire in un
unico punto centrale, ma ogni volta qualcosa le
sfuggiva per potersi
fermare. E lui ne era dannatamente consapevole.
Forse Jonghyun aveva smesso così freneticamente di
girare in tondo.
Si era avvicinato a lui camminando con una mano nella tasca
dei pantaloni
neri strappati qua e là, mentre con l'altra, in un gesto di
evidente disagio e
nervosismo, si toccava qualche ciocca di capelli, capelli scuri e
portati
spettinati, un po' lunghi. Gli occhi, dal taglio e dallo sguardo buono,
vagavano freneticamente per tutta la stanza, fermandosi solo per
frazioni di
secondi sul giovane seduto composto sul bordo del letto. E la cosa
più naturale
che gli venne da fare, fu andarsi a sedere accanto a lui, piegato in
avanti,
gomiti sulle ginocchia, a fissare il pavimento. Non pensava
più; il suo
cervello aveva chiuso i battenti. In ogni caso, dopo poco,
riuscì a sollevare
il viso, volgerlo poi verso quel ragazzo - che poi notò
essere quasi serafico -
che lo stava già fissando, e chissà da quanto
tempo, fra l'altro, senza che lui
se ne fosse accorto. Si curò di poggiare la mano su quella
del ragazzo che,
subito dopo, in contrapposizione al suo gesto calmo, si era avvicinato
con una
certa velocità al suo viso, le dita fra i suoi capelli, le
labbra premute
contro le sue.
Tutto ciò che venne dopo, fu un semplice cozzare di gesti,
sensazioni e voglie
contrastanti, così come lo erano i sentimenti. Era il
continuo scontrarsi di
due anime - oltre che di due corpi - spinti da chissà che
cosa. E, a dirla
tutta, non mi sento neanche di dire che si trattasse più di
mero desiderio con
una punta di qualche inspiegabile emozione del momento.
Erano fatti di
irrazionalità allo stato puro, e non faceva differenza la
flemma che ci metteva
Kim Jonghyun, quella sorta di senso di smarrimento che l'aveva colto di
sorpresa non appena aveva varcato quella soglia, e neanche l'ansia,
l'irrequietezza di Kim Kibum, la sua paura. Non
erano, probabilmente, neanche
coscienti di come fossero opposti i loro comportamenti, così
esasperati, per
qualche istante. Non potevano controllarli.
Come Kibum, sistemato a cavalcioni su Jonghyun, si stava dedicando al
suo
collo, mordendone, succhiandone e leccandone la pelle, l'altro,
semplicemente,
gli sfiorava la schiena con i palmi delle mani ben aperti, da sotto la
maglietta nera, piena di lustrini non ben definibili. E solo con quel
gesto
lento, riusciva a percepire i brividi che lo attraversavano per tutto
il corpo,
e se ne compiaceva. Ancora qualche secondo a lasciarlo divertire, e gli
prese
il viso fra le mani, facendolo allontanare, portandolo di fronte al
suo.
Jonghyun fissò quegli occhi allungati, di un marrone
più chiaro rispetto al
suo, espressivi anche quelli, ma diversi rispetto ai suoi, nonostante
riuscisse
a scorgerci, in fondo, qualche peccato,
probabilmente anche quello
diverso dai cento e più che lui si portava dietro, ma volle
vederci una forma
di rassicurazione.
Iniziò un nuovo bacio lento, che pareva avere l'intenzione
di voler dare ad
entrambi tutto il tempo possibile per poter ricordare ogni dettaglio
delle loro
labbra ed i loro sapori. Kibum, in un gesto automatico, aveva preso a
premere
il bacino verso quello dell'altro, sospirando di tanto in tanto, mentre
entrambi si perdevano in quel contatto.
Ed andò avanti così per almeno un'ora e mezza.
Un'ora e mezza durante la quale
ogni azione era ragione di restar sorpresi, era ragione di dire "Ora
posso
mettermi il cuore in pace", era ragione di lasciar andare via qualcosa
somigliante ad un pesante fardello sulle spalle, ed era ragione anche
di dare
e ricevere. E se qualcuno vi avesse detto che
l'amore è qualcosa di
banale, be', sappiate che quel qualcuno ha davvero torto.
Perché un qualcosa di
banale non si riflette nelle pulsazioni dell'anima così gentili
quanto prepotenti,
a voler far capire a tutti i costi a Kibum che loro c'erano per una ben
precisa
ragione, mentre sentiva le braccia di lui
stringerlo. Qualcosa di banale
non si riflette negli occhi che diventano limpidi come uno specchio
appena
lucidato, esattamente come quelli di Jonghyun che mostravano la
più pura
verità, mentre lui li
osservava. Un qualcosa di banale non si
riflette nei tremolii, nella sensazione di totale alienazione,
nell'inspiegabile
sensazione di attesa che attanagliavano Kibum mentre lui
lo guardava,
torreggiando sul suo corpo, fermo. E qualcosa di banale non si riflette
nel
respiro mozzato, in quell'impulso che viene dalle viscere e preme con
forza per
poter far uscire qualche suono dalla bocca, così come
accadde a Jonghyun, prima
di poter parlare a lui, e dare un senso a tutto il
tormento di un intera
vita.
«Ti amo.»
«Anch'io.»
Entrambi erano rimasti decisamente sorpresi dalla rapida risposta di
Kibum. Lui
stesso non riuscì a capire dove avesse trovato solo
l'ossigeno necessario per
poter parlare. Quella dichiarazione l'aveva fatto sospirare come mai
gli era
successo prima. Aveva dovuto prendere aria a pieni polmoni, cercare di
rimettere a fuoco la vista, ed aveva risposto subito. Lì
tutto finiva e tutto
iniziava. Lì il blu diventava tremendamente bello,
così come lo diventava
qualsiasi altra cosa ed il loro primo rapporto non fece eccezione. Per
uno
perché, per la prima volta, non si trattava di lavoro e per
l'altro perché poteva
impegnare anche il cuore oltre che il corpo.
Kibum s'addormentò, nel momento in cui scattò il
termine della seconda ora.
Prima di chiudere gli occhi, però, si era curato di dire il
suo nome, non a
presentarsi, ma a darglielo come "indicazione". Quando sentì
l'altro
rispondergli con il suo, fece chiudere i battenti al suo cervello con
tanto di
un mezzo sorriso sul volto, i muscoli completamente rilassati come,
alla fine,
lo era lui, nonostante nulla fosse mai stato un toccasana per i nervi,
in quel
posto, in quel letto. Probabilmente, quella braccia fra le
quali si stava
cullando e veniva cullato, facevano decisamente la differenza.
Sognò. Stava seduto per terra, al bordo del burrone. Per
quanto fosse ancora
tutto estremamente grigio, non era più in bilico su quel
filo, che ormai aveva
tagliato e non riusciva a vedere più. Contemplava quel nero
profondo davanti a
sé con aria tranquilla, anche un po' beffarda, come a
volergli dire che, alla
fine, aveva vinto lui.
Ogni volta che sedeva in bus, guardando concentrato fuori dal
finestrino,
spesso s'era chiesto come avrebbe passato il Natale. Col tempo quella
festa
aveva iniziato ad avere un sapore stranamente amaro. Non c'era
papà, non c'era
la mamma e soprattutto non c'era sua nonna. Non c'erano regali sotto
l'albero,
non c'era odore di biscotti alla cannella sfornati di prima mattina,
non
c'erano gli addobbi sparsi per tutta la casa, non c'erano tutti i
parenti che
venivano a fare gli auguri. Non c'era più stato niente e
nessuno. C'era lui che
passava un'intera settimana senza mettere il naso fuori di casa.
Rimaneva nel
letto senza alcuna intenzione di respirare tutta quell'allegria,
facendo finta
che fossero giorni come altri. Si era chiesto se sarebbe stato
così anche
quell'anno, un paio d'ore prima d'incontrare Jonghyun.
Kibum era nella vasca da bagno, l'acqua bollente piena di schiuma dalla
quale
vedeva sbucare solo le sue ginocchia. Jonghyun aveva acceso delle
candele
lasciate a terra lì vicino, oppure su un mobiletto in legno.
Il profumo del
bagnoschiuma gli riempiva le narici, mentre la musica dal salotto,
ovattata,
faceva lo stesso con le sue orecchie. Portava le gambe al petto,
stringendole
con le braccia. Poggiava la fronte alle ginocchia, chiudeva gli occhi,
respirava profondamente e s'immergeva in quella perfezione. La
perfezione di
vacanze di Natale tremendamente inusuali, tremendamente piacevoli. La
perfezione di una casa nuova che già sentiva sua. La
perfezione di una voce che
sentiva a breve distanza da lui.
«Bummie, mi stai ascoltando?»
«Nh...?»
Kibum si voltò lentamente, quasi stupito nel vedere il suo
ragazzo seduto sullo
sgabellino accanto la vasca. Ne fu così stupito che, come la
maggior parte
delle volte accadeva, perse un battito o due.
«Sì, ti ascolto, Jonghyun.»
Una palese bugia, ma al più grande bisognava dare sempre il
contentino.
«Ti stavo dicendo che domani vengono mia sorella ed i miei
genitori, qui.»
«Ah.» e guardò fisso il muro
piastrellato «D'accordo.»
«Non ti preoccupi?»
«Perché dovrei?»
Jonghyun sfarfallò gli occhi, perplesso. Poi scosse la
testa, pronto ad
iniziare un nuovo discorso, intanto che si spostava giusto accanto a
lui,
spugna alla mano. Subito l'altro gli diede le spalle, mostrandogli la
schiena
che Jonghyun s'apprestò a lavare con cura.
«Cosa vuoi fare, a Natale?»
«Mmh...»
Kibum ci pensò davvero tanto, vi dirò, ma gli
venivano in mente tutte le cose
più banali che possano esistere. Cose banali che, difatto,
tali non gli
sembravano.
«Non lo-»
«Stiamo a letto e guardiamo il blu.»
Per qualche strano motivo, alle orecchie di Kibum non arrivò
più alcun suono.
Forse tutte le sue funzioni vitali s'erano arrestate per qualche
istante.
Non ci fu più nient'altro che una canzone, il colore della
quiete e l'ennesimo
ricongiungimento a ciò che entrambi da sempre avevano perso.