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Autore: lunatica365    20/11/2012    7 recensioni
Allora, gente, questa è una Sterek AU ambientata durante la 2° Guerra Mondiale, con un Nazi!Derek e un Ebreo!Stiles.
Se avete intenzione di fare i moralisti, passate pure oltre e non rompete le palle (e scusate per la brutalità), perchè ho già ricevuto parecchi insulti su Tumblr, in cui la gente mi accusava di essere una str*nza senza cuore, o di voler fare smut su una tragedia.
Questa storia non è niente di tutto ciò, sarà triste.
ANGST ovunque. E intendo ovunque.
Se vi aspettate qualcosa con un lieto fine non vi conviene leggere.
(mi rendo perfettamente conto che questa premessa avrà fatto fuggire la metà di voi XD)
Genere: Angst, Drammatico, Guerra | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash
Note: AU | Avvertimenti: Tematiche delicate
- Questa storia fa parte della serie 'Sterek'
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Just give me a reason

 
Spari.
Porte scardinate da calci dati da gambe ariane.
Gambe di soldati, venuti a prendere me e la mia famiglia.
Mia madre urlò disperata, aggrappandosi al braccio di mio padre, innaturalmente calmo. Il suo sguardo era duro e rimase tale anche quando i soldati sfondarono la nostra porta e ci ordinarono di prendere il minimo indispensabile, in fretta.
Immaginavamo che sarebbe successo. Dopo due anni rinchiusi nel ghetto di Vienna, dopo aver visto tutti i tuoi amici e parenti che lentamente vengono portati via, te lo aspetti.
Rimasi imbambolato a osservare quei soldati urlare dietro a mio padre e spingere con forza mia madre perché andasse a prendere le cose.
Uno dei soldati mi vide e con un ghigno disse al suo compare
- Ho la sensazione che questo ragazzino abbia bisogno di un incentivo. -
Con il retro del fucile mi diede una forte botta sulla schiena, che mi fece cadere a terra urlante.
I due risero e mio padre, che provò ad aiutarmi ad alzarmi, ricevette la stessa sorte. Mi si inumidirono gli occhi vedendolo così, mentre mi alzavo a fatica, indolenzito. Allungai una mano verso di lui per tirarlo su, ma lui con un gesto della mano mi fermò.
- Vai a prendere quello che ti serve, Genim. -
Anche in una situazione del genere, non riuscii ad trattenere una piccola smorfia. Gli unici che mi chiamavano Genim erano i miei genitori. Per tutti ero Stiles.
Andai in camera mia per mettere in una sacca un cambio, dell’intimo e un paio di maglioni.
Tornai in soggiorno, dove mio padre e mia madre erano già pronti e stavano in piedi di fronte ai soldati, ai nazisti, con uno sguardo fiero e composto.
I soldati ci portarono giù nel cortile dell’edificio ricolmo di persone.
Preceduto da un urlo, qualcosa cadde accanto a me. Mi correggo, qualcuno cadde accanto a me. Una donna si era buttata dal tetto con suo figlio per non farsi prendere e portare via. Avevo sentito che lo facevano, ma speravo di non dovervi mai assistere.
Era pomeriggio inoltrato quando ci fecero salire sul treno. Un grande treno merci, di quelli usati per il trasporto degli animali.
Ma d’altronde era questo che eravamo per loro. Animali.
All’alba arrivammo in questa specie di prigione all’aperto, con queste capanne fatiscenti in cui saremmo stati stipati e una specie di corridoio di filo spinato che portava ad una cava.
Ci fecero scendere dal treno e ci misero in gruppo all’ingresso del campo. Eravamo circondati da soldati armati, senza alcuna possibilità di scappare o provarci soltanto.
Io e mio padre tenevamo stretta mia madre, che piangeva disperata. Quando la strapparono dalle nostra braccia urlò e provò a liberarsi, mentre la tenevo ancora per la mano.
Mi diedero una botta sul braccio con il fucile e la strapparono anche dalla mia stretta. Poi, tenendola per il braccio la portarono in mezzo allo spiazzo e con un ghigno uno dei soldati disse
- Che sia d’esempio. Non provate mai più a fare una cosa del genere. -
E poi le sparò. Dritto in mezzo alla fronte. Io e mio padre urlammo e iniziai a piangere. Corsi per raggiungere quello che ormai era il cadavere di mia madre e i soldati me lo lasciarono fare ridendo crudelmente. La strinsi tra le braccia piangendo e dopo qualche minuto, i soldati, stufi di quella perdita di tempo mi diedero un calcio per farmi tornare nella fila degli uomini, per portarci dentro i cancelli già aperti.
Ci fecero entrare in questi stanzoni dove ci costrinsero a spogliarci dei nostri vestiti per indossare delle specie di ruvidi pigiami a righe.
Poi ci fecero uscire in fila e ci portarono davanti ad un piccolo edificio ad un piano solo, accanto all’edificio principale, in cui probabilmente c’erano tutti gli alloggi dei soldati e dei loro capi.
Io e mio padre, che durante tutto questo mi era rimasto accanto per confortarmi, eravamo circa a metà della fila e un minuto dopo che il primo era entrato, iniziammo a sentirlo urlare.
Quando uscì, poco dopo, dal avambraccio che colava sangue si poteva distinguere un numero appena impresso e aveva i capelli rasati.
In poco tempo toccò a mio padre entrare. Al contrario di molti altri, non urlò e anzi quando uscì il suo sguardo era indifferente. Prima che dovessi entrare mi si avvicinò e prendendomi la spalla mi disse
- Genim, ricordati sempre, se stai attraversando l’inferno.. continua a camminare. - io annuii ed entrai nella piccola stanza sporca.
Dentro c’erano due soldati: uno con in mano un marchio a fuoco e un rasoio elettrico nell’altra, e l’altro accanto alla porta con un fucile in mano.
Quello accanto alla porta mi diede una spinta per farmi andare vicino al marchiatore, che con un ghigno mi chiese
- Come ti chiami? -
- Genim. - sputai tra i denti.
- D’ora in poi sarai 2546. - disse prima di prendermi il braccio sinistro e imprimere quelle cifre sulla mia pelle.
Urlai.
Faceva un male dannato e bruciava da matti, ma la cosa peggiore era essere considerati un numero. Quello bruciava più di tutto il resto.
Dopo avermi marchiato, mi rasò la testa e mi spinse fuori. Raggiunsi mio padre nel gruppo di quelli che erano già stati privati del loro essere.
Quando l’intero gruppo si unì a noi, venimmo portati alla cava.
La strada non era lunga, ma il freddo era pungente e il vento si insinuava tra la pelle e i vestiti, se così si potevano definire.
Dovevamo tagliare le pietre, che sarebbero servite a costruire altri inferni come quello in cui ci avevano portato. Eravamo obbligati a lavorare fino allo sfinimento, fino ad avere le piaghe sulle mani, per fare in modo che altri andassero incontro alla nostra stessa sorte.
Ci diedero dei picconi e ci misero a lavorare, e quando ci raggiunsero anche le donne, pure loro con le braccia sanguinanti e i capelli rasati, costrinsero anche loro a lavorare.
Nel tardo pomeriggio, dopo tutta una giornata passata a spaccare pietre in silenzio, controllati da un esiguo gruppo di soldati - d’altronde chi proverebbe a scappare? - arrivò un uomo con un uniforme lievemente diversa da quella degli altri, aveva 3 quadratini sul colletto. Probabilmente era di grado più alto.
Quando passò, infatti, i soldati lo salutarono con quel loro odioso gesto, che lui ricambiò, ma facendo una piccola smorfia. La cosa mi stupii. Ma mi stupii ancora di più il fatto che lo stessi fissando. Con uno sbuffo tornai a lavorare, anche se mi bruciavano le mani.
Mentre il mio piccone si abbatteva ritmicamente sulla roccia dura sentii l’uomo parlare
- Come vanno i nuovi arrivati? - il soldato a cui si era rivolto gli rispose con un ghigno dicendo
- Benissimo, Tenente Hale, ma si lamentano troppo. - e detto questo fece per colpire col retro del fucile una donna lì vicino, che si era fermata un attimo.
- Fermo! - disse secco il tenente, alzando lievemente un braccio.
Il soldato lo guardò inclinando lievemente la testa, ma rispettò l’ordine.
Diamine, senza accorgermene avevo ripreso a fissarlo, voltandomi verso di lui, ma continuando a picconare.
Evidentemente dovette sentirsi osservato, perché si voltò verso di me e mi fissò a sua volta, con duri occhi verdi. Io distolsi lo sguardo, più per abitudine che per soggezione.
Sentii che stava continuando a guardarmi, sentivo i suoi occhi chiari puntati su di me. Feci del mio meglio per rompere le rocce il più velocemente possibile, ma dopo ore e ore di lavoro, tra le mani indolenzite per il freddo e le braccia sforzate al massimo, il piccone mi cadde per terra.
Incassai la testa nelle spalle, preparandomi a qualsiasi cosa. Mi aspettavo si essere picchiato o calciato, invece, mentre tenevo lo sguardo fisso a terra, sentii un paio di anfibi camminare fino a raggiungermi.
Era il Tenente Hale. Arrivò di fronte a me e mi prese il braccio sinistro, torcendomelo leggermente per leggere il numero. Lo vidi strizzare gli occhi per leggere, per via del sangue che si era incrostato.
- 2546? - inspirai profondamente.
- Si? - chiesi con voce tremolante. Lui mi strinse un po’ il polso.
- Non rispondere. - sussurrò così piano che pensai di essermelo immaginato. Io annuii impercettibilmente, ma lui se ne accorse.
- D’ora in avanti sarai al mio servizio. - disse ad alta voce, prima di mollarmi e tornare dal soldato con sui aveva parlato un attimo prima.
Ero sconvolto. Cosa poteva volere un nazista da me?
- Mandalo nel mio studio ogni mattina e quando non avrò bisogno di lui, ve lo manderò qui. - disse al soldato prima di andarsene, silenzioso come era venuto.
Continuammo a lavorare fino al tramonto, quando ci ricondussero al campo.
Dopo un’intera giornata di lavoro, uno è abitato a ricevere un pasto caldo e saziante.
Noi ricevemmo quella che probabilmente si fingeva una zuppa, ma non era altro che pane secco buttato in acqua con delle verdure bollite.
Disgustoso. Ma tutti mangiammo come se fosse stato il più grande banchetto mai visto.
Dopo “la cena” ci buttarono nelle baracche e semplicemente ognuno tentò di dormire come poteva, buttati gli uni sugli altri, ma almeno così non avremmo avuto troppo freddo..
Mi strinsi il braccio al petto. Mi doleva terribilmente. Sperai che non si infettasse.
 
***
 
Come non detto.
Quando venimmo svegliati, la mattina dopo, guardai il braccio e notai con una smorfia che era rosso e giallo sui bordi.
- Ugh. - arricciai le labbra e mio padre vedendo il mio braccio aggrottò le sopracciglia preoccupato.
Feci un mezzo sorriso per rassicurarlo.
- Va tutto bene, papà, tranquillo. -
Lui mi strinse in un abbraccio veloce, prima di essere costretto a uscire dai soldati. Uno di questi gridò
- 2546! -
Ricordai quello che il Tenente Hale mi aveva detto e non risposi, ma mi avvicinai a passo spedito, per evitare di essere picchiato o che, peggio ancora, picchiassero qualcun altro.
Mi portò in fretta nell’edificio che svettava al centro del campo. Salimmo un paio di piani di scale e in fondo ad un corridoio stava lo studio/camera del Tenente.
Il soldato bussò e una voce stanca borbottò
- Entrate. -
Il soldato aprì la porta e mi spinse dentro. Salutò il Tenente e gli disse
- Se ha bisogno di altro.. - il Tenente lo interruppe e concluse per lui.
- Chiederò a lui. - disse indicando me con un cenno della testa.
Il soldato annuì e se ne andò. Io rimasi in mezzo alla stanza, senza sapere cosa fare.
- Avvicinati. - disse lui.
E io obbedì. Arrivai fino alla sua scrivania, dove mi fermai a guardare i suoi gingilli.
Non era piena di cose, per nulla, ma aveva un che di particolare. Mi piaceva. Mi venne l’istinto di toccare un fermacarte, ma mi trattenni. Non avevo certo voglia di trovarmi senza dita.
- Tira su le maniche. -
Assecondai quella strana richiesta. Lui, vedendo il mio braccio sinistro si accigliò e allungò una mano verso di me. Io torsi un po’ il braccio, pensando che volesse vederlo meglio.
Invece lui mi prese il polso e con una specie di risucchio, le sue vene.. sembrava assorbissero l’infezione.
Spalancai gli occhi per la sorpresa, ma non mi sottrassi a quel contatto.
Staccò la sua mano prima di far rimarginare il marchio.
Staccò la sua mano prima di far rimarginare il marchio.
Aprii la bocca, a metà tra lo spaventato e il curioso, e mi portai il braccio vicino al volto, per guardarlo meglio.
Sembrava effettivamente guarito dall’infezione, mentre la pelle tirava ancora sulla bruciatura. Sapevo che a loro non si potevano fare domande, ma non riuscì a trattenere la mia voglia di conoscenza.
- Come hai fatto? - sussurrai guardandolo negli occhi. Non so perché, ma di lui non avevo paura. Non particolarmente, almeno.
Il suo sguardo si indurì, infastidito, e mi sembrò quasi che i suoi occhi avessero lampeggiato per un secondo di un blu elettrico.
- Non deve interessarti. - borbottò lui. La mia curiosità non poteva certo essere fermata da un “non deve interessarti”.
- Almeno mi puoi dire perché l’hai fatto? - gli chiesi allora, umettandomi le labbra.
Lui me le fissò un attimo prima di rispondere e poi con un sorrisetto appena accennato, mi disse
- Non deve interessarti. -
Io sbuffai e ruotai gli occhi e poi con cattiveria gli dissi
- È anche per colpa tua se sono qui. Dammi solo una ragione e non ti chiederò più nulla. - lui sollevò un sopracciglio e guardandomi fisso negli occhi mi disse
- Ti basti sapere che io non sono come loro. -
Feci un respiro profondo e annuii.
 
***
 
Ogni volta che poteva mi teneva lontano dalla cava, facendomi fare lavoretti come riferire  cose ai soldati in giro per il campo, o preparare i “pasti” per i prigionieri - a volte se riuscivo a non farmi notare infilavo qualche pezzo di carne in mezzo alle verdure -, oppure sistemavo il suo ufficio.
A volte stavo semplicemente seduto di fronte a lui. Non voleva mandarmi alla cava, se poteva evitarlo.
A volte se tornavo da una commissione con una botta o un taglio lui mi prendeva il polso e faceva come il mio secondo giorno di “soggiorno”. Non gli chiedevo più il perché o il come, semplicemente gli sorridevo grato.
A volte gli chiedevo io di mandarmi alla cava, quando non mi dava commissioni. Mi sentivo in colpa a non fare nulla mentre mio padre soffriva e lavorava e rischiava ogni secondo di morire, per un qualsiasi stupidissimo motivo. E Derek - così mi aveva detto di chiamarsi - annuiva comprensivo e mi lasciava andare.
 
***
 
Venimmo svegliati e di corsa ci fecero uscire dal campo per prendere un treno.
Venimmo di nuovo stipati come animali, solo per essere portati in un altro campo.
Questo campo aveva un edificio in più. Sembrava una fornace.
Non avevo nemmeno avuto occasione di ringraziare Derek per tutto quello che aveva fatto.
  
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