Nothing
is real but pain now
Chiuso in una fredda cella di Azkaban, il giovane Sirius Black se ne stava
seduto su un mucchio di stracci sporchi e laceri nell’angolo più buio e lontano
dalle grate. Gambe al petto, sguardo fisso su quello spiraglio di luce solare
che giungeva in corridoio. Era una luce rossa, calda, che illuminava le
squallide pietre grigie e fredde del pavimento e dei muri della prigione.
Lentamente, la luce diminuiva, lasciando spazio di nuovo alla notte. I giorni,
del resto, erano del tutto uguali. Un interminabile susseguirsi di mattine e di
sere, uno strazio lungo un’eternità da cui non vi era alcuna via di fuga se non
la morte. Un ciclo perpetuo di dolore che nemmeno le lacrime erano in grado di
lenire; semplicemente, non ne aveva più. Le aveva versate tutte nei suoi primi
tre giorni ad Azkaban, i primi senza di
loro. La disperazione e i dissennatori avevano fatto il resto, rendendolo
solo l’involucro di quello che un tempo era un uomo. Anche fisicamente, non era
più lo stesso ragazzo di un tempo; i bei lineamenti della famiglia Black erano
stati sciupati dal tempo e dalle condizioni precarie in cui il ragazzo era
costretto a vivere. Il volto era sporco di polvere, i capelli neri, un tempo
perfetti, erano arruffati e intricati, come la barba. Gli occhi grigi, gli
stessi occhi grigi che fino a poco tempo prima scrutavano ogni cosa, pieni di
vita, che vivaci si posavano sui corpi delle belle ragazze che gli passavano
vicino o che veloci guizzavano sui suoi nemici alla ricerca di punti deboli in
caso di necessità; quegli stessi occhi erano spenti e vacui, in loro non
brillava più la luce della gioventù né s’intravedevano le ultime sfumature di
quella risata argentina che lo ha sempre caratterizzato. Risata che,
effettivamente, aveva cessato di esistere. Era anche molto più magro e
raggomitolato su di sé sembrava anche più piccolo ed esile. Era un vuoto
contenitore di quel che un tempo fu Sirius Black, del tutto privato della sua
vita, del suo cuore, di ogni cosa. Sentiva che la vita lo aveva abbandonato,
sentiva che il sangue non circolava più nelle vene, non avvertiva più il battito
del cuore, non aveva più desideri o passioni. Non era più se stesso e a volte
gli mancava anche la forza di volontà per andare avanti. Si sentiva
semplicemente un’anima svuotata e rovesciata prigioniera di un corpo privo di
forze, in un mondo in cui non aveva più nulla da fare. Era semplicemente
morto. E sapeva bene anche quando
l’ultima fibra di vita aveva abbandonato il suo giovane corpo.
Era il 31 ottobre 1981, esattamente un anno prima. Sì, Sirius sapeva bene che
giorno fosse; proprio quella mattina era riuscito ad intravedere un trafiletto
di giornale, senza andare oltre la data. Quel 31 ottobre gli aveva trafitto il
cuore, gettando sale e aceto su una ferita mai chiusa, riportandogli alla mente
i dolorosi ricordi di quella sera. Ricordava ogni singolo momento di quella
fatidica giornata, delle sue ultime ore con James e Lily, del tutto ignari di
quel che sarebbe accaduto di lì a poco.
<< Ci si vede domani da Remus, allora. Ciao James! >> Queste furono le ultime
parole che rivolse al suo migliore amico quando uscì da casa sua quel 31
ottobre, dopo aver pranzato con lui, Lily e il piccolo Harry. Fece appena in
tempo ad intercettare l’ultimo, amabile, sorriso di James prima di
smaterializzarsi nella sua casa. Di norma, avrebbe dovuto passare il 31 ottobre
con loro, come facevano ogni anno. Ma il bambino piccolo limitava gli
spostamenti dei Potter, e lui era riuscito, dopo tanta fatica, a fissare un
appuntamento con Elodie Connors, un’ex Corvonero appassionata di motociclette e
dai modi di fare piuttosto mascolini.
Così, il 31 pomeriggio lo passò a casa sua, un piccolo monolocale nel pieno
della Londra Babbana, il meglio che poté permettersi con l’eredità del fu zio
Alphard –o, per meglio dire, quello che non aveva speso per la motocicletta-,
ripromettendosi che avrebbe cucinato personalmente qualcosa ad Elodie, per poi
passare il pomeriggio a non far nulla e comprare qualcosa d’asporto al negozio
sotto casa giusto cinque minuti prima della chiusura.
Andò a prendere Elodie con la sua motocicletta, come se sperasse di fare una
bella figura sulla ragazza presentandosi con una motocicletta volante –cosa che
a dire il vero riuscì. Era una bella ragazza più grande di un anno, con dei
lunghi capelli biondi e gli occhi nocciola, vestita interamente di pelle nera e
lucida. La portò a casa, e la serata trascorse normalmente fra una risata e
l’altra.
Nell’aria aleggiava il pesante odore di
cognac che aveva aperto per l’occasione, una bottiglia piuttosto vecchia che
raccontò appartenere alla sua famiglia da decenni (quando in realtà l’aveva
comprata sempre al negozio sotto casa insieme alla cena), quando un
presentimento lo colpì, e per un attimo la sua risata si spense e il sorriso gli
scomparve dal volto. Per qualche istante, fissò gli occhi di Elodie, senza però
vederli realmente. Sta succedendo
qualcosa, pensò. Poi, scosse il capo, come per cacciare quel pensiero,
ripetendosi che non stava succedendo nulla.
Peter Minus aveva infine ceduto. Aveva scelto di tradire gli amici, e aveva
rivelato dove si trovasse la casa dei Potter. Solo lui poteva farlo, solo lui
era in grado di indicare la via, senza il suo aiuto Lord Voldemort avrebbe
potuto sbattere il naso contro la finestra del loro salotto e non accorgersene.
<<
Sarai ricompensato, Codaliscia. >> Con queste parole Lord Voldemort scomparve, e
Minus cadde per terra, sconfortato. “Non avevi scelta”, si ripeteva.
Sirius ritornò a sorridere ad Elodie, che probabilmente anche grazie all’alcool
non si era resa conto di nulla. Stava rivalutando il caro vecchio Sirius Black,
che ai tempi della scuola aveva tanto disprezzato. Non si rese conto che
qualcosa in Sirius era cambiato. La sua risata era forzata, il sorriso
smagliante che fino a poco prima aveva dipinto il suo bellissimo volto Black era
sparito, lasciando spazio ad una smorfia tirata. Gli occhi grigi del ragazzo
vagano inquieti da una parte all’altra della stanza, come se lui non fosse
realmente lì. Cosa che, effettivamente, era vera. Continuava a pensare a quella
sensazione, che si faceva sempre più pressante, finché…
James!
<< Elodie, scusami. Ti riaccompagno a casa, devo andare da James. >> Brusco, la
fece alzare, mentre sulla faccia della ragazza si dipinse indignazione e
sconcerto. Pochi giorni dopo, Elodie avrebbe raccontato alle autorità competenti
come Sirius l’avesse riaccompagnata a casa farfugliando per tutto il tempo
qualcosa su James, ed era certissima
che dopo averla lasciata a casa fosse andato ad ammazzare James Potter e la sua
famiglia. La faccenda la sconvolse così tanto che non uscì più con nessun
ragazzo e cadde in una pesante depressione (“E’ stata colpa mia, non dovevo
farlo andare” spesso nel sonno ripeteva queste parole) che la spinse a
suicidarsi due anni dopo.
<<
Avada Kedavra! >> Il corpo di James cadde per terra nell’ingresso della sua casa
a Godric’s Hollow, gli occhi sgranati, gli occhiali rotti, la bacchetta stretta
in mano e la bocca ancora aperta mentre lanciava un ultimo grido di avviso alla
sua amata, Lily. Lord Voldemort lo oltrepassò e iniziò a salire le scale, dove
aveva visto andare Lily. Aprì la porta.
Sirius aveva appena fatto scendere Elodie dalla sua moto, a parecchi isolati di
distanza da casa, quando avvertì una fitta al cuore. Sì, stava succedendo
qualcosa di terribile, doveva avvisare James prima che fosse troppo tardi.
Magari si sarebbe rivelato solo un paranoico, lui stesso prendeva in giro chi
credeva di possedere il sesto senso o robe del genere, ma quella sera sentiva
che doveva seguire il suo istinto. Rimise in moto.
Lily
era china sulla culla di Harry e gli accarezzava la chioma nera, guardandolo
negli occhi verdi, cercando di trattenere le lacrime. Lo prese in braccio,
stringendolo a sé, quando sentì l’ultimo grido di James morire nella gola del
giovane. Sentì la porta aprirsi e non poté far altro che voltarsi.
<<
Lascialo e non ti succederà nulla. >>
<<
NO, prendi me! Ti prego, prendi me! >>
Quando Lord Voldemort alzò la bacchetta, lei fece in tempo a voltarsi, dando la
schiena al mago e salvando la vita ad Harry. Cadde riversa al suolo, il bambino
sul suo petto guardava terrorizzato Lord Voldermort e scoppiò a piangere.
<<
Avada… >>
Troppo tardi. Era arrivato troppo tardi. Quando la maledizione rimbalzò da Harry
a Lord Voldermot, lui era ancora lontano, così quando giunse davanti a quello
che una volta fu il cancelletto del giardino dei Potter quel che trovò non fu
altro che una casa distrutta. Sconvolto, scese dalla moto, che cadde a terra con
un rumore sordo. Diverse persone si erano già radunate lì vicino, fra le quali
la vecchia Bathilda Bath. Quando lo videro e lo riconobbero, subito si
spostarono, così da farlo passare. L’amicizia fra James Potter e Sirius Black
era famosa nell’intero mondo magico, così nessuno si sorprese quando un urlo
straziante provenne dalla casa, probabilmente il momento in cui Sirius vide il
corpo di James.
Le ore seguenti alla morte di James passarono rapidi in un turbinio di volti,
luoghi e parole di cui non ha memoria alcuna. Remus, Peter, addirittura
Mocciosus. Tutti quei volti gli annebbiavano la mente, lo sommergevano di
domande, fiumi di parole che non riusciva a comprendere, che non riusciva a
captare, di cui non si curava. Si faceva trasportare da un luogo all’altro, si
faceva visitare, si faceva confortare, ma nella sua mente tutto ciò non era
reale. L’ultima cosa di reale di cui aveva memoria era il corpo di James, i suoi
occhi nocciola, e la sua bocca aperta in un grido. Di come si arrivato troppo
tardi per fermare tutto, per farlo scappare, di come in un certo senso era
responsabile.
<< E’ colpa mia, è colpa mia… >> Continuava a ripetere, e puntualmente Remus o
qualcun altro (c’è chi ha giurato che addirittura Severus Piton, mosso da
compassione, gli abbia detto qualche parola) lo confortava. Sì, era colpa sua,
per colpa di un appuntamento con una stupida ragazzetta non era riuscito a
salvare il suo migliore amico.
Tormentato da questi pensieri, riuscì finalmente a trovare la quiete del sonno;
un sonno senza sogni, come promesso dalla pozione che gli somministrarono a
forza –non che lui oppose resistenza a qualsiasi manovra altrui. Quando riaprì
gli occhi, comprese che sì, era colpa sua, ma non per il motivo che aveva
pensato. Lui aveva convinto i Potter a scegliere come custode Minus, lui li
aveva condotti alla morte, lui aveva riposto la sua fiducia nell’uomo che aveva
ucciso i suoi migliori amici. Non rivolse la parola a nessuno, ma bacchetta
salda in mano e cuore dilaniato andò in cerca di Peter.
Lo trovò.
<< 365 giorni senza James… >> fu tutto quello che riuscì a mormorare, le uniche
parole che uscirono dalla sua bocca impastata. Un sussurro, probabilmente non
udibile da nessuno. Anche ad un anno di distanza ricordava ogni più vivido
dettaglio di quella maledetta giornata. Non c’era notte che non sognasse il
corpo di James, non c’era secondo in cui la vita distrutta dei giovani Potter
non tormentasse la sua anima. Un tormento che lo logorava giorno dopo giorno,
riducendolo a brandelli di polvere, ossa e carne. Quando andò a cercare Peter,
sapeva che sarebbe finito ad Azkaban. Ma se non altro, sperava di farlo per il
motivo giusto, ossia per l’aver vendicato quello che era il suo migliore amico e
sua moglie. Invece, ad aggravare il suo tormento vi era il peso dell’innocenza e
il sapere che Minus era ancora in libertà. Che l’assassino del suo migliore
amico era ancora a piede libero, seppur non sapesse né dove né come. Ma non era
un suo problema, rinchiuso in una maledetta cella ad Azkaban, dove non avrebbe
mai trovato pace. Ogni giorno non poteva far altro che sperare di trovare la
morte, non poteva far altro che desiderare di ricongiungersi a James, in un modo
o nell’altro. Ed ogni notte cadeva distrutto in un sonno irrequieto che gli
ricordava quanto fosse colpevole in quella situazione, e di come non sia stato
nemmeno in grado di risolverla. Non era riuscito a fare
nulla. Ma del resto non gli importava
più nulla. Come poteva avere ancora un interesse, avere un desiderio o una
passione, o la semplice volontà di vivere quando tutto quel che amava gli era
stato portato via con la forza? Quando non gli era nemmeno concesso togliersi la
vita così da ritrovare quanto aveva permesso, ma era costretto in un eterno
limbo?
Ormai era un fantoccio in grado di elaborare solamente due pensieri, ossia come
avrebbe ucciso Peter Minus se mai ne avesse avuto la possibilità e… James. Il
pensiero di James lo tormentava in ogni sua forma e in ogni suo modo. Gli
mozzava il respiro, lo tormentava, corrodeva quei pochi brandelli di cuore che
ancora gli erano rimasti. Vedeva James ovunque ed in ogni momento, e la sua
permanenza ad Azkaban non faceva che peggiorare le cose.
La vicinanza ai Dissennatori, a lungo andare, gli aveva portato via ogni bel
ricordo di James. I loro anni ad Hogwarts, su come la presenza di James abbia
reso tutto più bello, la fiducia che riponevano l’uno nell’altro, gli specchi
che permettevano loro di comunicare in ogni momento, il loro essere indivisibili
e il loro vivere fianco a fianco ogni momento della giornata.
Adesso tutti questi ricordi non erano altro che stralci di risate e di
istanti sopiti nel più profondo della sua mente, inaccessibili a chiunque,
compreso a lui stesso. Questo gli toglieva le forze, gli impediva di trovare la
volontà di andare avanti, di cercare un appiglio a cui aggrapparsi per non
sprofondare nel baratro che gli si apriva davanti. Ma giorno dopo giorno sentiva
di cadere sempre nel più profondo di quell’abisso senza fine che era diventata
la sua vita. Più volte era stato lontano da James; durante le vacanze –almeno
prima di trasferirsi da lui-, quando il tenore di vita a casa Black escludeva
contatti con James Potter. O perfino dopo lo stesso matrimonio di James e Lily;
Sirius non lo avrebbe ammesso mai, ma per lui fu tremendo vedere l’amico andare
via dalla casa che condividevano per mettere su famiglia con la sua moglie. Ma
ogni volta c’era la consapevolezza del potersi rivedere, del potersi cercare.
Sapeva che, in caso di bisogno, James sarebbe stato sempre al suo fianco. Ma
questa volta era diverso, e tutto per colpa sua: non era stato in grado di
aiutare l’amico nell’unica vera situazione di pericolo. Non sarebbe mai più
tornato, questa volta. Non avrebbe mai più sentito la sua risata, non l’avrebbe
mai più sentito sbottare contro Mocciosus,
non più dovuto certo di calmarlo per scongiurare una rissa, salvo poi prenderne
parte.
Sospirò, abbandonando la sua schiena contro il muro di pietra, freddo e lontano,
mentre le gambe si distesero. Le mani caddero, stanche, al suo fianco, mentre
finalmente scostò lo sguardo dal sole, che con ultimi sprazzi di arancione e
macchie di luce era tramontato, per lasciare spazio alla notte. La più terribile
delle ultime notti, la notte del primo anniversario della morte di James e Lily
Potter, che lui non fu abbastanza veloce da evitare. Notte che portava con sé
malinconia, disperazione e dolore. Quel dolore che attanaglia le viscere, che
distrugge ogni organo, che preclude alla vita, che non lascia scampo e che vede
come unica via di fuga l’assecondarlo mentre ci conduce, lentamente e
logorandoci, alla morte. Quel dolore che non può essere espresso e non può
essere ignorato. Ma alla fine Sirius sapeva che lamentarsi non sarebbe servito a
nulla, e che neanche la libertà gli avrebbe ridato il suo tesoro più prezioso.
Aveva perduto per sempre ogni cosa, e nulla al mondo avrebbe migliorato quella
situazione. L’unica speranza, fioca e remota, veniva dalla vendetta. Ma presto
la vendetta sfociava in altro dolore, e non poteva far nulla.
No, non poteva far nulla, perché James Potter era ormai
morto, e nient’altro aveva speranza.
Quella notte, si svegliò all’improvviso dopo appena un’ora di sonno. Nell’aria
c’era odore di cognac, o forse era la sua mente ad immaginarlo. Era lo stesso
odore che lo accompagnò dalla sua casa a quella dei Potter.
Una lacrima scivolò sulla guancia del giovane, scavandosi un fosso nello strato
di polvere e sporcizia, lasciando dietro di sé una scia, prima di morire cadendo
sul freddo pavimento in pietra di una buia cella di Azkaban.