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Autore: Memento_B    30/11/2012    0 recensioni
31 ottobre. La notte di Halloween, ma anche la notte in cui Harry Potter sopravvisse all’Avada Kedavra. E, infine, la notte in cui Sirius perse James Potter, il suo migliore amico, scivolando in un baratro senza fine ad Azkaban, dove ormai nient’altro ha importanza.
Genere: Malinconico, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: James Potter, Sirius Black
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Malandrini/I guerra magica, Durante l'infanzia di Harry
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Untitled 1

Nothing is real but pain now

Chiuso in una fredda cella di Azkaban, il giovane Sirius Black se ne stava seduto su un mucchio di stracci sporchi e laceri nell’angolo più buio e lontano dalle grate. Gambe al petto, sguardo fisso su quello spiraglio di luce solare che giungeva in corridoio. Era una luce rossa, calda, che illuminava le squallide pietre grigie e fredde del pavimento e dei muri della prigione. Lentamente, la luce diminuiva, lasciando spazio di nuovo alla notte. I giorni, del resto, erano del tutto uguali. Un interminabile susseguirsi di mattine e di sere, uno strazio lungo un’eternità da cui non vi era alcuna via di fuga se non la morte. Un ciclo perpetuo di dolore che nemmeno le lacrime erano in grado di lenire; semplicemente, non ne aveva più. Le aveva versate tutte nei suoi primi tre giorni ad Azkaban, i primi senza di loro. La disperazione e i dissennatori avevano fatto il resto, rendendolo solo l’involucro di quello che un tempo era un uomo. Anche fisicamente, non era più lo stesso ragazzo di un tempo; i bei lineamenti della famiglia Black erano stati sciupati dal tempo e dalle condizioni precarie in cui il ragazzo era costretto a vivere. Il volto era sporco di polvere, i capelli neri, un tempo perfetti, erano arruffati e intricati, come la barba. Gli occhi grigi, gli stessi occhi grigi che fino a poco tempo prima scrutavano ogni cosa, pieni di vita, che vivaci si posavano sui corpi delle belle ragazze che gli passavano vicino o che veloci guizzavano sui suoi nemici alla ricerca di punti deboli in caso di necessità; quegli stessi occhi erano spenti e vacui, in loro non brillava più la luce della gioventù né s’intravedevano le ultime sfumature di quella risata argentina che lo ha sempre caratterizzato. Risata che, effettivamente, aveva cessato di esistere. Era anche molto più magro e raggomitolato su di sé sembrava anche più piccolo ed esile. Era un vuoto contenitore di quel che un tempo fu Sirius Black, del tutto privato della sua vita, del suo cuore, di ogni cosa. Sentiva che la vita lo aveva abbandonato, sentiva che il sangue non circolava più nelle vene, non avvertiva più il battito del cuore, non aveva più desideri o passioni. Non era più se stesso e a volte gli mancava anche la forza di volontà per andare avanti. Si sentiva semplicemente un’anima svuotata e rovesciata prigioniera di un corpo privo di forze, in un mondo in cui non aveva più nulla da fare. Era semplicemente morto. E sapeva bene anche quando l’ultima fibra di vita aveva abbandonato il suo giovane corpo.

Era il 31 ottobre 1981, esattamente un anno prima. Sì, Sirius sapeva bene che giorno fosse; proprio quella mattina era riuscito ad intravedere un trafiletto di giornale, senza andare oltre la data. Quel 31 ottobre gli aveva trafitto il cuore, gettando sale e aceto su una ferita mai chiusa, riportandogli alla mente i dolorosi ricordi di quella sera. Ricordava ogni singolo momento di quella fatidica giornata, delle sue ultime ore con James e Lily, del tutto ignari di quel che sarebbe accaduto di lì a poco.

<< Ci si vede domani da Remus, allora. Ciao James! >> Queste furono le ultime parole che rivolse al suo migliore amico quando uscì da casa sua quel 31 ottobre, dopo aver pranzato con lui, Lily e il piccolo Harry. Fece appena in tempo ad intercettare l’ultimo, amabile, sorriso di James prima di smaterializzarsi nella sua casa. Di norma, avrebbe dovuto passare il 31 ottobre con loro, come facevano ogni anno. Ma il bambino piccolo limitava gli spostamenti dei Potter, e lui era riuscito, dopo tanta fatica, a fissare un appuntamento con Elodie Connors, un’ex Corvonero appassionata di motociclette e dai modi di fare piuttosto mascolini.

Così, il 31 pomeriggio lo passò a casa sua, un piccolo monolocale nel pieno della Londra Babbana, il meglio che poté permettersi con l’eredità del fu zio Alphard –o, per meglio dire, quello che non aveva speso per la motocicletta-, ripromettendosi che avrebbe cucinato personalmente qualcosa ad Elodie, per poi passare il pomeriggio a non far nulla e comprare qualcosa d’asporto al negozio sotto casa giusto cinque minuti prima della chiusura.

Andò a prendere Elodie con la sua motocicletta, come se sperasse di fare una bella figura sulla ragazza presentandosi con una motocicletta volante –cosa che a dire il vero riuscì. Era una bella ragazza più grande di un anno, con dei lunghi capelli biondi e gli occhi nocciola, vestita interamente di pelle nera e lucida. La portò a casa, e la serata trascorse normalmente fra una risata e l’altra.

Nell’aria aleggiava il pesante odore di cognac che aveva aperto per l’occasione, una bottiglia piuttosto vecchia che raccontò appartenere alla sua famiglia da decenni (quando in realtà l’aveva comprata sempre al negozio sotto casa insieme alla cena), quando un presentimento lo colpì, e per un attimo la sua risata si spense e il sorriso gli scomparve dal volto. Per qualche istante, fissò gli occhi di Elodie, senza però vederli realmente. Sta succedendo qualcosa, pensò. Poi, scosse il capo, come per cacciare quel pensiero, ripetendosi che non stava succedendo nulla.

Peter Minus aveva infine ceduto. Aveva scelto di tradire gli amici, e aveva rivelato dove si trovasse la casa dei Potter. Solo lui poteva farlo, solo lui era in grado di indicare la via, senza il suo aiuto Lord Voldemort avrebbe potuto sbattere il naso contro la finestra del loro salotto e non accorgersene.

<< Sarai ricompensato, Codaliscia. >> Con queste parole Lord Voldemort scomparve, e Minus cadde per terra, sconfortato. “Non avevi scelta”, si ripeteva.

Sirius ritornò a sorridere ad Elodie, che probabilmente anche grazie all’alcool non si era resa conto di nulla. Stava rivalutando il caro vecchio Sirius Black, che ai tempi della scuola aveva tanto disprezzato. Non si rese conto che qualcosa in Sirius era cambiato. La sua risata era forzata, il sorriso smagliante che fino a poco prima aveva dipinto il suo bellissimo volto Black era sparito, lasciando spazio ad una smorfia tirata. Gli occhi grigi del ragazzo vagano inquieti da una parte all’altra della stanza, come se lui non fosse realmente lì. Cosa che, effettivamente, era vera. Continuava a pensare a quella sensazione, che si faceva sempre più pressante, finché… James!

<< Elodie, scusami. Ti riaccompagno a casa, devo andare da James. >> Brusco, la fece alzare, mentre sulla faccia della ragazza si dipinse indignazione e sconcerto. Pochi giorni dopo, Elodie avrebbe raccontato alle autorità competenti come Sirius l’avesse riaccompagnata a casa farfugliando per tutto il tempo qualcosa su James, ed era certissima che dopo averla lasciata a casa fosse andato ad ammazzare James Potter e la sua famiglia. La faccenda la sconvolse così tanto che non uscì più con nessun ragazzo e cadde in una pesante depressione (“E’ stata colpa mia, non dovevo farlo andare” spesso nel sonno ripeteva queste parole) che la spinse a suicidarsi due anni dopo.

<< Avada Kedavra! >> Il corpo di James cadde per terra nell’ingresso della sua casa a Godric’s Hollow, gli occhi sgranati, gli occhiali rotti, la bacchetta stretta in mano e la bocca ancora aperta mentre lanciava un ultimo grido di avviso alla sua amata, Lily. Lord Voldemort lo oltrepassò e iniziò a salire le scale, dove aveva visto andare Lily. Aprì la porta.

Sirius aveva appena fatto scendere Elodie dalla sua moto, a parecchi isolati di distanza da casa, quando avvertì una fitta al cuore. Sì, stava succedendo qualcosa di terribile, doveva avvisare James prima che fosse troppo tardi. Magari si sarebbe rivelato solo un paranoico, lui stesso prendeva in giro chi credeva di possedere il sesto senso o robe del genere, ma quella sera sentiva che doveva seguire il suo istinto. Rimise in moto.

Lily era china sulla culla di Harry e gli accarezzava la chioma nera, guardandolo negli occhi verdi, cercando di trattenere le lacrime. Lo prese in braccio, stringendolo a sé, quando sentì l’ultimo grido di James morire nella gola del giovane. Sentì la porta aprirsi e non poté far altro che voltarsi.

<< Lascialo e non ti succederà nulla. >>

<< NO, prendi me! Ti prego, prendi me! >>

Quando Lord Voldemort alzò la bacchetta, lei fece in tempo a voltarsi, dando la schiena al mago e salvando la vita ad Harry. Cadde riversa al suolo, il bambino sul suo petto guardava terrorizzato Lord Voldermort e scoppiò a piangere.

<< Avada… >>

Troppo tardi. Era arrivato troppo tardi. Quando la maledizione rimbalzò da Harry a Lord Voldermot, lui era ancora lontano, così quando giunse davanti a quello che una volta fu il cancelletto del giardino dei Potter quel che trovò non fu altro che una casa distrutta. Sconvolto, scese dalla moto, che cadde a terra con un rumore sordo. Diverse persone si erano già radunate lì vicino, fra le quali la vecchia Bathilda Bath. Quando lo videro e lo riconobbero, subito si spostarono, così da farlo passare. L’amicizia fra James Potter e Sirius Black era famosa nell’intero mondo magico, così nessuno si sorprese quando un urlo straziante provenne dalla casa, probabilmente il momento in cui Sirius vide il corpo di James.

Le ore seguenti alla morte di James passarono rapidi in un turbinio di volti, luoghi e parole di cui non ha memoria alcuna. Remus, Peter, addirittura Mocciosus. Tutti quei volti gli annebbiavano la mente, lo sommergevano di domande, fiumi di parole che non riusciva a comprendere, che non riusciva a captare, di cui non si curava. Si faceva trasportare da un luogo all’altro, si faceva visitare, si faceva confortare, ma nella sua mente tutto ciò non era reale. L’ultima cosa di reale di cui aveva memoria era il corpo di James, i suoi occhi nocciola, e la sua bocca aperta in un grido. Di come si arrivato troppo tardi per fermare tutto, per farlo scappare, di come in un certo senso era responsabile.

<< E’ colpa mia, è colpa mia… >> Continuava a ripetere, e puntualmente Remus o qualcun altro (c’è chi ha giurato che addirittura Severus Piton, mosso da compassione, gli abbia detto qualche parola) lo confortava. Sì, era colpa sua, per colpa di un appuntamento con una stupida ragazzetta non era riuscito a salvare il suo migliore amico.

Tormentato da questi pensieri, riuscì finalmente a trovare la quiete del sonno; un sonno senza sogni, come promesso dalla pozione che gli somministrarono a forza –non che lui oppose resistenza a qualsiasi manovra altrui. Quando riaprì gli occhi, comprese che sì, era colpa sua, ma non per il motivo che aveva pensato. Lui aveva convinto i Potter a scegliere come custode Minus, lui li aveva condotti alla morte, lui aveva riposto la sua fiducia nell’uomo che aveva ucciso i suoi migliori amici. Non rivolse la parola a nessuno, ma bacchetta salda in mano e cuore dilaniato andò in cerca di Peter.

Lo trovò.

<< 365 giorni senza James… >> fu tutto quello che riuscì a mormorare, le uniche parole che uscirono dalla sua bocca impastata. Un sussurro, probabilmente non udibile da nessuno. Anche ad un anno di distanza ricordava ogni più vivido dettaglio di quella maledetta giornata. Non c’era notte che non sognasse il corpo di James, non c’era secondo in cui la vita distrutta dei giovani Potter non tormentasse la sua anima. Un tormento che lo logorava giorno dopo giorno, riducendolo a brandelli di polvere, ossa e carne. Quando andò a cercare Peter, sapeva che sarebbe finito ad Azkaban. Ma se non altro, sperava di farlo per il motivo giusto, ossia per l’aver vendicato quello che era il suo migliore amico e sua moglie. Invece, ad aggravare il suo tormento vi era il peso dell’innocenza e il sapere che Minus era ancora in libertà. Che l’assassino del suo migliore amico era ancora a piede libero, seppur non sapesse né dove né come. Ma non era un suo problema, rinchiuso in una maledetta cella ad Azkaban, dove non avrebbe mai trovato pace. Ogni giorno non poteva far altro che sperare di trovare la morte, non poteva far altro che desiderare di ricongiungersi a James, in un modo o nell’altro. Ed ogni notte cadeva distrutto in un sonno irrequieto che gli ricordava quanto fosse colpevole in quella situazione, e di come non sia stato nemmeno in grado di risolverla. Non era riuscito a fare nulla. Ma del resto non gli importava più nulla. Come poteva avere ancora un interesse, avere un desiderio o una passione, o la semplice volontà di vivere quando tutto quel che amava gli era stato portato via con la forza? Quando non gli era nemmeno concesso togliersi la vita così da ritrovare quanto aveva permesso, ma era costretto in un eterno limbo?

Ormai era un fantoccio in grado di elaborare solamente due pensieri, ossia come avrebbe ucciso Peter Minus se mai ne avesse avuto la possibilità e… James. Il pensiero di James lo tormentava in ogni sua forma e in ogni suo modo. Gli mozzava il respiro, lo tormentava, corrodeva quei pochi brandelli di cuore che ancora gli erano rimasti. Vedeva James ovunque ed in ogni momento, e la sua permanenza ad Azkaban non faceva che peggiorare le cose.

La vicinanza ai Dissennatori, a lungo andare, gli aveva portato via ogni bel ricordo di James. I loro anni ad Hogwarts, su come la presenza di James abbia reso tutto più bello, la fiducia che riponevano l’uno nell’altro, gli specchi che permettevano loro di comunicare in ogni momento, il loro essere indivisibili e il loro vivere fianco a fianco ogni momento della giornata. Adesso tutti questi ricordi non erano altro che stralci di risate e di istanti sopiti nel più profondo della sua mente, inaccessibili a chiunque, compreso a lui stesso. Questo gli toglieva le forze, gli impediva di trovare la volontà di andare avanti, di cercare un appiglio a cui aggrapparsi per non sprofondare nel baratro che gli si apriva davanti. Ma giorno dopo giorno sentiva di cadere sempre nel più profondo di quell’abisso senza fine che era diventata la sua vita. Più volte era stato lontano da James; durante le vacanze –almeno prima di trasferirsi da lui-, quando il tenore di vita a casa Black escludeva contatti con James Potter. O perfino dopo lo stesso matrimonio di James e Lily; Sirius non lo avrebbe ammesso mai, ma per lui fu tremendo vedere l’amico andare via dalla casa che condividevano per mettere su famiglia con la sua moglie. Ma ogni volta c’era la consapevolezza del potersi rivedere, del potersi cercare. Sapeva che, in caso di bisogno, James sarebbe stato sempre al suo fianco. Ma questa volta era diverso, e tutto per colpa sua: non era stato in grado di aiutare l’amico nell’unica vera situazione di pericolo. Non sarebbe mai più tornato, questa volta. Non avrebbe mai più sentito la sua risata, non l’avrebbe mai più sentito sbottare contro Mocciosus, non più dovuto certo di calmarlo per scongiurare una rissa, salvo poi prenderne parte.

Sospirò, abbandonando la sua schiena contro il muro di pietra, freddo e lontano, mentre le gambe si distesero. Le mani caddero, stanche, al suo fianco, mentre finalmente scostò lo sguardo dal sole, che con ultimi sprazzi di arancione e macchie di luce era tramontato, per lasciare spazio alla notte. La più terribile delle ultime notti, la notte del primo anniversario della morte di James e Lily Potter, che lui non fu abbastanza veloce da evitare. Notte che portava con sé malinconia, disperazione e dolore. Quel dolore che attanaglia le viscere, che distrugge ogni organo, che preclude alla vita, che non lascia scampo e che vede come unica via di fuga l’assecondarlo mentre ci conduce, lentamente e logorandoci, alla morte. Quel dolore che non può essere espresso e non può essere ignorato. Ma alla fine Sirius sapeva che lamentarsi non sarebbe servito a nulla, e che neanche la libertà gli avrebbe ridato il suo tesoro più prezioso. Aveva perduto per sempre ogni cosa, e nulla al mondo avrebbe migliorato quella situazione. L’unica speranza, fioca e remota, veniva dalla vendetta. Ma presto la vendetta sfociava in altro dolore, e non poteva far nulla.

No, non poteva far nulla, perché James Potter era ormai morto, e nient’altro aveva speranza.

Quella notte, si svegliò all’improvviso dopo appena un’ora di sonno. Nell’aria c’era odore di cognac, o forse era la sua mente ad immaginarlo. Era lo stesso odore che lo accompagnò dalla sua casa a quella dei Potter.

Una lacrima scivolò sulla guancia del giovane, scavandosi un fosso nello strato di polvere e sporcizia, lasciando dietro di sé una scia, prima di morire cadendo sul freddo pavimento in pietra di una buia cella di Azkaban.

  
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