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Autore: fulvia70    20/11/2012    3 recensioni
"Seduto sul bordo della vasca, nudo, la barba lunga sul viso, gli occhi verde mare gonfi di pianto, Sebastian Moran singhiozzava.
Come un fottuto ragazzino, pensò. Piangeva senza freni. E tutto per un odore.
La memoria gioca brutti scherzi.
...
Seduto sul bordo del proprio letto, le mani sulle ginocchia e lo sguardo perso sul pavimento, John non riusciva a respirare con regolarità.
Tutto per colpa di un suono. Il suono di un violino. "
_ post Reichenbach, vista con gli occhi di Sebastian Moran e John Watson _
Genere: Drammatico, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Altro personaggio, Jim Moriarty , John Watson , Sherlock Holmes
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
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 Avvertimenti: i personaggi citati non mi appartengono, sono stati ideati e creati da Sir Arthur Conan Doyle e ora ogni diritto sull’utilizzo è esclusivamente dei detentori legali, della BBC e dei signori Moffat e Gatiss.
Non scrivo per scopo di lucro, ma per puro piacere personale.
Non ho intenzione di continuare ad annoiarvi ancora per molto, ma ci sono momenti in cui devi scrivere, devi farlo, sono i personaggi dentro di te che chiamano e fanno rumore per uscire, quindi ho accontentato quelli che avevo dentro.
Mi sentivo così, molto angst, questa one shot è stata ispirata da Christina Perri - A Thousand Years, che potete ascoltare qui, se volete: http://www.youtube.com/watch?v=OHkvan-NFnM.
Grazie per la pazienza. ^^.
**______**
 
Seduto sul bordo della vasca, nudo, la barba lunga sul viso, gli occhi verde mare gonfi di pianto, Sebastian Moran singhiozzava.
Come un fottuto ragazzino, pensò. Piangeva senza freni. E tutto per un odore.
La memoria gioca brutti scherzi.
Il caffè di Jim, quel misto di caffè e crema di whiskey irlandese, quanto tempo era che non le sentiva più? Passando sulla strada che percorreva tutti i dannati giorni, davanti al bar dove andava quando sapeva che non avrebbe trovato nessuno ad aspettarlo, aveva sentito di nuovo quell’odore.
Ridicolo. Idiota. Perché piangere come una donnetta?
Aveva visto morire compagni d’arme sventrati dalle bombe, in Afghanistan, colpiti da fuoco amico, aveva assistito a tanti di quei funerali che ormai gli era impossibile persino commuoversi.
E adesso piangeva come una ragazzina al ricordo del primo amore.
Ma James Moriarty non era stato il suo primo amore. Era stato il suo unico amore.
Se Jim lo avesse potuto sentire pensare una cosa del genere avrebbe riso di lui, lo avrebbe deriso.
Quella era la nuda e cruda realtà.
Quel sorriso predatorio, quell’espressione ardente e folle degli occhi nerissimi, quella voce strascicata e infantile, roca e sensuale, quel modo di essere, quell’unicità che era stato James Moriarty, ora mancava da impazzire al suo cecchino.
Questo era stato per Jim il colonnello Sebastian Moran, il suo cecchino, il suo braccio armato, il suo cane da guardia, il suo silenzioso efficace esecutore di ordini.
James Moriarty non era stato un geniale sociopatico pervertito criminale, era stato un maestro del crimine, un purista, un perfezionista, il crimine stesso, un artista, folle e irragiungibile come tutti gli artisti. Non amava nessuno Moriarty. Usava le persone che gli erano accanto con una straordinaria abilità, sia che le convincesse a lavorare per lui, sia che ne facesse carne morta.
Una volta ne avevano parlato, lui e Jim dell’amore.
Erano poco meno che ubriachi, nudi, avevano fatto sesso e sull’onda emotiva di quel piacere inesauribile che Moran trovava tra le braccia dell’altro, aveva detto a Jim che non aveva mai amato nessuno come ora amava lui.
Silenzio. James non aveva risposto. Ma quando Sebastian incalzato dal proprio cuore aveva sollecitato un cenno qualunque, Jim si era alzato e nudo si era avviato in bagno per infilarsi nella vasca e restare da solo, con gli occhi chiusi.
Sebastian non si era più permesso di sollevare l’argomento e non aveva fatto altro che fare ammenda silenziosa per quel momento di debolezza.
Un giorno, mentre ascoltava Jim che parlava di quel dannato Sherlock Holmes, quella sua stramaledetta ossessione, Sebastian aveva osservato che il Consulente Investigativo doveva essere innamorato del suo coinquilino, il dottor John Watson.
Moriarty aveva ghignato e gli aveva domandato da quale profonda esperienza dell’amore gli fosse derivata una simile certezza.
Sebastian avrebbe voluto gridargli che poteva attingere solo alla propria esperienza, a quell’amore perverso e folle che lo consumava per il suo maestro e mentore ma non aveva detto nulla, limitandosi a bere in silenzio la sua birra irlandese.
Poi però Jim lo aveva sorpreso abbracciandolo di slancio e baciandolo con passione.
_ Io capisco e sento tutto quello che hai dentro, mio caro, a me non puoi nascondere nulla. Non ti dirò mai che ti amo. Se te lo dicessi, dove finirebbe lo splendido rapporto che abbiamo? Non naufragherebbe forse come un qualunque rapporto ovvio, ordinario? Non è talmente straordinario quello che abbiamo, Sebastian, da volerlo difendere dalla morte per banalità? –
Sebastian Moran, il freddo, lucido ed efficiente cecchino, l’uomo delle molte battaglie, con un passato militare di tutto rispetto, l’uomo che era stato cacciato dall’esercito per violenze sui civili, si era commosso come un ragazzino al primo amore e non era riuscito a replicare per paura di balbettare.
Ma Jim era morto, finito, perduto, lontano.
La morte non è il contrario della vita, la morte è una soglia oltre la quale la vita si evolve, si trasforma.
Non era mai stato particolarmente religioso, Sebasian Moran, ma da quando aveva conosciuto James Moriarty il suo dio aveva occhi neri e ardenti come caramello fuso e lo teneva imprigionato nel proprio cuore come un insetto nell’ambra.
Morto. Come suonava assurda quella parola pensando a Jim, come era definitiva, semplice e terrificante. Morto. Non c’era più Jim. Mai più. Mai più.
Urlò con tutto il fiato che aveva nei polmoni Sebastian e si lasciò scivolare nella vasca vuota, il corpo contratto da spasmi di dolore e di freddo.
 
Il dottor John Watson era un medico militare, congedato dal proprio incarico durante la permanenza in Afghanistan a causa di una ferita alla spalla sinistra che ne aveva anticipato il pensionamento.
A Londra aveva ritrovato un vecchio compagno di studi che gli aveva presentato un uomo strano e geniale alla ricerca di un coinquilino per l’appartamento che aveva affittato in Baker Street, Sherlock Holmes, questo il nome, un uomo geniale e altero quanto seducente e affascinante, che con il tempo, con gli anni, John Watson aveva imparato a comprendere, a rispettare, ad accettare, ad amare.
Sherlock era morto. Sei mesi prima. Si era ucciso gettandosi dal tetto dell’ospedale nel quale spesso aveva trovato appoggio e rifugio per gli esperimenti che amava condurre a supporto delle proprie indagini.
Era stato il migliore, l’unico Consulente Investigativo del mondo, Sherlock Holmes.
Seduto sul bordo del proprio letto, le mani sulle ginocchia e lo sguardo perso sul pavimento, John non riusciva a respirare con regolarità.
Tutto per colpa di un suono. Il suono di un violino.
Amava ascoltare per ore Sherlock suonare il suo violino, a qualunque ora del giorno e della notte, quel violino che ora giaceva abbandonato sul bracciolo destro della poltrona di Sherlock, laddove era rimasto l’ultima volta.
Nessun suono, niente più violino, niente di niente nel salotto di Baker Street dalla morte di Sherlock.
Quello che aveva sentito John apparteneva a un uomo male in arnese, sporco, seduto al bordo della strada che lui percorreva tutti i giorni per andare in ambulatorio, un mendicante sporco e arruffato con incredibili occhi azzurri che si guadagnava da vivere così, suonando, che non parlava con nessuno, che aveva barba folta e una zazzera ricciuta di capelli, che non vedeva un bagno da chissà quanto tempo e che da qualche mese era comparso in quell’angolo di strada, ma solo in alcuni giorni, quelli in cui John aveva l’ambulatorio pubblico.
Era morto, Sherlock. Il suo migliore amico, il suo compagno di tante avventure, il suo confidente, era morto. Il suo amore, era morto.
Perché questo John non era mai riuscito a confessarlo a Sherlock, non era riuscito a dirgli che a dispetto di tutti i continui reiterati proclami sulla sua inossidabile, intaccabile eterosessualità, si era innamorato proprio di lui.
Non aveva fatto a tempo, John.
Quel tempo che crediamo di possedere in eterno e che invece ci sfugge via tra le dita come sabbia e che ci lascia vuoti, alla disperata inutile ricerca del modo per farlo tornare indietro.
Si guardò le mani, John. Erano stanche, tremanti.
Si prese il viso tra le mani e pianse John. Pianse amaramente. Quel dannato mendicante proprio quel giorno aveva scelto di fargli ascoltare il suo pezzo preferito, quello che Sherlock gli suonava spesso, proprio nella cadenza mensile in cui John ricordava la morte del suo migliore amico?
 
L’acqua calda scorreva su Sebastian Moran e lo percuoteva con forza sul ventre, sul fianco destro, mentre con occhi chiusi giaceva inerte nella vasca da bagno.
Aveva smesso di andare al cimitero, dopo sei mesi. Gli sembrava di perdere un pezzetto di Jim ogni volta che si recava lì. Non aveva mai portato fiori, non c’erano fiori adatti a Jim, le rose rosse erano banali, che altro poteva portargli? E poi lui era un soldato, un maledetto fottuto colonnello, non avrebbe mai portato fiori sulla tomba di un uomo, nemmeno se quello fosse stato un compagno d’arme.
Da un mese niente più cimitero, niente più giro notturno nei luoghi di Londra dove lui e Jim avevano amato fermarsi, niente più musica preferita di Jim nell’impianto stereo, niente che lo ricordasse, perché non c’era davvero bisogno di ricordarlo, magari fosse stato così fortunato da dimenticarlo quel maledetto bastardo manipolatore!
Ebbe un sussulto Sebastian, quando rammentò come avesse reagito Jim quando gli aveva sbattuto in faccia, in un caldo pomeriggio di Luglio, che lo considerava un burattinaio.
Gli aveva riso addosso Jim e lo aveva spogliato, lo aveva scopato per terra, come due adolescenti, come due soldati al fronte, come due amanti in uno squallido albergo, ma quando l’orgasmo li aveva bruciati assieme, Jim lo aveva baciato con sorprendente delicatezza sulla tempia sinistra per poi sussurrargli “Non sei contento che sia il tuo burattinaio, Sebastian, mio caro?”
Moran non aveva risposto, si era limitato ad assentire, chiudendo gli occhi per non perdere neppure una goccia di quel sorso di pura inebriante felicità che gli aveva riempito il petto.
Chiuse l’acqua, Sebastian. Si alzò, indolenzito e infreddolito, sporco di lacrime e di rimpianto.
Con un asciugamano attorno ai fianchi, retaggio del suo passato militare, se ne andò in cucina, sperando di trovare una bottiglia da scolare in frigorifero.
Fu allora che la vide. Dapprincipio non riuscì a credere a quello che vedeva. Era una tigre, minuscola, in oro, nell’atto di spiccare un salto.
Il cuore gli si fermò nel petto, per una manciata di secondi, gli parve di perdere un battito.
Jim lo chiamava “la sua tigre”, il suo animale selvaggio. Solo Jim.
Cadde a sedere su una sedia scompostamente Sebastian Moran.
Sollevando gli occhi dal ciondolo si rese conto di non essere più solo.
 
Il dottor John Watson si era lavato, sbarbato, vestito.
Quel giorno avrebbe lasciato l’appartamento di Baker Street, continuando a pagare l’affitto per la sua parte, perché la signora Hudson, la padrona di casa, non aveva voluto saperne di affittarlo ad altri o di accettare da lui anche la parte di Sherlock.
Non riusciva più a viverci, John, tra quelle memorie pesanti come tessuto in cui impigliarsi anche quando non volevi, soprattutto quando cercavi di liberarti da quella coperta soffocante che era divenuta la solitudine.
Con passo deciso attraversò la strada per coprire quella parte di marciapiede che lo avrebbe condotto all’ambulatorio.
Vide il mendicante e gli sorrise, gettandogli soldi nel berretto.
L’altro lo guardò con la bocca dischiusa, come se quel sorriso lo avesse in qualche modo bloccato, paralizzato.
John non vide che l’uomo aveva afferrato il proprio violino con mani tremanti e udì appena la musica che scaturì da quello strumento, uno dei pezzi che Sherlock suonava quando voleva che John gli perdonasse qualcosa.
Si fermò per un istante, il dottor Watson, prima di entrare in ospedale. Poi sorrise e varcò la soglia.
 
Angolo dell’autrice: lo so, Moffat e Gatiss lo hanno detto, Jim non tornerà, sarebbe troppo ingombrante come antagonista, senza contare poi che nel Canone il professor James Moriarty muore nelle cascate di Reichenbach una volta per sempre, ma io non ci riesco, amo alla follia questo personaggio così come lo ha caratterizzato lo straordinario Andrew Scott, che adoro e siccome il mio colonnello Moran è un Michael Fassbender più muscoloso ma non meno bello, come lasciarlo solo? ^^ ok, la finisco....
  
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