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Autore: Layra Disgrace    27/11/2012    1 recensioni
Autunno aveva sempre invidiato i suoi tre compagni.
Autunno era il distruttore. Autunno aveva l’ingrato compito di portare via tutta la gioia e la serenità che Estate donava calorosamente alla gente.
Non era stata una sua scelta, era suo destino e suo dovere.
Autunno arrivava, e con lui la desolazione si insidiava sia nella natura, che negli animi degli uomini.
Niente più risa di bambini, niente più serenità: solo una lenta ripresa di scomode e ripetitive abitudini, portate avanti stancamente giorno dopo giorno.
Genere: Romantico, Sentimentale, Sovrannaturale | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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La fine di Autunno



Autunno aveva sempre invidiato i suoi tre compagni.
Tra quelli, provava un maggior risentimento nei confronti di Estate, la “bella”.
Estate era sempre attesa con impazienza.
C’era chi la attendeva per poter godere della presenza del sole, che in sua compagnia risplende e scalda come in nessun altro periodo dell’anno; c’era chi l’attendeva per poter viaggiare, visitare posti sconosciuti, lontano dalla preoccupazione del lavoro.
Estate si faceva amare, con il suo calore, la sua vivacità e vitalità, con i suoi colori accesi, verde fogliame, blu mare, giallo sole. Estate era giocosa. Amava i bambini, con le loro risate e sorrisi, con le loro urla e pianti. Adorava i ragazzi, con le loro uscite notturne, i loro ritrovi e feste. Gli adulti, con le loro camminate tranquille sulla spiaggia, la facevano sorridere e gli anziani, seduti su di una panchina sempre in compagnia del loro fedele cagnolino, la facevano intenerire.
Era impossibile odiare Estate.  Anche coloro che si dichiaravano insofferenti, non potevano che apprezzarla per certi aspetti: il venticello serale, le stelle così luminose, il cielo limpido, la sensazione di libertà e freschezza.
Estate era sempre gioiosa, allegra, pacifica. Estate danzava, cantava, volava.
Estate era felice, e per esserlo non aveva bisogno di nient’altro che la sua stessa esistenza.
 
Autunno, invece, era il distruttore. Autunno aveva l’ingrato compito di portare via tutta la gioia e la serenità che Estate donava calorosamente alla gente.
Non era stata una sua scelta, era suo destino e suo dovere.
Autunno arrivava, e con lui la desolazione si insidiava sia nella natura, che negli animi degli uomini.
Niente più risa di bambini, niente più serenità: solo una lenta ripresa di scomode e ripetitive abitudini, portate avanti stancamente giorno dopo giorno.
Gli alberi, come silenti portavoce del volere della natura, manifestavano tutta la loro sofferenza: le loro foglie, prima di un verde acceso, lucido e luminoso, si spegnevano, divenendo giallo opaco, marrone chiaro, poi scuro. Poi solo briciole.
Di splendide nuvole di colore rimanevano solamente secchi e appuntiti rami, che, indicando verso l’alto, maledivano il cielo.
Con Autunno, gli animali preferivano dedicarsi ad un sonno lungo mesi.
Autunno vedeva il mondo sgretolarsi, e non poteva fare altro che aspettare il tempo in cui si sarebbe addormentato di nuovo e soffrire.
Non era come la bella Estate, non era sorridente e caloroso. Era scontroso, malinconico, solitario e solo.
Nessuno attendeva mai Autunno, nessuno gioiva della sua venuta e nessuno rimpiangeva la sua dipartita. Era solo un triste intermezzo tra un momento di felicità e un altro.
Come non riusciva ad essere come compagna Estate, così non poteva imitare gli altri due compagni, Inverno e Primavera.
Inverno, l’indifferente. Sebbene portasse freddo, gelo e desolazione, aveva la capacità di estraniarsi completamente da qualsiasi situazione, rimanendo completamente impassibile.
Osservava persone imprecare contro di lui, osservava coloro che contenti giocavano nella neve che lui stesso portava. Tutto ciò non gli interessava e non lo turbava.
Era irraggiungibile e imperscrutabile, e questo suo modo di essere veniva bramato dal misero Autunno.
Primavera, invece, era amata quasi quanto Estate. Lei era la speranza, la rinascita.
Le foglie prima cadute, iniziavano a farsi strada su quei rami prima ricoperti di neve, attraverso verdi e freschi boccioli.
Primavera era un tripudio di fiori, di colori, di profumi. L’aria mai era così pulita e salutare, il cielo così azzurro. Primavera, rispetto ad Estate, era più meditativa.
Lei era saggia, e sapeva, grazie alla sua calma ascetica, rincuorare la gente, infondendo in loro un nuovo slancio vitale, una nuova voglia di vita. Ed era proprio questa voglia di vita che faceva sperare al mondo che presto la bella Estate, la pausa da tutti gli affanni, sarebbe tornata e avrebbe portato felicità e risate. Autunno, l’opposto di Primavera, non poteva che desiderare di essere al suo posto, di essere lui colui che crea e non colui che tutto distrugge.
 
Autunno piangeva, e dal cielo pioveva.
Autunno non aveva niente di ciò che gli altri compagni avevano: né la fortuna di essere amato, né la capacità di non curarsi dell’odio.
Autunno, si svegliava, biasimava la sua esistenza, rimproverava se stesso e tornava a dormire. Ed era ben conscio di essere destinato a quella misera vita per l’eternità.
Ogni tanto si sentiva carico di odio, urlava e si disperava a causa delle ingiustizie che subiva, senza avere alcuna chance di ribellione. E allora scatenava temporali, con fulmini e tuoni. Ogni tanto si rassegnava e i suoi sospiri si trasformavano in vento.
Ogni tanto se ne stava in silenzio, contemplando da lontano il risultato del suo lavoro forzato, il suo umore trasformato in nuvole grigie.
Bramava un cambiamento che non poteva avere, ma il cambiamento gli era negato per natura. Desiderava quindi la morte, anch’essa irraggiungibile, perché la morte avrebbe trascinato con sé anche gli altri suoi compagni, e con essi il mondo intero.
Autunno non aveva alcuna speranza.
 
Alla sera del giorno in cui tutto cambiò, Autunno piangeva.
La malinconia, con il sorgere della luna sua gemella, aveva accolto Autunno nelle sue braccia: Il cielo venne macchiato da nuvole chiare, che lentamente si infittirono, finendo per divenire una coltre nera, spessa, soffocante.
Piccole gocce d’acqua avevano colpito la terra già umida, e così come accadde con le nuvole, ben presto le goccioline si allearono, formando un esercito temporalesco di acqua piovana.
In quella città deserta, in quel preciso istante, Lui stava camminando sotto la pioggia man mano più fitta, senza alcun riparo.
I suo passi erano lenti e leggeri, come se non volesse ferire la terra che necessariamente calpestava, il volto, quasi interamente coperto dai capelli bagnati, era rivolto verso il basso.
Lui entrò in un parco e si tolse le scarpe, lasciando che i fili d’erba si insinuassero tra le dita, poi riprese a camminare.
Raggiunse un faggio quasi del tutto spoglio, alla cui base giaceva uno stuolo di fogliame giallognolo, incupito dalla pioggia.
Lì, Lui si sedette, appoggiando la schiena al grosso tronco, reclinando leggermente il capo all’indietro: la pioggia smise di colpirlo.
Guardò verso l’alto e vide, in mezzo ad un intricato labirinto di rami spogli, il cielo nero.
Una folata di vento gli fece venire la pelle d’oca.
Lui stette fermo in quella posizione per ore, incurante delle condizioni atmosferiche, ignorando l’ora tarda. Sedeva semplicemente, si guardava attorno respirando profondamente, ogni tanto si appisolava, e non dava alcun cenno di volersi spostare.
Autunno lo vide, e ne fu incuriosito.  In situazioni simili, le persone si rinchiudevano nelle loro calde e confortevoli case. Lui non sembrava innervosito, né spaventato.  Autunno pensò che finalmente aveva trovato qualcuno che sarebbe stato disposto ad accoglierlo, e non a disdegnarlo.
Vedendolo così impassibile, realizzò che i suoi erano semplici vaneggiamenti. Era stato presuntuoso a credere che qualcuno potesse essere interessato a lui. Il suo pianto aumentò di intensità, e si decise ad allontanarsi dall’illusione che quel ragazzo per qualche ora gli aveva dato.
Con un sospiro, una folata di vento.
“Ti vedo”
Lui parlò, Autunno tremò.
Lui si alzò, sorrise gentilmente guardando verso il cielo. Con una mano accarezzò la corteccia del povero albero, lasciando che la ruvida superficie gli graffiasse leggermente il palmo liscio.
La pioggia si fermò, le nuvole si allontanarono e la luna continuò a splendere nel cielo blu scuro.  Autunno rise.
Lui, con un’ultima carezza, si allontanò nell’oscurità della notte.
Autunno capì che quel ragazzo rappresentava l’unica possibilità di respirare un po’ di felicità in quell’eterno ciclo di sofferenza che gli si poneva dinnanzi.

Lui era un’entità bizzarra.  Autunno lo osservava, lo studiava e notava tutti i suoi atteggiamenti più inusuali: Lui si muoveva sempre in modo soave, delicato, il fisico stesso era sottile ed ispirava delicatezza. Parlava poco, ma scrutava tanto, il suo viso era spesso inespressivo, ma i suoi occhi sempre vividi e vivaci.
Autunno lo aspettava sempre nel parco in cui per la prima volta si erano incontrati, e Lui tutte le sere, con la comparsa delle prime stelle in cielo, arrivava.
Spesso non faceva altro che sdraiarsi sul tappeto di foglie colorate, con lo sguardo rivolto al cielo, i palmi delle mani dediti ad giocare con i fili d’erba.
Alcune volte Lui danzava attorno agli alberi, oppure al centro del grande prato. Quella era la sua attività preferita nelle giornate particolarmente uggiose.
Lui amava la pioggia, amava sentirla sulla sua pelle, scorrere lentamente sul suo corpo goccia dopo goccia. Spesso si accoccolava vicino ad un albero, appoggiando la guancia sulla corteccia, e lentamente si faceva trascinare nell’oblio del sonno.
Autunno lo vegliava allora silenziosamente, accertandosi che nessuno lo disturbasse, prendendosene cura come se fosse il tesoro più prezioso al mondo.
Autunno si innamorò di Lui.
Più i due si facevano compagnia, più Autunno realizzava che il ragazzo stava diventando la sua ragione di vita. Nei momenti di disperazione, pensava a Lui e alle sue danze, e solo allora il suo cuore trovava tregua e si scaldava di un affetto mai provato, un affetto che sicuramente nessuno dei suoi compagni aveva mai sperimentato. Sapeva che, per una volta, lui possedeva qualcosa di speciale, del quale mai sarebbe stato privato.
Autunno piangeva ancora, ma di commozione e gioia.
Autunno ora rispondeva alle carezze di Lui con folate di vento tiepido, che, scuotendo le chiome degli alberi, facevano volteggiare le poche foglie rimaste sul corpo di Lui danzante, creando una pioggia di colori caldi, sotto la quale Lui rideva spensierato, con tutto se stesso. E dopo ore di giochi e balli, Lui si inginocchiava sul suolo spesso umido, avvicinava ad esso le fresche labbra e schioccava un bacio leggero come una nuvola, per poi sussurrare un dolce “Autunno, mi piaci”.
 
Ma come le stagioni sono destinate, dopo i loro quattro mesi di permanenza su uno dei due emisferi della Terra, a ritornare in un sonno lungo mesi, così anche la piccola parentesi di serenità di Autunno era destinata ad eclissarsi in un sonno di morte.
Autunno, dopo i suoi quattro mesi, dovette andarsene, per lasciar posto a compagno Inverno, che già aveva iniziato a mandare indizi sul suo arrivo.
Negli ultimi giorni che aveva avuto a disposizione, Autunno si era disperato, e sulla terra si erano scatenati acquazzoni, tuoni e lampi. Lui allora, paziente, accarezzava il tronco del tiglio del loro primo incontro, sussurrava parole di conforto e piangeva a sua volta, triste per l’allontanamento ormai prossimo.
Inverno arrivò senza che ci fosse la possibilità per Autunno di salutarlo, senza poter pregare Lui di aspettarlo solo per un anno.
 
Quando, dopo dodici lunghi mesi, Autunno si svegliò nell’emisfero in cui Lui viveva, non poteva che essere impaziente, speranzoso ed eccitato.
Attese la notte in quel parco, silenzioso come non mai.
Il sole calò, la luna riaffiorò, le stelle macularono il cielo.
Lui non arrivò.
Attese ancora, attese che tutte le luci delle case si spegnessero, che tutti gli esseri umani dormissero.
Lui non arrivò.
Iniziò a piangere. Cominciò ad urlare, a chiamarlo, a cercarlo.
Ma Lui non c’era da nessuna parte.
Pianse per giorni, urlò per altri giorni.
Tutti i suoi sforzi, tutta la sua disperazione, furono senza scopo, perché Lui non c’era.
Forse Lui era stato solo un sogno, un dolce sogno finito troppo presto. Forse un’ allucinazione data dalla stanchezza di vivere che provava.
Autunno aveva una sola certezza.  Dopo aver conosciuto il soffio vitale dell’amore, non avrebbe mai potuto continuare a vivere senza di esso, e ritornare ad essere un nessuno senza scopo.
Autunno, così, si addormentò per sempre.
 
Forse il mondo, dopo il sonno eterno di Autunno, finì. I tre compagni rimasti non sarebbero stati in grado di mantenere il precario equilibrio delle stagioni, collassando uno sull’altro. Autunno aveva rotto il ciclo eterno che garantiva la sopravvivenza degli uomini e della Terra stessa.  Freddo e caldo, luce e ombra, si sarebbero sovrapposti in una combinazione mortale.  Autunno aveva portato la fine del mondo.
Forse il mondo non finì affatto. Forse, dopo il sonno perpetuo che Autunno aveva desiderato, la Terra sarebbe stata ancora la stessa, con una stagione in meno.
E allora Autunno non avrebbe potuto vedere che Lui c’era e lo attendeva.
Tutte le sere di tutti i giorni dell’anno Lui andava in quel parco, incurante di che clima ci fosse. Lui si sedeva, appoggiava la testa su quel tronco e piangeva. Piangeva, rimpiangendo quel periodo in cui si era allontanato. Rimproverandosi di non essere rimasto, come Autunno sicuramente avrebbe voluto.
Lui sarebbe allora morto, dopo anni, sotto quello stesso albero, piegato dal dolore, ancora pregando per un impossibile ritorno del suo amato Autunno.
 
   
 
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