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Autore: Nika L Majere    12/06/2007    8 recensioni
"Perchè un uomo dovrebbe sacrificare la sua intera esistenza alla giustizia?"
Una sorta di "Origine del personaggio" di L
SPOILER!!
Questa fic ha partecipato al contest su DN di Elaisa e Solarial
Genere: Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: L
Note: nessuna | Avvertimenti: Spoiler!
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“Vi veri veniversum vivus vici”

“Vi veri veniversum vivus vici



[giustizia (ant. Iustìzia), s.f. 1. Virtù per cui si rispettano

i diritti altrui e si attribuisce a ciascuno ciò che gli è dovuto

CONTR. Ingiustizia 2. Situazione conforme al giusto

3. L’autorità che ha il potere di giudicare e di dar forza

esecutiva al diritto 4. Atto di giustizia, sentenza]


***


Molte persone si chiedono perchè un uomo dovrebbe sacrificare la sua intera esistenza alla giustizia.

Anche se non me lo hanno mai chiesto direttamente, glielo si può leggere in volto ogni volta che intercettano il mio sguardo o sentono la mia voce parlare attraverso lo schermo.

È una domanda che spesso anche io mi sono posto durante la mia breve, ammettiamolo, vita.

Ma è anche una di quelle domande a cui fa male rispondere, per questo si evita accuratamente di pormela.

Ma ora non ho più nulla per cui nascondermi o per cui soffrire, per cui vi risponderò.

Anche se mi farà male.

Ricordare, intendo.

I ricordi fanno sempre male…


***


Era autunno ormai inoltrato. Le foglie secche si staccavano dagli alberi e danzavano lente nel cielo, prima di poggiarsi gentili e leggere al suolo. Il cielo spruzzato dal candore sporco delle nubi che preannunciano l’ultimo temporale. E l’aria fresca, che ancora porta con se il dolce sapore dell’estate. Un giorno perfetto, un giorno di risa, in cui i bambini si preparano alla magica notte che sta giungendo, ritrovandosi per elaborare piani diabolici da mettere in atto o, i ritardatari, per finire i loro costumi colorati.

La notte di Halloween ormai alle porte. Il giorno prima della festa di Ogni Santi.

Il 31 ottobre del 1979.


Nella stanza ormai permea il silenzio. C’è odore di alcol. Liquido amniotico. E sangue. Soprattutto sangue. Questo è il macabro ricordo di poche ore prima.

Quando si nasce, si piange. Sembra sia una regola scritta da Madre Natura. O in un qualche modo siamo già coscienti di quello che ci capiterà sulla Terra dei Vivi. O forse, molto più semplicemente, abbiamo solo freddo e siamo spaventati. Come ogni essere umano. Ma quel bambino no. Quel bambino non piangeva.

“È molto piccolo”

“Già… l’abbiamo salvato per il rotto della cuffia”

L’infermiera sorride. Quel ranocchietto sporco di sangue si agita irrequieto nella vaschetta in cui lo stanno lavando. Anche se l’acqua è tiepida e le mani che lo accarezzano con cura sono soffici e lisce, c’è qualcosa che proprio non gli va a genio.

“Pesa solo due chili?”

“Quasi due chili. Incredibile, vero? È a causa del cordone ombelicale: nell’ultimo mese il piccolo si è rigirato spesso su se stesso e ha finito per schiacciare il cordone tra le gambe. In più la madre era debole di costituzione, mangiava poco e non proprio correttamente. È un miracolo che lui ce l’abbia fatta”

“Lui? Vuole dire che…?”

Di colpo, il bambino comincia a piangere.


Quella cosa era affascinante. Era come una scatola dal vetro opaco, dentro cui c’era un calore strano, che gli ricordava tanto un posto in cui era appena stato e in cui voleva disperatamente ritornare. Aveva capito subito che non ce l’avrebbero rimandato, ma quel luogo era un buon compromesso.

E dall’altra parte del vetro c’erano quegli esseri enormi che lo osservavano.

Erano proprio buffi, così grandi e impacciati. Chissà come facevano a spostarsi con tutto quel peso addosso? Nel complesso erano creature piuttosto curiose: correvano di qua e di là, portavano oggetti colorati dalla forma rettangolare che sembravano così confortevoli, proprio come quella sistemata sotto di lui. E poi prendevano in braccio i suoi simili, li paciugavano, li ribaltavano. Alcuni li portavano via e poi li riportavano dopo un po’ a fare il pisolino. Altri non tornavano più. Se ne andavano con altre persone, che non avevano il vestito bianco e che sorridevano come ebeti. Quelli che rimanevano facevano un gran casino E quando piangevano, gli esseri grandi correvano subito con in mano un affare lungo e trasparente con attaccata ad un’estremità una cosa dalla forma strana, che gli ricordava tanto qualcosa, ma non riusciva a capire cosa. Però una cosa l’aveva capita: lì dentro c’era la pappa.

E lui aveva fame.


Aveva notato che ogni suo simile, come lui, aveva una fascettina bianca attaccata al braccio.

E quando quella fascettina veniva tolta era perché gli esseri grandi che sorridevano li portavano via.

Non che quel posto non gli piacesse, ma voleva tanto vedere cosa c’era di così meraviglioso dall’altra parte del vetro ampio, da cui gli esseri grandi lo osservavano.

Chissà quando avrebbero tolto la fascettina a lui?


Mangiavano, cagavano, piangevano e dormivano.

Non facevano altro, i suoi simili.

Era esattamente quello che faceva anche lui, nulla di più, nulla di meno.

Allora perché nessun essere grande che sorrideva veniva a togliergli la fascettina?

Una volta aveva pianto così tanto da essere diventato tutto rosso.

Ma nessuno era arrivato per aiutarlo a capire. Gli avevano cambiato quel sacchetto che aveva sotto il sedere, gli avevano dato il latte, l’avevano coccolato fino allo sfinimento. Ma non gli avevano sorriso.

Gli esseri grandi dovevano essere incredibilmente stupidi: lui voleva solo che quella fascettina sparisse e al suo posto giungesse il sorriso ebete. Una cosa così semplice… perché si ostinavano a non capirla?


Arrivò un giorno, inaspettata e distante da ogni sua concezione. Era vestita di nero e di bianco, con la faccia rugosa ma un sorriso dolce. E al collo una bella collana di grani rossi e una croce che dondolava sul suo seno abbondante.

Sì, lei sorrideva come un’ebete. E gli aveva tolto la fascettina.

Ma non era lei che sarebbe dovuta venire. Lo riconosceva dal tepore delle sue mani.

Tu non sei mia madre.


***


Uscii dall’ospedale il 26 novembre, quasi un mese dopo la mia nascita.

Non che io me lo ricordi: è tutto scritto sui documenti che Watari teneva con cura nel cassetto della sua scrivania. Quei documenti sono il nostro tesoro: rappresentano un legame più forte di quello del sangue.

Ma prima che arrivasse la Wammy’s House, ci fu un discutibile orfanotrofio nel centro spaccato di Londra. Non era malaccio come posto, peccato che i mocciosi che, ormai maggiorenni, uscivano da lì, entro due giorni finivano in galera per furto o omicidio. E sì che doveva essere un orfanotrofio cattolico…

Quando arrivai ero il marmocchio più coccolato che si fosse mai visto. Ed era una sensazione strana sapermi al centro dell’attenzione.

Ero la mascotte sia delle suore che degli altri bambini.

Certo: dovevo essere veramente speciale, se ero riuscito a finire in prigione senza passare dal via…


***


Lighter

Alone

Wild

L

Innocent

Enchanter

Timeless


***


Il mio nome, mi raccontarono le suore, fu un’incognita fino in fondo. Dall’ospedale non gli avevano detto assolutamente niente (ma forse era mia madre che non aveva detto assolutamente niente), riferendo solo l’unico cognome di cui erano a conoscenza, ovvero quello della donna che mi aveva partorito: Lawliet.

Io non sono una persona particolarmente superstiziosa: se un gatto nero mi attraversa la strada, sarei capacissimo di coccolarlo e fargli io le fusa. Ma quello che si dice “destino”.

Quella parola aveva un suono così affascinante e melodioso.

Andavo semplicemente matto per il mio cognome!

A tre anni, ancora non conoscevo il concetto di “messaggio subliminale”…


***

“Guardalo…”

“Hai visto come sta in disparte?”

“È proprio strano!”

[ahahahahahaha]

“Sì, hai ragione…”

“Secondo me si atteggia e basta”

[hahahahahahaha]

Smettetela…

E dai piantatela! Siete solo invidiosi perché ha dei voti insuperabili!”

“Non dirmi che lo difendi! Quello stronzo ieri ancora un po’ e mi spaccava il naso!”
“Sei tu che l’hai provocato!”

“Ho solo detto che è disgustoso il modo in cui mangia…”
[hahahahahahaha]

Smettetela…

“Ho sentito che mangia fino ad ingozzarsi e poi si ficca due dita in gola per vomitare”

“Veramente disgustoso…”

“Questo spiegherebbe perché cammina in quel modo da allucinato!”

E finitela!”

Credete che non vi senta?

“No, aspetta. Ora arriva il bello! Ho sentito dire dalla Suora Superiora ad una novizia che sua madre è morta durante il parto! Capite? È un assassino!”

Non è vero…

“Come puoi considerarlo assassino!?

“Ha ucciso sua madre! Questo è un omicidio!”

Smettetela…

Vi prego…

Basta…

NON È GIUSTO


I bambini sanno essere terribilmente crudeli.

Anche se non se ne rendono conto.

È un sadismo che fa parte di loro.

Un meccanismo di difesa

Non è una loro colpa.

Ma io… io…


Li odiai profondamente.

Come si odia a prima vista uno scarafaggio.


***


Gli uomini spesso si dimenticano delle loro fortune.

Io non mi ritengo un uomo sfortunato. Anzi, credo che nella mia vita io abbia avuto molto.

Ma non ho avuto una madre.

Questa è una di quelle cose che ti segnano, volente o nolente.

Perché non ho mai conosciuto l’amore primordiale. Quel genere d’amore che provi anche se non ne sei cosciente. Ed è come se ti mancasse un pezzo. Come se fossi vuoto per metà.

Così, quando mi ritrovai in mezzo alla gente, ebbi enormi difficoltà.

Mi sentivo come se avessi passato una vita a studiare una materia a me estranea, partendo già in fallo: non avevo le basi.

E tutto mi sembrava incredibilmente ingiusto.


***


Arrivò con le prime piogge di primavera. Forse sospinto dal vento tiepido dei miei sette anni. Aveva uno sguardo dolce, ma penetrante, come se sapesse tutto di me.

La prima sensazione che provai, guardando quell’uomo, fu nostalgica. Un qualcosa che avevo già sentito, ma troppo tempo addietro per ricordarmela con nitidezza.

E più sentivo i suoi occhi su di me, più comprendevo la nostra somiglianza.

Anche lui era un essere distante da questo mondo. Anche lui portava addosso il peso di una diversità troppo grande da cancellare. Mi sentii vicino a lui come mai mi ero sentito vicino a qualcuno. Ma provavo paura.

Lui sapeva tutto di me. Io non sapevo nulla di lui.


“Papà…?”


***


L’uomo è un essere strano.

È formato da cellule, che formano tessuti, che a loro volta formano organi, muscoli, ossa.

Dove si annidano i sentimenti?

Questa è un’altra domanda che è difficile porsi.

I più romantici vi risponderebbero di sicuro nel cuore, anche se esso non è altro che una massa di carne che pulsa. I più tecnici vi diranno invece che non hanno un luogo preciso: non sono altro che impulsi elettrici e reazioni chimiche. Ma questo sarebbe troppo sminuente.

Per quel che mi riguarda, non avevo sentimenti.

Dal giorno in cui mi parlarono della morte di mia madre, decisi che non avrei mai provato sentimenti per nessuno, che non fosse un sincero disgusto per questa umanità.

Decisi di mettere quegli impulsi elettrici sotto chiave, in un cassetto della mia testa.

Finché, un giorno, alla mia porta si presentò un uomo, avvolto in un pesante impermeabile nero, che sfoggiava l’educata compostezza tipica degli inglesi.

Gli bastò uno sguardo. Uno solo.

Il cassetto si aprì.

E non si richiuse mai più.


***


Cadevano le foglie.

La primavera se n’era andata. E in un lampo l’aveva seguita anche l’estate. L’uomo con l’impermeabile tornò più e più volte all’orfanotrofio. Senza una ragione ben precisa.

Per gli altri bambini non era altro che un’ombra vacua che si spostava tra i corridoi dell’edificio. Nessuno notava che tra le pieghe del suo cappotto si nascondeva quel bambino che avevano sempre deriso. Quello che mangiava in modo strano, camminava in modo strano e parlava in modo strano. Quello che aveva preso il massimo dei voti, non solo nelle verifiche da seconda elementare, ma anche nei test di prima media. Quello con cui non parlavano mai, perché incuteva timore il solo scorgerlo passeggiare tra gli alberi del giardino.

Per gli altri bambini quell’ombra non significava nulla.

Ma per quel bambino, l’uomo con l’impermeabile rappresentava tutto.

E quando camminavano lenti, l’uno vicino all’altro, anche senza scambiare una parola, si raccontavano ogni singola sfumatura delle loro vite.

A quel bambino sembrava di aver ritrovato un qualcosa che aveva perso tanto tempo fa, tra le pareti asettiche di un ospedale.


***


Cadeva la neve.

Ricopriva ogni cosa. Tetti, alberi, persone.

Il lontananza suonavano le campane. I loro rintocchi riecheggiavano nel mio cuore con un’eco potente.

Era una visione così bella che mi faceva male.

La mia nuova casa era una villa immensa, con le ampie vetrate colorate di mille sfumature.

Sembrava un posto confortevole e familiare.

Ma come ogni nuova scoperta, ti provoca sia curiosità che timore.

Per fortuna lui mi stringeva la mano. E mi sorrideva gentile.


***


Cadeva la neve.

Il giorno del mio ottavo compleanno mi fu fatto un regalo.

Era solo un foglio di carta, ma non lo baratterei con nessuna cosa più preziosa dello stesso inchiostro che lo incide.

C’erano scritte poche righe, ma in particolare mi colpirono due parole: Lawliet L.

Così L era il mio nome… a sceglierlo era stato l’uomo con l’impermeabile.


***


Watari non mi disse mai con chiarezza perché avesse scelto proprio me, tra tutti i bambini dell’orfanotrofio.

Capii solo quando mi chiese se il mio nome mi piaceva.

L.

Suona strano ricordarlo adesso.

Non so perché scelse proprio quella lettera. Ma sapere di avere un nome così singolare mi riempì d’orgoglio. Ero diverso, in tutto e per tutto.

Ero unico.

Sì, quel nome mi piaceva molto. E così compresi che lui non stava cercando un figlio.

Cercava un suo simile.


***


Watari non è il tuo vero nome, vero?”

“Sei un bambino sveglio…”

È per questo che mi hai scelto, no?”

“Già…”

Sorrideva. Gli sorrideva sempre, qualsiasi cosa dicesse o facesse.

Questo a L andava bene.

“Qual è il tuo vero nome?”

“L”

“Eh?”

“Non capisci?”

“Voi grandi siete strani…”

E anche L sorrideva.

Era un gioco. Complesso e diverso da qualsiasi gioco potrebbe ricercare un bambino.

Questo a L andava bene.

E si sorridevano l’un l’altro, con un sorriso complice.


***


C’è una piccola chiesetta in mezzo al giardino della Wammy’s House.

Se vuoi pregare puoi andarci quando vuoi. Oppure puoi sdraiarti sul prato a guardare il cielo. Credo che per Dio sia la stessa cosa.

Io preferivo sempre andare a nascondermi sul retro della chiesetta, dove c’era la statua di Maria.

Una bella statua gotica, in marmo bianco, che ricordava tanto la Maria della Pietà di Michelangelo.

Aveva gli occhi socchiusi, un po’ tristi, come se avesse appena perso quella cosa così importante. A me piaceva proprio per quel suo sguardo ambiguo. Gli occhi tristi, ma un sorriso appena accennato sulle labbra. Come se fosse a conoscenza dell’amarezza della vita, ma l’affrontasse con fierezza e forza.

Amavo quella statua. Mi dava forza.

E odiavo le messe, perché mi ricordavano quelle delle suore.

Troppo lunghe. A volte troppo indecenti nel proclamare le loro verità.

Quella statua invece mi parlava di segreti che nessuno osava rivelare.

Quella statua e Watari erano la mia splendida famiglia.


***


“Madre è l’altro nome di Dio sulle labbra e sui cuori di tutti i nostri figli”


***


Anche la Wammy’s House era un orfanotrofio, ma non come gli altri. Era stato Watari stesso a fondare quell’istituto e all’epoca in cui vi entrò L contava ancora e, per un certo verso, per fortuna pochi bambini. Era più una famiglia allargata che non un vero orfanotrofio. Questa era una delle cose che lo rendeva affascinante.

Al suo interno venivano ospitati bambini che aveva perso i genitori, per un motivo e per un altro. Ma tutti, dal primo all’ultimo, vantavano capacità intellettive incredibili. Erano tutti “fuori dalla norma”. Erano tutti “diversi”.

Questo a L dispiacque all’inizio: sperava di essere un qualcosa di veramente speciale per l’uomo con l’impermeabile. Ma se l’aveva portato in un posto come quello, con tanti “diversi”, forse lui non era così particolare come voleva.

Ma poi, parlando con gli altri bambini, interagendo con loro come non aveva mai fatto prima, capì che di per se quello era un posto speciale e che solo pochi vi avevano accesso. E poi nessun’altro bambino oltre a lui aveva il foglio di carta con la parola adozione.

Senza contare che nessuno, nessuno, aveva un nome come il suo.

E su questo non ci piove!


***


Il soggiorno in questa nuova casa mi cambiò profondamente.

Il contatto con gli altri mi giovava e il mio carattere si faceva a poco a poco più sopportabile e più aperto.

Nel tempo libero giocavo volentieri con i miei coetanei (cosa che era successa, sì e no, due volte in passato e su esortazione di una suora).

Ma spesso studiavo, per lo più.

E più studiavo, più aumentava la mia passione per la caramelle e tutte quelle cose cioccolatose che si possono trovare nei chioschi all’angolo dei viali.

Watari non mi diceva niente al riguardo, anzi. Mi aveva fatto notare che più zuccheri ingerivo, più i miei compiti erano impeccabili.

Scoperta curiosa, a dir la verità. E anche un po’ sofferta: non mi dispiacevano affatto le lasagne che ci davano il primo mercoledì del mese. Ma quella torta viennese della pasticceria all’angolo… era un sacrificio che valeva la pena fare.

E poi scoprii anche che, se mi sedevo rannicchiato, la mia intelligenza aumentava del 40%.

Questa cosa, sinceramente, non l’ho capita. Però di sicuro mi era chiaro un fatto: io dovevo aver avuto qualche problema a livello fetale, su questo non c’era dubbio.


***


Passò il tempo. Il bambino diventò ragazzo senza quasi che se ne accorgesse.

All’età di quindici anni L aveva già dato l’esame di maturità, superandolo a pieni voti. I professori dei suo liceo scientifico erano oltremodo orgogliosi di aver avuto uno studente come lui, ma si dispiacquero non poco quando lasciò la scuola per cominciare a cercare una facoltà che gli piacesse.

Era molto indeciso su cosa puntare. La sua brillante intelligenza gli avrebbe permesso di aprire innumerevoli porte, ma ragionando con attenzione, quale poteva essere un lavoro che gli desse soddisfazione?

Insomma, chi lo avrebbe visto nei panni di un avvocato? O di un architetto? Era decisamente poco credibile. Non che qualcuno volesse costringerlo in una determinata occupazione, ma, anche se il suo ultimo sogno nel cassetto era aprire una pasticceria (sogno assolutamente disinteressato), quella era una decisione da prendere con un minimo di criterio.

Voleva un lavoro che principalmente non lo annoiasse.

E c’erano ben poche cose che non lo annoiavano, purtroppo.


L’estate stessa arrivò all’orfanotrofio una ragazzina della sua stessa età.

A lui non faceva né caldo né freddo, ma sembrava invece portare ilarità tra gli altri ragazzi: era molto alta, non proprio magrissima e piena di lentiggini, con i capelli castani lunghi fino alle spalle che lei usava legare in due trecce ordinate, che le davano un’aria fin troppo infantile. La presero di mira fin da subito e già il secondo giorno dopo il suo arrivo, avevano cominciato a farle scherzi di cattivo gusto, come infilarle una rana nello zaino. Agli occhi di L quella si presentò come la più perfida invidia.

In quel periodo stava studiando per curiosità il comportamento dei rettili. Non sapeva esattamente perché, ma trovò una certa somiglianza tra quei ragazzi e il serpente a sonagli.

Ad un certo punto gli fu tutto chiaro, come se qualcuno avesse acceso quella lampadina di cui lui non trovava l’interruttore.

Comprese con una chiarezza che provocava dolore: si poteva essere diversi anche in mezzo ai diversi.

Ovunque, anche nel posto più amorevole del mondo, prevaleva la legge del più forte.

L’invidia, l’odio, il rancore, nei casi più disperati il semplice divertimento. Tutto questo portava l’uomo ad attaccare il prossimo. A volte anche per i motivi più assurdi.

Capirlo gli fece male, come un pugno ben piantato nello stomaco. Provò fastidio e l’irrefrenabile desiderio di picchiare quei ragazzi. Non tanto per difendere lei, quanto per la semplice voglia di punirli

I bambini sanno essere terribilmente crudeli.

Anche se non se ne rendono conto.

È un sadismo che fa parte di loro.

Un meccanismo di difesa.

Non è una loro colpa.

Ma ci sono lezioni che devono essere comprese. E lui aveva intenzione di fargliele comprendere.


E così hai trovato giusto picchiarli?”

“Sì…”

“Per punirli?”

“Sì…”

“Ti sei divertito a farlo?”

“Non credo…”

“L, sei convinto di quello che stavi facendo?”
“Non lo so L. Tu cosa avresti fatto?”

Watari rimase sconcertato davanti alla sua vuota determinazione.

Quel semino aveva messo radici, ora bisognava coltivarlo.


***


Crescendo compresi diverse cose.

Più il tempo passava, più prendevo consapevolezza della mia persona e del mio spazio. Poi concepii le altre persone e i loro spazi. Era tutto un orbitare gli uni vicino agli altri, a volte toccandosi, a volte urtandosi.

Ma c’era un posto in cui nessuno era autorizzato ad entrare.

Ce l’avevano tutti. Chi più vasto, chi più piccolo.

E nessuno aveva il diritto di violarlo, nemmeno con il tuo permesso.

Avevo notato che la gente si comportava in modo tale da poter venire ammessi in quel posticino.

Ma, con mio grande dispiacere, vidi che non tutti rispettavano il divieto di entrarci.

Ci provavano in tutti i modi. Con violenze anche inaudite.

E allora nasceva il dolore.

Io sono cresciuto in mezzo al dolore. Quando non hai nient’altro che te stesso impari a volerti molto bene, perché ci tieni a migliorare la tua situazione più che puoi. E prima di incontrare Watari, forse quel “me stesso” non c’era nemmeno. Per questo cominciai ad odiare il dolore.

Prima il mio, poi quello degli altri.

Dal momento che sapevo quanto poteva essere fastidioso, avevo la mia piccola utopia: il dolore doveva sparire e nessuno aveva il diritto di procurarne ad altri.

Watari mi spiegò che questa era quella che gli adulti chiamavano giustizia.

Per me fu come innamorarmi per la prima volta.

Quel concetto, quella possibilità, quella prospettiva.

Fu la mia prima amante. E la amai così intensamente che mi prosciugò il cuore.


***


La luce artificiale gli feriva gli occhi.

Il sapore dello zucchero gli impastava la bocca.

Ma la sua testa era proiettata altrove.

Tra quei fogli.

Tra quei dati.

Verso la soluzione di quell’insolito puzzle.

Che gli inebriava il cervello.

Tappava quel buco nello stomaco che gli si era formato.

Colpevolezza.

Innocenza.

Sotto un certo punto di vista erano parole senza significato.

Ciò che contava era riuscire.

Ciò che contava era risolvere l’enigma.

E il semino aveva cominciato a fiorire.


***


Non bastava.

Non sarebbe mai bastata.

La mia intelligenza, da sola, non significava nulla.

Avevo bisogno di un gradino in più, che mi permettesse di raggiungere il mio scopo.

E non solo di quello. Avevo bisogno di qualcuno che mi sostenesse, che credesse in me. Altrimenti tutto questo mi sarebbe apparso vuoto e inutile.

Ero solo un ragazzo. Un ragazzo strano, tra le altre cose. Un ragazzo distante.

Ci fu una notte in cui mi sentii talmente scoraggiato che volli scappare. Ma per quanto la mia determinazione ad andarmene fosse forte, non ci riuscii. Ricordo che pioveva.

Mi nascosi sotto la statua di Maria.

E piansi in silenzio.

La Giustizia era un’amante crudele.


***


Io sono diverso.

Io posso riuscirci.

Sennò perché mi hai portato qui?

Perché questo nome così inusuale?

Ma è tutto collegato.

La morte della mamma.

La mia sofferenza.

La mia intelligenza.

Le tue premure.

Collegate da un filo rosso.

La mia vita e la sua morte.

Il sorriso di quella bambina.

Ci posso riuscire.

Io sono distante.

Io sono speciale.

Io sono…


***


Cosa significa questo?”

Che ho scelto la mia strada”

“Non sono convinto L. Perdonami ma hai solo sedici anni!”

E allora? Devi per forza essere alto un metro e ottanta per avere un sogno?”

“No, quello che intendo è che ti conviene prima studiare per bene e poi possiamo cominciare a progettare una cosa del genere”
“Vuoi che ti esponga a memoria il nostro codice? Lo so tutto, appendici comprese

“Ma, insomma… tu vuoi sempre tutto e subito… ci sono scelte che vanno ragionate con calma. Tu non puoi…”
“Io non posso?! Adesso basta! È tutta la vita che mi sento dire “tu non puoi”! Già fino a due anni fa avevo l’autostima di un verme, ora che ho trovato cosa farne della mia esistenza non venirmi a dire che “non posso”! Dammi almeno una possibilità, Watari! … per favore…”

“:..”

Cosa c’è?”

“Sei incredibile…”

“Eh?”

“Sarai anche il più intelligente presente qua dentro, ma sei il più infantile”

L tirò fuori la lingua.

“Appunto…“


La sua stanza era un segreto per chiunque. La porta era perennemente chiusa e lui si premurava sempre di ribadirlo con tre giri di chiave. Nemmeno la domestica ci metteva mai piede: l’unica volta che l’aveva fatto le era arrivata una secchiata d’acqua gelida addosso. Watari non aveva mai detto nulla in contrario: ogni ragazzo aveva una sua stanza, o su richiesta potevano dormire in due o tre nella stessa, e quello era il loro piccolo mondo, sacro e inviolabile. Li riteneva tutti abbastanza responsabili e svegli dal non nasconderci dentro chissà che cosa. Ma quando sentì la chiave girare nella toppa, provò un reverenziale timore, come se stesse varcando la soglia di un tempio sacro. L aveva un mondo tutto suo. Un mondo che non condivideva con nessuno. E poter farne parte per Watari era un onore, e lui lo sapeva bene.

All’interno tutti era buio: la luce staccata, le finestre chiuse e solo una piccola lampada che illuminava il letto, su cui troneggiava un portatile bianco, con all’interno dello schermo una piccola L gotica che rimbalzava sulle pareti. Tutto era silenzioso, ovattato e protetto. Tutto era inafferrabile. Come L.

“Attento ai cd sulla destra”

Watari non fece in tempo a fermarsi che una pila di cd gli franò ai piedi.

“Lascia stare, faccio dopo io” aggiunse il ragazzo senza voltarsi, prima ancora che l’uomo potesse abbassarsi per raccoglierli. L’ombra di un sorriso apparve sul volto di Watari. Si diresse con passo incerto fino alla finestra, cercando di non calpestare nulla di ciò che poteva trovarsi sparso sul pavimento.

“Non aprirle, per favore” il ticchettio dei tasti si confuse con il timbro basso della sua voce.

“Ma è pieno pomeriggio, c’è un bel sole…”
“Mi da fastidio quando lavoro”

Le mani dell’uomo scivolarono sulla stoffa delle tende, tradendo un leggero tremito “L, cos’è questo posto?”

“È il mio regno”

Watari comprese da dove venivano le occhiaie appena accennate che spuntavano sotto gli occhi del ragazzo.

Sullo schermo del computer cominciarono a scorrere file, parole, numeri, dati, dati, dati. Una marea di dati.

“Indizi… passi… uno dopo l’altro…” L parlò come se stesse parlando più a se stesso che a qualcun altro.

Quando si avvicinò, Watari vide sparse sul copriletto una marea di fogli,, ritagli di giornale, ma soprattutto foto. Foto che un ragazzo forse non dovrebbe vedere. Foto di cadaveri. E prove. E indiziati.

Watari guardò incerto il computer. “Ma questi sono…”
“File della polizia di Londra”
“Come hai fatto ad averli?” ora l’uomo era incuriosito e in un certo senso anche orgoglioso.

“Sono riuscito ad entrare nel loro server online e, spacciandomi per un loro agente, ho chiesto di passarmi le informazioni che mi interessavano” L allungò una mano per prendere un cioccolatino dalla scatola sul mobile vicino a lui. Watari lo osservò attentamente. Quel bambino era cresciuto troppo in fretta, senza che lui se ne accorgesse. E per un attimo vide passare l’ombra dell’uomo che quel ragazzo sarebbe potuto diventare.

“Questo è il caso del killer che rapisce le ragazze, giusto? Hanno già trovato il colpevole. Perché ti…?”
“Perché stanno per punire una persona innocente”

L’uomo rimase in silenzio, visibilmente incuriosito dalla serietà con cui L stava parlando.

“Avevo seguito il caso attraverso i media, ma quando hanno sentenziato di aver trovato il colpevole c’era qualcosa che non mi quadrava, così ho voluto fare un po’ di ricerche. Ed è esattamente quello che stavi facendo anche tu”

Watari spalancò gli occhi “Che prove hai di questo? Mi hai mai visto ficcanasare in giro come stai facendo tu?”

“Hai lasciato questo in biblioteca, l’altro giorno” L mostrò un foglietto di carta spiegazzato, tenendolo delicatamente tra le dita. Sopra vi era scritto il nome di agente di polizia. “È a lui che hai fatto il terzo grado?”

“Sei veramente abile. È con questo nome che sei entrato nel server della polizia?”

“No. Dava troppo nell’occhio” e prese una caramella a forma di orsetto dalla ciotola poco distante.

L’uomo sorrise, divertito. Poi L parlò di nuovo, ma questa volta lo guardò negli occhi.

“Queste sono le mie capacità. Ho risolto questo caso e non intendo che un innocente vada sulla forca al posto di un colpevole”

“Pensi che ti crederanno? Sei solo un ragazzo…”

È per questo che mi serve il tuo aiuto”

“Giusto…”

“Allora… sei con me, ex agente dell’FBI?”

Watari spalancò gli occhi e per un attimo ebbe paura.

Avevi un segreto che non volevi svelarmi.

Ma come sempre io sono arrivato prima che tu potessi concepire la mia curiosità.

Anche tu Watari sei un mistero. Come me. Sei un ombra. Sei diverso. Siamo uguali. Ma è giusto così…”

Te l’ho detto: è tutto collegato…

La tua scelta su di me. Mia madre. Il mio odio. La statua di Maria. La ragazza con le lentiggini.

“Allora ci stai?” il ragazzo allunga una mano verso l’uomo.

Il tuo sorriso dolce. La mia determinazione. Le campane. La neve. La nostra strada.

L’uomo sorride e allunga la mano verso il ragazzo “Affare fatto…”

Il nostro scopo…


“Allora ne sei veramente convinto?”

“Sì”

“Sarà difficile”
“Lo so”
“Forse farà male”
“Non importa”
“Sicuro di non voler tornare indietro?”
“Sono troppo avanti per poter tornare indietro”

“Come vuoi…”
“ASPETTA!”

“Ripensamento?”
“No… è che devi esserne sicuro anche tu, sennò non vale”
“Certo che ne sono sicuro! Dopo tutto siamo complici. Non è vero, L?”

“Hai ragione,L”

“Allora si va” l’uomo preme il tasto del vivavoce e apre il computer portatile.

Davanti a tutti si staglia una grande L nera contro uno sfondo bianco.

Al di là del vetro ampio, dove ci sono gli esseri grandi…

“Gentili colleghi di Scotland Yard. È un piacere conoscervi…” Watari sorride sotto l’impermeabile nero

Io sono L…

Ora toccava a lui, sorridere come un ebete…


***


L non è nato il 31 ottobre 1979.

L non è nato scoprendo il suo nome.

L non è nato in quella notte di pioggia sotto la statua di Maria.

Forse è nato molto prima, in un tempo in cui non c’era ancora.

L forse è nato in una stanza buia, illuminata dalla luce di un computer, in mezzo a foto di cadaveri e volti contorti dal dolore, senza pianti, senza risa, quando la mano dell’uomo sfiorò e poi strinse quella del ragazzo.

L non ha vissuto per una vita normale, per un lavoro normale o per delle relazioni normali.

L non è fatto per queste cose.

Ma va bene così.

È la strada che ha scelto.

Molti dicono che per ognuno di noi fin dalla nascita ci sia qualcosa di prescritto. Un qualcosa di grande e meraviglioso che solo noi possiamo fare.

C’è chi lo chiama Destino, chi lo chiama Karma.

Io preferisco chiamarlo “Unicuique suum”.

“A ciascuno il suo”

Il concetto su cui si basa la nostra concezione di giustizia.

Ma L non è stato solo il più grande detective che il mondo abbia mai conosciuto.

È stato anche un maestro. Che con pazienza e testardaggine ha insegnato concetti difficili a chi forse non li voleva sapere. È stato un uomo con un sogno ambizioso.

In questo non è molto diverso da Kira. Volendo creare il suo mondo nel giusto. Punendo chi se lo meritava. Cercando di evitare dolore inutile.

Passando un testimone grande e difficile.

Cercando di non morire anche se morto fisicamente.

E qualcuno ha afferrato le sue parole e ne ha fatto tesoro.

Perché un uomo dovrebbe sacrificare la sua intera esistenza alla giustizia?

Per una prospettiva superiore.

Perché un bambino, senza padre né madre, possa ritrovare quella felicità diversa, che troppo a lungo gli era sfuggita.

Perché qualcuno dopo di lui continui la sua strada, senza mai arrivare alla fine. E quel qualcuno forse non è così lontano dall’essere noi stessi.

Ma ora è giunto il momento di dirsi addio.

Nell’animo umano che silenzioso muta, spero rimanga un minimo ricordo dell’uomo e non solo dell’idea.

Perché io so che voi potrete dimenticare il mio volto.

Forse, guardando quella torta alle fragole, non vi verrà in mente il mio strano modo di sedermi.

Quando spegnerete il computer e non sentirete più la mia voce ronzare dalle vostre casse audio, forse dimenticherete anche quella.

Ma sono sicuro che di L non vi dimenticherete mai.

E mi rivedrete ovunque: in un libro, per strada, in un film.

Non vi staccherete mai da me, volenti o nolenti.

Anche se ora vi saluto e vi lascio tornare alle vostre vite.

Tanto ci rivedremo.

E lo sapete perché?

Perché io…

Sono la Giustizia…

L













Parole dall’Autrice

Grazie per aver letto e per essere arrivati fin qui ^_____^ ARIGATOU GOZAIMASU!!

In primis: grazie ad Elaisa e Solarial per il concorso su DN ^_____^

Questa fic credo che più di ogni altra cosa abbia bisogno di spiegazioni.

È la mia one shot più lunga in assoluto e ci sono stata dietro per più di due settimane e mezza. È stato un lavoro difficile, perché non volevo una semplice analisi di L, volevo un qualcosa di particolare, forse anche incomprensibile. Per questo credo che una spiegazione sia doverosa.

Andando per punti:

- L: su di lui non dico più niente, che credo di aver già detto fin troppo ^^” solo che ho cercato di tenermi ben stampato in mente il modello di L di cui ho parlato in Freedom, la mia prima fic su Death Note.

- “Vi veri veniversum vivus vici”: “con la forza della verità, in vita, ho conquistato l’universo”, direi che è una citazione che su L va a pennello.

- La madre di L: per la scena dell’ospedale mi sono basata su una frase in particolare: alla fine del secondo film (the Last Name) L dice di non aver mai conosciuto i suoi genitori. Mi sono venute in mente due opzioni: o l’hanno abbandonato, oppure sono morti. Sull’abbandono non mi pronuncio, perché mi sembrava troppo… strano. Per cui ho optato per la scena che avete letto e che mi è servita per mostrare un primo approccio forte con la realtà di questo bambino. Il primo nodo del rosario che l’ha portato ad essere quello che è, “partendo già in fallo” come dice L stesso.

- Il nome di L: mi sembrava più logico che di lui si sapesse solo il cognome. Un nome così particolare come una singola lettera non lo si dà a gente comune, ma non lo pensa nemmeno gente comune. Mi sembrava bello e naturale che glielo avesse dato Watari quando l’ha preso con sé. Riguardo al suo cognome, traducendolo in italiano viene fuori una cosa come “colui che giace con la legge/giustizia”. Più messaggio subliminale di così…

- I bambini e il primo orfanotrofio: i “diversi” vengono sempre trattati in modo diverso. Per cui mi serviva un posto “normale” in cui collocare il “diverso” dei diversi, prima che arrivasse il periodo più o meno felice della Wammy’s House. I bambini sono i suoi antagonisti, per cui li ho scelti grotteschi nella loro naturale perfidia.

- Watari: l’uomo con l’impermeabile. Su di lui potrei tranquillamente spenderci altre dieci pagine. Ma lo si può condensare in un'unica parola: lui è il “papà” di L. Anche nel fumetto/anime è palese che hanno un rapporto di questo tipo (non ne parliamo poi della puntata 25!). Non è suo padre fisicamente, ma è lui che l’ha preso con sé, che gli ha mostrato una realtà diversa da quella in cui viveva e che ha aiutato quel semino a mettere radici e fiorire. Mi piaceva l’idea che Watari non avesse solo preso in custodia L, ma l’avesse proprio adottato: L è diverso, anche in mezzo ai diversi. In più tra lui ed L c’è un gioco particolare: il gioco dei ruoli. Chi è il vero L? il ragazzo che conosciamo noi, oppure l’uomo che l’ha aiutato a diventare ciò che è? Questa secondo me è una domanda importante, troppo spesso sottovalutata. E poi c’è la complicità: L ha un sogno che da solo non può realizzare; Watari vede per L un futuro che può assomigliare a quel sogno. Allora scatta un meccanismo di particolare intesa, in cui si sviluppa anche il rapporto maestro/allievo. Perché l’ho voluto ex agente dell’FBI? Ma avete visto come spara? Queste cose un vecchietto settantenne non le impara mica in due giorni!!

- La scena della neve: l’ho presa di pari passo dalla puntata 25 e mi fa una tenerezza incontenibile… l’ho inserita perché ho notato che il personaggio di L ruota molto intorno a fenomeni quali la pioggia e la neve. Beh, sul fatto che lui fosse come l’acqua mi sembra siamo tutti d’accordo ^___^

- La statua di Maria: L non ha la mamma. Ma ogni bambino ha bisogno di seguire sia una figura maschile che una figura femminile. L’immagine di questa statua l’ho presa da una delle immagini dell’art book, la mia preferita, in cui si vede L (tra l’altro bellissimo) e sullo sfondo delle rose bianche, un cuore con una sola ala e in cima il fuoco e in basso a sinistra l’immagine della Madonna che prega. Credo sia di una bellezza disarmante e quindi, diciamo pure per puro capriccio personale, ho voluto inserirla anche qui. La citazione che segue, scritta in grassetto, è tratta da Il Corvo e credo che non abbia bisogno di spiegazioni.

- Il cambiamento di L: L cresce e comincia a capire molte più cose di quante un bambino dovrebbe. Per lui le cose che agli altri appaiono normali a lui sembrano o banali o, al contrario, speciali. Poi arriva la bambina con le trecce, “diversa” in modo dissimile al suo. E qui capisce che non esiste solo il dolore che ha provato lui, ma esiste un tipo di dolore che abbraccia tutti. Questo non gli piace e vuole cambiare questa cosa. Ma non si accontenta di punire i suoi coetanei per piccoli scherzi: vuole farlo su vasta scala, sfruttando le sue capacità. Cerca di costruire un mondo a sua misura. Proprio come vuole Kira.

- La Giustizia: quale migliore figura di quella dell’amante? Amante di un amore semplice e incontaminato e per questo crudele come solo l’amore può esserlo.

- Il monologo finale: L non è solo l’uomo che sta dietro lo schermo del computer. L è diventato qualcos’altro: ha superato la semplice forma umana, pur rimanendo umano. Non è più solo il simbolo: passando il suo nome e passando il suo compito a qualcuno che sa lo porterà avanti, lui non è più solo “colui che giace con la giustizia”, lui diventa la giustizia. Per questo non si può dire che morendo se ne sia andato. Lui è rimasto. Sotto forme diverse, ma c’è. è li, da qualche parte, anche se noi non lo sappiamo.

- La L: volevo riprendere lo schermo del suo computer, volevo dare l’idea che L fosse veramente dall’altra parte di questo schermo, a raccontare la sua storia.


Disclaimer: i personaggi di Death Note appartengono a Tsugumi Ohba e Takeshi Obata. Tutti i diritti sono loro riservati. Pubblico questa storia senza nessuno scopo di lucro.

  
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