Serie TV > Sherlock (BBC)
Ricorda la storia  |      
Autore: AntheaMalec    25/11/2012    12 recensioni
Era morto. Sicuramente. Era un dottore, sapeva controllare perfettamente il battito cardiaco di una persona e sapeva riconoscere una persona con il cranio in mille pezzi quando ne vedeva una.
No. Stava sognando, ecco. Un terribile realistico sogno da cui si sarebbe svegliato a pezzi come tutte le mattine.
Avrebbe voluto avere la forza di fare quei pochi passi che lo distanziavano da quella
proiezione realistica del suo Sherlock e toccarlo, sentire la consistenza della sua pelle sotto i suoi palmi, guardare le sue iridi da così vicino da poter contare ogni sfumatura di colore. Avrebbe voluto abbracciarlo, picchiarlo, urlare e sbattere la porta fino a distruggere i cardini, ma non sapeva di non riuscire a muoversi di un solo millimetro, non ancora.
Il suo cuore che si spezzava in più pezzi di quanti ne fosse composto, spiazzato.
Restarono così per un tempo interminabile, fino a quando Sherlock si decide a fare qualcosa oltre al fissarlo con una luce strana negli occhi.
Genere: Angst, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: John Watson , Sherlock Holmes
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A
Guardami negli occhi, è dove i miei demoni si nascondono
 
 
 
 
 
 
If you have to leave 
I wish that you would just leave 
'Cause your presence still lingers here 
And it won't leave me alone 

These wounds won't seem to heal 
This pain is just too real 
There's just too much that 
time cannot erase 


Evanescence


 
 
 
 
 
 
 
 
Non sapeva nemmeno lui come fosse finito lì dentro, rinchiuso da pareti che lo stavano soffocando, con quelle candele inutili e quell’odore strano che gli faceva storcere il naso e abbassare lo sguardo. Non sapeva nemmeno lui come fosse finito lì dentro, passeggiando a testa bassa per le vie caotiche di Londra, scontrando le spalle con i passanti indaffarati e sorridenti mentre sentiva il mondo andare avanti senza di lui, lui che il suo mondo l’aveva sentito spezzarsi tra le mani soli due giorni prima.
Forse era stata una questione di coincidenza, lo sguardo che si era alzato proprio nel momento giusto o sbagliato che fosse, lasciandolo come annichilito davanti alla scalinata che portava al grande portone in legno. Si era chiesto se era giusto entrare –l’aveva fatto?–, si era dato dell’idiota perché, davvero, non c’era nessun miracolo su cui rimuginare e nessuna preghiera sopra la quale piangere, ma ora si trovava lì, davanti ad un altare che simboleggiava tutto quello in cui non aveva mai creduto, con le ginocchia appoggiate al duro poggiapiedi della panchina in seconda fila e un mezzo sorriso triste sul volto.
Non comprendeva neanche il meccanismo della religione. Si credeva per tutta la vita, senza incertezze, senza rabbia verso qualcuno che ti guardava dall’alto ridurti in cenere, osservava omicidi, sentiva peccati e, nonostante tutto, rimaneva nell’ombra misteriosa del silenzio. John non si era mai sentito credente per il semplice fatto che in guerra gli unici compagni affidabili erano stati la sua pistola, sempre carica, e il sangue freddo.
Eppure eccolo, in ginocchio in una chiesa vuota mentre sentiva tutte le ossa a pezzi e il cuore spezzato e gli occhi così stanchi e troppo lucidi.
Strinse più forte le mani congiunte contro la sua fronte, respirando lentamente e cercando di riportare la calma in se stesso e nella sua mente –non era successo niente, Sherlock sarebbe stato sulla sua poltrona una volta ritornato a casa, nel 221 B di Baker Street, e lui si sarebbe arrabbiato per i pezzi di cadavere nel frigorifero e il detective avrebbe sbuffato e lo avrebbe ignorato come sempre; non era successo niente.
 L’ultima volta che il suo gruppo era stato colpito in Afghanistan, prima che qualcuno gli sparasse una pallottola nella spalla forzandolo al congedo, John aveva osservato un commilitone stringere il crocifisso che portava al petto e portare il ciondolo con la foto di sua moglie alle labbra, in una di quelle preghiere silenziose che solo l’arrivo della morte riusciva a rendere materiali e incandescenti davanti agli occhi di John.
Lui non aveva mai avuto una croce al collo da stringere mentre veniva trasportato su una dannata barella e non aveva avuto nessuna foto da baciare, nessuna persona a cui rivolgere gli ultimi pensieri, nessuna famiglia a cui dare l’ultimo, speranzoso saluto.
Poi l’aveva trovata, la sua famiglia. Aveva trovato lui, aveva trovato la sua persona, e tutto aveva incominciato a girare per il verso giusto. Aveva cercato un posto in un ambulatorio e si era tenuto stretto il suo pezzo di normalità e quotidianità, non aveva cercato un posto da assistente dell’unico consulente investigativo al mondo ma, a sorpresa, eccolo a correre su e giù per le strade di Londra inseguendo criminali e controllando il suo coinquilino.
Al contrario di tutti gli altri, lui non aveva davvero sentito il bisogno di perdere tutto per capire la reale importanza di ciò che gli era capitato tra le mani.
Percepì il groppo in gola che l’aveva accompagnato da quel giorno accentuarsi, facendogli schiarire più volte la voce nel tentativo di non distruggere la sua integrità da soldato con un pianto dirotto e senza fine.
I cristiani solevano dire: “Dio provvederà”. John non ci credeva, se proprio voleva essere sincero con lui stesso. Niente guerre, niente ingiustizie, niente persone ai margini delle strade ricoperte di stracci con una famiglia a carico, niente persone morte senza un senso, niente dolore, niente perdita, ecco come sarebbe dovuto essere. Niente fratelli arcinemici o sociopatici additati come psicopatici. Provvedere? Provvedere a cosa? Tutto quello che aveva conquistato l’aveva perduto e neanche Sherlock Holmes, nel suo grande intelletto da super consulente investigativo, avrebbe potuto tornare in vita come per magia, riportandogli indietro tutta la sua esistenza.
Non era poi così difficile, giusto? Bisognava solo…solo dire qualche frase e basta, poi sarebbe andato via da lì e avrebbe cancellato dalla memoria quel momento imbarazzante e senza significato –un ateo che chiede un miracolo in chiesa? Davvero esilarante. Mosse le spalle in movimenti circolari, cercando di rilassarsi prima di far spezzare i suoi nervi in tensione.
Okay Sherlock, se sei in ascolto, io vorrei solo che tu…
Sciolse le mani intrecciate, sorridendo tristemente. Sherlock non avrebbe aspettato due secondi dal prenderlo in giro per quella scenata pietosa da romanzo dell’ottocento, con tutti quei sentimenti e quelle preghiere che non sarebbero servite a niente –“Sono morto, John, non c’è niente che tu possa fare per farmi tornare indietro, la logica è chiara e concisa”, così avrebbe detto e John avrebbe alzato gli occhi al cielo e soppresso la voglia di baciarlo per l’ennesima volta, chiudendogli quella bocca arrogante. Sentì il portone sbattere dietro di lui, ma non si voltò, cercando conforto nelle piccole fiamme delle candele accanto a lui.
Sherlock, so che probabilmente ora sarai a fare qualche esperimento nel tuo laboratorio speciale, tutto solo e pieno di scartoffie che ti faranno uscire fuori di testa, ma vorrei solo farti sapere che mi manchi. La morte è più dura per chi sopravvive, è così e basta. E’ difficile dire addio, a volte è impossibile. Non smetto mai di sentire la tua mancanza, è questo che rende le cose difficili. Lascio briciole di noi dietro le mie spalle, piccoli ricordi, una vita intera di memorie, foto, fronzoli, casi, adrenalina e complicità. Alle volte vorrei chiamare il tuo numero, sperare di sentire la tua voce che risponde al telefono con un tono leggermente più alto del solito, come facevi sempre, ma so che, quando la risposta non arriverà e la segreteria annuncerà la fine della chiamata, un altro pezzo di me inesorabilmente morirà, insieme alla dannata speranza che tu e il tuo genio abbiate trovato un modo per salvarvi da quella fine. Stupidità. Cose banali di persone banali. Beh, sappi solo che…non ci sarà un altro uomo come te e non smetterò mai di cercare qualcosa di vero in tutte le tue ultime bugie. A volte mi manchi talmente tanto che riesco a malapena a sopportarlo. Quindi, questo. Solo questo, Sherlock. Lasciami almeno questo.
John strinse forte le labbra, cercando di non emettere alcun suono, cercando di respirare il meno possibile e di non muoversi.
Immobilità, ecco cosa gli serviva in quel momento. Un attimo per rimettere tutti i pezzi al loro posto e ritornare il vecchio John Watson di sempre, quello con un tremito alla mano sinistra e gli occhi spenti. Riempì bene i polmoni di ossigeno, osservando per l’ultima volta il crocifisso appeso al muro oltre l’altare. Davvero, come diavolo si era ridotto? L’ombra spaurita del vecchio soldato quale era, quello che, appena aveva incontrato Sherlock, aveva sentito tutte le sue convinzioni sparire per far orbitare tutto il suo mondo intorno al detective, quella persona che aveva sparato ad un uomo per salvare il suo coinquilino conosciuto il giorno prima, promettendo a se stesso di diventare il suo angelo custode e proteggerlo, sempre.
Eppure, alla fine dei giochi, la colpa era sua. Sua che si era fatto allontanare come uno sciocco ed era arrivato troppo tardi nei piani completamente confusionari di Sherlock. Tardi, troppo tardi.
Un omicidio che aveva ucciso due persone –probabilmente Sherlock aveva preso la via più facile, almeno lui non doveva strisciare un giorno dopo l’altro sentendo il peso del passato gravare addosso come un’àncora pronta ad affondare, lui era quello morto in fretta, lui era quello morto per davvero.
Si alzò dal poggiapiedi, percependo le ossa delle gambe scricchiolare e urlare per il dolore. Il dolore fisico andava bene, si disse, lo teneva aggrappato alla terraferma, era reale ed era una pena che aveva già sperimentato. Si sistemò meglio il maglione a righe appena più largo, chiudendo la zip del giubbotto sopra di esso, con il colletto rigorosamente abbassato. Camminò a testa bassa fino all’uscita, sorpassando l’uomo seduto in ultima fila, coperto dalla testa ai piedi tanto da non riuscire a scorgergli il volto –faceva così freddo fuori? Non se n’era accorto– e l’acqua santa, chiudendosi la porta alle spalle.
Aria fresca e pungente sul viso, odore di ciambelle probabilmente proveniente da qualche venditore ambulante lì vicino, la strada pullulante di persone che facevano avanti e indietro, ridevano al telefono e stringevano le mani ai propri compagni. L’odore della vita che scorreva inesorabile, lasciandolo indietro. Solo strade e negozi e macchine. E un ex militare che cercava rifugio ovunque per scappare da se stesso e dal fantasma del suo migliore amico morto. Si esercitava, ancora una volta, nella difficile arte di rincominciare da zero, sapendo già in partenza che non ci sarebbe riuscito. Sperava solo che Dio avesse una buona scusa.
 
 
 
A volte pensava che John Watson non esistesse più, non veramente. Erano passati tre mesi dall’accaduto eppure gli sembravano passate solo poche ore. Ancora single, ancora a cercare risposte che non sarebbero potute arrivargli, ancora abbandonato alla sua vita. Non sentiva Greg da una vita –per cosa l’avrebbe dovuto sentire? Non c’era più niente su cui dialogare–, evitava il Bart’s come la peggiore delle malattie e Molly non si era fatta mai sentire se non, sporadicamente, i primi tempi dopo il lutto.
Aveva lasciato Baker Street, aveva voltato le spalle a tutto e aveva fatto ciò che sapeva fare meglio: recitare. Continuava a lavorare nel vecchio ambulatorio e Sarah aveva avuto l’accortezza di non fare più parola di niente che riguardasse lui, sorrideva ai pazienti, dava carezze sulla testa ai bambini particolarmente capricciosi, camminava fino al suo nuovo appartamento, rispettava i semafori, evitava lo sguardo degli sconosciuti e si fermava a comprare del caffè, sporadicamente, fino a quando non giungeva a casa.
Non era la sua casa, non l’avrebbe definita così, era più un’abitazione, una tana dove rifugiarsi non appena la farsa giornaliera non terminava.
Fino alla settimana precedente al Natale, quando, tutto quello che aveva imparato a costruirsi con tanta fatica e poca pazienza, crollò nuovamente.
Aveva sempre dubitato di come i londinesi festeggiassero l’arrivo del Natale, sempre con un anticipo così grande da rovinare tutta la sorpresa e il tripudio di luci e decorazioni nelle case e per le strade. Probabilmente, il problema era solo che quello sarebbe stato il primo Natale passato in solitudine, con la sola compagnia di se stesso e di molte bottiglie di vino, se sarebbe stato fortunato. La neve non era ancora giunta ma John, dando un’occhiata al cielo bianco, avrebbe scommesso che non mancasse poi molto al suo arrivo.
Non che a lui interessasse, ovviamente. Non aveva bisogno di girare per centri commerciali affollati alla ricerca del regalo perfetto per i suoi amici, visto che non ne aveva più nemmeno uno, e non doveva nemmeno cercare del cibo abbastanza buono per soddisfare lo stomaco del suo coinquilino visto che, ovviamente, non ne aveva più uno. Un Natale perfetto. Un Natale triste.
Dovette fermarsi un momento in mezzo al marciapiede per far smettere il violento capogiro che si era impossessato della sua testa mentre ogni singola persona in quella città sembrava non accorgersi di lui –ancora. Pensava di averci fatto l’abitudine, ormai.  
Girò nel viottolo poco frequentato, tirando fuori le chiavi per il portone d’ingresso del condominio abitato da gente poco raccomandabile nel quale viveva. John sapeva che nell’appartamento sopra al suo viveva un ragazzo molto più giovane di lui perché l’aveva visto scambiarsi della droga con un uomo molto più adulto, in fondo a quella stessa via. John avrebbe dovuto fare qualcosa, o almeno credeva, ma sinceramente non aveva ancora fatto nulla e dubitava che l’avrebbe fatto in futuro.
A volte gli ricordava Sherlock, anche se la somiglianza fisica lasciava a dubitare. Gli riportava alla memoria il loro primo incontro e tutte le supposizioni e le domande che si era fatto a quei tempi –sto dividendo l’affitto con un drogato? Possibile che lo odino tutti? Possibile che sia così impossibile come tutti dicono? E’ normale che io lo trovi…non così anomalo?– e questo a John non piaceva. Annullare il passato, ecco cosa stava cercando di fare. Tagliare tutti i ponti, tutte le comunicazioni e guardare avanti, nonostante la prospettiva lasciava a desiderare. In quegli ultimi giorni anche Molly aveva rincominciato a mandargli messaggi a ripetizione o cercava di chiamarlo, ma John aveva evitato tutto quanto, reputando la pena dovuta alle vacanze natalizie davvero non la sua area di competenza.
C’era poi anche il suo vicino che sembrava aver sviluppato una sorta di depressione eterna per tutta la durata della giornata. John sentiva la musica classica sorpassare le sottili mura che dividevano i loro appartamenti, portandolo su un percorso di malinconia che, grazie tante, preferiva non percorrere.
Ogni cosa in quei mesi sembrava ricordargli Sherlock, nonostante tutte le mattine passate a dimenticare e tutte le notti insonni passate a piangere. Quando girava per le strade e sentiva lo squillo di un cellulare simile alla suoneria di Sherlock il suo cuore non smetteva mai di sobbalzare, lo vedeva in ogni passante, in ogni cappotto troppo lungo o riccioli scuri, credeva di sentire il suo profumo ovunque e, alle volte, era sicuro che lui fosse anche dentro casa sua, che si fosse poggiato sul suo cuscino o mangiato al suo stesso tavolo. Aveva sentito dire che finchè potevi sentire il passato bussare alle porte della mente esso non verrà mai lasciato veramente indietro, così era anche per lui –non era nemmeno sicuro che volesse dimenticare, ma quelli erano solo dettagli.
Ci mise più del necessario per far entrare la chiave arrugginita nella serratura piena di scotch che il condominio offriva, dando anche una spinta al vetro incrinato del portone, in modo da farlo aprire senza farlo strisciare pietosamente contro al pavimento, stridendo. Sorpassò una bottiglia vuota di birra appena prima delle scale e salì in fretta, per quanto la sua gamba potesse permettergli –di comprarsi un bastone neanche a pensarci, troppi ricordi di quel prima e lui, davvero, non ne aveva bisogno di altri.
Passò attraverso il corridoio e arrivò al suo portone di legno, fermandosi un paio di passi prima dell’entrata.
Strano. C’era qualcosa che decisamente stonava. C’era qualcosa che decisamente doveva essere chiuso. Sentì tutti i suoi sensi di ex soldato e di ex assistente di un sociopatico pronto a farsi uccidere per provare la sua intelligenza, tornare a galla con prepotenza, scaricandogli una dose di adrenalina dritta nelle vene –ah, meraviglioso.
Raddrizzò le spalle, sentendo il dolore alla gamba anestetizzarsi mentre il cervello, quella subdola macchina, incominciava a creare le più indicibili teorie al riguardo.
Aveva potuto dimenticarsi di chiudere la porta, sbadato com’era in quei giorni? Probabilmente no. Qualche suo vicino poteva aver fatto irruzione in casa sua per rubargli qualcosa, magari proprio il ragazzo dipendente dalla droga? Forse. Qualunque cosa fosse successa, John era pronto. L’aria che filtrava dalla finestra del corridoio gli sfiorava piano il viso surriscaldato mentre si muoveva piano verso la porta di legno, rimpiangendo di aver lasciato la sua pistola sul fondo del comodino dal giorno in cui, beh, era successo ciò che era successo. Si ricordava ancora come si faceva, inspirare, espirare, movimenti piccoli ma sicuri e sangue freddo –Sherlock sarebbe…no, lui non sarebbe più niente.  
Avvicinò la mano destra alla porta, spingendola piano in modo da aprire un varco mentre l’altra, la sinistra, era chiusa in un pugno lungo il fianco e John sapeva che in quel momento stava tremando un po’ di meno.
Si guardò brevemente intorno, non notando quel caos che contraddistingueva una rapina fatta e finita. C’era un giornale aperto sul tavolo di seconda mano, la piccola televisione era ancora riposta lì anche se, probabilmente, un ipotetico rapinatore non sarebbe stato interessato a nulla che fosse presente in quel bilocale. Lanciò un’occhiata a quello che poteva scorgere del bagno e della cucina, con la luce accesa e la porta scorrevole a vetri opachi quasi completamente chiusa.
Con la luce accesa. Il giornale aperto sul tavolo. Lui non comprava più un giornale da quel giorno, quindi quello tecnicamente non poteva essere suo. Qualcuno era entrato a casa sua e si era preso la comodità di fare come se fossa sua? John gli avrebbe fatto pentire di averne avuto anche solo l’idea.
Non si era più permesso di toccare la sua pistola dopo Sherlock, né aveva cercato alcun tipo di adrenalina o casi di omicidi, suicidi o killer spietati e vogliosi di sangue. Si era vietato tutto perché era giusto così, era il suo personale atto di fedeltà verso colui che gli aveva concesso un altro modo di vedere la vita di tutti i giorni, quella monotona e banale, anche se poi gliel’aveva strappata dalle mani senza permesso. Nonostante ciò, si avvicinò cautamente alla scrivania in legno chiaro contro al muro scrostato, non staccando nemmeno per un secondo gli occhi dalla porta della cucina –avrebbe visto subito l’ombra dell’intruso se avesse osato avvicinarsi alla porta e sapeva che ci avrebbe messo meno di un minuto a caricare la pistola e sparare.
Fece un paio di passi verso sinistra e poi indietro, cercando con le mani il bordo della scrivania, fino a quando qualcosa non lo fece fermare. Qualcosa di sfocato che si muoveva in cucina, qualcosa che faceva chissà cosa per chissà quale motivo, fino a quando John riuscì a capire che quel qualcosa era evidentemente qualcuno e che, altrettanto evidentemente, quel qualcuno si era accorto del suo arrivo.
Toccò finalmente il legno rassicurante, ma prima che riuscisse ad aprire il cassetto e afferrare la pistola, l’ombra aldilà della porta lo fece arrestare.
Impossibile. Okay, la sua mente era sotto carico di adrenalina, si stava sicuramente sbagliando, perché sbagliare era l’unica cosa razionale da pensare.
Il cuore si mise a correre come impazzito, il suo intero corpo sembrava urlare e urlare parole che John in quell’istante non riusciva nemmeno a capire perché, sì, dannazione, quel profilo lui lo conosceva bene, lo avrebbe distinto anche in una pozza scura di fango, anche se ora era sfocato dal vetro –maledette porte, maledetto cervello, maledetto lui che non aveva preso un appartamento in centro, pieno di porte blindate e vicini rispettabili.
Cercò di respirare in modo regolare, in quei pochi secondi che il tizio sembrava volersi prendere restando immobile davanti alla porta, con una mano appena alzata a toccare la lastra –o almeno così credeva John, non era molto sicuro delle sue facoltà mentali in quel momento. Ragiona con calma, non farti prendere dalla fantasia, si disse, reggendosi al bordo della cattedra non più per difendersi dal presunto aggressore ma per restare in piedi. Quando si decise ad aprire la porta sentì il sangue fischiare nelle orecchie ancora prima di vedere il suo viso, ancora prima di notare il cappotto, le scarpe, il completo, gli occhi –occhi, occhi, occhi, solo i suoi–, i capelli, la sciarpa, ancora prima che notasse che fosse davvero lui e che quello fosse assolutamente impossibile, dato che lui l’aveva visto cadere, morire ed essere seppellito sotto della maledettissima terra.
Prese un respiro profondo solo quando notò che la vista incominciava ad annebbiarsi a causa della mancanza di ossigeno nei polmoni, le mani ancora strette al legno e gli occhi fissi su di lui, sgranati fino al possibile.
Era morto. Sicuramente. Era un dottore, sapeva controllare perfettamente il battito cardiaco di una persona e sapeva riconoscere una persona con il cranio in mille pezzi quando ne vedeva una.
No. Stava sognando, ecco. Un terribile realistico sogno da cui si sarebbe svegliato a pezzi come tutte le mattine.
Avrebbe voluto avere la forza di fare quei pochi passi che lo distanziavano da quella proiezione realistica del suo Sherlock e toccarlo, sentire la consistenza della sua pelle sotto i suoi palmi, guardare le sue iridi da così vicino da poter contare ogni sfumatura di colore. Avrebbe voluto abbracciarlo, picchiarlo, urlare e sbattere la porta fino a distruggere i cardini, ma sapeva di non riuscire a muoversi di un solo millimetro, non ancora.
Il suo cuore che si spezzava in più pezzi di quanti ne fosse composto, spiazzato.
Restarono così per un tempo interminabile, fino a quando Sherlock si decide a fare qualcosa oltre al fissarlo con una luce strana negli occhi.
“John…” Quella parola. Quel particolare nome, detto con quella tonalità di voce e quella cadenza che per il dottore avevano sempre significato tutto, lo risvegliarono dal torpore in cui si era imprigionato, facendolo ritornare nel suo bilocale, con Sherlock ritornato dal mondo dei morti davanti a lui, dopo interi mesi.
“So che potresti sentirti sotto shock, è più che certo, so che…” La sua voce si abbassò sempre di più, fino a sfumare nel nulla. Era agitato, John lo poteva capire da tante piccole cose che aveva incominciato a notare quando vivevano ancora insieme. Prima che lui si fingesse morto e distruggesse tutto.
“E’ possibile che tu dica qualcosa prima che anche Anderson cominci a capire che non sono un fantasma?” Non riusciva a fare altro che osservarlo, non riusciva a pensare ad altro che quel mezzo sorriso su quel viso appena sciupato non gli donava per niente e che lui, in realtà, in quel momento sarebbe dovuto essere ossa sparpagliate in una tomba di lusso, pagata con i soldi di Mycroft.
Sherlock fece un paio di passi verso di lui e, istintivamente, John premette il proprio fondoschiena contro la cattedra, cercando un punto di fuga –no, non vicino, no, per favore.
“Dovresti sederti.” Riecco il tono che lo aveva sempre contraddistinto, pieno di fiducia verso se stesso e verso i suoi pensieri razionali. Continuava ad avanzare, imperterrito dello sguardo appena perso di John.
“Non voglio sedermi.” Era la sua voce quella che era risuonata nell’aria? Sembrava decisamente alterata e instabile. Provava rabbia? Non ne era sicuro, non era nemmeno sicuro che stesse respirando o che il suo cuore stesse battendo nel suo petto.
I giorni appena dopo la sua morte –finta morte, a quanto i suoi occhi potevano notare– John aveva pensato molto spesso alle sue prime parole dopo che Sherlock fosse tornato da lui, spiegandogli che no, che idiota che era stato, lui non avrebbe mai commesso un suicidio e che la sua mente brillante aveva scaturito un piano perfetto e geniale che avrebbe riportato indietro la loro perfetta e idilliaca vita. John si sarebbe arrabbiato un po’, ovviamente, poi avrebbe incrociato il suo sguardo e l’avrebbe abbracciato forte, baciandogli le labbra e sussurrandogli quanto diavolo gli fosse mancato in tutto quel tempo di lontananza.
Ma Sherlock non era tornato e le settimane erano diventate mesi, fino a quando le belle parole erano scomparse dalla testa di John, lasciando posto a rancore, rabbia e abbandono. E tradimento, tradimento della sua fiducia e del rapporto.
Sherlock, a sentire quel tono e quelle parole, fermò la sua marcia verso di lui, finendo a poca distanza da John.
“Posso spiegare.”
“Perché sei qui?” Non aveva voglia di sentire i suoi monologhi da genio in astinenza di complimenti, non voleva essere il suo pubblico, pronto ad applaudire all’ennesimo esempio del suo intelletto. Quel John Watson era morto nel momento in cui il corpo di Sherlock era caduto dal tetto di un palazzo, sfracellandosi al suolo.
“Se tu mi lasciassi spiegare perché ho dovuto farlo non-”
“Ti ho chiesto perché sei qui.” John tolse una mano dalla sua àncora di salvezza, trovando la forza di reggersi in piedi senza crollare. Trovando la sua forza nella rabbia.
Certo, il primo momento in cui l’aveva visto non aveva creduto che potesse essere vero che Dio, grazie, avesse fatto un simile miracolo per lui. Ma poi aveva pensato che no, Dio non c’entrava poi molto in quella storia, l’unica colpa era di Sherlock, e allora aveva incominciato a lasciar andare quella furia che si portava dietro da mesi.  
Sherlock lo guardò negli occhi, leggendo nel linguaggio del suo corpo ogni suo pensiero o stato d’animo –come se ne avesse ancora il permesso, come se fosse ancora tutto dannatamente normale.
“Molly avrebbe dovuto chiamarti, era giunto il momento giusto per ritornare.”
“Molly?” John aggrottò per un momento le sopracciglia, confuso. Cosa c’entrava Molly con il ritorno di Sherlock? Il suo sguardo da cucciolo bastonato gli spianò la strada per la risposta. Sapeva, ovviamente. Lei sapeva, lei che a malapena considerava una conoscente. Provò una scossa lungo la spina dorsale che gli fece stringere forte la mascella, scosso da un sentimento ancora più profondo della rabbia.
“Molly, certamente.”
“Non è come pensi.”
“Ovviamente! Ovviamente non è come penso!” Ed eccola, l’ira impetuosa. John sapeva che da quel momento in poi non avrebbe più avuto il controllo di se stesso o di ciò che sarebbe uscito dalla sua bocca. Era solamente tutto…troppo.
“Non è mai come penso io, non è così? L’ironia della sorte!”
“Ho dovuto farlo.”
“Per la scienza? Per un altro dei tuoi esperimenti, come quella volta a Baskerville? Oppure era solo uno sfizio tuo e di Moriarty? Non…non pensare nemmeno per un secondo di venire qui e provare a giustificarti perché non puoi!” Sherlock non sembrava minimamente scalfito dalle sue parole o, almeno, non lo lasciava intravedere, aveva solo quell’aria annoiata da genio incompreso che era una quotidianità nella sua vita, una volta.
“Se hai intenzione di non ascoltare ciò che ho da dire è inutile che tu ponga le domande.”
John sgranò appena gli occhi, indeciso se prenderlo a pugni subito o aspettare che la rabbia aumentasse ancora un po’, facendogli rimpiangere di essersi salvato da quel dannato tetto.
“Ti sei finto morto, ti rendi conto di cosa questo significhi?” Urlò con tutto il fiato che gli restava in corpo.
“Io lo so benissimo, tu non lo immagini nemmeno.”
“Non voglio sentire un’altra parola di più.”
John si ritrovò a puntare il dito contro di lui, le labbra strette in una morsa letale e gli occhi fissi sul suo viso, senza vederlo veramente.
“Non voglio sentire spiegazioni, non voglio sentire niente, da te. Sono passato avanti, ho…capito, ho accettato e ho cambiato pagina. Tu sei venuto qui sperando che sia tutto come prima? Che io possa dimenticare gli interi mesi passati pensando di non poterti mai più rivedere? E’ troppo tardi.”
Sherlock fece un paio di passi indietro, facendo pensare a John che, finalmente, si stesse arrendendo all’evidenza che di lui non ne voleva più sapere niente –e al diavolo che, sì, aveva pregato che arrivasse quel giorno per ore intere.  Troppo tardi.
Al contrario di quanto John si aspettasse –ovviamente non faceva mai una singola cosa di ciò che voleva lui, su quello non era cambiato di una virgola–, Sherlock aveva indietreggiato solo per ritornare in cucina a prendere qualcosa che somigliava a un libro dal ripiano. Osservò attentamente prima il mezzo sorriso, con davvero poca allegria e tanta, troppa soddisfazione, e poi ciò che stava reggendo tra le sue mani.
Non un libro qualunque, ma quell’agenda.
“L’ho cercato per tutta casa e, lo ammetto, ad un certo punto ho davvero sospettato che tu non l’avessi più con te, ma l’ho trovato. Era in un posto in cui non mi sarei mai aspettato di trovarlo, ma che, con rapidi ragionamenti, ho potuto comprendere. Sotto al letto, per quale motivo? Non c’era nessuna traccia di polvere, nonostante questo appartamento non abbia come sinonimo la parola pulizia. Immagino tu lo legga ogni notte, non è così? Anche solo sfogliarlo, perdendosi nel viale dei ricordi. Non è troppo tardi, a quanto pare.”
John prestò poco ascolto a ciò che Sherlock gli stava dicendo, dando maggiormente attenzione a ciò che lui stesso aveva riportato alla luce.
John aveva sempre avuto la strana mania di appuntare ogni caso e ogni episodio rilevante su qualcosa che potesse ricordargli sempre e per sempre cosa fosse precisamente accaduto, così era saltata fuori l’idea del taccuino, pieno di fotografie, ritagli di giornale e segni con il pennarello. E post-it. Post-it che Sherlock aveva incominciato ad attaccare ogni qualvolta John si distraeva, commentando acidamente ogni cosa da lui scritta –probabilmente già si sentiva che, prima o poi, avrebbe perso tutto.
Da quando Sherlock non c’era stato più aveva usato prendere come tradizione, tra una nottata insonne e l’altra, lo sfogliare le pagine del suo diario, passare le dita sulla scrittura frettolosa di Sherlock e far spuntare sorrisi malinconici lì dove, poco dopo, sarebbero spuntate anche le lacrime.
Non l’aveva mai tenuto in mano di giorno, pensando che un segreto celato alla notte potesse sparire non appena la luce della vita fosse entrata dalla finestra, facendo finta di non aver mai stretto uno stupido taccuino sperando di vederlo trasformarsi nella persona più importante della sua vita.
E ora lui arrivava, con l’intento di fare o dire chissà cosa a John che, davvero, avrebbe tanto voluto tornare da Sherlock a braccia aperte, dieci mesi prima.
“Nessuno ti ha dato il diritto di prenderlo.”
“Devi farmi spiegare, voglio spiegarti.”
“Il fatto è che…tu non capisci, non è così?” John si mise a ridere senza nessuna voglia, sentendo la rabbia ritornare, condita dalla cocente delusione.
“Non mi importa come diavolo hai fatto a salvarti, okay? Non mi importa della tua grande intelligenza o della tua voglia di complimenti per il grande piano. Ti sei ucciso davanti ai miei occhi, mi hai fatto credere di averti perso per sempre quando sapevi benissimo che tu eri…” Sentì la voce perdersi nel nulla mentre tutto il suo corpo avrebbe voluto accartocciarsi in se stesso e scoppiare e la sua testa continuava a ripetergli che no, quella non era nemmeno la metà delle cattiverie che Sherlock avrebbe meritato di sentire, e il cuore che continuava a ripetergli che sì, dannazione, era proprio lui quello davanti a lui e cosa poteva chiedere di meglio?
“Hai tradito me e la nostra amicizia per uno stupido gioco con Moriarty, solo per mostrarti più forte. Non importa se tutte le notti sfogliavo quel diario, non importa se ho pregato ogni doloroso, maledetto giorno della mia vita, non importa nemmeno che tu ora sia tornato perché tu mi hai detto addio su quel tetto e per me è come se fossi morto per sempre, non c’è più niente che tu possa fare. Quando te ne sei andato, anche se non lo sai, hai fatto una promessa silenziosa. La promessa che siccome hai scelto di andartene non saresti tornato, ora accetta le conseguenze.” Aveva parlato con calma, sottolineando attentamente ogni parola come se da tutte quelle frasi non fosse nata una sorta di voragine tra lui e Sherlock e tra John e se stesso.
Aveva esagerato? Probabilmente no, no. Se lo meritava, eccome. Lui e i suoi giochetti senza scrupoli, lui e il suo continuo pensare a se stesso prima della vita degli altri, prima della vita di John. Eppure.
Eppure una parte di lui già si sentiva in colpa vedendo gli occhi di Sherlock sgranarsi un po’, lasciando intendere la sua sorpresa per l’uscita di John –pensava che avrebbe fatto un po’ il difficile e poi sarebbe ritornato scodinzolando dietro il suo cappotto? Era un soldato, cavolo, aveva ancora una dignità e un cervello–, prima di far ritornare la maschera di impassibilità sul suo volto.
Sembrava che anche il mondo avesse smesso di girare, in quel momento, con Sherlock che faceva piccoli passi verso di lui, non staccando mai gli occhi dai suoi. John trattenne il fiato anche quando Sherlock gli mise tra le mani il suo diario, sfiorandogli, non tanto accidentalmente, le mani.
“Come vuoi tu, John.” Disse, prima di passare un’ultima volta i polpastrelli sopra la pelle del suo indice sinistro e andarsene frettolosamente dal suo appartamento.
Se n’era andato. Bene, andava bene visto che non aveva nessuna intenzione di rivederlo un’altra volta.
Restò lì in piedi, il taccuino tra le mani, il cervello che incominciava a elaborare la rabbia e la rabbia che cominciava a sbollire e svanire, lasciandogli solo vuoto.
Okay. Perfetto.
Appoggiò violentemente il diario sul tavolo ed esso si aprì all’ultima pagina dove, con sorpresa, John trovò qualcosa che fino alla notte prima non c’era mai stata.
Due piccole righe a fondo pagina, nulla di che, e se John non avesse mantenuto tutti i giorni di studio dell’osservazione che Sherlock gli aveva severamente insegnato probabilmente non le avrebbe mai notate. Ma eccole lì, la stessa calligrafia di sempre, forse un po’ più curata, le curve delle lettere un po’ più marcate e l’inchiostro nero che sembrava voler marchiare per sempre quella pagina, incidendosi, nello stesso tempo, nel suo cuore, a sangue.
La delusione peggiore era quella che ci si aspettava perché nel momento in cui arrivava ti lasciava a terra incredulo, costretto a chiederti "se avessi saputo che sarebbe finita così, allora perché non sono riuscito a proteggermi?" 
Sono tornato, diceva sopra le sue due iniziali.
Sono tornato, diceva, e a John non ressero più le gambe.
 
 
 
Nel momento stesso in cui Sherlock Holmes era andato via da casa sua, John aveva deciso che sicuramente non gliel’avrebbe fatta passare liscia.
Quando avevano convissuto insieme aveva avuto la sacrosanta pazienza di perdonare ogni sua stramberia o poca gentilezza, dicendosi che sì, dai, in fondo lo amava anche per quello. Di certo avrebbe preferito trovarsi una testa mozzata nel frigo piuttosto che scoprire che il proprio migliore amico che si credeva morto, in realtà era vivo e vegeto e rompiscatole quanto, o forse più, di prima.
Infatti, John aveva avuto bisogno di tutta la sua pace interiore per non far scoppiare una rissa in ogni punto di Londra, visto che Sherlock non aveva chiaramente capito cosa significasse volere il proprio spazio. Se lo ritrovava dappertutto e ciò stava portando ad un lento e doloroso esaurimento nervoso da parte di John. Sotto casa, al supermercato, a lavoro, quando cambiava tragitto per non incontrarlo e quando usava tragitti impensabili con la metro pur di non incrociarlo ancora.
Sherlock Holmes era ovunque e John si era sentito quasi in dovere di chiamare qualche telefono azzurro e denunciarlo per stalking.
La verità sulla sua reputazione e su ciò che era successo con Moriarty era venuta alla luce proprio la mattina dopo il loro primo, nuovo incontro e John aveva evitato accuratamente di comprare i giornali, fino a quando, appena tornato a casa, non avevo trovato una ventina di copie di quotidiani diversi sopra al tavolo del suo appartamento.
Inconcepibile. Irritante.
John era arrivato anche a capire che odiava i ritardatari. Ma non quelli che arrivavano con mezz'ora di ritardo ad un appuntamento, quelli che si rendevano conto troppo tardi. Quelli che ferivano e poi chiedevano scusa quando ormai non serviva più a niente. Quelli che tornavano all'improvviso quando passavano mesi interi prima di dimenticarli. Quelli che potevi amare da un pezzo ma che loro invece…
Erano passati solo quattro giorni e John non ce la faceva più. Si era stancato di far finta di non vederlo, si era stancato dei continui sguardi da cucciolo bastonato che gli comparivano dall’altra parte del ripiano ogni volta che si trovava da Tesco, si era stancato anche di essere stanco ed ora aveva solo voglia di –di abbracciarlo– dargli un pugno in faccia e di smettere con quella farsa.
Ora sentiva il suo sguardo puntato addosso dall’altra parte della metro mentre cercava di tornare nel suo appartamento dopo una nuova, incredibile chiacchierata con Mycroft, come ai cari vecchi tempi –stava rasentando l’odio verso il genere umano, se lo sentiva.
Sherlock che continuava a fissarlo come se ne avesse il pieno diritto, le parole di velata minaccia di suo fratello che ancora gli rimbombavano nella testa insieme al rumore del treno –‘credo sia più opportuno per la quieta convivenza di tutti che lei, John, incominci a sotterrare l’ascia di guerra o potrebbero esserci…danni collaterali spiacevoli’, gli aveva detto, come se fosse una specie di animaletto selvatico da addomesticare.
Continuò a guardare fuori dal finestrino la galleria che sfrecciava, scura, evitando accuratamente di incrociare i suoi occhi.
Un lieve colpo di tosse lo distolse dai suoi pensieri, facendogli voltare la testa e sgranare gli occhi. Sherlock indicava la sedia di plastica vicino a lui, con una domanda implicita tra le labbra. Stava davvero avendo il coraggio di chiederglielo? Pensava, forse, che non avesse il coraggio di urlare o picchiarlo solo perché era in un dannato mezzo pubblico?
“Posso?” Precisò, tenendosi quasi con disgusto all’asta di sostegno sopra le loro teste. Poteva? Certo che no. Ovviamente no. Non era passato il tempo sufficiente per smaltire tutta la rabbia e la delusione e il tradimento subiti. Forse ci sarebbero voluti mesi, anni, John non ne era sicuro. Sicuramente quattro giorni non bastavano e al diavolo l’avvicinamento al Natale e l’essere più buoni e misericordiosi.
Si ricordava come se fosse stato il giorno prima i suoi sporadici viaggi in metro, ad osservare tutte le persone in cerca del suo viso, si ricordava come se fosse stato il giorno prima le continue riproduzioni dei messaggi di segreteria che John si era sempre salvato sul telefono, si ricordava ancora troppo bene tutta quella tristezza e non era ancora lontanamente pronto a perdonare.
“John?”
“No, la risposta è no, pensavo fosse chiaro.” Vide il viso di Sherlock indurirsi e la cosa non potè che fargli piacere.
“Hai intenzione di comportarti da bambino fino alla fine dei tuoi giorni?”
“Chissà, magari farò finta di essere morto, così sarà più facile!” John sapeva che non avrebbe dovuto scherzare su quella questione e sapeva anche che faceva male sia a lui che a Sherlock in ugual modo, ma non riusciva a farne a meno.
Vide un lampo comparire negli occhi dell’altro, prima di essere celato dal suo sguardo proprio nel momento in cui la voce elettronica della metropolitana annunciava la sua fermata.
John si alzò dal suo posto, abbassando lo sguardo da quello troppo profondo di lui, sentendo brividi indistinti lungo la schiena mentre tutti gli altri viaggiatori sembravano essere interessati ai loro affari come avvoltoi sulla preda. Gli passò accanto, annusando il suo profumo che gli era mancato così tanto, prima di uscire dalle porte scorrevoli e andando verso le scale.
Avrebbe voluto chiedergli se volesse stringergli la mano perché, dannazione, odiava ammetterlo, ma lui voleva maledettamente stringere la sua, ma non disse niente e andò dritto per la sua strada, impenetrabile.
Guardò indietro, aspettandosi di vederlo alle calcagna, come succedeva sempre, ma sul binario c’era solo gente indaffarata e frettolosa, chi parlava al telefono e chi parlava con il proprio compagno o amico. Di Sherlock, non c’era traccia. Osservò un po’ più attentamente, fino a quando non lo individuò dietro le porte già chiuse, prima che la metropolitana ripartisse.
Non l’aveva seguito quella volta, era rimasto sul treno e se n’era andato, l’aveva rifiutato un’altra volta e lui aveva finalmente capito che John non lo voleva più tra i piedi –era così?. Uscì in superficie, camminando a testa bassa sul marciapiede poco affollato a causa dell’ora, la sera che ormai aveva preso il posto delle nuvole scure del pomeriggio facendo accendere le luci delle case ai lati delle strade, piene di famiglie accoglienti e gioia e amore. John non voleva voltarsi nuovamente per accertarsi che lui non fosse effettivamente sceso e seguito perché ciò avrebbe significato che lo stava cercando, cosa non vera, che gli mancava, non corretto, che voleva sentire la sua presenza alle sue spalle e al suo fianco, come ai vecchi tempi, impossibile.
Dopo quattro giorni non poteva aver sbollito tutta la sua rabbia, giusto? Non poteva, da un momento all’altro, sentire quell’impulso di rinchiuderlo in una stanza e toccare ogni parte del suo corpo per accertare che fosse vivo e che stesse bene, non poteva voler sentire di nuovo la sua voce vicino all’orecchio o ridere nuovamente con lui per situazioni idiote. Non poteva eppure sentiva di volerlo più di qualunque altra cosa.
Il suo miracolo era avvenuto, Dio gli aveva dato una seconda impossibilità, sarebbe stato uno stupido a rifiutarla.
Quando arrivò nel suo freddo e vuoto appartamento, John arrivò a capire che tra tutte quelle domande e quelle ipotesi che aveva effettuato con sé stesso quel giorno, quello che  voleva era solo tornare da tutto ciò che stava cercando disperatamente di scappare perché quella solitudine lo stava divorando vivo.
 
 
 
C’era chiaro nella stanza, come se tutti quei sorrisi fossero un’alterazione positiva alla luce artificiale che sprigionava il lampadario, appeso al soffitto. C’erano una marea di adulti sorridenti, c’era un vecchietto dai capelli brizzolati e dalle mani rugose che cercava di tagliare in fette precise un pandoro, c’erano anche dei bambini che correvano tutt’intorno al tavolo, probabilmente sgridati ripetutamente dalla madre, senza mai essere cattiva veramente.
John riusciva a vedere tutto quello dalla sua finestra mentre la sera della vigilia di Natale passava inesorabile come sabbia tra le dita, avvolgendolo in una solitudine che aveva sperato di non provare mai più. Aveva mangiato del cinese d’asporto, perdendosi in un viale dei ricordi troppo malinconico per una giornata allegra come quella del giorno prima di Natale –se lo ricordava ancora, l’anno precedente, mentre convinceva Sherlock ad aiutarlo a mettere le decorazioni sull’albero di Natale, mentre gli preparava dei biscotti ricoperti di cioccolato bianco, quelli che lui adorava da impazzire, mentre mangiavano seduti intorno al loro tavolo della loro cucina, con in mezzo il microscopio a cui era tanto affezionato, mentre si guardavano negli occhi e si stringevano nel plaid, seduti sul divano, con John che contava i minuti che lo separavano dall’apertura dei regali e Sherlock che teneva lo sguardo fisso su di lui, sorridendo appena; il suo miglior Natale di sempre.
Ed ora si trovava lì, con le iridi che si spostavano una volta fuori dalla finestra, alla ricerca di quella visione di felicità che faceva male al cuore, e al suo cappotto, viaggiando nell’incertezza e nella contraddizione.
Non che Sherlock si meritasse una sua visita, soprattutto la vigilia di Natale. Magari stava anche risolvendo un caso che Lestrade gli aveva commissionato e non pensava più a lui, visto che non si faceva vedere dal giorno della metropolitana. E nemmeno che John morisse dalla voglia di vederlo, sia chiaro, aveva solo…sbollito, o almeno credeva, tutti i suoi rancori, per lasciar posto a un sentimento più potente della rabbia –era vivo e lui non ne stava approfittando per dirgli tutte le cose che, codardamente, non gli aveva mai rivelato? Quella era una vergogna.
Magari poteva concedersi solo una sera, in fondo era risaputo che a Natale ogni persona doveva essere più buona con se stessa e con gli altri, quindi non era il caso di crucciarsi troppo su cosa fosse corretto fare.
Lanciò un’ultima occhiata all’orologio, osservandone il lento ticchettio che portava alle undici in punto, prima di alzarsi dalla sedia con slancio e afferrare il suo giubbotto, insieme alle chiavi di casa e ad una buona dose di coraggio.
Respirò profondamente, mettendosi a contare gli scalini che lo separavano dal portone d’ingresso e quindi dal freddo, dalla neve, dalle strade vuote –da Sherlock.
Come avrebbe fatto a ritrovarlo? Non si era mai chiesto dove abitasse dopo il suo ritorno, né l’aveva mai lasciato veramente parlare, nonostante fosse sempre stato il contrario prima della sua finta morte.
Uno, due, tre scalini, una macchia di muffa nell’angolo destro del soffitto, la solita bottiglia di birra lasciata all’ingresso, la serratura rotta, l’aria fredda e una figura davanti al cancello arrugginito, bagnato da capo a piedi, mentre guardava con aria di sfida campanelli dei citofoni, alcuni con le etichette strappate, altre senza nemmeno quelle.
Sherlock era davanti al suo condominio. Sherlock era davanti al suo condominio? Sembrava agitato e dallo stato in cui era ridotto doveva essere all’aperto da un bel po’ di tempo –figurarsi che si degnasse di prendere un ombrello, quel dannato idiota.
Rivederlo dopo tutto quel tempo –erano passati solo un paio di giorni, ma gli sembravano secoli– gli provocò un forte brivido lungo la spina dorsale, bloccandolo sul posto, con ancora le chiavi in mano, una infilata nella serratura e l’altra mano stretta a pugno lungo il fianco.
Non l’aveva notato, John ne era sicuro, probabilmente stava pensando qualcosa, perso nel suo enorme Mind Palace sotto la neve, la sera della vigilia di Natale, e John non sapeva più se volesse affrontarlo proprio in quel momento, con tutti quei sentimenti che sembrava volessero sommergere i suoi polmoni, faticando la respirazione. Poteva girarsi e risalire le scale, facendo finta di non averlo visto e facendo finta che non avesse mai avuto voglia di rincontrarlo dopo tutto quel tempo, che non avesse avuto voglia di stringere le sue braccia intorno a lui e sentire la sua voce rimbombare tramite il suo sterno, ma John non voleva più essere un codardo e scappare dai problemi –e dai propri sentimenti.
Prese un profondo respiro, prima di trattenere il respiro e buttarsi nella sua personale prova mortale, aprendo il portone e camminando sul terreno in ghiaia che portava al cancello e a Sherlock che, finalmente, l’aveva notato, pietrificandosi all’istante. John camminò con le spalle dritte, il mento fieramente alto e gli occhi che non si spostavano da quelli lucidi –a causa del freddo?– e chiari di Sherlock.
Arrivò fino all’inferrata, così bassa da arrivargli a malapena allo stomaco, non riuscendo a spostare il braccio quel tanto da permettergli di pigiare il bottone di apertura ed uscire.
Lì si sentiva al sicuro, protetto dal buio confortevole e dalla luce biancastra del vano delle scale che si accendeva e si spegnava ad intermittenza, dietro di lui. Avrebbe potuto andarsene quando voleva e Sherlock non l’avrebbe seguito, si diceva, anche se sapeva perfettamente che quel cancello non avrebbe messo in difficoltà nemmeno un bambino con la metà della sua altezza.
Guardandolo da così vicino, si accorse di quanto fosse meravigliosamente bello, nonostante sembrasse un pulcino appena uscito da una centrifuga.
Aveva le iridi ancora più particolari di quanto si ricordava, un misto di verde chiaro, l’azzurro che sfumava nel blu scuro ai limiti, riempiendoli di quel fascino che lo aveva sempre colto impreparato, fin dalla prima volta che li aveva visti così da vicino ed aveva potuto percepire distintamente dove la meraviglia di Sherlock sconfinasse e dove il cuore di John smettesse di battere. Il viso in sé per sé era lo stesso di mesi prima, con gli zigomi alti, le labbra a cuore –le labbra, quelle labbra che si era sempre vietato di guardare ma che, ogni santa volta, erano come calamite per le sue pupille–, la linea marcata delle sopracciglia, la fronte alta, il naso dritto, la pelle bianca in contrasto con il colore scuro e confuso dei riccioli, ancora vaporosi come si ricordava. Bello, bellissimo, forse un po’ stanco, quelle occhiaie scure sotto agli occhi non gli donavano per nulla e, pensò osservandolo meglio, sbagliava o era dimagrito ancora? Sembrava che le sue palpebre facessero fatica anche a restare alzate –da quanto tempo non dormiva? Anche lui, come John, non riusciva più a dormire senza di lui nello stesso appartamento o stanza?.
“Stai andando da qualche parte?” Chiese Sherlock, portandosi le mani nelle tasche del lungo cappotto e fissando prima l’edificio dietro di lui e poi John stesso.
Cosa avrebbe dovuto rispondergli? Sì, sai, ho pensato tutto il giorno a te e mi sono detto che, insomma, potevo venire da te, trovandoti chissà come, abbracciarti per tutta la notte e farmi promettere che tu non mi lascerai mai più, fino a quando sarebbe risuonata la mezzanotte e ti avrei baciato così intensamente da farti dimenticare tutta la tavola periodica, sancendo il Natale con il regalo più bello e perfetto del mondo.
No, certamente non avrebbe potuto confessarglielo, ma non gli avrebbe nemmeno mentito, rifilandogli la scusa della vita sociale perfetta, con amici che lo aspettavano ad una festa super esclusiva o una ragazza che gli aveva preparato il suo cibo preferito, insieme al suo regalo sotto al suo gigantesco albero di Natale –si era stancato delle menzogne e di tutto ciò che esse portavano–, anche perché Sherlock non ci avrebbe mai creduto e John, in fondo, non era nemmeno un così bravo attore.
Quindi, cosa dirgli?
“Avevo bisogno di aria.” Disse, sentendo la sua voce incrinarsi un pochino e maledicendosi per questo. Era un soldato, era un medico e aveva vissuto più situazioni di pericolo che una persona normale potesse sopportare, non aveva di certo l’anima da sentimentale in crisi emotiva. No di certo. Magari un po’.
“Esistono le finestre per quello.”
“Avevo bisogno di fare anche due passi. E’ un problema?”
“Non lo è.” John non voleva assolutamente risultare arrogante, né voleva ricominciare a litigare, vista la settimana stancante che avevano appena passato. Eppure avercelo lì davanti, in tutta la sua irriverenza che l’aveva sempre contraddistinto, riportava a galla i vecchi rancori come niente. Sherlock si morse un labbro, continuando a spostare lo sguardo da un oggetto all’altro, passando solo ogni tanto per il viso di John. Era in difficoltà?
Un fiotto caldo gli riscaldò il petto, sbloccandolo definitivamente da quella situazione di stallo in cui si trovava.
“Vuoi salire?” Osservò la testa di Sherlock alzarsi subito, come se tutto il suo corpo fosse stato soggetto ad una scossa elettrica. Dovette reprimere un sorriso, continuando a tenere la sua maschera impassibile.
“Come?”
“Hai capito.”
“Lo so che ho capito, ma voglio risentirlo.” John non rise, ma avrebbe voluto tanto farlo. Avrebbe voluto far esplodere tutta la tensione che aveva in corpo come con un ago e un palloncino e far rientrare nel suo spazio vitale Sherlock come se nulla fosse, ma non era sicuro di poterci riuscire dopo tutti gli eventi passati.
“Non te lo ripeterò un’altra volta.”
“John!” John non lo ascoltò, pigiando il bottone per aprire il cancello e rientrando nel condominio, tralasciando tutto ciò che avrebbe potuto individuare Sherlock con il suo super cervellone, del suo vicino con la passione per la droga e di quell’altro con la mania della musica classica, di quelli al piano di sopra che litigavano ogni volta e dei gatti randagi che ogni tanto dormivano davanti alla sua porta a causa del freddo.
Salì gli scalini due alla volta, non preoccupandosi del fatto che Sherlock potesse rimanere indietro –cosa improbabile visto le sue gambe lunghe. Una volta arrivato aprì la porta di casa, l’oscurità che aleggiava dentro poteva paragonarsi solo alla sua solitudine.
“Hai vissuto qui per tutto questo tempo?” La voce profonda di Sherlock in quella stanza sembra essere ancora più sensuale e presente di sempre come se, ora che l’avesse rivisto lì dentro, lui fosse improvvisamente diventato più reale.
“Non si può fare molto con i soldi della pensione e quelli dell’ambulatorio.”
“Avevo detto a Mycroft di preoccuparsi di te.” John sentì qualcosa storcersi nello stomaco.
“Non ho bisogno della preoccupazione di nessuno.” John si mise davanti alla finestra, osservando ancora una volta la dolce famigliola riunita per le feste. I bambini non c’erano più, pensò, probabilmente tutte quelle corse li avevano sfiniti.
Improvvisamente sentì la presenza di Sherlock dietro di sé e poi accanto a lui, lo sguardo di entrambi perso in un'altra mondo, in altre vite.
“La mia intenzione non era quella di ferirti.”
“Ho letto anche io i giornali, nonostante non volessi. La storia di Moriarty e tutto, tre proiettili indirizzati a coloro che ti conoscevano. Astuto.” John non aveva voglia di parlare di quello, né di riaprire vecchie ferite che bruciavano già abbastanza da sole. Guardò per un momento in basso e la sua attenzione venne catturata dalla sua mano che vagava sul calorifero e poi di nuovo lungo al fianco, come se fosse indecisa –avrebbe voluto chiedergli se volesse stringergli la mano perché, dannazione, odiava ammetterlo, ma lui voleva maledettamente stringere la sua.
“Mrs Hudson mi ha proposto di tornare a vivere al 221B.” Disse d’un tratto, spezzando il silenzio carico di tensione che si era creato tra loro. John ritornò a guardare il suo volto, ancora perso contro il vetro freddo della finestra.
“Ma non ci tornerò da solo, voglio che tu lo sappia.” Sherlock Holmes non era un tipo da sentimentalismi, John lo sapeva e sapeva ancora di più che non gli avrebbe chiesto scusa in ginocchio sui ceci, né quant’altro, eppure sembrava schiudersi un po’ di più, quella mano che sembrava sempre più vicina alla sua, quelle labbra contratte che facevano uscire parole inopportune per un tipo come lui.
John apprezzava lo sforzo, davvero, ed era sicuro che ciò che sentiva dentro al suo petto poteva essere paragonata ad una lastra di ghiaccio che non si stava spezzando, ma semplicemente sciogliendo.
Io ti ho perdonato tutto, davvero, tutto tranne questo. Perché ora, mentre parli, io mi chiedo quando sarà la prossima volta in cui te ne andrai. Non posso perdonarti di esserti ucciso davanti ai miei occhi, di essere sparito per mesi, perché primo non avevo paura di questo, prima non ero così. Il terrore di essere abbandonato proprio mentre sembra che vada tutto bene non posso perdonartelo.” John strinse forte i denti, sperando che la voce non avesse tradito il tumulto interiore che aveva dentro.
“Ho bisogno di sapere che non te ne andrai più, Sherlock, ho bisogno che tu me lo prometta.” Sembrava in difficoltà, pensò John, come se una forza sconosciuta gli stesse torturando il cuore con strumenti affilati.
“Non posso prometterti questo.” John trattenne il fiato, percependo finalmente lo sguardo di Sherlock su di lui.
“Non posso prometterti che non rischierò un’altra volta tutto per cercare di farti rimanere in vita, non posso essere così egoista.” John allungò appena le dita per toccare il dorso della sua mano, scatenando così una reazione a catena. Prima dita che cercavano altre dita, poi palmi contro palmi, infine John si ritrovò con la testa premuta contro il suo petto, contro il suo cuore, mentre scandiva mentalmente i suoi battiti irregolari e lo stringeva con forza. Suo. Suo quando respirava, inalando ed esalando, suo con il sangue che scorreva nelle vene, suo con il cranio ben fisso intorno al suo magnifico cervello, suo con tutte quelle ossa sporgenti e quel carattere insopportabile. Solo suo.
“Questo non l’avevo previsto.”
“Potrei quasi commuovermi. Ho sorpreso Sherlock Holmes?”
“Non ho detto sorpreso, ho detto imprevisto.” Lo amava. Lo sentiva ancora dopo tutto quel tempo, tra tutte le macerie di se stesso e tra la rabbia e il tradimento, John sentiva di amarlo come mai in vita sua, un amore che superava persino la morte, anche se finta.
“Questo significa che tornerai a Baker Street con me?” Disse, staccandosi dall’abbraccio.
“Non l’ho mai detto.”
“Ma potrei darti validi motivi per credere che tornerai.” John alzò un sopracciglio, interdetto.
“Uno di questi?”
“Mi stai ancora stringendo la mano.” Sherlock sorrise e John si dichiarò sconfitto anche con se stesso. Quel particolare sorriso, con le fossette agli angoli delle labbra e gli occhi appena socchiusi lo disarmavano a tal punto da non capire più nulla, un sorriso da cui non riusciva a difendersi.
Ovvio che volesse tornare con lui, ovvio che volesse passare il resto dei suoi giorni a discutere di quanto fosse inopportuno mettere parti del corpo vicino al cibo, ovvio che volesse sgridarlo per suonare alle tre del mattino il violino, per poi sedersi sulla sua poltrona e ascoltarlo fino a mattina inoltrata. Era tutta la sua vita e non aveva intenzione di lasciarsela scappare così facilmente.
John lo guardò ancora una volta, prima di lasciare che il suo istinto prendesse il sopravvento sulla ragione.
“Posso baciarti?” John non sapeva nemmeno perché glielo avesse chiesto, in realtà, visto che, da parte di Sherlock, non sembrava essere cambiato niente nei suoi confronti, a parte quel continuo toccarsi che lo stava pian piano facendo impazzire. Si era promesso di essere più coraggioso ed affrontare i suoi sentimenti, giusto? Quella era la prova decisiva. O la rovina totale.
Sherlock sbarrò per un momento gli occhi e John sentì la sua mano inumidirsi di sudore. Panico. Era in panico. Qualcuno gli aveva mai chiesto di baciarlo? John avrebbe voluto saperlo.
“Perché?” Fu il suo turno di rimanere immobile, lì davanti a lui, come due marmocchi appena usciti da scuola, impegnati a gestire emozioni più grandi di loro. Perché?
“Perché voglio farlo, perché ne ho bisogno.” Sherlock sembrò arrossire un po’, ma John non ne era completamente sicuro, vista la scarsa luce nella stanza. Come gli avevano insegnati i suoi genitori, arrossire poteva significare solo sì. Era come una sfumatura d'acquerello sulle guance, un tocco intimo, impudico e pungente che valeva come conferma.
Si alzò appena sulle punte, arrivando a sfiorare il naso con il suo mentre, in lontananza, incominciarono a suonare le campane e, nell’appartamento davanti al loro, il tappo di una bottiglia di champagne volò per la stanza, in un rumoreggiare silenzioso di festeggiamenti. Il 25 dicembre.
“E’ Natale.” Sussurrò John, sfiorandogli le labbra con il respiro, il suo sguardo che si perdeva negli occhi dell’altro.
“Quale grande prova dell’ovvio.”
“Buon Natale anche a te, Sherlock.”
“Perdonerai l’assenza di un regalo, sai, sono stato parecchio impegnato a seguire un idiota.” John sorrise e Sherlock con lui, sorprendendosi con quanta facilità avessero spezzato quasi tutte le catene che li avevano imprigionati in tutti quei giorni di lontananza.
Sorridere come solo con lui sapeva fare.
“Sono sicuro che saprai farti perdonare.” Sentenziò John, prima di avvicinare definitivamente le loro labbra e lasciarsi andare contro di lui, stringendogli affettuosamente le spalle. Osservò per un momento gli occhi chiusi di Sherlock, con le ciglia scure che sfioravano lo zigomo di John, prima di chiuderli lui stesso.
Succhiandogli il labbro John avrebbe voluto dirgli che lo amava, più di qualunque altra cosa al mondo.
Accarezzandogli i capelli avrebbe voluto fargli capire che, dopo tutto quella solitudine e tutta quell’oscurità, era pronto ad andare avanti, ancora una volta, insieme.
Passò la lingua sul contorno delle sue labbra, apprezzando il lieve mugolio di piacere che strappò a Sherlock che, probabilmente, stava cercando di catalogare quanti più dati possibili per un futuro esperimento –stupido intelligentone.
John si staccò a malincuore dalle sue labbra, sorridendo appena e lasciandogli un altro bacio a stampo, prima di tornare sulla terraferma.
“Che ne dici di una cena?” Chiese John, spostandosi appena un ciuffo bagnato dalla fronte, colto da un irresistibile moto di dolcezza.
“Sto morendo di fame.”
“Provo a chiamare qualche ristorante cinese, tu cerca di non far esplodere tutto.” John rise, piacevolmente rinchiuso in quella bolla di familiarità che sembrava volergli far riempire tutto lo stomaco di farfalle.
Sherlock accese le luci dell’appartamento, rischiarando l’ambiente a giorno, gironzolando qua e la per osservare, indagare e apprendere più cose possibili sulla vita di John mentre il cuore del medico raccattava tutti i propri pezzi, ricucendoli in un organo perfetto.
 
 
Dall’altra parte della strada era successo qualcosa di particolarmente strano e i bambini, in quel momento, sembravano più interessati alle vicende dell’ uomo solitario –così avevano incominciato a chiamarlo– che ai biscotti farciti che le loro mamme avevano preparato per quella particolare sera.
L’avevano osservato mentre guardava la finestra, malinconico, e poi, poco dopo, era tornato con un tizio che sembrava uscito da una di quelle storie che i loro genitori solevano raccontargli prima di addormentarsi. E avevano messo le loro labbra uno sopra quelle dell’altro. Il più grande dei cugini aveva guardato con aria esperta fuori dal vetro, spiegando loro che tutti i loro genitori facevano quella ‘cosa con le labbra’ e che serviva per dimostrarsi quanto ci si voleva bene.
Il piccolo Mattew non aveva capito molto bene cosa significasse –insomma, lui per dimostrare il suo affetto al suo peluche preferito, una piccola scimmia color sabbia, lo abbracciava fino ad addormentarsi–, ma se quello che quel ragazzo diceva era vero, allora pensava che l’uomo solitario avesse appena trovato qualcuno a cui volesse veramente un gran bene, togliendo da quella casa il grigiore che l’aveva sempre contraddistinta. Forse, quasi quanto il suo affetto per la sua scimmietta.
 
 
 
 
 

 
 
Angolo Autrice:
Sembrava la fine del mondo, ma sono ancora qua! [cit.] Ce l’ho fatta. Mando avanti questa fanfiction da secoli infiniti, aka due settimane, e l’ho finita or ora, ringraziando il cielo e tutti quelli che ci vivono sopra. Non mi ricordo nemmeno di cosa parli, in verità (LOL), ma spero abbia un qualche significato e che abbia sfiancato, positivamente, voi quanto ha sfiancato me, scrivendola.
Vorrei dedicare questa fic a Cristina, perché è sempre l’amore, le sue storie sono l’amore e suo figlio è l’amore (infatti gli ho anche riservato un posto d’onore). 
Quindi, spero che vi sia piaciuta. Grazie mille a tutti.
   
 
Leggi le 12 recensioni
Ricorda la storia  |       |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Torna indietro / Vai alla categoria: Serie TV > Sherlock (BBC) / Vai alla pagina dell'autore: AntheaMalec