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Autore: My Pride    26/11/2012    9 recensioni
Yo, ho, ho at the battle of bones, you sail the seven seas but you’re never getting home, well the sea answered back, “Old boy, where have you been?”
I’ve been waiting for a fight like this since time first began, so prepare yourself and get ready for your death ride, I’ll be taking you down to Davy Jones with your cargo and your pride.

«Temi tu la morte? Temi l'idea dell'oscuro abisso? Ogni tua azione scoperta, ogni tuo peccato punito? Io vi posso offrire una scelta: unitevi alla mia ciurma e proponete il giudizio finale. Cent'anni ancora sopra coperta. Vuoi arruolarti?»
Le leggende sono solo leggende. Leggenda o meno, però, ad attenderli fra le ombre c’era di sicuro qualcosa. Se lo sentiva sin dentro le viscere.
[ New World Arc ~ Spoiler dai capitoli 668 in poi ]
[ Terza classificata al contest «No words: multifandom contest» indetto da Audrey_24th ]
[ Prima classificata al contest «One Sentence» indetto da Reghina-chan e valutato da ZiaConnie ]
[ Prima classificata al contest «Don't be a drag, just be a Queen!» indetto da RoyMustungSeiUnoGnocco ]
Genere: Angst, Avventura, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het, Shonen-ai | Personaggi: Mugiwara
Note: What if? | Avvertimenti: Spoiler!, Violenza
Capitoli:
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THIRD SEASON › IN PIECES
THE FLYING DUTCHMAN, #03
 
   
Madido di sudore per lo sforzo di mantenersi in piedi e di non caracollare a terra svenuto, Zoro strinse Sanji contro di sé, per quanto il suo corpo stesse facendo una fatica immane nel tentativo di sostenere entrambi.
    Non aveva idea di quanto avesse camminato né tanto meno se fosse vicino alla Sunny, sulla quale avrebbe potuto fare qualcosa anche in mancanza di Chopper, se i suoi amici non avessero ancora trovato il modo di tornare indietro a loro volta. In infermeria avrebbe potuto trovare garze, medicine e antibiotici che avrebbero in qualche modo aiutato, e avrebbe anche potuto sostituire i pezzi di stoffa logori con i quali aveva fasciato alla bell’e meglio le loro ferite. Il rischio di infezione non era da escludere, ma cosa avrebbe dovuto fare? Nemmeno morire dissanguato mentre cercava di salvare la pelle ad entrambi gli era sembrata una buona idea, d’altronde. Quelle bende improvvisate erano dunque state il male minore, e doveva ringraziare la propria forza di volontà e resistenza se riusciva ancora a fare qualche passo nonostante le sue precarie condizioni.
    Il respiro di Sanji era debole, ma Zoro riusciva distintamente a sentire il suo cuore battere ad un ritmo frenetico contro la sua schiena, quasi si fosse trovato con l’orecchio premuto sul petto del cuoco. Non dubitava minimamente della forza fisica che avevano acquisito i suoi compagni durante quei due anni di allenamento, però sapeva che a tutto c’era un limite e che anche quell’idiota, per quanto se la fosse sempre cavata in situazioni ben peggiori, aveva assoluto bisogno di cure mediche. E sperava vivamente che anche gli altri stessero bene. Li avevano ormai persi di vista da tempo, e, per quanto con loro ci fosse anche Rufy, quegli Uomini Pesce non erano certo avversari da prendere sotto gamba. L’aveva scoperto sulla sua stessa pelle, in fin dei conti.
    Scacciando dalla sua mente tutti quei pensieri, Zoro passò entrambe le braccia sotto l’incavo delle ginocchia di Sanji e se lo sollevò meglio sulle spalle, in modo che non potesse scivolare verso il basso, avanzando fra la boscaglia. Ovunque si guardasse vedeva solo alberi che si estendevano verso il cielo e i cui rami si intrecciavano gli uni sugli altri come delle spesse corde, dando allo spadaccino la bizzarra sensazione di essere caduto in una grossa rete; riusciva a sentire vagamente il lontano suono di quella che poteva essere una cascata, però, da quando tutti loro avevano messo piede su quell’isola, non aveva sentito il benché minimo rumore, come se l’intera foresta fosse stata inglobata in una grossa bolla che non permetteva loro di udire alcun suono. Era snervante, non lo negava. E in quel modo era ancor più difficile riuscire a trovare la strada per raggiungere la costa, poiché la nebbiolina che aleggiava nei dintorni non aiutava per niente.
    Continuando la propria traversata, Zoro mise un piede in fallo ed inciampò in una radice nodosa, rischiando quasi di cadere riverso di faccia e allentando la presa sulle cosce del compagno; la rinserrò abbastanza in fretta e riacquistò un certo equilibrio, ma rivolse un ringhio a quella stessa radice, a dir poco nervoso. «Merda», imprecò, strattonando lo stivale per liberarsi, ma fu proprio nel farlo e nel sollevare troppo velocemente lo sguardo che notò qualcosa oltre la cappa di fogliame sopra di lui, rimanendo oltremodo stranito nello scrutare l’orizzonte; il suo occhio si illuminò non appena si rese conto che quella che stava osservando era una bandiera pirata, avanzando il passo nel tentativo di raggiungerla il più in fretta possibile. In un altro momento e in una situazione più propizia si sarebbe sicuramente accorto che qualcosa non andava, e cominciò a rendersene conto mano a mano che gli alberi divenivano meno fitti e la nebbia si diradava, dandogli la visione di una nave dallo scafo ormai ridotto a pezzi e dal legno incrostato di sudiciume. Riversa sulla fanghiglia come una balena morente, pareva sul punto di spezzarsi in due a causa del peso provocato dall’albero maestro, a sua volta ridotto in pessime condizioni e tenuto su alla bell’e meglio da una riparazione di ferro e corde. Ma che diavolo...?
    «Questa... non è la Sunny». Esterrefatto, lo spadaccino sollevò lo sguardo su quel galeone maestoso per osservarlo meglio, rimanendo senza parole. Che cosa ci faceva un’imbarcazione del genere nel bel mezzo della boscaglia? Forse era un’altra nave che era stata attirata su quell’isola e il suo equipaggio aveva trovato la morte per mano di quegli Uomini Pesce? Zoro non perse tempo a rifletterci su oltre, scuotendo il capo per cancellare dalla sua mente quei pensieri. In fin dei conti domandarsi il perché della presenza di quel galeone non gli sarebbe servito per aiutare il compagno, ma avrebbe potuto trovare qualcosa proprio per fasciare le ferite del cuoco o almeno ricucirle, dannazione. Si rifiutava di credere che fosse tutto ridotto in malora e che quella nave fosse arenata lì da così tanto tempo da rendere inutilizzabili eventuali bende o affini.
    Con quel pensiero per la testa, lo spadaccino cercò di far scivolare con attenzione il cuoco dalle sue spalle e, ignorando il dolore che corse come una scarica elettrica lungo un braccio, depose il più delicatamente possibile il compagno su una trave marcia poggiata contro una roccia, accorto che non rischiasse di riversarsi di fianco; trasse poi un lungo sospiro e si asciugò il sudore dalla fronte con la manica logora della casacca, lanciando un’occhiata a Sanji. Non era il momento di riposarsi, lo sapeva, ma se non si fosse fermato almeno per un attimo e non avesse ripreso fiato, non sarebbe riuscito a fare un passo in più e avrebbe rischiato di far cadere anche il cuoco.

    «Torno subito, cuoco», lo rassicurò, pur non essendo sicuro che lui potesse sentirlo. «Ci penso io».
    «So cosa stai pensando, Roronoa, e là dentro non troverai niente. Soltanto cadaveri».
    Zoro si voltò immediatamente nella direzione da cui sentì provenire quella voce, portandosi svelto una mano alla cintola per afferrare saldamente l’elsa della Shuusui, pronto ad estrarla se fosse stato richiesto; spalancò la bocca e rimase interdetto, però, nel vedere una figura a lui familiare accucciata comodamente sul parapetto distrutto della nave, un gomito poggiato su un ginocchio e il viso abbandonato sul palmo della mano, come se si trovasse da quelle parti assolutamente per caso. Però... dannazione, quell’uomo non avrebbe dovuto nemmeno essere in vita. Quello era l’uomo che aveva incontrato ore addietro e che aveva ucciso lui stesso, dunque che cosa diavolo ci faceva lì, proprio davanti ai suoi occhi? «Tu... tu eri morto».
    Il vecchio sorrise, agitando distrattamente una mano prima di abbandonare la sua postazione e abbassare lo sguardo verso il Vice Capitano, la cui espressione parve divertirlo più di quanto non sembrasse già. «Frutto Mabo-Mabo, spadaccino. Rammenti?» ridacchiò, e Zoro deglutì a vuoto, estraendo la katana di qualche centimetro. Era forse una presa per il culo, quella? Quel tipo voleva forse fargli davvero credere che quello scontro era stato tutta un’illusione?
Lo spadaccino mise da parte quei pensieri non appena vide l’uomo fare qualche passo verso di loro, impugnando svelto la propria arma per puntarla nella sua direzione.
    «Non muovere un altro muscolo, vecchio. Questa volta potrei decidere di non essere clemente», lo mise in guardia, ma il suo avversario si lasciò sfuggire una grossa risata.
    «Si vede lontano un miglio che ti reggi in piedi a fatica, Roronoa. Fossi in te farei meno lo spavaldo».
    «Comandante!» Il grido concitato si levò dal bel mezzo della boscaglia e richiamò l’attenzione di entrambi, che si voltarono in simultanea verso la poppa distrutta della nave, dietro la quale comparve, seppur malconcio, quello che aveva tutta l’aria di essere un grosso crostaceo; la sua pelle rossastra era disseminata di protuberanze che sembravano pulsare come se avessero vita propria, e le branchie sul collo fremevano ad ogni boccata, quasi stessero facendo una fatica immane a racimolare quanta più aria possibile e a spedirla nei polmoni. Quello stesso Uomo Pesce aveva gettato un’occhiata alla nave come se ne fosse intimorito, allontanandosi il più velocemente possibile da essa e deglutendo sonoramente, atteggiamento che Zoro, nel tener d’occhio entrambi, pronto a dar battaglia all’occorrenza, reputò come bizzarro. Perché mai un Uomo Pesce avrebbe dovuto aver paura di una nave malridotta?
    «Fokke». Il tono con cui il vecchio pronunciò il suo nome suonò vagamente accusatorio, e anche il suo viso esprimeva una certa indignazione. «Cosa ci fai tu qui? Mi sembrava di averti dato un compito».
    L’Uomo Pesce si avvicinò con passi malfermi e doloranti, tenendosi una mano premuta contro un fianco. «Abbiamo fallito... Comandante Chair», ansimò, e il vecchio si accigliò, quasi non credesse a quelle parole.
    «Cosa?» domandò difatti, traendo poi un lungo sospiro come se si fosse immediatamente rassegnato a quell’idea. «Pazienza... ci accontenteremo di loro due, per il momento». Accennò con il capo a Sanji e Zoro, il quale aveva prontamente fatto da scudo con tutto se stesso al corpo del cuoco, osservando attentamente ogni minimo movimento degli altri due. Proprio nel notarlo, Chair si voltò verso di loro e sorrise amabilmente, incatenando il proprio sguardo a quello del Vice Capitano. Agire di istinto non gli sarebbe servito a nulla, e forse era proprio per quel motivo che non era ancora partito all’attacco. Decisione saggia. Quel ragazzino era meno sprovveduto di quanto aveva creduto al principio. «Il Capitano ne sarà comunque soddisfatto», soggiunse, e gli occhi di Fokke si illuminarono di felicità.
    «Grazie, Comandante, graz-» Non fece in tempo a finire la frase che spalancò la bocca e vomitò sangue nero, abbassando lo sguardo solo per vedere la mano del vecchio trapassargli lo stomaco da parte a parte; le squame del braccio gli avevano penetrato la pelle e luccicavano sinistramente ai bagliori di quel poco sole che filtrava dalle fronde degli alberi, sfumate di rosso acceso e cobalto chiaro. «Coman...dante... per...ché?»
    «Non ho mai detto che ti avrei perdonato il fallimento. Il tuo posto è sulla nave, adesso», asserì quest’ultimo in tono glaciale, estraendo con un sol colpo il braccio; Fokke cadde a terra riverso di fianco, tossendo e sputando altro sangue, tenendosi una mano premuta sullo stomaco e l’altra ad artigliare furiosamente il terreno con le unghie, come se farlo potesse in qualche modo salvarlo. E il tutto accadde proprio sotto lo sguardo incredulo dello spadaccino, che estrasse immediatamente anche la Shuusui senza perderlo d’occhio.
    «Perché l’hai fatto?» domandò, tenendolo sotto tiro. «Era un tuo compagno, o sbaglio?»
    Chair si voltò verso di lui e lo fissò con diffidenza, come se per lui non rappresentasse una vera e propria minaccia. «Giù le spade, Roronoa», lo ammonì pacatamente. «L’unico che potrebbe farsi male sei tu».
    «Staremo a vedere, vecchio». Zoro gettò appena una rapida occhiata a Sanji, che sembrava aver cominciato a respirare a fatica, stringendo le labbra in una linea sottile. Doveva darsi una mossa, maledizione. «Non ho tempo da perdere con te», replicò, e nel dirlo si portò l’Ichimonji alla bocca, afferrando saldamente la terza katana prima di gettarsi all’attacco, più che intenzionato a porre fine a quella battaglia il più velocemente possibile; preso alla sprovvista, Chair si gettò a terra per evitare il colpo e rotolò su se stesso, imprecando a denti stretti nel sentire la lama di una delle tre spade sfiorargli un fianco. Non aveva idea se a muovere quel ragazzo fosse la disperazione o semplicemente la sua forza d’animo, ma se era riuscito a colpirlo prima ancora che lui potesse creare una delle sue illusioni, era più pericoloso di quanto volesse apparire in realtà.

    «Non voglio battermi con te, Roronoa!» gli gridò contro, inclinando il capo di lato nell’avvertire il filo della katana affondare nella sua spalla; urlò di dolore, afferrando con la propria mano la lama per tirarla fuori dalla carne gemito dopo gemito, incontrando lo sguardo omicida dello spadaccino a pochi centimetri dal suo viso.
    «Se non vuoi batterti, vedi di non intralciarmi», sibilò Zoro nel mordere furiosamente l’elsa dell’Ichimonji, facendo sempre più pressione con la spada, senza dare ascolto al lamento che strappò al vecchio. Lo spadaccino non sembrava intenzionato a far sì che estraesse l’arma, mosso da una rabbia incontrollata che Chair non riusciva a comprendere. Che cosa spingeva un essere umano come lui ad accanirsi in un modo simile?
    «Questo... non posso farlo».

    «Allora dovrò toglierti di mezzo e proseguire». Zoro sollevò il braccio con cui sorreggeva l’altra katana, e Chair approfittò di quel breve attimo per colpirlo allo stomaco con un calcio e allontanarlo da sé, vedendolo caracollare all’indietro; appariva ancora provato per lo scontro che aveva avuto con l’illusione che gli aveva mandato contro - non sarebbe riuscito a scostarlo con una tale facilità, altrimenti, lo sapeva -, ma aveva abbastanza forza per battersi con le unghie e con i denti, più che desideroso di farla finita per il bene del suo compagno, bisognoso di cure mediche. Era forse quello ciò che veniva chiamato cameratismo?
    Chair non perse tempo a rifletterci oltre, poggiando entrambe le mani a terra per sollevare il peso dell’intero corpo e colpire il collo dello spadaccino con un altro calcio, giacché il ragazzo si era nuovamente gettato verso di lui a spada tratta con il chiaro intento di colpirlo al cuore; con una sonora imprecazione, scartò di lato ed utilizzò i poteri del proprio frutto per creare una cortina fumogena, in modo da nascondere se stesso e Zoro. Immobile, con la schiena premuta contro lo scafo distrutto della nave e le palpebre abbassate, Chair ascoltò il battito furioso del cuore del suo avversario, che sembrava trovarsi proprio a pochi passi da lui; non si muoveva, quasi stesse a sua volta controllando i suoi movimenti pur non vedendolo, ma ciò bastò per comparirgli alle spalle e assestargli una ginocchiata fra le scapole, cogliendolo alla sprovvista.
    Zoro spalancò la bocca e si lasciò sfuggire le spade nel crollare in ginocchio sul terreno umido, sputando saliva e portandosi immediatamente una mano al petto; le bende con cui aveva fasciato alla bell’e meglio le sue ferite erano intrise di sangue, e non si sarebbe meravigliato nello scoprire che, probabilmente, si erano pure riaperte. Non riusciva nemmeno a capire se la foschia che vedeva dinanzi a sé fosse ancora causa di quel vecchio o se il suo occhio stesse ormai faticando più di prima a riconoscere le forme, però imprecò a denti stretti nel sentire delle forti dita palmate intrecciarsi nei suoi capelli fino a strattonarlo all’indietro, avvertendo un caldo respiro solleticargli un orecchio.
    «Ti avevo detto che non volevo combattere. Mi ci hai costretto tu».

    «Che cosa sta succedendo qui?»
   
Chair sbiancò, lasciando andare a poco a poco Zoro, il quale ricadde riverso in avanti tra un colpo di tosse e l’altro. A frenare la sua caduta furono solo i suoi gomiti, e, per quanto nelle orecchie avesse cominciato a sentire uno strano brusio lontano, quasi si trovasse in fondo all’oceano, gli pare di udire le parole «Capitano Jones» uscire dalle labbra del vecchio. Alzò dunque lo sguardo, non credendo ai propri occhi. Per quanto avesse l’aria di essere a sua volta un Uomo Pesce, intorno a lui aleggiava un velo di mistero difficilmente dissipabile, forse anche a causa delle sue fattezze più animalesche che umane. E adesso chi diavolo era quel tipo? Un momento... il vecchio l'aveva chiamato Jones. Capitano Jones. In un lampo gli tornarono in mente le parole del cuoco, la leggenda che gli aveva raccontato, e qualcosa, nella sua mente, gli diede l'agio di credere che quello fosse proprio lo stesso Jones di cui aveva sentito parlare. Che cazzo era, un fottuto scherzo?
    «Roronoa Zoro... temi tu la morte?» gli domandò quest'ultimo in tono pacato, quasi fosse ormai un quesito ordinario, e, tossendo e rimettendosi in piedi con una certa fatica, il Vice Capitano sollevò le labbra in un ghigno, sputando sangue.
    «Non posso avere paura di qualcosa che non conosco».
    Jones dapprima sembrò osservarlo come se fosse irritato da quelle parole, arricciando le labbra e serrando una mano lungo un fianco; contro ogni aspettativa, però, scoppiò a ridere. «Non potevo aspettarmi una risposta diversa, da un uomo come te». Gli si avvicinò con passi sicuri, senza temere l’aria ostile che pareva sprigionare il Vice Capitano. «Ti propongo un accordo, Roronoa», cominciò, infilando una mano in tasca per tirare fuori quella che aveva tutto l’aspetto di essere una patacca nera; la mostrò poi allo spadaccino, che, diffidente, strinse una mano intorno all’elsa della propria katana pur continuando ad osservare ciò che Jones gli stava porgendo. «La morte per te e i tuoi compagni o cent’anni ancora sovraccoperta per tutti voi, sulla mia nave. Che cosa scegli?»
    «Che razza di domanda è?» Zoro puntò la lama contro di lui, assottigliando lo sguardo. «Non so chi tu sia, ma questo non è un accordo. Mi stai proponendo praticamente la stessa cosa, e io non ho intenzione di scegliere né l’una né l’altra. È Rufy il mio Capitano».
    Jones sollevò un sopracciglio, riponendo accuratamente la patacca in tasca. «Come desideri, allora», affermò cordialmente, volgendo il capo verso il suo Vice. «Chair», lo chiamò, e il vecchio annuì, congiungendo i polpastrelli di indice e medio prima di puntare entrambe le mani nella direzione dello spadaccino, sussurrando qualcosa a denti stretti; Zoro sentì la terra tremare sotto i propri piedi, ed ebbe appena il tempo di abbassare lo sguardo prima che dei tentacoli sbucati dal nulla gli afferrassero le caviglie, avvinghiandosi intorno al suo corpo per atterrarlo una volta per tutte.
    «Che diavoleria è questa?!» sbraitò, allargando le braccia per cercare di dissipare quel groviglio che si era impossessato di lui; riuscì solo a far attorcigliare i tentacoli intorno ai suoi polsi e sulla propria bocca, e dovette mordere uno di quelli e sputarne ciò che restava a terra per riprendere a respirare, giacché sembravano avere tutta l’intenzione di soffocarlo.
    «Più ti muovi, più si stringono», gli spiegò il vecchio senza giri di parole, avendo persino la sfacciataggine di scrollare le spalle come se nulla fosse. «Queste piante sono piuttosto irritabili... ti consiglierei di stare fermo». E avrebbe anche aggiunto altro se solo non avesse colto con la coda dell’occhio il cenno della mano del suo Capitano, il quale parve imporgli silenzio con un solo sguardo.
    «Qui me ne occuperò io, Chair. Vai dai suoi compagni, e stavolta vedi di non deludermi», affermò quest’ultimo, ma la cosa parve non essere gradita al vecchio, che si ritrovò comunque a chinare il capo e a fare un passo indietro, scoccando un’occhiata allo spadaccino. Dalla sua espressione sembrava fosse stato costretto ad ingoiare letteralmente un rospo, come se quel nuovo ordine non gli piacesse per niente, però, senza sciogliere i vincoli che incatenavano Zoro, sparì dalla sua vista in silenzio, quasi fosse stato fatto di pura nebbia. Un altro effetto del frutto che aveva mangiato? Lo spadaccino non lo sapeva né tanto meno avrebbe voluto scoprirlo, troppo impegnato a lottare contro le piante che lo tenevano legato e ad imprecare inutilmente all’indirizzo di quel Jones, che pareva ignorarlo palesemente. Sotto il suo sguardo incredulo, si diresse difatti a passi rapidi e sicuri in direzione di Sanji, lasciando dentro Zoro una sgradevole sensazione di debolezza. Era lì, a neanche pochi metri da entrambi, e a causa di quegli impedimenti non poteva muovere un muscolo per aiutare un proprio compagno. Che razza di Vice Capitano era, se non riusciva nemmeno a fare una cosa simile?

    «Non osare toccarlo!» gli ringhiò contro, strattonando le braccia nel tentativo di liberarsi dai tentacoli che lo costringevano a stare in ginocchio sul terreno; la vista era offuscata e gli mancavano le forze, ma non avrebbe mai permesso al rimasuglio di una leggenda a cui lui non credeva di fare ciò che più desiderava. Quel Jones, però, si limitò semplicemente a regalargli un sorriso, chinandosi a mezzo busto per afferrare il cuoco per il collo e sollevarlo ad un metro da terra; Sanji tossì, forse persino inconsciamente, esalando un lungo sospiro doloroso nel reclinare il capo contro quella mano.
    «Non disperare, spadaccino. Arriverà anche il tuo turno», lo informò il Capitano in tono di scherno, serrando così forte le dita palmate che Zoro ebbe la sgradevole sensazione di sentir scricchiolare le ossa di Sanji. «Se non cominciassi da lui, marinaio fermamente devoto e timoroso dell’oceano, gli farei un torto».
    «Lascialo andare, altrimenti io...!»
    «Altrimenti tu cosa?» sibilò Jones, sferzando furentemente l’aria con la lunga coda biforcuta che possedeva. «Ti è stata data una scelta... adesso accetta la tua stessa decisione. Il tuo destino è stato scritto».
    «Il destino può anche baciarmi il culo», sbottò di rimando Zoro, imprecando a denti stretti nel sentire i tentacoli avvolgersi intorno al busto come le spire di un grosso serpente, strappandogli un gemito e mozzandogli il respiro; se fosse stato in forze non ci avrebbe messo nemmeno due secondi a liberarsi di quelle dannate piante, le avrebbe semplicemente sradicate senza avere neanche il bisogno di utilizzare l’haki. Però... dannazione, faceva già fatica a stare in piedi senza che ci si mettessero anche loro. Con la coda dell’occhio, vide Jones allontanarsi in direzione della nave e portare con sé il cuoco, impossibilitato a reagire come invece avrebbe fatto se fosse stato cosciente, prendendolo di sicuro a calci nonostante la caviglia slogata. Merda! Non aveva tempo da perdere dietro ai giochetti di quel tipo, aveva urgente bisogno di portare Sanji da Chopper, se voleva sperare che quell’idiota non ci lasciasse la pelle a causa sua.
    Divincolandosi, lo spadaccino provò ad allungare un braccio per recuperare almeno una delle sue katane, sfiorando a malapena l’elsa con le dita. Ci riprovò ancora una volta, sebbene ormai non riuscisse quasi più a respirare, ed esultò interiormente quando la mano si strinse intorno alla Kitetsu, per quanto l’avesse impugnata poco saldamente; con tutta la forza di cui disponeva, tese il braccio all’indietro e la lanciò contro Jones, pregando di centrare il bersaglio nel tentativo di arrestare la sua traversata.
    Dritta e rapida come una freccia scoccata da un arco, la katana si piantò esattamente al centro della viscida testa di Davy Jones, la cui presa intorno al collo del cuoco si fece meno stabile, lasciando infine che cadesse riverso di fianco sul terreno paludoso. Già sul punto di cantar vittoria, Zoro raggelò nel momento stesso in cui quel tipo, voltandosi verso di lui come se non avesse una lama conficcata nel bel mezzo della fronte, abbozzò una smorfia che parve ricordare vagamente un sorriso, carezzandosi i tentacoli che terminavano in una lunga barba scura mentre si leccava al contempo il sangue nero che gli colava sino alla bocca.
    «Complimenti, Roronoa. Mi hai appena ucciso».

 
 
   
«Rufy! Piantala di fare l’idiota e diamoci una mossa!» sbraitò per la milionesima volta Nami, tirando inutilmente il braccio di gomma del suo Capitano.
    Dal momento in cui aveva visto quella nave librarsi nel cielo, leggera come una piuma nonostante il legno di cui era composta, Rufy aveva assunto un’espressione così eccitata da ricordare un bambino dinanzi ad un negozio di giocattoli. Aveva cominciato a blaterare di volerla inseguire per vedere dove fosse diretta e chi fosse al timone, certo che quella si sarebbe rivelata un’avventura ancor più grandiosa di quella che stavano già vivendo in quell’esatto momento; Nami gli aveva giustamente fatto notare tra un cazzotto e l’altro che non avevano tempo da perdere dietro simili sciocchezze e che avrebbero dovuto trovare gli altri, ma il Capitano era stato irremovibile. Quando si metteva in testa una cosa era difficile convincerlo e provare a fargli fare il contrario di quanto appena affermato, e Nami ormai l’aveva imparato bene. Però... accidenti, non era proprio il momento di accontentare i suoi capricci, ora come ora.
    «Chissà dove sarà diretta quella nave», sussurrò Chopper, che se n’era rimasto in silenzio e in disparte a curare le ferite di Usopp, seduto a gambe conserte sul terreno. Lui e il cecchino avevano ascoltato la conversazione avvenuta fra navigatrice e Capitano e avevano tratto le loro conclusioni, e, per quanto un po’ di curiosità riguardo quella strana nave fosse venuta anche a loro, non potevano permettersi distrazioni simili. E poi c’era sempre l’incognita che quella stessa nave potesse rivelarsi un pericolo ancor più grande di quelli affrontati finora, cosa che non era per niente da escludere.
    «Non deve interessarci», lo freddò immediatamente Nami, strattonando ancora una volta a sé Rufy. Quello scemo stava avanzando senza far caso al fatto che lei avesse praticamente conficcato le unghie nel suo polso per non farlo allontanare più del dovuto, allungandosi imperterrito. «Quel che dobbiamo fare adesso è tornare alla Sunny, se questo idiota la pianta di fare il moccioso», rimbeccò, accennando al Capitano con il capo.
    «Anche se ci riuscissimo, però, resta l’interrogativo di come lasciare l’isola», le fece notare Robin, accomodatasi su una roccia con aria pensosa. «Se questa in cui ci troviamo è davvero una rotta maledetta come affermano quelle antiche scritture, salpare non sarà per niente facile».
    «Tu cosa proponi di fare?»
    Robin scrollò le spalle. «Di certo non possiamo stare qui senza far niente, ma anche tentare la fuga non ci porterà da nessuna parte». Incrociò le braccia sotto al seno, sollevando lo sguardo verso il cielo opaco come se esso potesse darle tutte le risposte di cui necessitava. «Quelle testimonianze parlavano di un patto di sangue e di uno spettro... potrebbe essere in qualche modo collegato con quanto sta accadendo sull’isola».
    Nami mollò così in fretta Rufy che quest’ultimo, per l’essersi allungato troppo, andò a schiantarsi direttamente contro il tronco di un albero, ma lei non gli diede peso, avvicinandosi speranzosa alla compagna. «Quindi se trovassimo la fonte... riusciremmo ad andarcene?» le domandò, però Robin si limitò semplicemente a scuotere il capo, incerta.
    «Non ne sono sicura, però potremmo provarci».
    «Allora cerchiamo di darci una mossa», affermò Nami, acquisendo un’aria agguerrita. Voleva andarsene da quella stupida isola e l’avrebbe fatto, anche se ci fossero voluti dei mesi per riuscirci. Senza alcun indugio, raccattò quello scemo di Rufy - che se n’era rimasto a borbottare riguardo chissà quale avventura che non avrebbe potuto vivere, la schiena poggiata vicino all’albero contro cui era stato precedentemente lanciato - e cominciò ad incamminarsi per prima, facendo sorridere Robin e scuotere il capo a Franky.
    «Nervosa la sorellina, eh?» commento, e l’archeologa si lasciò sfuggire una mezza risata.
    «In fin dei conti posso capirla, anche se mi piacerebbe reperire qualche altro monumento storico».
    Franky la osservò con un sopracciglio inarcato, sollevando poi un angolo della bocca nella parvenza di un sorriso prima di calarsi gli occhiali da sole. «Donne».
    «Hai detto qualcosa, Franky?»
    «Nah, niente», tagliò corto, agitando una mano in risposta per incamminarsi poi per primo, giacché aveva sentito una mano di Robin fiorire pericolosamente sulla sua gamba destra. Non se l’era scordata quella prima volta a Water Seven, lui. Era meglio non farla irritare e lo sapeva. «Vediamo di muoverci, piuttosto. Bisogna trovare anche Uomo Katana e Mr. Sopracciglio».
    «Sono d’accordo con te», asserì lei, superandolo come se nulla fosse e ricambiando il suo sorriso dopo aver fatto scomparire il braccio agitando semplicemente due dita. Donne. Non le avrebbe mai capite.

    Avanzarono nella boscaglia passo dopo passo, stando attenti a dove mettevano i piedi per evitare sorprese e guardandosi le spalle, in modo da evitare altri attacchi a sorpresa da parte di quegli Uomini Pesce; ad ogni metro che percorrevano, però, sembravano non essersi mossi nemmeno di qualche centimetro, poiché la foresta intorno a loro appariva simile a quella che avevano appena lasciato dietro di sé, con gli stessi rampicanti e le stesse cortecce annerite.
    La nebbia divenne soffocante, quasi fosse stato possibile toccarla con mano e intrappolarla in un barattolo, e più avanzavano in mezzo a quella foschia, tossendo nel vano tentativo di scacciare dalle proprie gole il sapore muschioso che penetrava nei loro polmoni ad ogni boccata, più sentivano i corpi pesanti e difficilmente manovrabili, come se non appartenessero a nessuno di loro. Era una sensazione bizzarra e spiacevole, ma non ebbero tempo di farsi domande, poiché un fruscio fra le fronde richiamò l’attenzione di tutti e li mise sull’attenti, ancor più quando dal folto della foresta emerse una figura gracile e tarchiata, avvolta in un pastrano logoro e stracciato.
    «A quanto pare chi non muore si rivede sul serio, ragazzi».
    «Vecchio!» esclamò Usopp, sorpreso. Nessuno di loro sapeva se ci fosse anche lui dietro a tutta quella storia né se ne fosse completamente all’oscuro, però era stato proprio quell’anziano signore a metterli in guardia sui pericoli che avrebbero potuto correre su quell’isola. Ma come avrebbe potuto sopravvivere per tutti quegli anni, completamente circondato da Uomini Pesce pronti a colpire, se così non fosse stato? C’era di sicuro sotto qualcosa, e il modo in cui quel vecchio sorrideva non faceva altro che inculcare nel cecchino l’assoluta certezza che non fosse chi voleva far loro credere di essere. Il suo istinto non sbagliava mai, e in quel momento era in completo allarme. Che diavolo c’era dietro tutta quella storia?
    Con un sospiro tra il rassegnato e il divertito, il vecchio fece qualche passo nella loro direzione, abbassando un braccio lungo un fianco. Mano a mano che si avvicinava, esso cominciava ad acquisire sfumature azzurrine e a ricoprirsi di squame, all’apparenza dure come l’acciaio; il sorriso sdentato appassì, lasciando posto ad un’arcata dentale massiccia e acuminata che sembrava appartenere ad un mostro marino; il viso scarno e pallido assunse un aspetto forte e spavaldo, la mascella si squadrò e il mento appuntito venne smussato come se fosse appartenuto ad una statua appena levigata, mostrando pian piano alla ciurma il vero volto dell’uomo che avevano dinanzi.
    «Tu sei l’Uomo Pesce contro cui sono andato a sbattere!» esalò il cecchino tutto d’un fiato, incredulo quanto gli altri. Che cazzo stava succedendo?

    Il vecchio sorrise, liberandosi del pastrano con un gesto secco prima di lanciarlo lontano da sé, nel bel mezzo della boscaglia. «Quanto acume, signor cecchino», lo prese in giro, adocchiando Rufy e facendo lui un distratto inchino, muovendo la mano sinistra con fare altezzoso. «Comandante Chair al vostro servizio. Non vogliatemene, ragazzi. Eseguo solo gli ordini del mio Capitano». E quasi parve sputare quella parola, per quanto forse fosse stata semplicemente una vaga impressione del gruppo. «Esattamente come fareste voi, suppongo».
    Robin e tutti gli altri si misero in posizione d’attacco per prevenire in anticipo qualunque mossa sarebbe potuta passare nella mente di quel vecchio, ma Rufy si parò dinanzi a loro e li bloccò con un braccio, lo sguardo fisso su quello che nella sua mente era ormai divenuto il suo avversario. E non avrebbe permesso a nessuno dei suoi compagni di intromettersi in qualche modo. «A lui ci penso io», affermò, scroccando le dita di entrambe le mani. Il sorriso che si era disegnato sulle sue labbra sembrava non promettere nulla di buono, però Chair non parve minimamente impressionato. O era sicuro delle proprie capacità, oppure era un così bravo attore da non mostrar loro quanto in realtà temesse tutti loro.
    «Monkey D. Rufy». L
’Uomo Pesce pronunciò quel nome con voce gracchiante, osservando da capo a piedi il ragazzo che gli si era parato di fronte, abbozzando poi un sorriso. «La tua immagine mi è stata davvero molto utile».
    «Di che cosa stai parlando?» domandò il ragazzo con fare guardingo, ma il vecchio scrollò semplicemente le spalle, come se la questione non lo toccasse minimamente.
    «Credo che i tuoi amici sappiano bene di cosa sto parlando... com’è che si chiamavano? Sanji e Zoro?»
    Nell’udire quei nomi, l’espressione sul volto di Rufy divenne seria. «Dove sono il mio cuoco e il mio Vice Capitano?» sibilò, togliendosi il cappello di paglia per affidarlo a Nami, la quale si ritrovò costretta ad fare qualche passo indietro per la foga con cui il giovane gli aveva consegnato quel suo tesoro. Sembrava furioso, e non distoglieva lo sguardo dall’uomo che aveva dinanzi. «Ti conviene parlare, se non vuoi che ti prenda a calci in culo».
    Vedendolo ostentare silenzio, Rufy assottigliò le palpebre e si gettò verso di lui con un grido rabbioso, colpendolo furiosamente con una raffica di pugni; ad ogni colpo, però, gli sembrava di toccare con le mani soltanto aria, quasi la persona che aveva davanti a sé non avesse la benché minima consistenza, e tale impressione fu accentuata quando, dalla sua sinistra, sopraggiunse una gomitata che lo centrò in pieno costato, facendolo barcollare di lato per la confusione. Ma che diavolo...?
    Rufy stornò bruscamente lo sguardo in quella direzione solo per vedere il volto squamoso del vecchio scomparire dinanzi ai suoi occhi, venendo colpito pesantemente alla nuca da un calcio che lo fece schiantare con il viso sul terreno. «Rufy!» esclamò Nami, e si sarebbe gettata in suo aiuto se una grossa mano di Franky non l’avesse fermata e costretta a rimanere al proprio posto, per quanto lui stesse continuando ad osservare quella bizzarra lotta.
    «È la sua battaglia», le ricordò, deglutendo a vuoto prima di sussurrare, «Andiamo, fratello», forse perché nemmeno lui riusciva a credere che il Capitano potesse davvero perdere contro quel tipo. In passato, e persino dal primo momento in cui avevano messo piede nel Nuovo Mondo, avevano tutti affrontato avversari temibili e sempre più forti, e il pensiero che adesso il ragazzo non riuscisse a cavarsela lo faceva fremere da capo a piedi, come se fosse pronto ad intervenire se si fosse ritenuto necessario. Ed esultò quando vide Rufy riuscire a mettere a segno un colpo, facendo barcollare il proprio avversario.
    Annaspando, Chair si portò una mano al viso per cancellare le tracce di sangue che gli macchiavano la bocca, schioccando poi le dita; le radici di una quercia si mossero come se avessero vita propria e strisciarono simili a serpenti in direzione di Rufy, che dovette saltare sul ramo di un altro albero nel tentativo di evitarle. Contro ogni sua aspettativa, però, quelle radici viventi si arrampicarono lungo la corteccia e gli ghermirono le caviglie, strattonandolo verso il basso fino a fargli sbattere ancora una volta il viso contro il terreno; muovendo le gambe per scivolare al di fuori di quella presa, Rufy sollevò lo sguardo verso il Comandante e allungò un braccio verso di lui, avvolgendolo intorno alla sua vita per impedirgli di allontanarsi, per quanto quest’ultimo avesse cominciato ad agitarsi freneticamente nel tentativo di liberarsi.
    «Gomu gomu no», Rufy allungò il collo all’indietro il più possibile, cominciando pian piano ad allentare la presa intorno al corpo del vecchio prima di esclamare «kane!» e scagliarsi contro di lui, colpendolo con una craniata al centro della fronte; barcollando, il vecchio sembrò faticare a reggersi in piedi, ma sarebbe sicuramente partito all’attacco ancora una volta se solo Rufy, ormai libero dalle radici che l’avevano imprigionato, non si fosse gettato contro di lui e non avesse cominciato ancora una volta a tempestarlo di pugni, lanciandolo lontano e facendogli sbattere la schiena contro il tronco di un albero.
Imprecando e tossendo, Chair si sorresse contro quello stesso albero, portandosi una mano alla spalla, dalla quale usciva copiosamente sangue. Dannazione a quello stupido spadaccino. Il colpo che gli aveva inferto la seconda volta era andato a segno e aveva quasi rischiato di tranciargli di netto un braccio, ed era specialmente a causa sua se adesso non riusciva a combattere al meglio come aveva fatto quando gli aveva mandato contro la sua illusione. Merda. Non aveva la benché minima intenzione di morire per mano di quei mocciosi e venir recluso per l’eternità su quella maledetta nave. Preferiva l’esilio a quella non-esistenza, se proprio doveva scegliere.

    Sollevando un braccio verso l’alto, gesto che subito mise in guardia il gruppo di pirati che aveva dinanzi, Chair abbozzò una sorta di sorriso sarcastico, chiudendo le dita contro il palmo e premendo talmente forte le unghie contro di esso da lasciare i segni delle mezze lune; strinse con maggior violenza, socchiudendo una palpebra quando il sangue cominciò a colare lungo il polso. «È tutto nelle tue mani, Roronoa», sussurrò poi a se stesso, alzando anche l’altro braccio fino a far coincidere le dita palmate; un violento lampo di luce rese momentaneamente ciechi i Mugiwara, i quali dovettero assottigliare le palpebre per riuscire a vedere qualcosa o almeno provarci.
    «Che diavolo...?!» esclamò Franky, schermandosi gli occhi con le lenti nel vano tentativo di capire che cosa stesse succedendo, e, per quanto la nebbia avesse cominciato a dissolversi sotto ai loro occhi, uno strano senso di abbandono si affacciò nei loro cuori, lasciando solo martellanti domande e dubbi.









_Note conclusive (E inconcludenti) dell'autrice
Sono imperdonabile. Ci ho messo una vita pur avendo i capitoli già pronti, però una cosa tira l'altra e... va beh, adesso fortunatamente il capitolo c'è, e la storia è quasi giunta alla sua conclusione.
Comunque sia, capitolo che racchiude in sé un misto di leggende marinare, immaginazione (che non fa mai male, quando si tratta di racconti), e riferimenti storici realmente documentati. C'è persino qualche accenno presente nel manga stesso dopo l'arrivo di Hody Jones, e credo siano stati facilmente intuibili sin dagli scorsi capitoli. Il Kraken e l'Olandese volante, ad esempio. Però, ecco, io sono sempre stata fissata con le leggende marinare e tutto ciò che ne concerne - si può praticamente dire che ci sono cresciuta, con roba simile -, dunque con una storia da un titolo simile come potevano mancare precisi riferimenti ad essi?
Anyway, la versione alla quale faccio riferimento io non è quella di Marryat, bensì quella in cui il Capitano Vanderdecken, incrociando una tempesta sulla rotta per Capo di Buona Speranza, imprecò contro Dio e invocò il Diavolo, scendendo a patti con lui e promettendogli che nel giorno del giudizio avrebbe potuto prendersi la sua anima; la nave, però, si spezzò a metà e naufragò, e persino la morte rifiutò l'anima di Vanderdecken, che fu condannato a vagare da solo sul relitto del vascello.
Tralasciando questo, spero vi sia piaciuto e non abbia deluso.

Al prossimo. ♥



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