Disclaimer: I personaggi di
Hetalia: Axis Powers non mi appartengono
Ma sono di proprietà di Hidekaz Himaruya ©
.: He Looked a Lot :.
.: like Me :.
-Ehi, compagno Braginsky, te lo hai mai visto un
Americano?-
Quando Ivan alza lo sguardo, il Compagno lo sta
guardando con aria complice, la bocca sdentata atteggiata a quell’espressione
di chi ti ha appena chiesto di rivelargli un misterico segreto che manterrà
fino alla tomba. Non che ci voglia poi molto ad arrivare a quel punto,
considera Ivan, gettando un’occhiata veloce alle piaghe aperte e sanguinanti
che l’altro ha sulle mani e sulla faccia violacea, tutta tirata e livida, gli
occhi incavati nell’orbita già nera.
Così Ivan decide che sorridergli e rispondere non
sia poi quel gran peccato, a quanto pare ne ha commessi ben altri secondo
quanto ha detto il compagno Stalin, anche se non sa bene quali. Solleva gli
angoli delle labbra screpolate a disegnare un’espressione di assoluta
tranquillità, gli occhi che si socchiudono, gonfi, alla morsa del vento.
-Da- annuisce
e ripensa a come la vita sia strana.
Era stato un altro tovarisch, solo qualche anno prima, a chiedergli la stessa cosa.
Compagno Braginsky,
tu hai mai visto un Americano? Gli
aveva detto un ragazzetto ossuto e tremante, tanto piccolo da sembrare ancora
un bambino. Si teneva stretta una bottiglia praticamente vuota di Vodka, se
l’accoccolava contro il petto quasi il vetro potesse scaldarlo alla stessa
maniera del liquore. E tremava, batteva i denti, ingoiava la crudeltà del mondo
coi grandi occhi sgranati, deglutiva il fumo della guerra nel collo esile, le
bombe deflagravano con violenza dentro quel suo piccolo torace traballante.
Nyet aveva risposto allora, col
fucile ben stretto tra le mani.
Ora, ripensa Ivan guardandosi le nocche nodose e
rigide, livide e quasi del tutto incapace di piegarle, Ora non lo saprei tenere
più tanto bene e il Generale Inverno, oh, il Generale Inverno come me la
farebbe pagare cara, con quei suoi occhiacci e i baffoni, oh, sarebbe proprio
proprio brutto se il Generale Inverno mi vedesse che sono qui e che non sono
più capace di tenere il fucile in mano e sparare nella schiena ai tedeschi. Oh,
sarebbe un peccato, un vero peccato se il Generale Inverno fosse qui.
-E com’era? Com’era?- il Compagno sdentato gli si
avvicina con un gran scricchiolare di ossa e cigolare di cenci, le gambe larghe
per mantenere un equilibrio già precario. Rotea gli occhi slavati in alto, a
vedere che i soldati non stiano lì a spiare e a sentire, poi si piega verso di
lui con un gran gemere di ossa. E Ivan si ritrae, sempre sorridendo, a
quell’alito che puzza di marcio e di vomito rappreso tra le gengive pallide.
Com’era, com’era?
Forse Ivan ha dimenticato tante cose della guerra,
alcune per non soffrire, altre per non sperare più.
L’Americano è una di quelle cose.
L’Americano, per un po’, lo aveva fatto sperare.
L’Americano aveva un volto allegro e tondo, guance piene, ed erano pure rosa se
riuscivi a tirar via lo sporco e la terra e il fango e la polvere e il sangue;
gli occhi erano grandi come quelli del bambino tremulo, ma azzurri, di un
azzurro così azzurro che nemmeno il cielo limpido e metallico della steppa
poteva uguagliare. Aveva una voce grassa e orribile a sentirsi, modi esagerati,
mani grandi e un sorriso largo e così perennemente stampato sulla faccia che ad
averci tolto qualche dente di più, sicuro ne sarebbe cresciuto un altro a
sostituirlo.
Ivan non aveva capito proprio subito come si
chiamava l’Americano, così ci era voluto un po’ prima che imparasse a
pronunciarlo come si doveva.
Alfred. Si chiamava così, Ivan lo
ricorda, anche se non vorrebbe.
Vorrebbe poterlo chiamare solo Americano, qualcosa
di generico ed impersonale, perché se gli torna in mente di nuovo Alfred,
allora gli occhi azzurri ed il sorriso e i capelli biondi non sono gli occhi
azzurri ed il sorriso ed i capelli biondi di un americano qualunque, come tanti
che ce ne sono, ma sono gli occhi azzurri ed il sorriso ed i capelli biondi di Alfred.
E sono cento e mille volte più belli.
Non sembrava cattivo, Alfred. Anzi, Ivan aveva
persino pensato che fosse bello, anche se chiassoso ed infantile, ma era bello
e serio e l’aveva trovato così bello e così serio in quella vecchia notte
berlinese tinta di ricordi e di seppia, quando ancora poteva dire di aver visto
un americano e non sentirsi in colpa, quando ancora tutto era possibile. Alfred
era stato così bello e così serio mentre fissava il cielo dal ritaglio
squadrato di una finestra rotta, col profilo che si disegnava dritto contro lo
sfondo di una città ridotta a bubbosi moncherini, che Ivan non si era sentito
più lui, ma un altro che fissava Ivan che fissava Alfred.
Teneva una sigaretta tra le labbra e gli occhi
guardavano tanto lontano da chiedersi se stessero osservando l’immagine di
casa, con i dolci declivi verdi dell’America e i suoi fiumi e le sue valli e il
suo orizzonte dorato.
Voleva chiederglielo se stava cercando la sua fattoria
lontana nella bruma dell’asfalto divelto, ma la voce e le parole e qualcosa lì,
nel torace, all’altezza del cuore, qualcosa che non aveva nome, ma c’era e
basta, lo aveva tradito.
Sei bello, Alfred. Aveva detto, prima di potersi
fermare e riflettere e tornare a pulire il fucile in un angolo della casa
distrutta Sei così bello, Alfred.
E Alfred si era girato, lento, piano, diluendo e
dilatando ogni istante nella forsennata ricerca di comprensione, perché erano
state poche le parole di inglese che Alfred gli aveva insegnato, ma bello era stata tra le prime. Perché
bella era la sua fattoria nel Tennesse, belle le stelle che si vedevano dal
giardino, belli gli alberi che si aprivano a ventaglio sotto le montagne, bello
il vento che cantava forte di libertà e di America.
Il sorriso di Alfred era stata la risposta. Le mani.
La bocca che ancora sapeva di tabacco. Il respiro. La voce. Il giaccone scuro
che gli aveva lasciato prima di tornare davvero a casa, quando dietro le spalle
Berlino si risvegliava sotto il garrire schioccante della bandiera rossa.
Quella e la promessa di rivedersi in Tennesse, a New York, in mezzo al mare,
sulla terra o in cielo, non importava il dove, il necessario era vedersi
ancora.
Ma il giaccone glielo avevano strappato via quando Kiev avevano detto sul treno, ma Kiev
non era mai stata. La promessa si era lacerata tra le basse sterpaglie della
taiga grigiastra, mentre Ivan la trascinava dietro di sé, con la disperazione
di chi non vuol vedere morire anche l’ultimo sogno.
La speranza l’avevano sbranata, frantumata,
squarciata, distrutta, spazzata via, flagellata, disintegrata col piccone,
senza tregua, tra le rocce e la polvere, al baratro senza ritorno della dohodyaga.
-Allora, compagno Braginsky?- lo incalza l’altro,
sbiascicando la frase tra le labbra tumefatte.
Ivan rimane in silenzio. Non parla e se ne sta col
sorriso appeso alla bell’e meglio sulla bocca contratta, il volto scavato
ridotto ad una maschera incolore e senza espressione.
Nessuna speranza, ormai. Se non l’Americano.
-Mi somigliava moltissimo-
Se non il nome di Alfred.
Quel nome che il vento del gulag cerca di cancellare
tra uggiolii e ringhi. Quel nome che Ivan si tiene stretto al cuore, con l’unico,
feroce desiderio di sopravvivere.
Per poterlo pronunciare anche solo una volta sotto
il bianco sole di Hazard, Tennesse.
Note
Finali
Per prima cosa, vi lascio il link
della canzone da cui è presa l’intera linea su cui si snoda la fan fiction: http://www.lyricszoo.com/red-army-choir/my-country/
Ci sono molti rimandi al testo, come la
taiga, la fattoria, l’idea che Alfred provenga da un posto chiamato Hazard, in
Tennesse, le parole che pronuncia Ivan (Mi
somigliava moltissimo, ossia “He looked a lot like me) o la “il feroce
desiderio di sopravvivere” (The brute
will to survive) e così.
La dohodyaga è la condizione di spossatezza e devitalizzazione, traducibile approssimativamente con “spacciato”
(Wikipedia, voce Gulag).