Fanfic su artisti musicali > SHINee
Ricorda la storia  |      
Autore: Emi Nunmul    19/11/2012    3 recensioni
Sentì bussare. Il cuore andato in accelerazione gli aveva provocato una fastidiosa fitta al petto. Si mise composto, le gambe incrociate, ed attese che la porta si aprisse. Rimase stranamente deluso. [...] Trovarsi di fronte un ragazzo che sembrava avere la sua stessa età, vestito con anfibi e giacca di pelle e, fra l'altro, senza alcuna traccia di grasso sul giro vita, lo mandò nel panico più totale.
Genere: Introspettivo, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Jonghyun, Key
Note: OOC | Avvertimenti: nessuno
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A


Pagina autore



NdA: Non so bene cosa dire, ad esser sincera. Non pubblico da tanto, troppo tempo. Ho solo dei rimasugli di quell'ispirazione e pace che avevo trovato durante quest'estate, e che mi avevano permesso di scrivere qualcosa che riuscisse vagamente a piacermi. Non trovo più la concentrazione adatta, nonostante abbia continui pensieri ormai ridondanti e sugli stessi soggetti. Ho paura che anche la strada della scrittura non sia quella adatta a me, che forse sono una che è fatta soltanto per immaginarle, le storie, forse per viverle. Non so se riesca a raccontarle, a porle al lettore nella maniera che vorrei, ma tanto... Insomma, leggete questa one-shot qui. E' così tremendamente aperta che non so neanche come possa pretendere di dare a chi legge un'immagine nitida di quello che ho in testa.
Vvvva beh, in ogni caso, spero che possa essere di gradimento a qualcuno e, vi prego, aiutatemi a capire cosa manca a questo scritto, che avrei voluto fosse qualcosa di più... Completo, penso, e, semplicemente, di più bello.








[Love is a verb]
Love is a doing word



Per Kim Kibum nulla era difficile né lo era mai stato né lo sarebbe mai stato. Per Kim Kibum era facile raccapezzarsi con due lavori, mettere da parte i soldi per potersi permettere - chissà quando - di studiare e di pagare le tasse del cimitero per sua nonna defunta, e tutte le bollette del suo appartamento che erano, fra l'altro, esageratamente elevate. Qualche conguaglio.
Per Kim Kibum era facile sopportare il distacco dei suoi genitori che gli stavano dando conferma di quanto sentiva quando era ancora un bambino: di lui gli importava quel che bastava, come se fosse un suppellettile della loro vita, ma uno di quelli quasi ingombranti, superflui e pacchiani, che non erano neanche degni d'essere un completamento. E Kim Kibum alzava le spalle, faceva roteare gli occhi, calciava una lattina che gli ingombrava la strada e pensava "Ma cosa può importarmene?".
Per Kim Kibum, che era riuscito ad ottenere un posto di lavoro in uno dei più rinomati negozi della città, era facile sopportare le altre commesse o qualche superiore che con lui alzasse troppo la cresta. Ma, alla fine, a lui cosa poteva importargliene? Non era mai stato tipo da dare troppo peso alle parole degli altri, insomma. Non era neanche in grado, fra l'altro, di rispondere a modo. Purtroppo, le parole di tutti si posavano dentro di lui con la discrezione di macigni da quando era piccolo. Faceva semplicemente finta di nulla. La sua abitudine di lamentarsi e far notare qualsiasi cosa non gli andasse bene era letteralmente andata a farsi fottere.



La notte Kim Kibum moriva. Moriva quando aveva un orgasmo come tanti altri stretto fra le braccia di un uomo come tanti altri. E nei pochi minuti che aveva a disposizione per potersi sistemare, non faceva altro che pensare: pensare a quanto ancora avrebbe resistito chiuso per cinque notti a settimana in quella stanza illuminata di blu, ad attendere che accadesse qualcosa che potesse liberarlo.
Mi è davvero difficile descrivere come si sentisse quando usciva da quel locale, di notte, precisamente alle tre. L'aria di Seoul, per quanto non proprio pulita, gli sembrava come quella fresca di montagna. Riprendendo a percorrere le strade per raggiungere la fermata del bus - dato che ancora non poteva permettersi una macchina - Kibum riusciva ad immergersi ancora nei suoi pensieri, ma in maniera decisamente più sana. Doveva semplicemente pensare e non farsi del male toccando e facendosi toccare da chi gli capitava quella sera. Perché lui non parlava quando aveva rapporti con quegli sconosciuti. Non rispondeva quando gli veniva chiesto il suo nome né qualsiasi altro tipo di informazione venuta fuori, fra l'altro, magari per semplice curiosità. Non diceva Gamsahabnida quando qualche uomo tornava per lasciargli dei regali. E per necessità, alcune di quelle camicie, di quei pantaloni costosissimi, li aveva anche indossati. In un'altra situazione avrebbe buttato tutto nell'immondizia. In un'altra situazione non avrebbe lavorato in quel posto.

Lì lavoravano cinque persone. Il proprietario, quello che dirigeva tutti gli affari e si occupava di trovare, di tanto in tanto, nuovi giovani a cui dare lavoro, un buttafuori e, infine, tre ragazzi. Non credete fosse un posto in cui venissero esposti come delle attrazioni, in maniera inumana, come se fossero davvero soltanto della merce. Il plesso passava inosservato. Non vi erano insegne di alcun genere, era anche molto piccolo, di un grigio anonimo, e di soli due piani. Finestre solo al secondo, quelle dell'ufficio del proprietario, sempre illuminato. Una porta di legno come entrata e fine della storia. Chi cercava servizi del genere, poteva arrivare a quel locale solo per via di conoscenze, di direttive di altre persone. La pubblicità veniva fatta con dei semplici bigliettini da visita. Kibum, ormai lì da un anno, sapeva che ne erano stati consegnati in giro in quantità limitata diverso tempo prima. Eppure i clienti continuavano a fioccare come nulla ogni santo giorno. Ma lui lavorava solo di venerdì, sabato e domenica.
In ogni caso, non sapeva spiegarsi per quale motivo M - così si faceva chiamare il proprietario - avesse adottato questo metodo di gestione dell'attività. Eppure, per essere uno che riusciva ad arrivare tranquillamente a fine mese a quel modo, M era decisamente diverso da quello che pensava potesse essere un uomo tanto inserito nel mondo della prostituzione. Perché si diceva che avesse anche altre attività. Kibum, effettivamente, non aveva sentito provenire nulla dalle labbra di quell'uomo riguardo a quel posto, come fosse nato, e di cos'altro lui si occupasse. L'unica cosa che aveva sentito dire era stato «Non m'interessa sapere nient'altro di te, a parte se sei davvero intenzionato a lavorare qui o meno». Quando Kibum aveva risposto di sì, gli aveva semplicemente detto di chiamarlo M, gli aveva dato gli orari dei suoi turni, e gli aveva assegnato la sua stanza fra le tre presenti, fra le tre che, una adiacente all'altra, occupavano interamente il piano terra. A lui era andata la stanza blu.
All'inizio a Kibum toccò lavorare lì tutti i giorni. Gli si sconvolse totalmente il suo ritmo giornaliero. Dormiva la mattina e si svegliava per le sette della sera. Viveva di notte, e non gli dispiaceva, almeno finché non entrava lì. Ma tanto non aveva altri lavori all'infuori di quello, ed era finito con l'essere un periodo in cui passava le ore tranquillamente agitato, in attesa delle dieci, quando iniziava il suo turno.  E tante volte, mentre lui entrava nella sua stanza, aveva visto i suoi colleghi uscire dalle due accanto con le loro borse per poi non tornare mai più. Non riusciva a capire se li invidiasse o meno. Non riusciva a capire neanche per quale motivo non si fosse ancora licenziato, se tutto quello non gli andava bene. Quando dopo due mesi M gli ridusse le giornate lavorative a cinque, prese a pensarci molto più intensamente. Capì che, prima o poi, i giorni - e quindi le ore - in quel posto si sarebbero ridotti ancora. Il tempo che mancava alla nuova convocazione da parte del proprietario era tempo in cui doveva elaborare, capire.

«Solo venerdì, sabato e domenica. E' meglio, giusto? Ora va'.»
Ed erano, così, sei mesi. Sei mesi, in verità, passati veloci come un battito di ciglia, quasi. Erano mesi, giorni ed ore sempre uguali, e gli sembrava fossero trascorsi in maniera insolitamente rapida. Da un certo punto di vista, si era sentito come in un sogno. Addirittura aveva quella strana sensazione di vedere tutto ovattato. Si rese conto solo quella sera che, ad essere ovattata, era stata la sua mente e lui stesso.
Quando uscì dall'ufficio di M, dirigendosi poi fuori dal locale, prese a guardarsi intorno, spaesato. Di colpo l'aria era pesante, riusciva a sentirla, e riusciva a sentire anche che iniziava a non essere tanto pungente come prima. Forse era già arrivato maggio. Di colpo la città si era riempita di rumori assordanti. Di colpo le strade avevano profondità. Di colpo il cielo era così alto, era così pieno. Di colpo Kibum era arrabbiato. Di colpo aveva capito che era rimasto in quel posto soltanto per attendere. Ma lui non avrebbe dovuto attendere. Avrebbe dovuto lavorare normalmente, guadagnare normalmente, vivere normalmente. E più pensava queste cose, più si arrabbiava, più sperava che il periodo di attesa si azzerasse.
Ora che vedeva i colori nitidamente, ora che udiva nitidamente, ora che sentiva quello che succedeva nitidamente, aveva paura di dover ritornare a lavorare lì nel fine settimana. Passò i quattro giorni di distacco dalla sua stanza blu, a casa, nel letto, alzandosi solo per andare in bagno, nutrendosi di pensieri, e quando dormiva, vedeva soltanto la porta di quella saletta, circondata da lucine azzurre, fioche. Sognava le pareti dipinte di blu di prussia con dei raffinati motivi floreali. E poi le applique dalle quali proveniva luce anch'essa blu. E poi il letto, lì, al centro. Coperte blu, cuscini blu, baldacchino blu. Avrebbe voluto dormire fra quelle coltri dall'aspetto tanto morbido. Così iniziava a muovere dei passi per raggiungere il centro della stanza, ma quando guardava sul letto, questo era sporco, c'era del fango, ed una chiave arrugginita. Poi si svegliava, apriva gli occhi lentamente, e fissava il soffitto.
«Sai, Kibum, la tua stanza è la più bella di tutte. M quando assume qualcuno ci vede bene. Questo posto è aperto da cinque anni, e ne ho visti un sacco uscire da qui e non tornare più. Sei quello che è durato più a lungo, nonostante la tua stanza sia la più difficile e richiesta.»
«Per quale motivo?»
«La tua è l'unica in cui entrano solo uomini. In quella rossa solo donne, quella bianca entra chiunque. Una volta mi sono ritrovato a parlare con un tipo... Mi pare fosse un avvocato. Non vogliono quella bianca perché ritengono che i bisessuali siano... No, aspetta... Diano un amore impuro o qualche stronzata del genere.»
Kibum rise.
«Non chiedermelo, eh. Non so cosa cavolo abbiano in testa questi altolocati del cazzo. Paradossalmente lì ci entrano più donne che uomini. Quella rossa non è troppo frequentata, infatti. Credimi, questo posto è strano. Ma fare il controllore... Beh, il palo, qui fuori, non mi pesa per nulla. Anzi, mi diverte. Che poi non ho neanche mai capito a cosa cavolo gli serva un buttafuori quando qui ci entra solo gente per bene. Non vorrà mica assumere anche me al posto di uno di voi, eh?»
«Non penso, Iseul. Per la tua stazza li faresti tornare a casa con qualche frattura.»

Tentava di comprendere meglio il significato delle parole di Iseul - che gli suonavano quasi ingenue, per qualche motivo - intanto che era ancora steso nel letto. Quindi era una punta di diamante? Era riuscito - non sapeva neanche lui come - a guadagnarsi la permanenza in quella stanza tanto complicata e dai clienti così difficili da soddisfare? Chissà che il suo segreto non stesse nel suo incrollabile silenzio?



Stava chiacchierando con una giovane donna, intanto che le porgeva dei vestiti che gli aveva chiesto di scegliere per lei.
«Oh, guarda, hai davvero buon gusto!» si trovò a dire quella, prendendo un abito in chiffon blu scuro. «E' anche un bel colore.»
Kibum inclinò appena la testa di lato, lanciando una veloce occhiata al vestito. «Sì, è vero.» asserì, con un'impercettibile smorfia.
Lei si inchinò appena e, sorridendo, iniziò a dirigersi verso i camerini.
Riprese quindi a sistemare delle magliette lasciate in disordine, alcune che venivano via dalle grucce, alcune a terra. Di tanto in tanto sistemava sul naso i grandi ed alla moda occhiali da vista, si voltava verso degli specchi per controllare che la bombetta che portava non fosse sbilenca, che i bordi della giaccha grigio scuro non fossero piegati in qualche maniera strana. Ma era raro, e cercava di fare tutto velocemente. Sapeva di avere gli occhi di quelle arpie di colleghe puntati addosso, ed infatti, per quanto fosse rapido, queste non facevano altro che riprenderlo, o lanciargli frecciatine. Ma Kibum continuava a fare come se nulla fosse, continuava a consigliare le donne - ed occasionalmente anche gli uomini - che si rivolgevano a lui e, credetemi, erano davvero tante. E le altre commesse se ne stavano con le mani in mano.
Intanto si chiedeva quando si sarebbe potuto permettere una linea d'abbigliamento tutta sua. Ma, soprattutto, se sarebbe mai riuscito a permettersela. Doveva ancora frequentare una buona scuola di moda. Si diceva che doveva resistere, probabilmente, ancora pochi mesi. Ma era venerdì, iniziava un lungo fine settimana, e così quei pochi mesi gli sembravano un lasso di tempo infinito.
Quel giorno pioveva. Intanto che andava alla fermata del bus, dopo il lavoro al negozio, si era rovinato i mocassini, s'era infradiciato i piedi e rovinato la piega ai biondissimi capelli che aveva impiegato un sacco di tempo per sistemare. Non vedeva l'ora di arrivare a casa per poter dormire un paio d'ore e recuperare almeno un po' di energie. Tutto sommato, comunque, stava tornando nel suo monolocale decisamente soddisfatto. Una cliente era andata a complimentarsi con la proprietaria del negozio per la competenza di «Quel ragazzo vestito tanto bene», e non aveva potuto tirarsi indietro, stavolta, dal riconoscere a Kibum i suoi meriti. Meriti che lui si era preso con un ringraziamento decisamente tacito ed un inchino forse troppo profondo.

Prima di andare a riposarsi non mangiò. Svogliatamente aveva lasciato i vestiti poggiati sulla sedia accanto al letto, svogliatamente, solo con una salvietta, aveva tolto il trucco dal viso, e svogliatamente aveva dato da mangiare al pesce rosso che se ne stava tranquillo nell'ampolla sul ripiano della piccola cucina. Cercava di tenere quel posto - ovviamente in affitto - nella maniera più ordinata possibile. Non c'era mai un filo di polvere in quella "casa". Ciò che era perennemente in disordine, però, era il letto. Per carità, cambiava le lenzuola ogni settimana, ma odiava doverlo riordinare anche più di dover lavare i pochi piatti che sporcava o passare lo straccio a terra.
Così, si era lasciato andare a peso morto su quel letto sfatto, mezzo nudo, coi capelli ancora un po' umidi. Infilò le cuffie collegate al suo vecchio, ma ancora perfettamente funzionante, mp3. Senza alcuna esitazione andò a selezionare l'artista, i Massive Attack. Teardrop. Così si chiamava la canzone che ascoltava perennemente da un anno, quando andava a riposarsi prima del suo turno, e non riusciva per nulla a stancarlo. Quando stava ad ascoltare quella voce tanto delicata, le parole in inglese che lui comprendeva senza problemi, riusciva a visualizzare alla perfezione il suo stato d'animo che non variava da mesi. E si vedeva tranquillo, con un respiro regolare, lo sguardo calmo, che stava in equilibrio su un filo sottile. Sotto di lui un abisso, tanto profondo che era del nero più scuro che avesse mai visto. Ma quel Kibum celava una tensione ed un'ansia quasi insopportabili. Sentiva chiaramente la morsa che circondava senza pietà il torace di quel Kibum, e di quel Kibum sentiva quanto il cuore battesse veloce, intanto che, pian piano, continuava ad avvicinarsi all'estremità del filo, e quindi al momento in cui avrebbe toccato la terra, sarebbe stato salvo. E gli mancava così poco... Così poco...
Love, love is a verb. Love is a doing word.
Riaprì gli occhi sulla frase iniziale di quella canzone, lo sguardo immobile al soffitto. La luce era cambiata. C'era solo quella proveniente dalla cucina e, guardando fugacemente verso la finestra, notò subito che fuori era tutto scuro. Aveva dormito di più, ne era certo. L'mp3 quasi scarico segnava le otto. In vero si sentiva decisamente rincoglionito, ma leggero. Sì, aveva dormito troppo, ed in più avrebbe dovuto fare a meno di prendere il bus per poter fare il giro più lungo di Seoul, se fosse voluto arrivare in tempo per il suo turno. Si alzò, con un forte giramento di testa che lo portò a poggiarsi al muro con una mano. Serrò gli occhi, intanto che attendeva che la visione di tutti quei punti colorati sparisse, e che la testa smettesse di pesare così tanto. Mise a caricare il lettore musicale e si diresse nel piccolo bagno, infilandosi subito nella doccia.

Uscì di casa che erano le otto e mezza, con la borsa con il cambio sulla spalla. Anche quella era un regalo che gli era stato fatto da un cliente. Non avrebbe potuto permettersene di tanto costose, e quella era anche abbastanza capiente e comoda. Ben composto sul sedile, guardando fuori dal finestrino, si chiedeva quando sarebbe arrivato il momento in cui avrebbe potuto buttarla via e comprarsene una, più o meno dello stesso prezzo, con i suoi soldi. Nel frattempo, continuava a guardare la città tanto viva ed allegra.
Ricordava, Kibum, che una volta amava l'inverno; era la sua stagione preferita. I giacconi, le sciarpe, i guanti morbidi ed i cappelli di lana con i ridicoli pon-pon. La cioccolata ed un cornetto caldo per colazione, zuppe bollenti e saporite da trovare a tavola quando si torna a casa. Lo stringersi nel cappotto intanto che si va a scuola, lo stare in classe e sentire un po' più di calore intanto che fuori fa freddo. Le vacanze di Natale, i regali, le luci, la neve, la famiglia, gli amici, i negozi, le compere. Un amore.
Un quadro tanto allettante quanto, per lui, irrealizzabile.
Kibum, in verità, odiava l'inverno.

«Ehi, Kibum.»
«Buonasera, Iseul.»
Salutava quell'omaccione con cui parlava sempre tanto in maniera così composta da far sembrare che fosse praticamente uno sconosciuto, e nonostante l'altro insistesse nel dirgli che non ce n'era bisogno, lui continuava a fare di testa sua.
«Devi andare da M. Dice che deve parlarti.»
Si allarmò immediatamente. Ringraziandolo, entrò nel locale, passando davanti alle tre stanze senza neanche volerle guardare, e raggiunse le scale, bussando alla porta dell'ufficio del proprietario. Quando lo sentì dargli il permesso d'entrare, varcò la soglia con aria che a momenti poteva sembrare remissiva.
«Kibum, hai una prenotazione per tre ore.»
Boccheggiò. Era troppo.
«M, stiamo scherzando...?»
«Guarda, Kibum, non va neanche a me. Non è uno che conosco, ma paga davvero e davvero bene. Avresti il compenso decisamente aumentato.»
Sospirò ed andò a sistemare uno dei manici della borsa che si era discostato dalla sua spalla.
«E' davvero troppo...»
«Provaci soltanto.»
E tutta quella gentilezza ancora non riusciva a capirla. Non riusciva a capirla davvero. Non vedeva come potesse essere adatta a quell'ambiente. O, magari, era solo prevenuto.
«Fra un quarto d'ora sarà qui.»
Lasciò M, o meglio, la sua schiena - perché fino a quel momento gli aveva sempre parlato intanto che gli dava le spalle, senza dargli modo di vederlo in viso - e si diresse verso la sua stanza. Aveva di nuovo davanti il Kibum in equilibrio sul filo, ma tanta era l'agitazione ed il nervosismo che gli scorrevano in corpo, che non riusciva a capire se si stesse ulteriormente avvicinando al punto in cui si sarebbe salvato o se stesse per cadere. Ma riuscì comunque ad andare in bagno, a sistemarsi, a truccarsi - perché questa volta non aveva avuto voglia di farlo a casa - e poi attese, sul bordo del letto, seduto senza badare alla postura. Per tutto il tempo restante all'arrivo del cliente, non fece altro che fissare la bottiglia di champagne nel contenitore col ghiaccio poggiata sul tavolino lì accanto. Blu, blu, blu. Sfumature blu ovunque. Iniziava ad averne le tasche piene.

Sentì bussare. Il cuore andato in accelerazione gli aveva provocato una fastidiosa fitta al petto. Si mise composto, le gambe incrociate, ed attese che la porta si aprisse. Rimase stranamente deluso.
Tanti soldi per poterlo prenotare per tre ore volevano decisamente dire parecchio lavoro; parecchi anni di lavoro e, generalmente, quelli che vedeva entrare erano uomini sulla quarantina - che magari, purtroppo, ne dimostravano di più - vestiti di tutto punto, spesso con una pancia strabordante, per via del loro impiego che non richiedeva troppi sforzi fisici. Trovarsi di fronte un ragazzo che sembrava avere la sua stessa età, vestito con anfibi e giacca di pelle e, fra l'altro, senza alcuna traccia di grasso sul giro vita, lo mandò nel panico più totale. Assottigliò gli occhi nel tentativo di mettere a fuoco quella figura, della quale erano visibili solo i contorni appena illuminati da una luce azzurrastra. Quello richiuse la porta dietro di sé. Il rumore destò Kibum dagli attimi di concentrazione che si era concesso per osservarlo. Non riusciva a muoversi.

Generalmente si sarebbe alzato, avvicinandosi con passo lento e sottilmente provocatorio al suo cliente. Tremando dentro di sé, ribellandosi dentro di sé, l'avrebbe preso per mano, vedendolo - come tre quarti delle volte accadeva - intimidito. L'avrebbe condotto vicino il letto, fermandosi poco prima del bordo. Gli avrebbe quindi porto uno dei calici precedentemente riempiti con dello champagne e, insieme a lui, avrebbe mandato giù solo un sorso, a mo' di rituale. E ancora tremando, ma lanciando occhiate ammiccanti, avrebbe iniziato a sbottonare la sua camicia bianca con movimenti lenti, facendola poi scorrere sulle spalle e lungo le braccia, fino a lasciarla ricadere a terra. E, ora sanguinando, avrebbe preso a baciarlo, a far scontrare la sua lingua con una sconosciuta che sapeva di qualcosa che a volte poteva essere anche rivoltante. Una lingua che, spesso, in tanto che questo cliente torreggiava sopra di lui, tenendogli le braccia sopra la testa, stringendogli i polsi, pareva essere un verme viscido, infimo, disgustoso, repellente. E poi avrebbe sentito il suo odore, troppo acre, troppo pungente, troppo soffocante, troppo...


Lo champagne era intoccato, i calici puliti, i vestiti caduti a terra per gesti automatici e molto, molto poco meccanici. Erano caduti a terra, scorrendo sui loro corpi, con una delicatezza ed una naturalezza che Kibum non pensava d'aver mai sentito in tutta la sua piatta e breve vita. E la calma, e la normalità con cui tutto quello stava accadendo, erano state il più grande sconvolgimento che si fosse trovato a provare fino ad allora.
Ricordava bene l'irruenza del padre intanto che lo spingeva fuori da casa, permettendogli a malapena di trascinare il borsone con qualche vestito. E ricordava bene il volto segnato dal pianto e dal dolore della madre. E ricordava anche come era successo tutto in un batter d'occhio, in venti minuti o poco più, in cui gli era stata data la colpa di aver rovinato la vita di un'intera famiglia, di essere la più grande vergogna che un padre possa avere e provare, di essere il più infimo, malefico e malato essere che possa esserci su tutta la Terra. E dovette scappare correndo in camera sua, rischiando di cadere, per po chiudersi a chiave e riuscire a raccattare in meno di mezzo minuto qualche maglietta e dei jeans. Venti minuti o poco più, ripeto. Venti minuti o poco più che si erano insediati dentro di lui in un tempo lunghissimo, che continuavano a recargli dolore gradualmente. Kibum non sarebbe riuscito a parlare di uno sconvolgimento. Sarebbe riuscito a parlare di usura, ad esempio.
Sconvolgimento erano state quelle tre ore, così lente, così improvvise, così inaspettate. E si ritrovò a pensare che, se avesse saputo tempo addietro che, prima o poi, quelle tre ore gli sarebbero toccate, che qualcuno avrebbe deciso di fargliele vivere, si sarebbe risparmiato tutte quelle volte in cui aveva pensato di dimettersi da quel lavoro, con conseguenti ore ed ore di dilemmi, di drammi, di domande.
Forse Kibum aveva smesso di stare così calmo in bilico su quel filo.

Dopo un po' di tempo - ed il riferimento non è, comunque, solo ed esclusivamente a Kibum - iniziò a chiedersi se tutto quello avesse almeno un minimo riferimento alla realtà. Perché, a dirla tutta, dopo un'ora e mezza che quel ragazzo era entrato nella sua stanza blu, ecco, aveva i sensi completamente appannati, il cervello in stand-by. Ovviamente giocava in gran parte l'eccitazione sessuale. Il problema, però, è che sentiva diversa addirittura quella.
Dal canto suo, Kim Jonghyun stesso, giovane e promettente musicista, si era ritrovato spaesato, una volta aperta quella porta, non solo perché la luce ed il colore che vi aveva trovato dietro erano più brillanti, più vivi, ma, stranamente, anche più irreali di come gli si erano presentati di notte, intanto che dormiva, ma anche perché non aveva per nulla immaginato che genere di persona avrebbe potuto trovarci. Era una domanda che non si era proprio posto. E come Kibum, inconsciamente, camminava su un filo, stringendo i denti, per una volontà che a momenti non reputava propria, Kim Jonghyun si tormentava da anni, e girava in tondo, che fosse per Seoul o per tutto il globo, così come faceva la sua anima, che percorreva cerchi concentrici, pareva confluire in un unico punto centrale, ma ogni volta qualcosa le sfuggiva per potersi fermare. E lui ne era dannatamente consapevole.
Forse Jonghyun aveva smesso così freneticamente di girare in tondo.


Si era avvicinato a lui camminando con una mano nella tasca dei pantaloni neri strappati qua e là, mentre con l'altra, in un gesto di evidente disagio e nervosismo, si toccava qualche ciocca di capelli, capelli scuri e portati spettinati, un po' lunghi. Gli occhi, dal taglio e dallo sguardo buono, vagavano freneticamente per tutta la stanza, fermandosi solo per frazioni di secondi sul giovane seduto composto sul bordo del letto. E la cosa più naturale che gli venne da fare, fu andarsi a sedere accanto a lui, piegato in avanti, gomiti sulle ginocchia, a fissare il pavimento. Non pensava più; il suo cervello aveva chiuso i battenti. In ogni caso, dopo poco, riuscì a sollevare il viso, volgerlo poi verso quel ragazzo - che poi notò essere quasi serafico - che lo stava già fissando, e chissà da quanto tempo, fra l'altro, senza che lui se ne fosse accorto. Si curò di poggiare la mano su quella del ragazzo che, subito dopo, in contrapposizione al suo gesto calmo, si era avvicinato con una certa velocità al suo viso, le dita fra i suoi capelli, le labbra premute contro le sue.
Tutto ciò che venne dopo, fu un semplice cozzare di gesti, sensazioni e voglie contrastanti, così come lo erano i sentimenti. Era il continuo scontrarsi di due anime - oltre che di due corpi - spinti da chissà che cosa. E, a dirla tutta, non mi sento neanche di dire che si trattasse più di mero desiderio con una punta di qualche inspiegabile emozione del momento. Erano fatti di irrazionalità allo stato puro, e non faceva differenza la flemma che ci metteva Kim Jonghyun, quella sorta di senso di smarrimento che l'aveva colto di sorpresa non appena aveva varcato quella soglia, e neanche l'ansia, l'irrequietezza di Kim Kibum, la sua paura. Non erano, probabilmente, neanche coscienti di come fossero opposti i loro comportamenti, così esasperati, per qualche istante. Non potevano controllarli.

Come Kibum, sistemato a cavalcioni su Jonghyun, si stava dedicando al suo collo, mordendone, succhiandone e leccandone la pelle, l'altro, semplicemente, gli sfiorava la schiena con i palmi delle mani ben aperti, da sotto la maglietta nera, piena di lustrini non ben definibili. E solo con quel gesto lento, riusciva a percepire i brividi che lo attraversavano per tutto il corpo, e se ne compiaceva. Ancora qualche secondo a lasciarlo divertire, e gli prese il viso fra le mani, facendolo allontanare, portandolo di fronte al suo. Jonghyun fissò quegli occhi allungati, di un marrone più chiaro rispetto al suo, espressivi anche quelli, ma diversi rispetto ai suoi, nonostante riuscisse a scorgerci, in fondo, qualche peccato, probabilmente anche quello diverso dai cento e più che lui si portava dietro, ma volle vederci una forma di rassicurazione.
Iniziò un nuovo bacio lento, che pareva avere l'intenzione di voler dare ad entrambi tutto il tempo possibile per poter ricordare ogni dettaglio delle loro labbra ed i loro sapori. Kibum, in un gesto automatico, aveva preso a premere il bacino verso quello dell'altro, sospirando di tanto in tanto, mentre entrambi si perdevano in quel contatto.

Ed andò avanti così per almeno un'ora e mezza. Un'ora e mezza durante la quale ogni azione era ragione di restar sorpresi, era ragione di dire "Ora posso mettermi il cuore in pace", era ragione di lasciar andare via qualcosa somigliante ad un pesante fardello sulle spalle, ed era ragione anche di dare e ricevere. E se qualcuno vi avesse detto che l'amore è qualcosa di banale, be', sappiate che quel qualcuno ha davvero torto. Perché un qualcosa di banale non si riflette nelle pulsazioni dell'anima così gentili quanto prepotenti, a voler far capire a tutti i costi a Kibum che loro c'erano per una ben precisa ragione, mentre sentiva le braccia di lui stringerlo. Qualcosa di banale non si riflette negli occhi che diventano limpidi come uno specchio appena lucidato, esattamente come quelli di Jonghyun che mostravano la più pura verità, mentre lui li osservava. Un qualcosa di banale non si riflette nei tremolii, nella sensazione di totale alienazione, nell'inspiegabile sensazione di attesa che attanagliavano Kibum mentre lui lo guardava, torreggiando sul suo corpo, fermo. E qualcosa di banale non si riflette nel respiro mozzato, in quell'impulso che viene dalle viscere e preme con forza per poter far uscire qualche suono dalla bocca, così come accadde a Jonghyun, prima di poter parlare a lui, e dare un senso a tutto il tormento di un intera vita.

«Ti amo.»
«Anch'io.»

Entrambi erano rimasti decisamente sorpresi dalla rapida risposta di Kibum. Lui stesso non riuscì a capire dove avesse trovato solo l'ossigeno necessario per poter parlare. Quella dichiarazione l'aveva fatto sospirare come mai gli era successo prima. Aveva dovuto prendere aria a pieni polmoni, cercare di rimettere a fuoco la vista, ed aveva risposto subito. Lì tutto finiva e tutto iniziava. Lì il blu diventava tremendamente bello, così come lo diventava qualsiasi altra cosa ed il loro primo rapporto non fece eccezione. Per uno perché, per la prima volta, non si trattava di lavoro e per l'altro perché poteva impegnare anche il cuore oltre che il corpo.

Kibum s'addormentò, nel momento in cui scattò il termine della seconda ora. Prima di chiudere gli occhi, però, si era curato di dire il suo nome, non a presentarsi, ma a darglielo come "indicazione". Quando sentì l'altro rispondergli con il suo, fece chiudere i battenti al suo cervello con tanto di un mezzo sorriso sul volto, i muscoli completamente rilassati come, alla fine, lo era lui, nonostante nulla fosse mai stato un toccasana per i nervi, in quel posto, in quel letto. Probabilmente,  quella braccia fra le quali si stava cullando e veniva cullato, facevano decisamente la differenza.
Sognò. Stava seduto per terra, al bordo del burrone. Per quanto fosse ancora tutto estremamente grigio, non era più in bilico su quel filo, che ormai aveva tagliato e non riusciva a vedere più. Contemplava quel nero profondo davanti a sé con aria tranquilla, anche un po' beffarda, come a volergli dire che, alla fine, aveva vinto lui.


Ogni volta che sedeva in bus, guardando concentrato fuori dal finestrino, spesso s'era chiesto come avrebbe passato il Natale. Col tempo quella festa aveva iniziato ad avere un sapore stranamente amaro. Non c'era papà, non c'era la mamma e soprattutto non c'era sua nonna. Non c'erano regali sotto l'albero, non c'era odore di biscotti alla cannella sfornati di prima mattina, non c'erano gli addobbi sparsi per tutta la casa, non c'erano tutti i parenti che venivano a fare gli auguri. Non c'era più stato niente e nessuno. C'era lui che passava un'intera settimana senza mettere il naso fuori di casa. Rimaneva nel letto senza alcuna intenzione di respirare tutta quell'allegria, facendo finta che fossero giorni come altri. Si era chiesto se sarebbe stato così anche quell'anno, un paio d'ore prima d'incontrare Jonghyun.

Kibum era nella vasca da bagno, l'acqua bollente piena di schiuma dalla quale vedeva sbucare solo le sue ginocchia. Jonghyun aveva acceso delle candele lasciate a terra lì vicino, oppure su un mobiletto in legno. Il profumo del bagnoschiuma gli riempiva le narici, mentre la musica dal salotto, ovattata, faceva lo stesso con le sue orecchie. Portava le gambe al petto, stringendole con le braccia. Poggiava la fronte alle ginocchia, chiudeva gli occhi, respirava profondamente e s'immergeva in quella perfezione. La perfezione di vacanze di Natale tremendamente inusuali, tremendamente piacevoli. La perfezione di una casa nuova che già sentiva sua. La perfezione di una voce che sentiva a breve distanza da lui.
«Bummie, mi stai ascoltando?»
«Nh...?»
Kibum si voltò lentamente, quasi stupito nel vedere il suo ragazzo seduto sullo sgabellino accanto la vasca. Ne fu così stupito che, come la maggior parte delle volte accadeva, perse un battito o due.
«Sì, ti ascolto, Jonghyun.»
Una palese bugia, ma al più grande bisognava dare sempre il contentino.
«Ti stavo dicendo che domani vengono mia sorella ed i miei genitori, qui.»
«Ah.» e guardò fisso il muro piastrellato «D'accordo.»
«Non ti preoccupi?»
«Perché dovrei?»
Jonghyun sfarfallò gli occhi, perplesso. Poi scosse la testa, pronto ad iniziare un nuovo discorso, intanto che si spostava giusto accanto a lui, spugna alla mano. Subito l'altro gli diede le spalle, mostrandogli la schiena che Jonghyun s'apprestò a lavare con cura.
«Cosa vuoi fare, a Natale?»
«Mmh...»
Kibum ci pensò davvero tanto, vi dirò, ma gli venivano in mente tutte le cose più banali che possano esistere. Cose banali che, difatto, tali non gli sembravano.
«Non lo-»
«Stiamo a letto e guardiamo il blu.»
Per qualche strano motivo, alle orecchie di Kibum non arrivò più alcun suono. Forse tutte le sue funzioni vitali s'erano arrestate per qualche istante.

Non ci fu più nient'altro che una canzone, il colore della quiete e l'ennesimo ricongiungimento a ciò che entrambi da sempre avevano perso.

   
 
Leggi le 3 recensioni
Ricorda la storia  |       |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Torna indietro / Vai alla categoria: Fanfic su artisti musicali > SHINee / Vai alla pagina dell'autore: Emi Nunmul