Hola, fandom del mio
cuore!
E’ un periodo buono, non succede spesso e per questo butto
giù finché riesco,
prima che tutto mi passi di mente. Quindi, eccomi qui a lasciare un
altro
allegro risultato di un paio di mattine (e una notte!) di voglia di
fare.
Questa è dedicata con
tutto il cuore a Cristina,
che con le sue bellissime storie mi ha insegnato ad
amare le Teen con tutta me stessa!
Sperando in bene, vi
auguro buona lettura!
S.
*
Se c’è
una cosa di cui
John è assolutamente
certo, è che
riuscirà a venire a capo di quell’enigma, in una
maniera o nell’altra.
Ormai è il suo chiodo
fisso da settimane, un pensiero costante e impossibile da scacciar via:
è
diventata una questione di principio, una faccenda d’onore
per il piccolo
coraggioso John Watson.
E’ una mattina di giugno quando quella piccola irritante
situazione si presenta
davanti agli occhi del ragazzino per l’ennesima volta, e John
è tanto, taaanto tentato
d’inseguire quello
strambo ragazzetto e mettere subito fine a quella faccenda. Questo, se
non credesse
fermamente nel risolvere i propri problemi nel modo più
pacato e tranquillo
possibile e, soprattutto, se non fosse già in ritardo per il
pranzo idilliaco
da inizio-vacanze-estive che sua madre gli ha promesso.
Lascia andare, per quel momento. Ci penserà più
tardi, ha già in mente tutto quanto.
E’ stato come ogni altra volta comunque, niente di
più e niente di meno: è
tutto come un rituale, quasi.
John comunque è sicuro di una cosa, sicurissimo:
non dimenticherà mai la prima volta in cui la sua strada
incrociò quella dello
strano, stranissimo figlio minore degli Holmes.
Zaino in spalla e
cestino della merenda in mano, quel mattino di fine maggio John
percorreva il lungo viale che conduceva alla sua scuola, quando una
bizzarra
figura gli si parò davanti a velocità talmente
fulminea da indurlo a credere
fosse stato sparato fuori dalla porta come un uomo-cannone in miniatura.
E, quello che lo
colpì più
di tutto il resto, era che quel ragazzo, più minuto di lui
ma della stessa
altezza, fosse vestito da capo a piedi come se fossero in pieno
dicembre invece
che in un caldo, caldissimo periodo di fine primavera.
Aveva addosso un
pastrano scuro dall’aria pesantissima, John si sentiva
sciogliere soltanto alla vista, con il colletto alzato ad avvolgere una
pesante
sciarpa blu che lasciava scoperti soltanto due occhi straordinariamente
azzurri
e una zazzera di capelli scuri e disordinati.
John si fermò
di colpo, quasi facendo rotolare sull’asfalto il suo
succulento
spuntino, e rimase a fissarlo a bocca aperta.
Temendo di sembrare
maleducato, e a ben pensarci anche abbastanza sciocco lì a
boccheggiare come un
pesce lesso, cercò di ritrovare la parola per rompere in
qualche modo la tensione.
“Ehm…”
disse, con una vocina stridula che non gli apparteneva.
“Ciao. Tu devi
essere... Sherlock, vero?”.
Il ragazzino di fronte a
lui aggrottò le sopracciglia in un’espressione
forse sorpresa, difficile a
dirsi con la faccia quasi tutta nascosta, e John lo vide guardare
altrove come
se non riuscisse a mantenere lo sguardo verso di lui. Non rispose,
nemmeno
mezza parola.
John cominciava a
sentirsi a disagio, decisamente, e prese a fissare l’asfalto
sotto di lui, combattendo con se stesso per non fuggir via in preda
all’imbarazzo.
“Se…
se ti stai chiedendo come conosco il tuo nome, beh, tua madre ha fatto
il
giro del vicinato quando siete arrivati. E lei ha detto alla mia di
avere due
figli, tra cui uno al liceo, quindi ho pensato che tu
fossi…sì, insomma, il più
piccolo”.
Nonostante la nuova
pappardella
di spiegazioni, chiarimenti e vani tentativi da parte di John di
rompere il ghiaccio,
nemmeno quella volta Sherlock lo degnò di una risposta. Il
ragazzino si limitò
ad alzare le spalle e a sistemarsi lo zaino, un borsone apparentemente
pesantissimo
e oltremodo scomodo a causa dell’abbigliamento a strati che
il suo padrone
indossava.
John decise di provare
ancora, ma praticamente ad un passo dal cedere.
“Sei un tipo
silenzioso, eh?” John abbozzò un sorriso,
giocandosi anche la
carta del ragazzino comprensivo e senza puzza sotto il naso.
“Beh, va bene,
tranquillo. Io comunque sono John, se t’interessa”.
Il ragazzo di fronte a
lui, cosa assolutamente insperata, annuì. John intravide
un barlume di speranza in quel gesto inatteso.
“John
Watson” disse, con voce intaccata da una nota sospettosa e
offuscata dalla
stoffa pesante della sciarpa. “Lo so chi sei”.
John sorrise, felice di
essere finalmente riuscito a sciogliere il suo nuovo
quasi-vicino-di-casa, e accennò
un passo avanti provocando del tutto inaspettatamente una strana
reazione del
nuovo arrivato.
Sherlock si
scostò rapidamente di un paio di passi appena, come se John
avesse una
malattia altamente contagiosa e lui non potesse permettersi di
prenderla. Il
ragazzino dai capelli biondi lo squadrò, torvo, cercando di
capire il motivo di
quell’ennesimo bislacco comportamento.
“Sei un tipo
particolare, eh, Sherlock?” John piegò il capo,
studiandolo.
Magari era stato solo sbilanciato dal grosso zaino, John
pensò. Magari era
stato solo un gesto involontario e non uno stizzito ritrarsi dalla sua
vicinanza.
Sherlock non rispose, a
parte la solita scrollata di spalle, e la cosa non
stupì il biondino più di tanto, visti i
precedenti. Improvvisamente poi, Sherlock
prese a guardarsi intorno, agitato, come alla disperata ricerca di
un’ipotetica
via di fuga. John, a quel punto, cominciò a sentirsi davvero
di troppo.
“Senti,
andiamo a scuola insieme?” John propose in extremis, testando
la
propria teoria e avvicinandosi nuovamente per proporgli di aiutarlo a
portare
qualche libro. “Ti do una mano con quelli”.
In quel momento, John
ebbe la conferma chiara e palese della sconfinata stranezza
di quel tipo, e fugò completamente ogni dubbio sul possibile
fraintendimento
riguardo a poco prima. Sherlock si esibì in un perfetto
balzo olimpionico
all’indietro al minimo accenno di John di volersi
ulteriormente avvicinare.
“Io
devo…” sussurrò, esitante.
“Io devo andare” concluse, con voce arrochita
dalla tensione.
Dopo aver pronunciato
quella frase di congedo con sforzo apparentemente enorme,
svicolò verso il largo a passo rapido, nonostante il
voluminoso ingombro sulle
spalle, il più lontano possibile dal biondino.
Scivolò con l’agilità di una
volpe dietro una delle villette, correndo a tutta birra e sparendo
completamente dalla vista di John.
“Ehi!”
John provò a gridare, nel tentativo di fermarlo e di avere
un minimo di
spiegazione. “Torna qui!”
Gli corse dietro invano,
affacciandosi dalla staccionata del cortiletto che chissà
come Sherlock aveva
scavalcato, ma non riuscì a scorgerlo, probabilmente
già lontano.
Succede ogni mattina lungo
la strada per la scuola e ogni pomeriggio al ritorno verso casa, per
non
parlare delle domeniche in cortile durante le partitelle di calcio con
gli
altri bambini del quartiere, dove Sherlock sbuca da dietro qualche
albero a
dare un’occhiata, rimanendo anche lì per ore, per
poi dileguarsi più veloce
della luce appena John, o qualcun altro, punta lo sguardo verso di lui
facendo
cenno di avvicinarsi.
Lo evita, fuggendo via
ogni qual volta lo vede, scappando senza nemmeno più avere
premura di non
lasciarglielo intendere, di non fargli sospettare che si comporta in
quel modo
per causa sua.
John non sa dire se è paura quella che muove Sherlock, o un
qualunque altro
sentimento che non riesce a capire. Non gli ha mai fatto niente, in
fondo, non
ci ha nemmeno mai parlato abbastanza a lungo da far si che nascesse una
qualsiasi
forma di antipatia verso di lui.
A scuola, durante tutte le
lezioni, nessuna esclusa, rimane relegato all’angolo
dell’aula in un banco
lontano dal resto del gruppo, sempre nel suo cappotto scuro e sciarpa,
a capo
chino sul libro e senza prestare la minima attenzione ai suoi compagni
di
classe o a tutti gli altri studenti in generale.
O meglio, quasi tutti.
Perché John vede, e
questo lo rende ancora più
curioso e inquieto al riguardo, che Sherlock è solito
fissarlo quando si
apposta davanti alla sua aula durante l’intervallo, quando
sa, o meglio pensa, che John non
possa vederlo. Sente
il suo sguardo dietro di lui come se fosse solido, come se quello
potesse
bussargli sulla spalla come fa Harry quando lui si addormenta con le
cuffie e
il walkman a tutto volume.
E’ frustrante,
incredibilmente demoralizzante soprattutto perché John
non lo odia, affatto, ma è mosso da una curiosità
folle di far luce su quella
faccenda che lo costringe a rimanere sveglio la notte, qualche volta.
Il pranzo della mamma è buonissimo ma John non riesce a
goderselo come
dovrebbe, rimanendo imbambolato a fissare un punto indistinto del muro
con la
forchetta a mezz’aria, pensando e ripensando alla sua missione.
“John? Tesoro?” sua madre
rompe il silenzio, accorgendosi dell’aria stralunata di suo
figlio. “Qualcosa
non va?”.
John si risveglia momentaneamente dalla trance ipnotica in cui si
è abbandonato
e fissa sua madre per qualche secondo prima di metterla bene a fuoco,
ricordando la domanda che gli ha appena posto. Una ridacchiante Harry,
però,
anticipa la sua risposta.
“John è innamorato” sua sorella esclama,
mandando giù una forchettata di dolce.
“di quello svitato del figlio degli Holmes,
Sherlock”.
John la guarda a bocca aperta, visibilmente sconvolto. Stringendo la
brocca dell’acqua
tra le mani, medita seriamente di svuotarla sulla testa di sua sorella
invece
che nel suo bicchiere.
“Harry…” John dice a denti stretti, con
sguardo assassino.
La ragazza lo guarda con espressione strafottente, mangiucchiando
l’ultimo
boccone con fare antipatico.
“Ma è vero” Harry continua, per nulla
intenzionata a metter fine all’argomento.
“Ci pensa in continuazione. Lo sento parlare da solo, certe
volte”.
“Smettila!”.
“Almeno so cosa regalarti a Natale, marmocchio. Un bel
cappottino come quello del
piccolo pazzoide. Tu a lui potresti regalare un bel costume da bagno da
mettere
a dicembre”.
“Harry, ora basta” la madre di John, per fortuna,
sembra voler dargli manforte.
Harry si zittisce, imbronciata.
“E’ vero, però. E’ il tipo
più strano che io abbia mai visto” dice
un’ultima
volta, prima di ricevere una nuova occhiata severa da parte di sua
madre, che
la convince a restar zitta del tutto.
“Cosa ti preoccupa, John?” la donna chiede a suo
figlio, con un sorriso
gentile. John si sente arrossire, senza poterci fare niente. Alza le
spalle,
sperando che non fraintenda.
“Io…” John tenta di spiegare, prendendo
un respiro profondo. “Io vorrei capire
perché si comporta in quel modo strano con me. Non fa che
evitarmi da quando ci
siamo conosciuti”.
Harry borbotta qualcosa tra sé e sé,
ridacchiando, qualcosa di curiosamente
simile a ‘sei un tale
rompiscatole’.
John le fa la linguaccia, arricciando il naso.
“Sarò anche un rompiscatole, ma non ha avuto
nemmeno il tempo di capirlo, lui”
John spiega, lasciando perdere sua sorella e tornando a sua madre.
“Per questo
vorrei capire che succede”.
Sua madre annuisce,
comprensiva ma pensierosa, e sorride raccogliendo il piatto vuoto di
John e le
sue posate. Si alza per riporre le stoviglie nel lavello in cucina e ne
approfitta
per scompigliare i capelli biondi del figlio, in un gesto
d’affetto.
“Allora non vedo perché tu non possa fare una
capatina a casa Holmes” la madre
propone, e John è felicissimo di aver trovato almeno la sua
approvazione. “La
signora Violet è una donna molto simpatica, sai? Sono sicura
che apprezzerà il
tuo interessamento”.
John le sorride, cercando ancora di ignorare Harry tornata
all’attacco. Adesso,
anche se cerca in tutti i modi di ignorarla, sta blaterando qualcosa su
delle
nozze imminenti e così via.
“Allora andrò, mamma. Grazie per
l’incoraggiamento” John si alza e la raggiunge
in cucina per stringerla in uno dei suoi abbracci stritolanti. La
Signora
Watson ridacchia, ricambiando la stretta con affetto.
“Ma ti pare, piccolo mio?”
la donna esclama, condendo il tono di voce dolce con la sua risata
cristallina.
Afferra poi un sacchetto di carta riposto vicino alla credenza e la
porge a
John, sventolandoglielo davanti agli occhi. “Magari porta
un’offerta di pace,
che dici?”.
John sorride, allegro, e inspira il profumo dolciastro degli scones alla marmellata preparati da poco.
Afferra il sacchetto e da un bacio a sua madre, prima di infilarsi di
tutta
fretta le scarpe correndo a perdifiato verso la porta.
“Portaci notizie sul lieto evento, al tuo ritorno”
Harry lo sbeffeggia ancora,
mentre sale le scale per camera sua. John tira fuori la lingua e le
chiude
quasi la porta in faccia, precipitandosi nel cortile deserto.
John cammina a passo
spedito lungo il viale silenzioso, a quell’ora lo
è pressoché sempre,
guardandosi intorno e godendosi il rumore delizioso dei suoi dolcetti
che
saltellano nella busta. Pensa a cosa sarà meglio dire, una
volta arrivato a
casa Holmes: in fondo non l’hanno mai visto. Comincia a
sentirsi leggermente in
ansia man mano che costeggia i vari vialetti delle ville, pensando che
forse
non è un’idea così buona, che magari
Sherlock lo avrebbe cacciato o si sarebbe
infuriato: dopotutto non lo conosce affatto bene. Anzi, a dirla tutta,
non lo
conosce quasi per niente.
Le gambe diventano pesantissime una volta arrivato a meno di due metri
dalla
porta d’ingresso di casa Holmes, come se qualcuno avesse
improvvisamente colato
cemento nelle sue scarpe da ginnastica. Cercando di calmare il
fortissimo
batticuore che lo sta attanagliando, John si avvicina ancora di
più al
campanello. Allungando tentennante una mano, finalmente lo suona, una
volta per
tutte.
Attende qualche secondo, un lasso di tempo che sembra durare interi
millenni,
prima che qualcuno finalmente gli apra la porta.
La persona che gli si para davanti sulla soglia dell’ingresso
è una bella
signora dai lunghi capelli neri raccolti in una treccia e due vividi e
vivaci
occhi azzurri, identici a quelli di Sherlock. Sicuramente è
sua madre.
Appena la donna lo vede gli sorride bonaria, incrociando le braccia e
studiando
il nuovo arrivato con espressione curiosa.
“Salve” dice la donna, e il sorriso diventa
più ampio. “Chi ho il piacere di
conoscere?”.
John boccheggia
impacciato, cercando qualcosa di abbastanza creativo e intelligente per
spiegare
la sua presenza lì, e si morde nervoso l’unghia
del pollice destro, prima di
tornare a guardare la donna negli occhi.
“Buona- buonasera, Signora” fosse mai che John
risultasse maleducato davanti a
un’adulta. “Sono John, il figlio dei Watson, di
qualche villetta più avanti”.
La donna sembra illuminarsi alla nuova gradita scoperta.
“Oh, John sì!” sembra ricordare
all’improvviso. “Sei il fratello di Harry,
vero? Ragazza adorabile”.
John storce leggermente il naso a quell’affermazione. Avrebbe
qualcosa da dire
al riguardo, definire Harry ‘adorabile’
è un po’ come definire uno squalo tigre
‘mansueto’ ma
preferisce sorvolare.
“Sì, io. Volevo…volevo sapere se
Sherlock è in casa” finalmente tira fuori il
motivo della visita, togliendosi un gigantesco peso sul cuore. Sente di
aver
fatto un enorme passo avanti e questo lo rassicura sulla buona riuscita
della
missione.
La donna sembra
leggermente stupita dalla richiesta, come se non capitasse spesso che
un
ragazzino chiedesse notizie del suo figlio minore.
“Oh sì, è in casa. E’ di
sopra in camera sua. Vuoi salire?” la donna domanda e
John non potrebbe chiedere di meglio. Non gli ha nemmeno domandato il
motivo di
quella richiesta. Oh, sembra Natale!
John annuisce con energia.
“Sì, mi piacerebbe molto” risponde,
entusiasta.
La Signora Holmes apre la porta, invitandolo a entrare, e John fa
capolino
nell’ingresso, guardandosi attorno con curiosità.
La donna gli indica con la
mano la lunga scalinata tappezzata di moquette rossa che porta al piano
di
sopra.
“La seconda porta a destra, caro” gli dice.
La madre di Sherlock assume poi un’espressione dubbiosa, come
se volesse
confessare qualcosa che avrebbe preferito non dire.
“Però ti avverto, è un
po’…strano, ultimamente”.
John vorrebbe scoppiare a ridere ma riesce a contenersi, in un modo o
nell’altro. Annuisce e sorride, per farle capire che lo sa e
che è pronto ad
affrontarlo.
“Lo so bene, Signora, non si preoccupi” le sorride
un ultima volta e lei, per
fortuna, sembra rassicurarsi all’istante.
John sale veloce la scalinata,
attento a non fare troppo rumore, e qualche secondo dopo arriva davanti
alla
porta indicatagli dalla padrona di casa. Bussa senza esitazioni questa
volta,
aspettando una risposta che non tarda ad arrivare.
“Ti ho detto che non ho fame, mamma!” una voce, per
la prima volta chiara, lo raggiunge.
John respira profondamente, preparato
all’eventualità di non essere atteso.
“Ehm…ciao Sherlock” dice, a voce alta ma
non abbastanza da farsi sentire da
chiunque occupi le altre stanze. “Sono…sono
John”.
Un rumore acuto e fragoroso prende John alla sprovvista: è
simile al rumore di
qualcuno che cade rovinosamente sul pavimento da una modesta altezza.
Spera con
tutto il cuore che la sua presenza non avesse fatto sì che
Sherlock si
spaventasse così tanto da cader giù dal letto o
da una scala.
“Tutto bene?” John domanda, allarmato.
“Posso…posso entrare?”.
Nessuna risposta.
“Sherlock?”.
“Che ci fai qui, John?” finalmente il ragazzino
dall’altro lato della porta
risponde. “Perché
sei salito?”.
John si sente un po’ in colpa, ma dura solo qualche secondo:
non è lui quello
in difetto, a conti fatti.
“Perché voglio parlare con te. E parleremo, una
volta per tutte”.
“Non ho niente da dire”.
“Troveremo qualcosa, Sherlock”.
“Non ne sarei tanto sicuro”.
“Tu lasciami entrare e fammi provare”.
“No grazie”.
John punta i piedi e incrocia le braccia, appoggiandosi con la fronte
alla
porta di legno scuro come un ariete pronto a sfondarla.
“Smettila di fare il bambino”.
John lo sente ridacchiare dall’altra parte, sarcastico.
“Ho nove anni. Sono un bambino”.
John è leggermente
spiazzato dalla risposta. Di solito quella frase aveva sempre
l’effetto
desiderato sulla testa dura di turno.
“Sì sì, va bene, come vuoi”
butta lì, cercando di non perdere la motivazione.
“Ti prometto che non mi tratterrò molto.
E…e se vuoi, starò lontano”.
Il ragazzino nella stanza
non ribatte immediatamente e questo fa ben sperare John sulla
possibilità di
averlo convinto. Rimane ad aspettare pazientemente, battendo la punta
del piede
contro il battiscopa del muro, contando mentalmente i secondi.
“Quanto lontano?” sente poi domandare Sherlock.
John sospira. Non credeva di possedere tutta quella pazienza.
“Quanto vuoi tu” risponde, senza via di scampo.
Qualche secondo dopo, un clic metallico annuncia a John il proprio
meritato
successo. O almeno, di quello della prima parte del piano. Appena John
entra,
facendo cigolare la porta più del dovuto, si ritrova nella
stanza più grande
che avesse mai visto in vita sua.
E’ molto ma molto probabile che la propria stanza e quella di
Harry potessero
facilmente entrarci, senza nemmeno chissà quale sforzo. Un
grande letto a
baldacchino, come uno di quelli descritti nei libri
d’avventura che John tanto
adora, fa la sua bella figura sulla parete opposta alla finestra e i
muri
ricoperti di carta da parati rossa sono quasi spogli, a parte qualche
poster
incorniciato e un paio di grandi stampe di quadri antichi. John non ha
mai
visto la stanza di un bambino che assomigliasse anche solo vagamente a
quella
dove lui è adesso.
Sherlock è su un angolo
del letto, avvolto in quello che sembra un vecchio plaid scozzese e
rannicchiato con le gambe talmente strette al petto da spingere John a
credere
che non volesse condividere con lui nemmeno un pizzico di spazio in
più di
quanto fosse strettamente necessario.
John, senza sapere dove
andare o quanto avvicinarsi, decide di sedersi alla sedia imbottita di
fronte
alla scrivania, quattro metri abbondanti a separarlo dal letto.
“Ciao Sherlock” John dice
ancora, cercando di rasserenare l’atmosfera già
carica di tensione.
Sherlock si rannicchia
ancora di più contro la testiera, gli occhi vispi puntati
però totalmente su
John.
“Perché sei venuto John?
Non dovresti essere qui” dice tutto d’un fiato,
come se volesse limitare al
minimo il loro già difficile colloquio.
John sente il cuore sobbalzargli in gola a quelle parole, ma
è deciso a non
farsi prendere dallo sconforto, dalla rabbia o da qualunque altro
sentimento
che possa distrarlo dalla sua meta.
“Lo sai perché sono qui” John dice, e il
suo tono è talmente sicuro da non
farlo sembrare più un bambino di undici anni, ma un uomo
fatto e finito.
“Voglio solo sapere perché ti comporti
così con me”.
Sherlock spalanca gli occhi, l’unica reazione che John
può notare dalla fessura
lasciata dalla coperta, e lo vede agitarsi sul copriletto color crema
su cui è
seduto. Un piede nudo spunta da sotto il plaid, ritornando nel suo
rifugio un
secondo dopo.
“Cosa c’è che non va nel mio
comportamento?” Sherlock domanda, a voce flebile.
John non può seriamente credere che quel ragazzino gli
stesse davvero ponendo
quella domanda.
“Il problema, in fondo, è che non ti comporti
affatto” John spiega, sperando che capisse. “Mi
eviti. Scappi via. Fuggi
lontano appena mi vedi, nemmeno avessi la peste o che so io”.
Sherlock tossisce contro
la stoffa rossa della coperta, e distoglie lo sguardo da John,
volgendolo alla
finestra e contemplandola con sguardo vacuo.
“E ti da fastidio?” chiede.
John non può crederci. Si domanda se lo stesse prendendo in
giro. Ha davvero
chiesto se…gli da fastidio?
“Certo che mi da fastidio!” il tono di John questa
volta è leggermente più
imbronciato. Si mette a braccia conserte e allunga le gambe, nella sua
classica
posizione da offeso. “Io volevo solo esserti amico”.
Sherlock, dopo quella
frase, sembra salvarsi da una comica caduta dal letto soltanto
aggrappandosi
saldamente a uno dei pomi lignei della testiera. E’ come
sconvolto, e il suo
gemito di sorpresa è talmente forte da essere udito da John
quasi dall’altra
parte della stanza.
“Sherlock?” John fa per alzarsi, ma rinuncia
immediatamente davanti
all’espressione di Sherlock. “Tutto
bene?”.
Il ragazzo sul letto annuisce, sistemandosi nuovamente la coperta. John
può
vedere il suo petto alzarsi e abbassarsi energicamente, come se il suo
respiro
fosse improvvisamente diventato pesante. E’ palesemente
nervoso, John non ha
dubbi.
“Tu… tu non puoi essermi amico, John”
Sherlock risponde dopo un’evidente lotta
interiore con se stesso. “E’…
è anche per questo che io…che io non sono gentile
con te”.
John abbassa lo sguardo per un secondo, indeciso tra l’essere
perplesso o
demoralizzato da quella risposta. Sospira.
“E si può sapere perché?”
domanda, cercando di non mostrare tutto il disappunto
che comincia a provare. Per fortuna il suo tono di voce si mantiene
paziente,
tranquillo.
“Perché io…” Sherlock
risponde di nuovo senza pensare. Si blocca e John può
leggere nei suoi occhi quanto è combattuto sul continuare o
meno quella frase.
Per fortuna di John, sembra optare per la prima ipotesi.
“Perché io non sono geneticamente
predisposto per avere
amici”.
John ammutolisce, messo in difficoltà da
quell’affermazione. Non ha mai sentito
una cosa del genere in vita sua; se è davvero una scusa per
liquidarlo, è
certamente la più fantasiosa che abbia mai sentito.
“Che cavolo vuol dire, Sherlock?” è
deciso a non chiudere lì la faccenda, il
piccolo tenace John, e questo sembra spiazzare Sherlock.
“Vuol dire… ecco, vuol
dire che non posso averne” Sherlock continua, impacciato,
perdendo tutta la sicurezza
che sembrava averlo pervaso fino a dieci secondi prima. “Che
non sono capace di
trovarne e che nel caso ci riuscissi, non saprei… tenermeli.
Oltre alla
questione di… di quello che farei loro se gli stessi
vicino”.
John è allibito, basito, stranito all’ennesima
potenza da quello che ha appena
sentito. Possibile che qualcuno gli avesse davvero messo in testa un
concetto
simile e che lui gli avesse veramente
creduto?
“Chi ti ha detto una stupidaggine del genere?” John
chiede. “E cos’è che
succederebbe se tu stessi vicino a un… amico?”.
Sherlock volta di nuovo lo sguardo alla finestra, probabilmente di
nuovo
riflettendo se fosse il caso di aprirsi ancora. La coperta scivola
distrattamente oltre la sua bocca e John lo vede mordersi convulsamente
il labbro
inferiore, nervoso.
“C’è mio fratello, Mycroft
sai. E’ grande” sposta di nuovo lo sguardo a John.
“Lui ha portato a casa dei
compagni di classe quando ci siamo trasferiti qui”.
John annuisce. Vuole
davvero sapere dove sarebbe andato a parare.
“E… lui ha raccontato loro di me. Di tutti i libri
che ho, degli esperimenti in
cantina, degli insetti che tengo nel frigorifero e del fatto
che… che a scuola
io non abbia nessuno che mi calcoli e cose così”
comincia, ma sembra
visibilmente a disagio.
John sente un moto di
rabbia crescergli nel cuore.
“Ti piace leggere?” John cerca di smorzare la
tensione. E’ ammirato, in un
certo qual modo.
Sherlock annuisce, e dagli occhi, John può quasi intravedere
un sorriso
nascosto.
“Molto”.
“E hai… un laboratorio in cantina?”
domanda ancora, sempre più curioso.
“Sì”.
“E tieni… tieni degli insetti in
frigorifero?”.
Sherlock fa spallucce, come se non trovasse la cosa granché
sconvolgente.
“Qualche volta. Quando servono” è la
risposta di Sherlock.
John è sempre più curioso. A quanto sembra,
Sherlock è un tipo molto più
particolare di quanto avesse anche solo immaginato.
“E quand’è che servirebbero?”.
“Quando l’esperimento che faccio li
richiede” Sherlock dice, e John intravede
una nota di fierezza nella sua voce. “Il mese scorso ho
catalogato tutti i
coleotteri per colore, dimensione e caratteristiche”.
John ridacchia, confortato
da quanto Sherlock si fosse sciolto negli ultimi cinque minuti. Sembra
che
parlare di quello che ama e che lo fa sentire bene lo renda molto
più spigliato
e socievole.
“Wow” John esclama, ammirato per davvero.
“Beh, è figo. E’ un passatempo
diverso dalle solite partite a calcio o ai videogiochi, ecco. Non
c’è niente di
male”.
Sherlock borbotta qualcosa di risposta, ma John non riesce a sentirlo.
Alza un
sopracciglio e lo fissa, curioso.
“Questo lo dici tu” esclama poi il ragazzino dai
capelli scuri, con tono cupo.
“Certo che lo dico io” John esclama, sicuro di
sé. “Cosa ti hanno detto gli
amici di tuo fratello?”.
Sherlock si stringe nel suo rifugio e guarda in basso, come se sul
pavimento ci
fosse qualcosa di estremamente affascinante da studiare con cura e
dovizia.
Sospira e scuote la testa, combattuto.
“Non dovrei dirtelo. Non l’ho detto a
nessuno” confessa. “Può essere
pericoloso”.
John alza le spalle e
sorride a Sherlock, rassicurante. Non potrà certo continuare
a nascondersi in
fondo, e John è pronto ad aiutarlo, qualunque cosa abbia da
dire.
“Tu provaci” John lo incoraggia, senza perdere mai
il sorriso. La mamma gli ha
detto che ha un sorriso confortante, una volta, e John non vede motivo
per non
sfruttare quel dono, in quella situazione. “Non
scapperò via terrorizzato”.
Sherlock sembra esitare, in un primo momento. Poi tira un gigantesco
sospiro,
così profondo che John teme possa risucchiare tutta
l’aria nella stanza, e
accenna un sorriso senza allegria.
“Mi hanno detto che ho un carattere orribile. Che sono un
piccolo psicopatico e
che quando crescerò, sarà anche peggio”
comincia, ma il suo sguardo è
nuovamente altrove. “E che chiunque, che non sia della mia
famiglia che ormai
è…immune,
rischierebbe di diventare come
me se solo mi stesse vicino”.
Il sollievo sul volto di
Sherlock è palpabile quando l’ultima sillaba di
quella frase scivola via dalle
sue labbra, con uno sforzo enorme. John resta letteralmente
pietrificato sulla
sua sedia dopo la confessione del ragazzino, impossibilitato a muovere
qualunque muscolo del corpo. E’ quello
che gli ha tolto il sonno per innumerevoli notti? E’ davvero
quello il motivo
principale di quella situazione che l’ha spinto a tormentarsi
dalla curiosità
per giorni interi? Per fortuna, la lingua sembra funzionargli ancora.
“E’ per questo che vai in giro così? Per
non…Oh mio Dio” John è indeciso su
cosa pensare. “Questa è l’idiozia
più… più colossale che io abbia mai
sentito
in undici anni di vita” John esclama, indignato.
“E’ la cosa più stupida e
inverosimile del mondo, Sherlock!”.
Sherlock sembra interdetto da quella reazione. Cosa si era aspettato?
Che
scappasse via a gambe levate per evitare il contagio?
“Ma… ma loro sono al liceo”
Sherlock tenta di spiegare, preso
in contropiede. “Hanno studiato più di me. Loro
sanno certe cose e deve… deve
essere vero”.
John sa che non è la cosa corretta da fare al momento, ma
non riesce a bloccare
la risata enormemente divertita che lo coglie di sorpresa.
“Oh, Sherlock!” John esclama, tra le risate.
“Anche mia sorella va al liceo e
mi chiama lombrico ma non per
questo
io sono convinto di esserlo veramente!”.
La questione sembra
sollevare un ragionevole dubbio nella mente del ragazzino dai capelli
scuri,
che lascia distrattamente scivolare la coperta fino a scoprirgli
addirittura il
collo e il bordo blu scuro della maglietta che indossa. John
è sicuro che se si
concentrasse a dovere riuscirebbe a vedere tutti i pensieri di Sherlock
rincorrersi nella sua mente veloci come fulmini, magari su un paio di
gambette come
in un buffo cartone animato.
“Io… io però non so, John. E se
avessero ragione?” Sherlock dice, con voce
incerta. “Io non voglio che qualcuno
diventi…così, anche se io non ho mai…
anche se io non mi sono mai sentito diverso”.
“Sherlock…”.
“Lo vedo che la mamma sta male a volte, per quello che
faccio. La sento
parlarne quando pensa che io non la ascolti. E tu sei un tipo a posto.
Non
voglio che … che… non voglio che ti succeda
niente”.
Sherlock arrossisce
furiosamente, senza poterlo evitare. Tira nuovamente su la coperta ma
non serve
a molto, a danno già fatto. John ha già visto,
ed è enormemente, spaventosamente lusingato,
da quella frase.
Le sue labbra si aprono in
un sorriso ancora più ampio e Sherlock lo fissa sbalordito:
molto probabilmente
non è la reazione che si sarebbe aspettato da parte di John.
“E’ molto… molto bello da parte tua
volermi… ehm…” John cerca il termine
giusto, non potendo evitare che anche le sue guance assumessero un vago
colorito roseo. “…proteggere. Però
davvero, non ce n’è bisogno. Stai
perfettamente bene, Sherlock, e non devi vergognarti di ciò
che sei. Mai”.
Sherlock non sa cosa
rispondere e si limita a piegare leggermente il labbro,
nell’imitazione di un
piccolo sorriso.
“E soprattutto, non devi credere a qualunque stupidaggine ti
venga detta da
qualcuno che si finge migliore di te” John afferma, sicuro di
sé.
Sherlock si perde per un
secondo in fantasticherie, probabilmente elaborando il nuovo flusso
d’informazioni. Alla fine solleva le spalle e annuisce fra
sé e sé come se in
quel modo tentasse di convincersi definitivamente della cosa.
John, leggendovi un segnale positivo, si alza finalmente dalla sedia e
comincia
ad avanzare verso il bel baldacchino su cui Sherlock è
ancora seduto. Il ragazzino
salta giù dal materasso appena lo vede arrivare, forse
ancora non del tutto
convinto dalle rassicurazioni di John. Si appiattisce contro il muro,
guardandosi intorno per eventuali vie di fuga.
“Sherlock, mi hai sentito no? Devi stare
tranquillo!” John sbuffa, mettendo le
mani sui fianchi in una buffa imitazione di sua madre quando
è arrabbiata con
lui.
Sherlock annuisce ma esita ancora, per un motivo o per
l’altro.
“Ma non posso rischiare” Sherlock esita ancora.
“Tu sei l’unico che mi abbia
mai prestato un po’ d’attenzione.
Se…”.
John, a quel punto, decide
di lasciar finalmente perdere le parole e passare definitivamente ai
fatti,
davanti alla ritrosia del piccoletto. Allunga una mano rapidamente,
evitando
così che Sherlock potesse premeditare il gesto, e sfila via
il plaid dalla sua presa
salda, scoprendo completamente l’intera figura del ragazzino
per la prima volta
da quando si sono conosciuti. L’espressione di Sherlock
è un cocktail di
stupore, sorpresa e assoluto terrore. Non è abituato a
essere colto alla
sprovvista, questo è chiaro come la luce del sole.
Lapalissiano.
“Sei pazzo, John?” Sherlock sussurra, allibito,
guardando la carta da parati
della stanza come se volesse cercare riparo anche in quella.
“Sappi che non
sarà colpa mia quello che succederà!”.
John ridacchia, scuotendo
la testa.
“Non accadrà assolutamente nulla, Sherlock. Anzi,
adesso vedrai, farò di
meglio” il tono di John è calmo e pacato, ma alle
orecchie di Sherlock suona
come la peggiore delle minacce a giudicare dalla sua espressione.
“Che vuoi fare?” domanda Sherlock, incerto.
“Voglio avvicinarmi ancora” John risponde, con
tutta la sicurezza del mondo.
Sherlock è stretto nell’angolo accanto al letto,
senza possibilità di scappar
via in una qualunque direzione senza che John potesse facilmente
agguantarlo.
“E perché vuoi avvicinarti ancora?”.
“Per dimostrarti che le
tue paure sono del tutto
infondate”.
Sherlock lo osserva
curioso, tentando di anticipare le mosse del biondino. Peccato che in
quel
momento la mente di John rappresenti una fortezza del tutto
impenetrabile,
anche per qualcuno abituato a leggere
i pensieri come lo è Sherlock.
“E come?”.
John sorride. Cerca di essere il più convincente e
rassicurante possibile.
“Ti darò un bacio” esclama, tranquillo.
“Sulla guancia, è ovvio”.
A
quell’affermazione Sherlock sobbalza sul
posto, le braccia tese lungo i fianchi e la bocca aperta in
un’espressione di
stupore. E’ immobile sul posto e non muove nemmeno un dito,
come se si fosse
improvvisamente trasformato in una delle statue di cera del Madame
Tussauds.
“Tu… tu stai dicendo sul
serio?” balbetta, esitando.
John annuisce. Non è mai stato più certo di
qualcosa in vita sua.
“Ovviamente. Ti dimostrerò che i compagni di tuo
fratello sono solo degli
stupidi senza cervello”.
Sherlock abbassa lo
sguardo, tornando a fissare il pavimento. Dopo qualche secondo di
esitazione
però, torna a guardare John con uno strano e determinato
luccichio a
illuminargli i begli occhi azzurri.
“Fallo allora” finalmente lo esorta, annuendo tra
sé e sé per darsi coraggio.
“Ora”.
John non se lo fa ripetere
e si china verso il ragazzino più piccolo, afferrandolo
delicatamente per le
spalle e sporgendosi a poggiare dolcemente le labbra sulla guancia
rossa e
calda di Sherlock. Il contatto tra la bocca di John e la pelle liscia
del viso
di Sherlock è fugace ma elettrizzante, forte
in qualche modo. Al primo tocco Sherlock sente un brivido piacevole
attraversargli la schiena, lo stesso che scuote anche John, ma
è una sensazione
a cui nessuno dei due riesce a dare una spiegazione plausibile. Forse
lo
capiranno più tardi, in quel momento non ha importanza.
Forse fra qualche tempo.
John si allontana dal viso
di Sherlock e sorride soddisfatto, anche se non può fare a
meno di avvampare
furiosamente anche lui dall’imbarazzo.
Si scompiglia nervosamente
i capelli, cercando di non dare un’impressione sbagliata a
Sherlock. Il
ragazzino, dal suo canto, fissa John come se non avesse mai visto nulla
di più
interessante e affascinante in tutta la sua vita.
“Visto, Sherlock?” John
domanda, curioso di conoscere le impressioni del piccoletto dai
riccioli scuri
che ancora non ha smesso di fissarlo. Sherlock deglutisce, idratando la
bocca
incredibilmente asciutta.
“Ecco, sì” Sherlock esclama, con una
vocetta quasi comica. “Io… io penso che tu
abbia ragione”.
John si lascia andare ad
un verso di giubilo e felicità, stringendo i pugni e
sventolandoli in aria,
come un condottiero giunto vittorioso al termine di una guerra.
“E comunque nessuno mi aveva mai dato un bacio,
prima” Sherlock sente l’innato
bisogno di aggiungere, poi. “Oltre la mia famiglia,
intendo”.
Se John non credesse nell’impossibilità di una
combustione spontanea senza un
elemento innescante, penserebbe di poter prendere fuoco
nell’esatto momento in
cui Sherlock conclude la frase.
“Oh, beh…” cincischia. “Era
per dimostrare un punto, ovviamente”.
Sherlock è più che felice
di dargli corda, rosso fino alla punta dei capelli come John.
“Per la scienza”.
“Ecco sì. Per la scienza”.
Il silenzio cala pesante
fra i due, dopo quell’ultimo imbarazzato scambio di battute.
John adocchia
l’orologio, accorgendosi all’improvviso di quanto
fosse tardi. Sarebbe dovuto
tornare a casa di corsa, anche se sa che la mamma lo avrebbe facilmente
perdonato quando avrebbe saputo della buona, buonissima riuscita della
sua
missione.
“Io… io comunque dovrei andare, adesso”
John balbetta, giocherellando con le
mani. “Mi… mi ha fatto piacere aver chiarito,
comunque”.
Sherlock lo guarda con occhi spalancati e accenna nuovamente un piccolo
sorriso, molto più sereno però, rispetto a quello
incerto e imbarazzato di poco
prima.
“Anche a me” risponde il ragazzetto più
piccolo, tirandosi una manica del
pigiama azzurro. “Ed ecco, mi chiedevo…”.
John si ferma, curioso, anzi curiosissimo
di ascoltare Sherlock.
Spera in cuor suo, che
stia per domandargli quello che nel suo cuore sta desiderando
più di ogni altra
cosa.
“Mi chiedevo se non potessi tornare per… per
confrontare i dati” domanda. “Sai,
nel caso gli effetti della cosa si presentassero… con un
po’ di ritardo”.
John è sicuro che quello fosse l’invito
più strano e originale che un suo quasi
coetaneo gli avesse mai rivolto in tutta la sua vita ma non importa,
anzi.
L’unica cosa importante è che Sherlock gli avesse
chiesto di rivederlo.
John annuisce con molto più entusiasmo di quanto avesse
programmato di
mostrare.
“Ne sarei contento” risponde, sincero. Adocchia di
sfuggita il sacchetto di
dolcetti che ha posato sulla scrivania secoli prima, mordendosi la
lingua per non
essersene ricordato in tempo. “Oltretutto, avevo anche
portato dei dolcetti”.
Sherlock si avvicina alla scrivania con passo dubbioso, probabilmente
per eliminare
quell’abitudine ci sarebbe voluto un po’, ma
sbirciò nella busta con viva
curiosità.
“Li terrò io” propone poi, chiudendo il
sacchetto in uno dei cassetti vuoti
della scrivania. “Li mangeremo insieme domani, se
vuoi”.
John non avrebbe potuto pensare a una soluzione migliore.
“Ci puoi scommettere” risponde, ridendo. Sherlock
lo accompagna alla porta e
John saltella nell’ingresso a passo vivace e decisamente
allegro.
“Grazie, John” Sherlock si
lascia scappare, sulla soglia della sua stanza.
John lo guarda e sorride ancora: non può più
evitare di farlo, in presenza
dell’altro. E’ qualcosa che non si spiega, ma in
fondo, una cosa che lo fa
sentire tanto bene non necessita per forza di una spiegazione.
“No Sherlock” John lo
corregge. “Grazie a te”.
Con passo veloce, John
scende le scale a due a due, felice e appagato come non si sente da
tanto,
tantissimo tempo. E’ convinto che qualcosa
cambierà, da quel momento. E sente
che qualunque cosa succederà da quel giorno in avanti,
qualunque cambiamento
radicale avrà luogo nella sua ancora giovane esistenza,
sarà qualcosa di
assolutamente meraviglioso.
§
E’ un quieto
pomeriggio di dicembre al 221B di
Baker Street, già riccamente addobbato a festa da un
previdente ed entusiasta
John Watson, e la musica di una carola natalizia proveniente dalla
strada
riempie il silenzio della stanza con le sue note rapide e allegre.
Peccato però che l’atmosfera festosa e allegra
dell’appartamento, resa ancora
più magica dall’odore del pan di zenzero che la
Signora Hudson ha appena
infornato, non sia destinata a durare a causa di un insofferente,
melodrammatico e assolutamente indisponente Sherlock Holmes.
E’ sdraiato sul divano, con una gamba allungata sul tappeto e
una sullo
schienale, raggomitolato nella coperta calda che John gli ha dato, e
con
un’espressione esageratamente plateale sul viso.
Era
stato ammalato nei giorni scorsi, una
semplice e comune influenza di stagione che, come al solito, aveva
trasformato
in un evento catastrofico e apocalittico.
John lo aveva curato con dolcezza e devozione, come sempre, cercando di
sorvolare sul comportamento odioso del detective e concentrandosi sul
fatto che
il poveretto non fosse abituato, che vedesse l’essere
costretto a letto malato
come una cosa mortalmente noiosa, come lo stallo momentaneo della sua
mente
iperattiva, come la totale costrizione dei suoi pensieri verso qualcosa
di
inutile e infruttuoso come sorseggiare minestrine e ingollare pillole e
sciroppi per la tosse.
Da un paio di giorni a quella parte poi, e John non può
certo dire di non
esserselo aspettato, Sherlock continua ostinatamente a dire di non
essere
ancora perfettamente guarito, nonostante la temperatura fosse tornata
alla
piena normalità, la tosse completamente passata e la scorta
di fazzoletti ancora
perfettamente linda e inutilizzata dentro il mobiletto del bagno.
Succede ogni dannata volta, dopo essersi ristabilito da un qualunque
malanno, e
John è certo che non ne capirà mai il perché.
Per salvaguardare la
propria povera salute mentale, John è arrivato alla
conclusione che sarebbe
stato meglio lasciare certi misteri alla sola e unica conoscenza di
Sherlock. Avrebbe
trovato gran giovamento nel non sapere,
sicuramente molto più che continuando a scervellarsi su
certi bislacchi comportamenti.
“Non capisci John. Lo sento” Sherlock
dice all’improvviso, allo scoccare delle
sedici, con voce profonda e indispettita. “Non sono ancora
completamente
ristabilito”.
John sospira, passandosi la lingua sulle labbra e cercando in tutti i
modi di
rimanere calmo e di portar pazienza. Molta pazienza.
“Cos’è esattamente, che
sentiresti?” domanda, non potendo evitare di condire la
frase con un pizzico di sarcasmo.
Sherlock lo squadra con occhio infuocato.
“Qualcosa” Sherlock dice, e John
spera sia consapevole dell’idiozia di
quell’affermazione. Lo fa sembrare uno di quei medium fasulli
che si vedono per
televisione.
“Qualcosa” John gli fa il verso, prendendolo in
giro.
“Sì. Non so dirti cosa esattamente”
Sherlock arriccia il naso, indispettito
dalla reazione del dottore. “E non avvicinarti. Potrei
trasmettertela”.
John non può evitare di scoppiare a ridere, dopo
quell’ultima perla.
Come se in quei giorni non avesse passato con lui ogni minuto del suo
tempo
libero, e anche gran parte di quello lavorativo attaccato al telefono
per
calmarlo, e non avesse dormito spalla a spalla con lui tutte le notti.
“E’ un po’ tardi per pensarci, non
credi?” John fa un passo in avanti, per
sedersi accanto al detective. Sherlock gli punta contro una mano,
impedendogli
categoricamente di muovere un altro muscolo.
“Sherlock…”.
“Questo è diverso. Non c’entra con la
febbre” l’uomo più alto aggiusta la
coperta, legandosela al collo come il mantello di un supereroe.
L’effetto è
abbastanza comico perché John possa prendere sul serio
quello che sta per dire.
“E’ sicuramente un effetto collaterale del caso
Baskerville”.
John spalanca gli occhi, indeciso tra l’afferrare
una padella in cucina per
tramortirlo o se portarlo per davvero a fare un controllo da un qualche
collega
qualificato.
“Sherlock, il caso Baskerville è stato chiuso tre
anni fa. In trentasei
mesi hai fatto in tempo a romperti una gamba, fratturarti tre costole,
lussarti
un polso e… e addirittura morire”
ricordare quella circostanza è sempre
poco piacevole. “E adesso ti preoccupi per questa…
sensazione?” John lo
punzecchia, incredulo.
Sherlock fa spallucce, annuendo, come se non ci vedesse assolutamente
nulla di
strano.
“Sì” dice, semplicemente. John vorrebbe
crollare su una qualsiasi superficie
morbida e abbandonarsi a un lungo sonno ristoratore lontano dal
petulante
detective. Magari Sarah ha ancora un posto libero sul suo divano,
chissà. Ha
improvvisamente voglia di scoprirlo.
“Sherlock, tu stai perfettamente bene” cerca ancora
di convincerlo, una volta
per tutte. “Sano come un pesce”.
Sherlock sbuffa, testardo.
“Io non credo proprio” Sherlock
sussurra, acido, sistemandosi meglio il
mantello.
“Invece sì”.
“Io dico di no”.
“Ed io, che sono il tuo dottore, dico che stai bene ed esigo
che alzi
immediatamente il sedere da quel divano”.
Sherlock trattiene un gemito di sorpresa, alla curiosa scelta di
lessico da
parte del dottore. E’ impossibile dire se ne sia stupito
positivamente o meno.
“John non insistere. Non mi alzerò e non
lascerò che tu ti avvicini ancora”
disse, categorico, con lo stesso tono autoritario che amava riservare
agli Yarders.
“A meno che…”.
John intravede un insperato barlume di speranza in quella frase.
“A meno che…?” John continua,
esortandolo a completare il pensiero. Sherlock
sorride, un furbo ghigno malizioso dipinto sulle labbra.
“A meno che tu non mi dia una dimostrazione
abbastanza convincente della
mia completa guarigione”.
Un lampo d’improvvisa e lapalissiana consapevolezza coglie
John come una
folgorazione. Fissa Sherlock con insistenza, leggendo tutti i piccoli
segnali
sul suo viso che fino a dieci secondi prima non era affatto riuscito a
interpretare e sorride, incredibilmente divertito da quel subdolo
sotterfugio.
Come aveva potuto non capire?
Mille immagini si rincorrono nella sua mente e cento, mille, milioni di sensazioni lottano nel suo
petto per uscire. Un ricordo su tutti prevale, inevitabilmente. E il
calore di
quell’indimenticabile giorno d’estate lo avvolge
nella sua stretta confortante,
lo stesso identico abbraccio di quando era un
bambino di soli undici
anni. Un ricordo luminoso come il sole che penetrava dai vetri di
quella stanza
enorme, un’immagine dolce come lo zucchero delle sue
focaccine.
“Oh, Sherlock” John dice, cercando di non dare
troppo a vedere quello che gli
stava esplodendo nel petto. “Che dottore incompetente sono
stato”.
Sherlock sorride, un luccichio complice negli occhi ad avvisare John
che ha
capito, che è immensamente felice che il gioco abbia sortito
l’effetto
desiderato.
“Oh, potrei perdonarti, John” Sherlock gli concede.
“A seconda di quanto
renderai convincente la… dimostrazione”.
John ride, avvicinandosi lentamente a Sherlock e prendendo posto
accanto a lui
sul divano. Sfila via la coperta dalle spalle dell’uomo dai
capelli scuri e lo
fissa dolcemente negli occhi, allungando una mano fino a sfiorargli una
guancia, con tenerezza.
“Che enorme responsabilità, Sherlock”
John bisbiglia, soffiando caldo respiro
sulle labbra del detective, avvicinandosi a lui fin quasi a scorgere
ogni
pagliuzza dorata nella placida marea di quegli occhi.
Bacia Sherlock lentamente, con una lentezza che sfiora la completa adorazione,
che non ha bisogno di gesti frettolosi o di momenti fugaci destinati a
essere
dimenticati. John è sicuro che se si concentrasse,
ricorderebbe ogni piccola
carezza, ogni singolo sfiorarsi delle loro labbra sin dal loro primo
bacio,
tanto tempo prima.
John lo bacia come quella volta nella stanza di Sherlock, contro la
carta da
parati rosso scuro, con la sola differenza che adesso non è
la sua guancia che
la bocca di John sfiora con tanta devozione, ma un'altra bocca,
affamata della
sua come un assetato davanti a una fonte sorgiva.
Ma dopotutto, sono cresciuti. E con loro è cresciuta anche
quella curiosa
sensazione che li aveva colti la prima volta, quando entrambi erano
ancora
inconsapevoli di cosa fosse veramente, e che da tempo ormai hanno
finalmente
compreso.
Una fastidiosa distrazione avrebbe detto Sherlock,
soltanto poco tempo
prima. La più bella sensazione del mondo,
lo avrebbe contraddetto John.
Amore lo descrivono entrambi, adesso.
Quando John abbandona le
labbra del detective,
Sherlock apre lentamente gli occhi di nuovo, impiegando qualche secondo
a
mettere di nuovo a fuoco il viso del dottore e la stanza intorno a
loro.
Sorride, stringendo John a sé e lasciando che si unisse a
lui sdraiandosi nello
spazio rimasto libero sul divano.
“Sei stato convincente” Sherlock esclama, con tono
d’approvazione. “Sono
davvero guarito, a quanto pare”.
John ride contro il petto di Sherlock, provocandogli un piacevole
solletico con
le vibrazioni della sua voce.
“Felice di aver reso onore alla professione”
risponde, allegro.
Negli attimi di assoluta calma che seguono, Sherlock ride e prende ad
accarezzare pigramente i capelli biondi di John, facendoli scorrere
lentamente
tra le dita e facendo scivolare il dottore in uno stato di soffusa
beatitudine.
“Ci sarai sempre, John?” Sherlock poi domanda,
infrangendo il silenzio. John
non ha bisogno nemmeno di sapere a quale ipotetica situazione si
riferisca, per
rispondere con estrema sicurezza.
“Certo, Sherlock” sussurra nell’orecchio
del suo compagno, poggiando un bacio
sulla pelle tenera sotto il lobo. Sherlock trema e sorride.
“E sarai sempre pronto a tutte le… dimostrazioni
di cui avrò bisogno?”
domanda ancora e John lo stringe a sé, ridacchiando.
“Oh, Sherlock” gli dice, con fare fintamente
sdolcinato. “Per tutte quelle che
vorrai e per tutto il tempo che vorrai”.
Sherlock riflette per qualche secondo, meditando su qualcosa che John
ha detto.
Dopo aver fissato il soffitto per un paio di minuti come fosse una
pagina
particolarmente coinvolgente di un qualche romanzo, torna a guardare
John.
“Per sempre ti sembra troppo, come previsione?” il
detective sussurra, nuovamente
vicino alle labbra del dottore.
John non ha dubbi sulla risposta a quella domanda. A ben pensarci, non
ha mai,
davvero mai avuto alcun dubbio su tutto
ciò che riguarda il rapporto che
lo lega al detective. John posa un bacio a fior di labbra sulla bocca
troppo
vicina di Sherlock, impossibilitato a ignorare ancora quelle labbra
morbide e
invitanti.
“Per sempre va bene, Sherlock” dice e Sherlock
ride, di quella risata che solo
John conosce appieno. “Cercheremo di
farlo bastare”.