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Autore: SAranel    21/11/2012    11 recensioni
Uno strano ragazzino di nome Sherlock Holmes entra a far parte della vita di John Watson, che però davvero non riesce a capire, malgrado non faccia altro che pensarci, il motivo dello strano comportamento di quel tipetto nei suoi confronti. Una cosa però è certa: John lo scoprirà. Che succederà?
[...]Perché John vede, e questo lo rende ancora più curioso e inquieto al riguardo, che Sherlock è solito fissarlo quando si apposta davanti alla sua aula durante l’intervallo, quando sa, o meglio pensa, che John non possa vederlo. Sente il suo sguardo dietro di lui come se fosse solido, come se quello potesse bussargli sulla spalla come fa Harry quando lui si addormenta con le cuffie e il walkman a tutto volume.
E’ frustrante, incredibilmente demoralizzante soprattutto perché John non lo odia, affatto, ma è mosso da una curiosità folle di far luce su quella faccenda che lo costringe a rimanere sveglio la notte, qualche volta.[...]
Genere: Commedia, Sentimentale, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: John Watson , Sherlock Holmes
Note: AU, What if? | Avvertimenti: nessuno
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Hola, fandom del mio cuore!
E’ un periodo buono, non succede spesso e per questo butto giù finché riesco, prima che tutto mi passi di mente. Quindi, eccomi qui a lasciare un altro allegro risultato di un paio di mattine (e una notte!) di voglia di fare.
Questa è dedicata con tutto il cuore a Cristina, che con le sue bellissime storie mi ha insegnato ad amare le Teen con tutta me stessa!
Sperando in bene, vi auguro buona lettura!

S.

 
Don’t stand so close to me
*

 


 

Se c’è una cosa di cui John è assolutamente certo, è che riuscirà a venire a capo di quell’enigma, in una maniera o nell’altra.
Ormai è il suo chiodo fisso da settimane, un pensiero costante e impossibile da scacciar via: è diventata una questione di principio, una faccenda d’onore per il piccolo coraggioso John Watson.
E’ una mattina di giugno quando quella piccola irritante situazione si presenta davanti agli occhi del ragazzino per l’ennesima volta, e John è tanto, taaanto tentato d’inseguire quello strambo ragazzetto e mettere subito fine a quella faccenda. Questo, se non credesse fermamente nel risolvere i propri problemi nel modo più pacato e tranquillo possibile e, soprattutto, se non fosse già in ritardo per il pranzo idilliaco da inizio-vacanze-estive che sua madre gli ha promesso.
Lascia andare, per quel momento. Ci penserà più tardi, ha già in mente tutto quanto.
E’ stato come ogni altra volta comunque, niente di più e niente di meno: è tutto come un rituale, quasi.
John comunque è sicuro di una cosa, sicurissimo: non dimenticherà mai la prima volta in cui la sua strada incrociò quella dello strano, stranissimo figlio minore degli Holmes.


Zaino in spalla e cestino della merenda in mano, quel mattino di fine maggio John percorreva il lungo viale che conduceva alla sua scuola, quando una bizzarra figura gli si parò davanti a velocità talmente fulminea da indurlo a credere fosse stato sparato fuori dalla porta come un uomo-cannone in miniatura.
E, quello che lo colpì più di tutto il resto, era che quel ragazzo, più minuto di lui ma della stessa altezza, fosse vestito da capo a piedi come se fossero in pieno dicembre invece che in un caldo, caldissimo periodo di fine primavera.
Aveva addosso un pastrano scuro dall’aria pesantissima, John si sentiva sciogliere soltanto alla vista, con il colletto alzato ad avvolgere una pesante sciarpa blu che lasciava scoperti soltanto due occhi straordinariamente azzurri e una zazzera di capelli scuri e disordinati.
John si fermò di colpo, quasi facendo rotolare sull’asfalto il suo succulento spuntino, e rimase a fissarlo a bocca aperta.
Temendo di sembrare maleducato, e a ben pensarci anche abbastanza sciocco lì a boccheggiare come un pesce lesso, cercò di ritrovare la parola per rompere in qualche modo la tensione.
“Ehm…” disse, con una vocina stridula che non gli apparteneva. “Ciao. Tu devi essere... Sherlock, vero?”.
Il ragazzino di fronte a lui aggrottò le sopracciglia in un’espressione forse sorpresa, difficile a dirsi con la faccia quasi tutta nascosta, e John lo vide guardare altrove come se non riuscisse a mantenere lo sguardo verso di lui. Non rispose, nemmeno mezza parola.
John cominciava a sentirsi a disagio, decisamente, e prese a fissare l’asfalto sotto di lui, combattendo con se stesso per non fuggir via in preda all’imbarazzo.
“Se… se ti stai chiedendo come conosco il tuo nome, beh, tua madre ha fatto il giro del vicinato quando siete arrivati. E lei ha detto alla mia di avere due figli, tra cui uno al liceo, quindi ho pensato che tu fossi…sì, insomma, il più piccolo”.
Nonostante la nuova pappardella di spiegazioni, chiarimenti e vani tentativi da parte di John di rompere il ghiaccio, nemmeno quella volta Sherlock lo degnò di una risposta. Il ragazzino si limitò ad alzare le spalle e a sistemarsi lo zaino, un borsone apparentemente pesantissimo e oltremodo scomodo a causa dell’abbigliamento a strati che il suo padrone indossava.
John decise di provare ancora, ma praticamente ad un passo dal cedere.
“Sei un tipo silenzioso, eh?” John abbozzò un sorriso, giocandosi anche la carta del ragazzino comprensivo e senza puzza sotto il naso. “Beh, va bene, tranquillo. Io comunque sono John, se t’interessa”.
Il ragazzo di fronte a lui, cosa assolutamente insperata, annuì. John intravide un barlume di speranza in quel gesto inatteso.
“John Watson” disse, con voce intaccata da una nota sospettosa e offuscata dalla stoffa pesante della sciarpa. “Lo so chi sei”.
John sorrise, felice di essere finalmente riuscito a sciogliere il suo nuovo quasi-vicino-di-casa, e accennò un passo avanti provocando del tutto inaspettatamente una strana reazione del nuovo arrivato.
Sherlock si scostò rapidamente di un paio di passi appena, come se John avesse una malattia altamente contagiosa e lui non potesse permettersi di prenderla. Il ragazzino dai capelli biondi lo squadrò, torvo, cercando di capire il motivo di quell’ennesimo bislacco comportamento.
“Sei un tipo particolare, eh, Sherlock?” John piegò il capo, studiandolo. Magari era stato solo sbilanciato dal grosso zaino, John pensò. Magari era stato solo un gesto involontario e non uno stizzito ritrarsi dalla sua vicinanza.
Sherlock non rispose, a parte la solita scrollata di spalle, e la cosa non stupì il biondino più di tanto, visti i precedenti. Improvvisamente poi, Sherlock prese a guardarsi intorno, agitato, come alla disperata ricerca di un’ipotetica via di fuga. John, a quel punto, cominciò a sentirsi davvero di troppo.
“Senti, andiamo a scuola insieme?” John propose in extremis, testando la propria teoria e avvicinandosi nuovamente per proporgli di aiutarlo a portare qualche libro. “Ti do una mano con quelli”.
In quel momento, John ebbe la conferma chiara e palese della sconfinata stranezza di quel tipo, e fugò completamente ogni dubbio sul possibile fraintendimento riguardo a poco prima. Sherlock si esibì in un perfetto balzo olimpionico all’indietro al minimo accenno di John di volersi ulteriormente avvicinare.
“Io devo…” sussurrò, esitante. “Io devo andare” concluse, con voce arrochita dalla tensione.
Dopo aver pronunciato quella frase di congedo con sforzo apparentemente enorme, svicolò verso il largo a passo rapido, nonostante il voluminoso ingombro sulle spalle, il più lontano possibile dal biondino. Scivolò con l’agilità di una volpe dietro una delle villette, correndo a tutta birra e sparendo completamente dalla vista di John.
“Ehi!” John provò a gridare, nel tentativo di fermarlo e di avere un minimo di spiegazione. “Torna qui!”
Gli corse dietro invano, affacciandosi dalla staccionata del cortiletto che chissà come Sherlock aveva scavalcato, ma non riuscì a scorgerlo, probabilmente già lontano.

E da quella volta, la stessa identica cosa continua a ripetersi ogni giorno.
Succede ogni mattina lungo la strada per la scuola e ogni pomeriggio al ritorno verso casa, per non parlare delle domeniche in cortile durante le partitelle di calcio con gli altri bambini del quartiere, dove Sherlock sbuca da dietro qualche albero a dare un’occhiata, rimanendo anche lì per ore, per poi dileguarsi più veloce della luce appena John, o qualcun altro, punta lo sguardo verso di lui facendo cenno di avvicinarsi.
Lo evita, fuggendo via ogni qual volta lo vede, scappando senza nemmeno più avere premura di non lasciarglielo intendere, di non fargli sospettare che si comporta in quel modo per causa sua.
John non sa dire se è paura quella che muove Sherlock, o un qualunque altro sentimento che non riesce a capire. Non gli ha mai fatto niente, in fondo, non ci ha nemmeno mai parlato abbastanza a lungo da far si che nascesse una qualsiasi forma di antipatia verso di lui.
A scuola, durante tutte le lezioni, nessuna esclusa, rimane relegato all’angolo dell’aula in un banco lontano dal resto del gruppo, sempre nel suo cappotto scuro e sciarpa, a capo chino sul libro e senza prestare la minima attenzione ai suoi compagni di classe o a tutti gli altri studenti in generale.
O meglio, quasi tutti.
Perché John vede, e questo lo rende ancora più curioso e inquieto al riguardo, che Sherlock è solito fissarlo quando si apposta davanti alla sua aula durante l’intervallo, quando sa, o meglio pensa, che John non possa vederlo. Sente il suo sguardo dietro di lui come se fosse solido, come se quello potesse bussargli sulla spalla come fa Harry quando lui si addormenta con le cuffie e il walkman a tutto volume.
E’ frustrante, incredibilmente demoralizzante soprattutto perché John non lo odia, affatto, ma è mosso da una curiosità folle di far luce su quella faccenda che lo costringe a rimanere sveglio la notte, qualche volta.
Quel pomeriggio però, è davvero deciso a scoprire tutta, ma davvero tutta, la verità.
Il pranzo della mamma è buonissimo ma John non riesce a goderselo come dovrebbe, rimanendo imbambolato a fissare un punto indistinto del muro con la forchetta a mezz’aria, pensando e ripensando alla sua missione.
“John? Tesoro?” sua madre rompe il silenzio, accorgendosi dell’aria stralunata di suo figlio. “Qualcosa non va?”.
John si risveglia momentaneamente dalla trance ipnotica in cui si è abbandonato e fissa sua madre per qualche secondo prima di metterla bene a fuoco, ricordando la domanda che gli ha appena posto. Una ridacchiante Harry, però, anticipa la sua risposta.
“John è innamorato” sua sorella esclama, mandando giù una forchettata di dolce. “di quello svitato del figlio degli Holmes, Sherlock”.
John la guarda a bocca aperta, visibilmente sconvolto. Stringendo la brocca dell’acqua tra le mani, medita seriamente di svuotarla sulla testa di sua sorella invece che nel suo bicchiere.
“Harry…” John dice a denti stretti, con sguardo assassino.
La ragazza lo guarda con espressione strafottente, mangiucchiando l’ultimo boccone con fare antipatico.
“Ma è vero” Harry continua, per nulla intenzionata a metter fine all’argomento. “Ci pensa in continuazione. Lo sento parlare da solo, certe volte”.
“Smettila!”.
“Almeno so cosa regalarti a Natale, marmocchio. Un bel cappottino come quello del piccolo pazzoide. Tu a lui potresti regalare un bel costume da bagno da mettere a dicembre”.
“Harry, ora basta” la madre di John, per fortuna, sembra voler dargli manforte. Harry si zittisce, imbronciata.
“E’ vero, però. E’ il tipo più strano che io abbia mai visto” dice un’ultima volta, prima di ricevere una nuova occhiata severa da parte di sua madre, che la convince a restar zitta del tutto.
“Cosa ti preoccupa, John?” la donna chiede a suo figlio, con un sorriso gentile. John si sente arrossire, senza poterci fare niente. Alza le spalle, sperando che non fraintenda.
“Io…” John tenta di spiegare, prendendo un respiro profondo. “Io vorrei capire perché si comporta in quel modo strano con me. Non fa che evitarmi da quando ci siamo conosciuti”.
Harry borbotta qualcosa tra sé e sé, ridacchiando, qualcosa di curiosamente simile a ‘sei un tale rompiscatole’.
John le fa la linguaccia, arricciando il naso.
“Sarò anche un rompiscatole, ma non ha avuto nemmeno il tempo di capirlo, lui” John spiega, lasciando perdere sua sorella e tornando a sua madre. “Per questo vorrei capire che succede”.
Sua madre annuisce, comprensiva ma pensierosa, e sorride raccogliendo il piatto vuoto di John e le sue posate. Si alza per riporre le stoviglie nel lavello in cucina e ne approfitta per scompigliare i capelli biondi del figlio, in un gesto d’affetto.
“Allora non vedo perché tu non possa fare una capatina a casa Holmes” la madre propone, e John è felicissimo di aver trovato almeno la sua approvazione. “La signora Violet è una donna molto simpatica, sai? Sono sicura che apprezzerà il tuo interessamento”.
John le sorride, cercando ancora di ignorare Harry tornata all’attacco. Adesso, anche se cerca in tutti i modi di ignorarla, sta blaterando qualcosa su delle nozze imminenti e così via.
“Allora andrò, mamma. Grazie per l’incoraggiamento” John si alza e la raggiunge in cucina per stringerla in uno dei suoi abbracci stritolanti. La Signora Watson ridacchia, ricambiando la stretta con affetto.
“Ma ti pare, piccolo mio?” la donna esclama, condendo il tono di voce dolce con la sua risata cristallina. Afferra poi un sacchetto di carta riposto vicino alla credenza e la porge a John, sventolandoglielo davanti agli occhi. “Magari porta un’offerta di pace, che dici?”.
John sorride, allegro, e inspira il profumo dolciastro degli scones alla marmellata preparati da poco. Afferra il sacchetto e da un bacio a sua madre, prima di infilarsi di tutta fretta le scarpe correndo a perdifiato verso la porta.
“Portaci notizie sul lieto evento, al tuo ritorno” Harry lo sbeffeggia ancora, mentre sale le scale per camera sua. John tira fuori la lingua e le chiude quasi la porta in faccia, precipitandosi nel cortile deserto.
John cammina a passo spedito lungo il viale silenzioso, a quell’ora lo è pressoché sempre, guardandosi intorno e godendosi il rumore delizioso dei suoi dolcetti che saltellano nella busta. Pensa a cosa sarà meglio dire, una volta arrivato a casa Holmes: in fondo non l’hanno mai visto. Comincia a sentirsi leggermente in ansia man mano che costeggia i vari vialetti delle ville, pensando che forse non è un’idea così buona, che magari Sherlock lo avrebbe cacciato o si sarebbe infuriato: dopotutto non lo conosce affatto bene. Anzi, a dirla tutta, non lo conosce quasi per niente.
Le gambe diventano pesantissime una volta arrivato a meno di due metri dalla porta d’ingresso di casa Holmes, come se qualcuno avesse improvvisamente colato cemento nelle sue scarpe da ginnastica. Cercando di calmare il fortissimo batticuore che lo sta attanagliando, John si avvicina ancora di più al campanello. Allungando tentennante una mano, finalmente lo suona, una volta per tutte.
Attende qualche secondo, un lasso di tempo che sembra durare interi millenni, prima che qualcuno finalmente gli apra la porta.
La persona che gli si para davanti sulla soglia dell’ingresso è una bella signora dai lunghi capelli neri raccolti in una treccia e due vividi e vivaci occhi azzurri, identici a quelli di Sherlock. Sicuramente è sua madre.
Appena la donna lo vede gli sorride bonaria, incrociando le braccia e studiando il nuovo arrivato con espressione curiosa.
“Salve” dice la donna, e il sorriso diventa più ampio. “Chi ho il piacere di conoscere?”.
John boccheggia impacciato, cercando qualcosa di abbastanza creativo e intelligente per spiegare la sua presenza lì, e si morde nervoso l’unghia del pollice destro, prima di tornare a guardare la donna negli occhi.
“Buona- buonasera, Signora” fosse mai che John risultasse maleducato davanti a un’adulta. “Sono John, il figlio dei Watson, di qualche villetta più avanti”.
La donna sembra illuminarsi alla nuova gradita scoperta.
“Oh, John sì!” sembra ricordare all’improvviso. “Sei il fratello di Harry, vero? Ragazza adorabile”.
John storce leggermente il naso a quell’affermazione. Avrebbe qualcosa da dire al riguardo, definire Harry ‘adorabile’ è un po’ come definire uno squalo tigre ‘mansueto’ ma preferisce sorvolare.
“Sì, io. Volevo…volevo sapere se Sherlock è in casa” finalmente tira fuori il motivo della visita, togliendosi un gigantesco peso sul cuore. Sente di aver fatto un enorme passo avanti e questo lo rassicura sulla buona riuscita della missione.
La donna sembra leggermente stupita dalla richiesta, come se non capitasse spesso che un ragazzino chiedesse notizie del suo figlio minore.
“Oh sì, è in casa. E’ di sopra in camera sua. Vuoi salire?” la donna domanda e John non potrebbe chiedere di meglio. Non gli ha nemmeno domandato il motivo di quella richiesta. Oh, sembra Natale!
John annuisce con energia.
“Sì, mi piacerebbe molto” risponde, entusiasta.
La Signora Holmes apre la porta, invitandolo a entrare, e John fa capolino nell’ingresso, guardandosi attorno con curiosità. La donna gli indica con la mano la lunga scalinata tappezzata di moquette rossa che porta al piano di sopra.
“La seconda porta a destra, caro” gli dice.
La madre di Sherlock assume poi un’espressione dubbiosa, come se volesse confessare qualcosa che avrebbe preferito non dire. “Però ti avverto, è un po’…strano, ultimamente”.
John vorrebbe scoppiare a ridere ma riesce a contenersi, in un modo o nell’altro. Annuisce e sorride, per farle capire che lo sa e che è pronto ad affrontarlo.
“Lo so bene, Signora, non si preoccupi” le sorride un ultima volta e lei, per fortuna, sembra rassicurarsi all’istante.
John sale veloce la scalinata, attento a non fare troppo rumore, e qualche secondo dopo arriva davanti alla porta indicatagli dalla padrona di casa. Bussa senza esitazioni questa volta, aspettando una risposta che non tarda ad arrivare.
“Ti ho detto che non ho fame, mamma!” una voce, per la prima volta chiara, lo raggiunge.
John respira profondamente, preparato all’eventualità di non essere atteso.
“Ehm…ciao Sherlock” dice, a voce alta ma non abbastanza da farsi sentire da chiunque occupi le altre stanze. “Sono…sono John”.
Un rumore acuto e fragoroso prende John alla sprovvista: è simile al rumore di qualcuno che cade rovinosamente sul pavimento da una modesta altezza. Spera con tutto il cuore che la sua presenza non avesse fatto sì che Sherlock si spaventasse così tanto da cader giù dal letto o da una scala.
“Tutto bene?” John domanda, allarmato. “Posso…posso entrare?”.
Nessuna risposta.
“Sherlock?”.
“Che ci fai qui, John?” finalmente il ragazzino dall’altro lato della porta risponde. “Perché sei salito?”.
John si sente un po’ in colpa, ma dura solo qualche secondo: non è lui quello in difetto, a conti fatti.
“Perché voglio parlare con te. E parleremo, una volta per tutte”.
“Non ho niente da dire”.
“Troveremo qualcosa, Sherlock”.
“Non ne sarei tanto sicuro”.
“Tu lasciami entrare e fammi provare”.
“No grazie”.
John punta i piedi e incrocia le braccia, appoggiandosi con la fronte alla porta di legno scuro come un ariete pronto a sfondarla.
“Smettila di fare il bambino”.
John lo sente ridacchiare dall’altra parte, sarcastico.
“Ho nove anni. Sono un bambino”.
John è leggermente spiazzato dalla risposta. Di solito quella frase aveva sempre l’effetto desiderato sulla testa dura di turno.
“Sì sì, va bene, come vuoi” butta lì, cercando di non perdere la motivazione. “Ti prometto che non mi tratterrò molto. E…e se vuoi, starò lontano”.
Il ragazzino nella stanza non ribatte immediatamente e questo fa ben sperare John sulla possibilità di averlo convinto. Rimane ad aspettare pazientemente, battendo la punta del piede contro il battiscopa del muro, contando mentalmente i secondi.
“Quanto lontano?” sente poi domandare Sherlock.
John sospira. Non credeva di possedere tutta quella pazienza.
“Quanto vuoi tu” risponde, senza via di scampo.
Qualche secondo dopo, un clic metallico annuncia a John il proprio meritato successo. O almeno, di quello della prima parte del piano. Appena John entra, facendo cigolare la porta più del dovuto, si ritrova nella stanza più grande che avesse mai visto in vita sua.
E’ molto ma molto probabile che la propria stanza e quella di Harry potessero facilmente entrarci, senza nemmeno chissà quale sforzo. Un grande letto a baldacchino, come uno di quelli descritti nei libri d’avventura che John tanto adora, fa la sua bella figura sulla parete opposta alla finestra e i muri ricoperti di carta da parati rossa sono quasi spogli, a parte qualche poster incorniciato e un paio di grandi stampe di quadri antichi. John non ha mai visto la stanza di un bambino che assomigliasse anche solo vagamente a quella dove lui è adesso.
Sherlock è su un angolo del letto, avvolto in quello che sembra un vecchio plaid scozzese e rannicchiato con le gambe talmente strette al petto da spingere John a credere che non volesse condividere con lui nemmeno un pizzico di spazio in più di quanto fosse strettamente necessario.
John, senza sapere dove andare o quanto avvicinarsi, decide di sedersi alla sedia imbottita di fronte alla scrivania, quattro metri abbondanti a separarlo dal letto.
“Ciao Sherlock” John dice ancora, cercando di rasserenare l’atmosfera già carica di tensione.
Sherlock si rannicchia ancora di più contro la testiera, gli occhi vispi puntati però totalmente su John.
“Perché sei venuto John? Non dovresti essere qui” dice tutto d’un fiato, come se volesse limitare al minimo il loro già difficile colloquio.
John sente il cuore sobbalzargli in gola a quelle parole, ma è deciso a non farsi prendere dallo sconforto, dalla rabbia o da qualunque altro sentimento che possa distrarlo dalla sua meta.
“Lo sai perché sono qui” John dice, e il suo tono è talmente sicuro da non farlo sembrare più un bambino di undici anni, ma un uomo fatto e finito. “Voglio solo sapere perché ti comporti così con me”.
Sherlock spalanca gli occhi, l’unica reazione che John può notare dalla fessura lasciata dalla coperta, e lo vede agitarsi sul copriletto color crema su cui è seduto. Un piede nudo spunta da sotto il plaid, ritornando nel suo rifugio un secondo dopo.
“Cosa c’è che non va nel mio comportamento?” Sherlock domanda, a voce flebile.
John non può seriamente credere che quel ragazzino gli stesse davvero ponendo quella domanda.
“Il problema, in fondo, è che non ti comporti affatto” John spiega, sperando che capisse. “Mi eviti. Scappi via. Fuggi lontano appena mi vedi, nemmeno avessi la peste o che so io”.
Sherlock tossisce contro la stoffa rossa della coperta, e distoglie lo sguardo da John, volgendolo alla finestra e contemplandola con sguardo vacuo.
“E ti da fastidio?” chiede.
John non può crederci. Si domanda se lo stesse prendendo in giro. Ha davvero chiesto se…gli da fastidio?
“Certo che mi da fastidio!” il tono di John questa volta è leggermente più imbronciato. Si mette a braccia conserte e allunga le gambe, nella sua classica posizione da offeso. “Io volevo solo esserti amico”.
Sherlock, dopo quella frase, sembra salvarsi da una comica caduta dal letto soltanto aggrappandosi saldamente a uno dei pomi lignei della testiera. E’ come sconvolto, e il suo gemito di sorpresa è talmente forte da essere udito da John quasi dall’altra parte della stanza.
“Sherlock?” John fa per alzarsi, ma rinuncia immediatamente davanti all’espressione di Sherlock. “Tutto bene?”.
Il ragazzo sul letto annuisce, sistemandosi nuovamente la coperta. John può vedere il suo petto alzarsi e abbassarsi energicamente, come se il suo respiro fosse improvvisamente diventato pesante. E’ palesemente nervoso, John non ha dubbi.
“Tu… tu non puoi essermi amico, John” Sherlock risponde dopo un’evidente lotta interiore con se stesso. “E’… è anche per questo che io…che io non sono gentile con te”.
John abbassa lo sguardo per un secondo, indeciso tra l’essere perplesso o demoralizzato da quella risposta. Sospira.
“E si può sapere perché?” domanda, cercando di non mostrare tutto il disappunto che comincia a provare. Per fortuna il suo tono di voce si mantiene paziente, tranquillo.
“Perché io…” Sherlock risponde di nuovo senza pensare. Si blocca e John può leggere nei suoi occhi quanto è combattuto sul continuare o meno quella frase. Per fortuna di John, sembra optare per la prima ipotesi. “Perché io non sono geneticamente predisposto per avere amici”.
John ammutolisce, messo in difficoltà da quell’affermazione. Non ha mai sentito una cosa del genere in vita sua; se è davvero una scusa per liquidarlo, è certamente la più fantasiosa che abbia mai sentito.
“Che cavolo vuol dire, Sherlock?” è deciso a non chiudere lì la faccenda, il piccolo tenace John, e questo sembra spiazzare Sherlock.
“Vuol dire… ecco, vuol dire che non posso averne” Sherlock continua, impacciato, perdendo tutta la sicurezza che sembrava averlo pervaso fino a dieci secondi prima. “Che non sono capace di trovarne e che nel caso ci riuscissi, non saprei… tenermeli. Oltre alla questione di… di quello che farei loro se gli stessi vicino”.
John è allibito, basito, stranito all’ennesima potenza da quello che ha appena sentito. Possibile che qualcuno gli avesse davvero messo in testa un concetto simile e che lui gli avesse veramente creduto?
“Chi ti ha detto una stupidaggine del genere?” John chiede. “E cos’è che succederebbe se tu stessi vicino a un… amico?”.
Sherlock volta di nuovo lo sguardo alla finestra, probabilmente di nuovo riflettendo se fosse il caso di aprirsi ancora. La coperta scivola distrattamente oltre la sua bocca e John lo vede mordersi convulsamente il labbro inferiore, nervoso.
“C’è mio fratello, Mycroft sai. E’ grande” sposta di nuovo lo sguardo a John. “Lui ha portato a casa dei compagni di classe quando ci siamo trasferiti qui”.
John annuisce. Vuole davvero sapere dove sarebbe andato a parare.
“E… lui ha raccontato loro di me. Di tutti i libri che ho, degli esperimenti in cantina, degli insetti che tengo nel frigorifero e del fatto che… che a scuola io non abbia nessuno che mi calcoli e cose così” comincia, ma sembra visibilmente a disagio.
John sente un moto di rabbia crescergli nel cuore.
“Ti piace leggere?” John cerca di smorzare la tensione. E’ ammirato, in un certo qual modo.
Sherlock annuisce, e dagli occhi, John può quasi intravedere un sorriso nascosto.
“Molto”.
“E hai… un laboratorio in cantina?” domanda ancora, sempre più curioso.
“Sì”.
“E tieni… tieni degli insetti in frigorifero?”.
Sherlock fa spallucce, come se non trovasse la cosa granché sconvolgente.
“Qualche volta. Quando servono” è la risposta di Sherlock.
John è sempre più curioso. A quanto sembra, Sherlock è un tipo molto più particolare di quanto avesse anche solo immaginato.
“E quand’è che servirebbero?”.
“Quando l’esperimento che faccio li richiede” Sherlock dice, e John intravede una nota di fierezza nella sua voce. “Il mese scorso ho catalogato tutti i coleotteri per colore, dimensione e caratteristiche”.
John ridacchia, confortato da quanto Sherlock si fosse sciolto negli ultimi cinque minuti. Sembra che parlare di quello che ama e che lo fa sentire bene lo renda molto più spigliato e socievole.
“Wow” John esclama, ammirato per davvero. “Beh, è figo. E’ un passatempo diverso dalle solite partite a calcio o ai videogiochi, ecco. Non c’è niente di male”.
Sherlock borbotta qualcosa di risposta, ma John non riesce a sentirlo. Alza un sopracciglio e lo fissa, curioso.
“Questo lo dici tu” esclama poi il ragazzino dai capelli scuri, con tono cupo.
“Certo che lo dico io” John esclama, sicuro di sé. “Cosa ti hanno detto gli amici di tuo fratello?”.
Sherlock si stringe nel suo rifugio e guarda in basso, come se sul pavimento ci fosse qualcosa di estremamente affascinante da studiare con cura e dovizia. Sospira e scuote la testa, combattuto.
“Non dovrei dirtelo. Non l’ho detto a nessuno” confessa. “Può essere pericoloso”.
John alza le spalle e sorride a Sherlock, rassicurante. Non potrà certo continuare a nascondersi in fondo, e John è pronto ad aiutarlo, qualunque cosa abbia da dire.
“Tu provaci” John lo incoraggia, senza perdere mai il sorriso. La mamma gli ha detto che ha un sorriso confortante, una volta, e John non vede motivo per non sfruttare quel dono, in quella situazione. “Non scapperò via terrorizzato”.
Sherlock sembra esitare, in un primo momento. Poi tira un gigantesco sospiro, così profondo che John teme possa risucchiare tutta l’aria nella stanza, e accenna un sorriso senza allegria.
“Mi hanno detto che ho un carattere orribile. Che sono un piccolo psicopatico e che quando crescerò, sarà anche peggio” comincia, ma il suo sguardo è nuovamente altrove. “E che chiunque, che non sia della mia famiglia che ormai è…immune, rischierebbe di diventare come me se solo mi stesse vicino”.
Il sollievo sul volto di Sherlock è palpabile quando l’ultima sillaba di quella frase scivola via dalle sue labbra, con uno sforzo enorme. John resta letteralmente pietrificato sulla sua sedia dopo la confessione del ragazzino, impossibilitato a muovere qualunque muscolo del corpo. E’ quello che gli ha tolto il sonno per innumerevoli notti? E’ davvero quello il motivo principale di quella situazione che l’ha spinto a tormentarsi dalla curiosità per giorni interi? Per fortuna, la lingua sembra funzionargli ancora.
“E’ per questo che vai in giro così? Per non…Oh mio Dio” John è indeciso su cosa pensare. “Questa è l’idiozia più… più colossale che io abbia mai sentito in undici anni di vita” John esclama, indignato. “E’ la cosa più stupida e inverosimile del mondo, Sherlock!”.
Sherlock sembra interdetto da quella reazione. Cosa si era aspettato? Che scappasse via a gambe levate per evitare il contagio?
“Ma… ma loro sono al liceo” Sherlock tenta di spiegare, preso in contropiede. “Hanno studiato più di me. Loro sanno certe cose e deve… deve essere vero”.
John sa che non è la cosa corretta da fare al momento, ma non riesce a bloccare la risata enormemente divertita che lo coglie di sorpresa.
“Oh, Sherlock!” John esclama, tra le risate. “Anche mia sorella va al liceo e mi chiama lombrico ma non per questo io sono convinto di esserlo veramente!”.
La questione sembra sollevare un ragionevole dubbio nella mente del ragazzino dai capelli scuri, che lascia distrattamente scivolare la coperta fino a scoprirgli addirittura il collo e il bordo blu scuro della maglietta che indossa. John è sicuro che se si concentrasse a dovere riuscirebbe a vedere tutti i pensieri di Sherlock rincorrersi nella sua mente veloci come fulmini, magari su un paio di gambette come in un buffo cartone animato.
“Io… io però non so, John. E se avessero ragione?” Sherlock dice, con voce incerta. “Io non voglio che qualcuno diventi…così, anche se io non ho mai… anche se io non mi sono mai sentito diverso”.
“Sherlock…”.
“Lo vedo che la mamma sta male a volte, per quello che faccio. La sento parlarne quando pensa che io non la ascolti. E tu sei un tipo a posto. Non voglio che … che… non voglio che ti succeda niente”.
Sherlock arrossisce furiosamente, senza poterlo evitare. Tira nuovamente su la coperta ma non serve a molto, a danno già fatto. John ha già visto, ed è enormemente, spaventosamente lusingato, da quella frase.
Le sue labbra si aprono in un sorriso ancora più ampio e Sherlock lo fissa sbalordito: molto probabilmente non è la reazione che si sarebbe aspettato da parte di John.
“E’ molto… molto bello da parte tua volermi… ehm…” John cerca il termine giusto, non potendo evitare che anche le sue guance assumessero un vago colorito roseo. “…proteggere. Però davvero, non ce n’è bisogno. Stai perfettamente bene, Sherlock, e non devi vergognarti di ciò che sei. Mai”.
Sherlock non sa cosa rispondere e si limita a piegare leggermente il labbro, nell’imitazione di un piccolo sorriso.
“E soprattutto, non devi credere a qualunque stupidaggine ti venga detta da qualcuno che si finge migliore di te” John afferma, sicuro di sé.
Sherlock si perde per un secondo in fantasticherie, probabilmente elaborando il nuovo flusso d’informazioni. Alla fine solleva le spalle e annuisce fra sé e sé come se in quel modo tentasse di convincersi definitivamente della cosa.
John, leggendovi un segnale positivo, si alza finalmente dalla sedia e comincia ad avanzare verso il bel baldacchino su cui Sherlock è ancora seduto. Il ragazzino salta giù dal materasso appena lo vede arrivare, forse ancora non del tutto convinto dalle rassicurazioni di John. Si appiattisce contro il muro, guardandosi intorno per eventuali vie di fuga.
“Sherlock, mi hai sentito no? Devi stare tranquillo!” John sbuffa, mettendo le mani sui fianchi in una buffa imitazione di sua madre quando è arrabbiata con lui.
Sherlock annuisce ma esita ancora, per un motivo o per l’altro.
“Ma non posso rischiare” Sherlock esita ancora. “Tu sei l’unico che mi abbia mai prestato un po’ d’attenzione. Se…”.
John, a quel punto, decide di lasciar finalmente perdere le parole e passare definitivamente ai fatti, davanti alla ritrosia del piccoletto. Allunga una mano rapidamente, evitando così che Sherlock potesse premeditare il gesto, e sfila via il plaid dalla sua presa salda, scoprendo completamente l’intera figura del ragazzino per la prima volta da quando si sono conosciuti. L’espressione di Sherlock è un cocktail di stupore, sorpresa e assoluto terrore. Non è abituato a essere colto alla sprovvista, questo è chiaro come la luce del sole. Lapalissiano.
“Sei pazzo, John?” Sherlock sussurra, allibito, guardando la carta da parati della stanza come se volesse cercare riparo anche in quella. “Sappi che non sarà colpa mia quello che succederà!”.
John ridacchia, scuotendo la testa.
“Non accadrà assolutamente nulla, Sherlock. Anzi, adesso vedrai, farò di meglio” il tono di John è calmo e pacato, ma alle orecchie di Sherlock suona come la peggiore delle minacce a giudicare dalla sua espressione.
“Che vuoi fare?” domanda Sherlock, incerto.
“Voglio avvicinarmi ancora” John risponde, con tutta la sicurezza del mondo. Sherlock è stretto nell’angolo accanto al letto, senza possibilità di scappar via in una qualunque direzione senza che John potesse facilmente agguantarlo.
“E perché vuoi avvicinarti ancora?”.
“Per dimostrarti che le tue paure sono del tutto infondate”.
Sherlock lo osserva curioso, tentando di anticipare le mosse del biondino. Peccato che in quel momento la mente di John rappresenti una fortezza del tutto impenetrabile, anche per qualcuno abituato a leggere i pensieri come lo è Sherlock.
“E come?”.
John sorride. Cerca di essere il più convincente e rassicurante possibile.
“Ti darò un bacio” esclama, tranquillo. “Sulla guancia, è ovvio”.
 A quell’affermazione Sherlock sobbalza sul posto, le braccia tese lungo i fianchi e la bocca aperta in un’espressione di stupore. E’ immobile sul posto e non muove nemmeno un dito, come se si fosse improvvisamente trasformato in una delle statue di cera del Madame Tussauds.
“Tu… tu stai dicendo sul serio?” balbetta, esitando.
John annuisce. Non è mai stato più certo di qualcosa in vita sua.
“Ovviamente. Ti dimostrerò che i compagni di tuo fratello sono solo degli stupidi senza cervello”.
Sherlock abbassa lo sguardo, tornando a fissare il pavimento. Dopo qualche secondo di esitazione però, torna a guardare John con uno strano e determinato luccichio a illuminargli i begli occhi azzurri.
“Fallo allora” finalmente lo esorta, annuendo tra sé e sé per darsi coraggio. “Ora”.
John non se lo fa ripetere e si china verso il ragazzino più piccolo, afferrandolo delicatamente per le spalle e sporgendosi a poggiare dolcemente le labbra sulla guancia rossa e calda di Sherlock. Il contatto tra la bocca di John e la pelle liscia del viso di Sherlock è fugace ma elettrizzante, forte in qualche modo. Al primo tocco Sherlock sente un brivido piacevole attraversargli la schiena, lo stesso che scuote anche John, ma è una sensazione a cui nessuno dei due riesce a dare una spiegazione plausibile. Forse lo capiranno più tardi, in quel momento non ha importanza. Forse fra qualche tempo.
John si allontana dal viso di Sherlock e sorride soddisfatto, anche se non può fare a meno di avvampare furiosamente anche lui dall’imbarazzo.
Si scompiglia nervosamente i capelli, cercando di non dare un’impressione sbagliata a Sherlock. Il ragazzino, dal suo canto, fissa John come se non avesse mai visto nulla di più interessante e affascinante in tutta la sua vita.
“Visto, Sherlock?” John domanda, curioso di conoscere le impressioni del piccoletto dai riccioli scuri che ancora non ha smesso di fissarlo. Sherlock deglutisce, idratando la bocca incredibilmente asciutta.
“Ecco, sì” Sherlock esclama, con una vocetta quasi comica. “Io… io penso che tu abbia ragione”.
John si lascia andare ad un verso di giubilo e felicità, stringendo i pugni e sventolandoli in aria, come un condottiero giunto vittorioso al termine di una guerra.
“E comunque nessuno mi aveva mai dato un bacio, prima” Sherlock sente l’innato bisogno di aggiungere, poi. “Oltre la mia famiglia, intendo”.
Se John non credesse nell’impossibilità di una combustione spontanea senza un elemento innescante, penserebbe di poter prendere fuoco nell’esatto momento in cui Sherlock conclude la frase.
“Oh, beh…” cincischia. “Era per dimostrare un punto, ovviamente”.
Sherlock è più che felice di dargli corda, rosso fino alla punta dei capelli come John.
“Per la scienza”.
“Ecco sì. Per la scienza”.
Il silenzio cala pesante fra i due, dopo quell’ultimo imbarazzato scambio di battute. John adocchia l’orologio, accorgendosi all’improvviso di quanto fosse tardi. Sarebbe dovuto tornare a casa di corsa, anche se sa che la mamma lo avrebbe facilmente perdonato quando avrebbe saputo della buona, buonissima riuscita della sua missione.
“Io… io comunque dovrei andare, adesso” John balbetta, giocherellando con le mani. “Mi… mi ha fatto piacere aver chiarito, comunque”.
Sherlock lo guarda con occhi spalancati e accenna nuovamente un piccolo sorriso, molto più sereno però, rispetto a quello incerto e imbarazzato di poco prima.
“Anche a me” risponde il ragazzetto più piccolo, tirandosi una manica del pigiama azzurro. “Ed ecco, mi chiedevo…”.
John si ferma, curioso, anzi curiosissimo di ascoltare Sherlock.
Spera in cuor suo, che stia per domandargli quello che nel suo cuore sta desiderando più di ogni altra cosa.
“Mi chiedevo se non potessi tornare per… per confrontare i dati” domanda. “Sai, nel caso gli effetti della cosa si presentassero… con un po’ di ritardo”.
John è sicuro che quello fosse l’invito più strano e originale che un suo quasi coetaneo gli avesse mai rivolto in tutta la sua vita ma non importa, anzi. L’unica cosa importante è che Sherlock gli avesse chiesto di rivederlo.
John annuisce con molto più entusiasmo di quanto avesse programmato di mostrare.
“Ne sarei contento” risponde, sincero. Adocchia di sfuggita il sacchetto di dolcetti che ha posato sulla scrivania secoli prima, mordendosi la lingua per non essersene ricordato in tempo. “Oltretutto, avevo anche portato dei dolcetti”.
Sherlock si avvicina alla scrivania con passo dubbioso, probabilmente per eliminare quell’abitudine ci sarebbe voluto un po’, ma sbirciò nella busta con viva curiosità.
“Li terrò io” propone poi, chiudendo il sacchetto in uno dei cassetti vuoti della scrivania. “Li mangeremo insieme domani, se vuoi”.
John non avrebbe potuto pensare a una soluzione migliore.
“Ci puoi scommettere” risponde, ridendo. Sherlock lo accompagna alla porta e John saltella nell’ingresso a passo vivace e decisamente allegro.
“Grazie, John” Sherlock si lascia scappare, sulla soglia della sua stanza.
John lo guarda e sorride ancora: non può più evitare di farlo, in presenza dell’altro. E’ qualcosa che non si spiega, ma in fondo, una cosa che lo fa sentire tanto bene non necessita per forza di una spiegazione.
“No Sherlock” John lo corregge. “Grazie a te”.
Con passo veloce, John scende le scale a due a due, felice e appagato come non si sente da tanto, tantissimo tempo. E’ convinto che qualcosa cambierà, da quel momento. E sente che qualunque cosa succederà da quel giorno in avanti, qualunque cambiamento radicale avrà luogo nella sua ancora giovane esistenza, sarà qualcosa di assolutamente meraviglioso.

 

 

 

§

 

 

 

E’ un quieto pomeriggio di dicembre al 221B di Baker Street, già riccamente addobbato a festa da un previdente ed entusiasta John Watson, e la musica di una carola natalizia proveniente dalla strada riempie il silenzio della stanza con le sue note rapide e allegre.
Peccato però che l’atmosfera festosa e allegra dell’appartamento, resa ancora più magica dall’odore del pan di zenzero che la Signora Hudson ha appena infornato, non sia destinata a durare a causa di un insofferente, melodrammatico e assolutamente indisponente Sherlock Holmes.
E’ sdraiato sul divano, con una gamba allungata sul tappeto e una sullo schienale, raggomitolato nella coperta calda che John gli ha dato, e con un’espressione esageratamente plateale sul viso. 

Era stato ammalato nei giorni scorsi, una semplice e comune influenza di stagione che, come al solito, aveva trasformato in un evento catastrofico e apocalittico.
John lo aveva curato con dolcezza e devozione, come sempre, cercando di sorvolare sul comportamento odioso del detective e concentrandosi sul fatto che il poveretto non fosse abituato, che vedesse l’essere costretto a letto malato come una cosa mortalmente noiosa, come lo stallo momentaneo della sua mente iperattiva, come la totale costrizione dei suoi pensieri verso qualcosa di inutile e infruttuoso come sorseggiare minestrine e ingollare pillole e sciroppi per la tosse.
Da un paio di giorni a quella parte poi, e John non può certo dire di non esserselo aspettato, Sherlock continua ostinatamente a dire di non essere ancora perfettamente guarito, nonostante la temperatura fosse tornata alla piena normalità, la tosse completamente passata e la scorta di fazzoletti ancora perfettamente linda e inutilizzata dentro il mobiletto del bagno.
Succede ogni dannata volta, dopo essersi ristabilito da un qualunque malanno, e John è certo che non ne capirà mai il perché. Per salvaguardare la propria povera salute mentale, John è arrivato alla conclusione che sarebbe stato meglio lasciare certi misteri alla sola e unica conoscenza di Sherlock. Avrebbe trovato gran giovamento nel non sapere, sicuramente molto più che continuando a scervellarsi su certi bislacchi comportamenti.

“Non capisci John. Lo sento” Sherlock dice all’improvviso, allo scoccare delle sedici, con voce profonda e indispettita. “Non sono ancora completamente ristabilito”.
John sospira, passandosi la lingua sulle labbra e cercando in tutti i modi di rimanere calmo e di portar pazienza. Molta pazienza.
“Cos’è esattamente, che sentiresti?” domanda, non potendo evitare di condire la frase con un pizzico di sarcasmo.
Sherlock lo squadra con occhio infuocato.
Qualcosa” Sherlock dice, e John spera sia consapevole dell’idiozia di quell’affermazione. Lo fa sembrare uno di quei medium fasulli che si vedono per televisione.
“Qualcosa” John gli fa il verso, prendendolo in giro.
“Sì. Non so dirti cosa esattamente” Sherlock arriccia il naso, indispettito dalla reazione del dottore. “E non avvicinarti. Potrei trasmettertela”.
John non può evitare di scoppiare a ridere, dopo quell’ultima perla. Come se in quei giorni non avesse passato con lui ogni minuto del suo tempo libero, e anche gran parte di quello lavorativo attaccato al telefono per calmarlo, e non avesse dormito spalla a spalla con lui tutte le notti.
“E’ un po’ tardi per pensarci, non credi?” John fa un passo in avanti, per sedersi accanto al detective. Sherlock gli punta contro una mano, impedendogli categoricamente di muovere un altro muscolo.
“Sherlock…”.
“Questo è diverso. Non c’entra con la febbre” l’uomo più alto aggiusta la coperta, legandosela al collo come il mantello di un supereroe. L’effetto è abbastanza comico perché John possa prendere sul serio quello che sta per dire. “E’ sicuramente un effetto collaterale del caso Baskerville”.
John spalanca gli occhi, indeciso tra l’afferrare una padella in cucina per tramortirlo o se portarlo per davvero a fare un controllo da un qualche collega qualificato.
“Sherlock, il caso Baskerville è stato chiuso tre anni fa. In trentasei mesi hai fatto in tempo a romperti una gamba, fratturarti tre costole, lussarti un polso e… e addirittura morire” ricordare quella circostanza è sempre poco piacevole. “E adesso ti preoccupi per questa… sensazione?” John lo punzecchia, incredulo.
Sherlock fa spallucce, annuendo, come se non ci vedesse assolutamente nulla di strano.
“Sì” dice, semplicemente. John vorrebbe crollare su una qualsiasi superficie morbida e abbandonarsi a un lungo sonno ristoratore lontano dal petulante detective. Magari Sarah ha ancora un posto libero sul suo divano, chissà. Ha improvvisamente voglia di scoprirlo.
“Sherlock, tu stai perfettamente bene” cerca ancora di convincerlo, una volta per tutte. “Sano come un pesce”.
Sherlock sbuffa, testardo.
“Io non credo proprio” Sherlock sussurra, acido, sistemandosi meglio il mantello.
“Invece sì”.
“Io dico di no”.
“Ed io, che sono il tuo dottore, dico che stai bene ed esigo che alzi immediatamente il sedere da quel divano”.
Sherlock trattiene un gemito di sorpresa, alla curiosa scelta di lessico da parte del dottore. E’ impossibile dire se ne sia stupito positivamente o meno.
“John non insistere. Non mi alzerò e non lascerò che tu ti avvicini ancora” disse, categorico, con lo stesso tono autoritario che amava riservare agli Yarders. “A meno che…”.
John intravede un insperato barlume di speranza in quella frase.
“A meno che…?” John continua, esortandolo a completare il pensiero. Sherlock sorride, un furbo ghigno malizioso dipinto sulle labbra.
“A meno che tu non mi dia una dimostrazione abbastanza convincente della mia completa guarigione”.
Un lampo d’improvvisa e lapalissiana consapevolezza coglie John come una folgorazione. Fissa Sherlock con insistenza, leggendo tutti i piccoli segnali sul suo viso che fino a dieci secondi prima non era affatto riuscito a interpretare e sorride, incredibilmente divertito da quel subdolo sotterfugio. Come aveva potuto non capire?
Mille immagini si rincorrono nella sua mente e cento, mille, milioni di sensazioni lottano nel suo petto per uscire. Un ricordo su tutti prevale, inevitabilmente. E il calore di quell’indimenticabile giorno d’estate lo avvolge nella sua stretta confortante, lo stesso identico abbraccio di quando era un bambino di soli undici anni. Un ricordo luminoso come il sole che penetrava dai vetri di quella stanza enorme, un’immagine dolce come lo zucchero delle sue focaccine.
“Oh, Sherlock” John dice, cercando di non dare troppo a vedere quello che gli stava esplodendo nel petto. “Che dottore incompetente sono stato”.
Sherlock sorride, un luccichio complice negli occhi ad avvisare John che ha capito, che è immensamente felice che il gioco abbia sortito l’effetto desiderato.
“Oh, potrei perdonarti, John” Sherlock gli concede. “A seconda di quanto renderai convincente la… dimostrazione”.
John ride, avvicinandosi lentamente a Sherlock e prendendo posto accanto a lui sul divano. Sfila via la coperta dalle spalle dell’uomo dai capelli scuri e lo fissa dolcemente negli occhi, allungando una mano fino a sfiorargli una guancia, con tenerezza.
“Che enorme responsabilità, Sherlock” John bisbiglia, soffiando caldo respiro sulle labbra del detective, avvicinandosi a lui fin quasi a scorgere ogni pagliuzza dorata nella placida marea di quegli occhi.
Bacia Sherlock lentamente, con una lentezza che sfiora la completa adorazione, che non ha bisogno di gesti frettolosi o di momenti fugaci destinati a essere dimenticati. John è sicuro che se si concentrasse, ricorderebbe ogni piccola carezza, ogni singolo sfiorarsi delle loro labbra sin dal loro primo bacio, tanto tempo prima.
John lo bacia come quella volta nella stanza di Sherlock, contro la carta da parati rosso scuro, con la sola differenza che adesso non è la sua guancia che la bocca di John sfiora con tanta devozione, ma un'altra bocca, affamata della sua come un assetato davanti a una fonte sorgiva.
Ma dopotutto, sono cresciuti. E con loro è cresciuta anche quella curiosa sensazione che li aveva colti la prima volta, quando entrambi erano ancora inconsapevoli di cosa fosse veramente, e che da tempo ormai hanno finalmente compreso.
Una fastidiosa distrazione avrebbe detto Sherlock, soltanto poco tempo prima. La più bella sensazione del mondo, lo avrebbe contraddetto John.
Amore lo descrivono entrambi, adesso.

Quando John abbandona le labbra del detective, Sherlock apre lentamente gli occhi di nuovo, impiegando qualche secondo a mettere di nuovo a fuoco il viso del dottore e la stanza intorno a loro. Sorride, stringendo John a sé e lasciando che si unisse a lui sdraiandosi nello spazio rimasto libero sul divano.
“Sei stato convincente” Sherlock esclama, con tono d’approvazione. “Sono davvero guarito, a quanto pare”.
John ride contro il petto di Sherlock, provocandogli un piacevole solletico con le vibrazioni della sua voce.
“Felice di aver reso onore alla professione” risponde, allegro.
Negli attimi di assoluta calma che seguono, Sherlock ride e prende ad accarezzare pigramente i capelli biondi di John, facendoli scorrere lentamente tra le dita e facendo scivolare il dottore in uno stato di soffusa beatitudine.
“Ci sarai sempre, John?” Sherlock poi domanda, infrangendo il silenzio. John non ha bisogno nemmeno di sapere a quale ipotetica situazione si riferisca, per rispondere con estrema sicurezza.
“Certo, Sherlock” sussurra nell’orecchio del suo compagno, poggiando un bacio sulla pelle tenera sotto il lobo. Sherlock trema e sorride.
“E sarai sempre pronto a tutte le… dimostrazioni di cui avrò bisogno?” domanda ancora e John lo stringe a sé, ridacchiando.
“Oh, Sherlock” gli dice, con fare fintamente sdolcinato. “Per tutte quelle che vorrai e per tutto il tempo che vorrai”.
Sherlock riflette per qualche secondo, meditando su qualcosa che John ha detto. Dopo aver fissato il soffitto per un paio di minuti come fosse una pagina particolarmente coinvolgente di un qualche romanzo, torna a guardare John.
“Per sempre ti sembra troppo, come previsione?” il detective sussurra, nuovamente vicino alle labbra del dottore.
John non ha dubbi sulla risposta a quella domanda. A ben pensarci, non ha mai, davvero mai avuto alcun dubbio su tutto ciò che riguarda il rapporto che lo lega al detective. John posa un bacio a fior di labbra sulla bocca troppo vicina di Sherlock, impossibilitato a ignorare ancora quelle labbra morbide e invitanti.
“Per sempre va bene, Sherlock” dice e Sherlock ride, di quella risata che solo John conosce appieno. “Cercheremo di farlo bastare”.

 

 

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