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Autore: Emerlith    30/11/2012    3 recensioni
Nessuno al mondo, paradossalmente, può capirmi meglio di te. Tu sai già. Non c’è bisogno che io parli. Sai che questo pomeriggio non ero in camera, sai che il mio gufo sta facendo più viaggi del solito. Sai che mi sto perdendo. Sai che voglio urlare, ma non posso farlo. Perché cala il buio. Ed io rimango terrorizzata, immobile, non ti vedo più. Un sipario violento, nero, tagliente, ci separa.
C’è silenzio. Lo stesso silenzio assordante di tanti anni fa. Per un attimo, prima che le candeline della tua torta scendano con grazia dall’alto ad illuminare la platea dei nostri ospiti, prima che i cori d’approvazione raggiungano le mie orecchie, prima che mi ricordi che questa è una festa e non ho più nove anni, per un attimo, mentre c’è solo il buio, tutto quello che riesco a pensare è '' Vienimi a prendere.'' Non posso muovermi, non posso urlare, non posso respirare. Ma tu sei mia sorella. Tu mi tiri sempre fuori. Tu mi spingi in alto. Vienimi a prendere.
Genere: Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Andromeda Black, Bellatrix Lestrange, Ted Tonks | Coppie: Ted/Andromeda
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago
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Buon compleanno e basta


‘’ Da allora sa che la bellezza è un mondo tradito. ‘’
 
Milan Kundera – L’insostenibile leggerezza dell’essere
 
‘’ Nel mio primo ricordo, ho tre anni e sto tentando di uccidere mia sorella. Talvolta l’immagine è così nitida che sento ancora la federa ruvida sotto la mia mano, la punta affilata del suo naso che preme contro il mio palmo. Non aveva la minima probabilità di scamparla, ovviamente, eppure non funzionò. Entrò mio padre per rimboccarci le coperte e la salvò. Mi ricondusse a letto. - Faremo come se non fosse mai accaduto- mi disse.  Crescevamo, e sembrava che io non esistessi,  se non in relazione a lei.  La guardavo dormire nella nostra stanza, un’unica ombra congiungeva i nostri letti,  e pensavo a tutti i modi possibili.  Veleno, sparso sui cereali della colazione. Un’onda anomala sulla spiaggia. Un fulmine improvviso. 
Ma alla fine non uccisi mia sorella. Lei fece tutto da sola. O, almeno, è quello che mi racconto.’’ 
 
Jodi Picoult – La custode di mia sorella
                                                                   

 
-Non possiamo più farlo, Ted. Devi andartene. Se ci beccano, siamo morti.-
Sussurro queste parole contro le sue labbra calde. Spaventata, tremante come un ramoscello spezzato e inerme alle correnti gelide di dicembre, in mezzo alla brughiera sconfinata. Lui sorride tristemente, poi continua a baciarmi, con più foga,  imprime con forza i suoi baci sulle mie labbra che invece sono screpolate dal freddo, mi cinge la vita in un disperato abbraccio, mi solleva da terra. Perdiamo l’equilibrio, cadiamo nell'erba rada.  Affondo le mie dita fra i suoi capelli,  mi abbandono ancora una volta alla magia dei nostri respiri uniti, ai battiti accelerati dei nostri cuori che con prepotenza rimbombano nella cassa toracica.  Il profumo della pioggia imminente unito al suo mi stordisce. Lui mi sussurra piano all’orecchio, sussurra sempre le stesse parole, ed io tremo, tremo ogni volta, perché credergli è così facile, perché credergli mi rende così leggera da darmi le vertigini e tutto ciò che desidero, per un attimo, è solo cadere,  tuffarmi e atterrare fra le sue braccia forti. Ancorarmici saldamente e non muovermi di un solo passo, mai più.
-Io ti amo.-
Non gli rispondo, non lo faccio mai. Riesco solo a baciarlo con più ardore, anche con la gola dolente per la voglia disperata di piangere e il respiro mozzato dalla bellezza del suono della sua voce vellutata. Lui mi stringe più forte, mi accarezza la guancia, a mano aperta, sembra stia cercando di cogliere qualcosa, di smuovere la terra attorno ad un fiore per farlo respirare. Le sue mani corrono sotto ai miei vestiti, in un attimo sono contro la mia schiena nuda. Sono calde, sicure, forti.
Sono mani che sanno raccogliere tutto.
Riapro gli occhi, piano rallento il bacio, mentre mi separo dalle sue labbra sento uno spiacevole crampo allo stomaco, il mio corpo si ribella alla sua assenza. Da quando conosce le sue mani, brama il suo tocco con la stessa intensità con cui brama l’ossigeno.  Espiro l’aria trattenuta a lungo, lentamente, fra i suoi capelli dai riflessi dorati che sembrano giocare con l’ultimo raggio di sole scarlatto.
-Mi fermo?-
Le sue iridi verdi mi scrutano gentilmente, sorridono e sembrano riempire in un attimo tutto il vuoto che scorgo a tratti sul fondo delle mie.
Annuisco e mi aggrappo alle sue spalle, fissando il cielo e i nuvoloni scuri che si addensano sulle nostre teste.
-Ho solo paura.- Riesco a sussurrargli tra i denti, mentre affondo la testa sulla sua sciarpa di lana, e serro le palpebre.
Lo sento girarsi su un fianco e trascinarmi con sé. Premuroso, mi solleva appena la testa e fa in modo di farmela poggiare sul suo braccio.
-Così sembri un riccio.- Ridacchia, mi scosta una ciocca di capelli e mi bacia la fronte. Poi il naso. Rido anche io, stringo forte la sua sciarpa nel pugno.
-Mi piacciono i ricci. Mi piacciono tanto.- Continua a dirmi, mentre sorride e strofina il naso contro il mio.
-Quindi dovrei prenderlo come un complimento?- Chiedo perplessa, osservando la piega delle sue ciglia. Sono lunghe, tendono verso il cielo in maniera pressoché perfetta. Sono assalita dalla voglia irrefrenabile di sfiorarle con i polpastrelli, per sentirne la morbidezza, per scoprire se possano far da ponte tra i miei occhi, i suoi e l’infinito.
-Certo che devi prenderlo come un complimento.-
-Perché ti piacciono tanto i ricci?- Chiudo gli occhi, non riuscendo a sopportare tanta bellezza.
-Da piccolo, mi raccontarono una storia molto bella, sui ricci. Vuoi sentirla?-
Annuisco. Potrei ascoltare qualsiasi storia raccontata dalla sua voce.
-C’erano tanti ricci, in una fredda giornata d’inverno.-
Mentre dice queste parole, il vento freddo torna a farmi rabbrividire. Mi stringo di nuovo a lui, lo cingo con l’altro braccio, intreccio le gambe alle sue e affondo il naso nell’incavo del suo collo.
-I ricci se ne stavano fermi,  tremanti dal freddo, proprio come te adesso … - Ride e  mi stringe ancora, più forte, fin quasi a farmi male.
-E che cosa gli è successo?- Chiedo ancora, mentre immagino nella mia testa tanti piccoli ricci in cerchio, in mezzo alla neve.
-Per proteggersi dal freddo, i ricci si strinsero gli uni agli altri. Per un po’, riuscirono a stare bene. Ma ad un certo punto, iniziarono ad avvertire male a causa delle reciproche spine. E quindi furono costretti ad allontanarsi di nuovo. -
Riapro piano le palpebre. Le righe rosse, marroni e bianche della sua sciarpa si confondono davanti ai miei occhi.
-E continuarono a fare avanti e indietro, per un bel po’ di tempo, non riuscendo a capire se soffrissero di più per il freddo o per il male che gli procuravano le spine.-
-E dopo?- Sussurro, mentre lui mi cinge la schiena.
-Poi, piano piano, riuscirono a trovare la giusta distanza. A restare vicini abbastanza da mitigare il freddo, e da non ferirsi a vicenda.-
Rimango in silenzio, il mio cuore sembra fermarsi.
-Non l’avevo mai sentita.-
-Perché è di un filosofo Babbano.- Mi bacia la fronte. Appena alla fine della frase. Quasi come volesse offrirmi un appiglio,  impedirmi di precipitare di nuovo nel baratro. Perché sa che ci cado ogni volta. Ogni volta che la differenza tra il mio ed il suo mondo si spalanca davanti a me come una voragine, un precipizio che sembra volere inghiottirmi.
-Dromeda?- Mi chiama piano. Mi chiama come se stesse chiedendo il permesso per entrare in un mio sogno.  Ed è proprio così che mi sento, se sono fra le sue braccia. In un sogno.
Alzo gli occhi ai suoi. Vi scorgo un guizzo.
-E qual è la giusta distanza, Ted? Io non l’ho mai trovata.-
-Scusami. Ti ho fatta star male.-
Scuoto piano la testa. Una lacrima mi riga la guancia, lui la ferma immediatamente con le sue labbra.
-Scusami. Scusami.-
-Non è colpa tua, Ted. Non è colpa tua.-
-Sono un idiota.-
Cerco disperatamente la sua bocca, ci approdo come ad un porto sicuro. Nel momento esatto in cui la trovo, con gli occhi chiusi, è esattamente questo quello a cui penso. Il mio porto sicuro. L’unico approdo per sfuggire a questa tempesta. Proprio come fossi in balia delle onde del mare, mi abbandono totalmente a lui. Se questo è l’amore, allora sì, sono perduta. E vorrei di nuovo tuffarmi, lasciarmi andare e implorare alle onde di trascinarmi sulla riva. Le sue mani esitano. Sanno fermarsi, sono gentili, proprio come i granelli di sabbia che sospinti dal vento si posano leggeri sulle dune.
-Hai paura di me?-
La sua mano risale a prendere la mia, e senza lasciarla la spinge a scostarmi le ciocche castane dagli occhi.
-No.-
Lui annuisce, poi gioca con le mie dita, le guarda come se stesse osservando un qualcosa di talmente raro da doverne scattare una fotografia.
-Non voglio che tu abbia paura di me.-
-Io non ho paura di te. Ho paura di tutto il resto.-
Annuisce. Poi, rammaricato, getta un’occhiata al suo orologio da polso. Serra la mascella. Io mordo il labbro. La morsa al mio stomaco diventa un crampo.
-Un altro po’. Solo un altro po’.-  Mentre lo chiede, fissa le colline in lontananza.
-Devo andare, Ted. C’è la festa di mia sorella. Non possiamo rischiare proprio oggi, ti prego,cerca di capire.-
Lui esita ancora. Vorrebbe dirmi di non farlo. Implorarmi di scappare con lui, di andare a vivere con i suoi genitori Babbani, anche se la scuola non è finita. Di seguirlo, di credere a tutte le sue promesse. Ma non dice una parola. Si alza, si spolvera i pantaloni, il mantello. Mi tende le braccia forti, mi solleva premuroso da terra.
Guardo quel rottame con cui è venuto, con cui viene tutti i giorni e che chiama bicicletta. Io lo chiamo comunque rottame, per prenderlo in giro. Per me è solo un pezzo di ferro colorato con due ruote che girano, e non capisco come faccia a starci su. Ma lui mi assicura che è facilissimo. Che un giorno o l’altro me lo insegnerà, e che mi piacerà anche. Tutti i giorni la prende, scorrazza per la brughiera per almeno mezz’ora, dalla stazione del paesino vicino. L’ha chiesta in prestito ad un Babbano, che ha una pasticceria. L’ha vista sulla porta del retro, appena sceso dal treno. Ormai è quasi una settimana, da quando sono iniziate le vacanze. Prende un treno per venire da me, anche solo per un’ora. Pioggia o sole, non ha importanza. Ogni giorno passa a prendere un dolce diverso e me lo porta. Ogni giorno il pasticcere, impietosito, gli presta la bicicletta e ride, non capendo perché questa famosa ragazza non scenda in paese e pensando che è vero che il mondo è strano, ma che il ragazzo è davvero un galantuomo.
Anch’io penso che lo sia.  Che sia un galantuomo, che sia troppo per me. E che questo mondo, il mio mondo, sia irrimediabilmente sbagliato. E che io sia condannata, con le spalle al muro.
Mi dà un ultimo bacio sulla fronte, poi mi sistema il collo del cappotto bianco, mi sorride.
-Sbrigati. Sta cominciando a piovere. E sei così bella vestita di bianco, che sarebbe un delitto se ti sporcassi di fango.-
 
C’è chi dice ci sia un solo mondo.
Per me, Andromeda Black, non è così. Esistono infiniti mondi, ed esistono infinite scelte.
Io però devo e posso prenderne solo una, che automaticamente mi spalanca le porte del mondo di Ted, ma mi priva per sempre del mio. Che seppure perfetto solo in superficie, sbagliato e fragile come un cristallo, brilla. Brilla in ogni suo fittizio ritaglio di perfezione. Brilla come solo le cose tradite sanno brillare. E se io tradisco il mio mondo, avrò sì gli occhi smeraldo e le braccia di Ted da cui rifugiarmi, ma non sentirò mai più il tintinnio di un cristallo che s’infrange sulle ultime note malinconiche e dimenticate di un pianoforte.
 
Corro. Da quando abbiamo iniziato a vederci di nascosto a scuola, ed anche fuori, mi sembra di non riuscire a fare nient’altro. L’affanno della corsa è ormai per me una regolare abitudine. Attraverso il bosco che separa il mio maniere dalla brughiera sconfinata, ripensando a tutte le volte in cui da bambina mi ci sono persa, e alle volte in cui Bella, seppure a malincuore, sbuffando e rimproverandomi, mi ha poi ritrovata. Il sole è tramontato, nuvolette di fumo denso accompagnano la mia disperata corsa verso quella che chiamo ancora casa, ma che diventa più fredda ed estranea ad ogni mio passo lungo quei corridoi austeri. Le luci alle finestre compaiono in lontananza. Dovrei tirare un sospiro di sollievo. Ma riesco solo a fermarmi di colpo, e a pensare che quelle luci rischiarano un buio che non mi appartiene, che mi terrorizza. Rischiarano stanze che non sono più le mie. Io sono la Black che sta fuori.
 
Salgo le scale principali di corsa. Scivolo sull’ultimo gradino, inciampo nei miei stessi piedi e cado rovinosamente a terra. Il mio ginocchio cozza sul marmo freddo con un rimbombo cupo e sinistro. Gemo dolorosamente, rotolando poco garbatamente sulla schiena, portando la gamba al petto.
-Signorina, vi siete fatta male?-
Volto la testa in direzione dell’elfo domestico, che con le orecchie basse e gli occhioni spalancati mi guarda tremante. Reprimo, a fatica, l’impulso di tendergli una mano e di abbracciarlo. C’è stato un tempo, in cui io non ero la signorina Black e lui non era un elfo, ma era solo Peewy. Uno dei miei migliori amici. Anche dei tuoi, Bella. Fino a quando nostra madre non ha scoperto che osava chiamarci per nome.
-No. No, sto bene, grazie.-
-Allora Peewy pulisce le impronte.-
Sollevo piano la testa e a fatica mi metto a sedere. Mi volto verso l’ingresso.
Le scale sono tutte imbrattate.
Orme di fango arrivano fino a me. Se non fosse arrivato lui, io probabilmente nemmeno me ne sarei accorta, e vi avrei fornito su un vassoio d’argento la prova del mio tradimento. Perché in questo istante, secondo voi, io sono a letto con una forte emicrania, e mentre mi credete addormentata, io scappo davvero dal mio sogno proibito.
 
Fisso le boccette d’inchiostro blu scuro, la piuma bianca posata di fianco ad esse e i rotoli di pergamena pregiata sulla mia scrivania. Sbuffo appena, e accartoccio con stizza l’ennesimo pezzo di carta, gettandolo nell’angolo. Prendo un altro foglio.
Cara Bella.
Mi fermo, di nuovo. Passo la mano fra i miei boccoli castani e perennemente disordinati, mentre le fiamme delle candele tremolano e la pioggia battente alla finestra mi culla. Guardo la nostra fotografia, incorniciata tra rose d’argento. Siamo piccole, io forse non so neppure parlare bene. Sono seduta in braccio a te, e rido. Tendo le mani verso il fotografo. Tu non guardi nell’obiettivo, ma sei china in avanti, stai guardando me. S’intravede un sorriso, Bella. Un tuo sorriso sincero. Forse, potrei iniziare la lettera scrivendoti proprio queste parole, ma indugio un attimo di troppo con la piuma sulla pergamena. L’inchiostro seppia cola, macchia.
Scioccamente, penso per un attimo che questa lettera sarebbe vera molto di più, con una macchia. Ma poi strappo il foglio. Lo ripiego a metà, e tutto ciò che l’inchiostro lascia è solo un semplice e banale augurio di circostanza. E nulla di più.
 
Buon Compleanno, B.
Tanto non t’interessa. Lo so, da anni ormai. Eppure sono stata per ore china sulla scrivania a tentare di scriverti una lettera, che avresti letto appena, distrattamente, con un sorriso di scherno sulla faccia. Poi avresti scosso la testa, l’avresti gettata fra le pile disordinate dei tuoi libri e tra qualche giorno l’avresti persa. Non avrebbe avuto alcun peso, per te.  E mi ritrovo qui a ricordare con così tanta gioia il periodo in cui niente aveva peso. Il periodo dei nostri giochi spensierati, delle nostre corse libere sul prato davanti casa. Quando ancora non ti piaceva giocare al buio, quando inventavi cacce al tesoro solo per me. Quando ci lasciavamo bigliettini, letterine in codice, nascoste nei posti più assurdi. Neppure i nostri nomi lunghi e altisonanti avevano importanza.  Usavamo solamente le iniziali dei nostri diminutivi.  "B.", "M." Bi ed Emme. Bella e Meda. Niente era complicato, se ci chiamavamo così. Eravamo solo due lettere dell’alfabeto. Non due nomi di stirpe reale, non due nomi che non dovevano macchiarsi con altri.  Era facile, amare la mia iniziale, e non desiderare la tua. Ma la mia era un’iniziale sbagliata. Era quella del diminutivo. Il mio nome era lungo. Troppo. Pesava, c’era un destino già scritto nel suo mito, in ogni sua lettera. Forse è per questo che anche oggi mi ritrovo a voler cambiare le mie iniziali, a desiderare anche quelle di Ted.
-Andromeda? Per quale motivo non sei ancora pronta? Vuoi che nostra madre abbia un collasso nervoso?-
Mi specchio. Sorrido accondiscendente al riflesso di Narcissa che mi guarda seccata, poggiata elegantemente allo stipite della porta della mia stanza. E’ cresciuta, anche lei. Ha i capelli sciolti, che morbidi le ricadono sulle spalle. Il vestito blu notte gioca con le iridi azzurre dei suoi occhi, rendendole più scure, donandole regalità e fascino. Incrocia le braccia al petto, proprio come nostra madre.
-Non puoi vestirti di rosso, Andromeda.- Mi dice, con una leggera alzata di sopracciglia. -Metti l’altro abito. E sciogli i capelli.-
-E perché mai?-
Sbuffa, alza gli occhi al cielo.
-Anche l’abito di Bella è rosso, lo sai da settimane. E l’acconciatura, vuoi prendere in giro tutti?-
Poi gira sui tacchi, e senza aggiungere altro lascia la stanza.
Io mi volto nuovamente verso lo specchio ovale incastonato sulla parete di fronte alla mia scrivania. Fisso il mio vestito bordeaux. I miei capelli acconciati sulla nuca, poche ciocche a ricadere davanti e a incorniciare il mio volto, così simile al tuo. I miei occhi castani, ora improvvisamente lucidi di pianto. I contorni del mio viso sbiadiscono, proprio come accade in un sogno. Proprio come accade ogni giorno, quando mi guardo e invece di sorridere al riflesso del mio viso, vengo assalita dall’impulso di cancellarne i contorni per non dover coglierne le differenze che lo distinguono dal tuo.
Mi aggrappo saldamente ai bordi del tavolo, chiudendo gli occhi e serrando violentemente le palpebre, come a voler scacciare una luce improvvisa ed accecante. Cissy ha ragione. Sapevo da settimane che tu avresti indossato un vestito rosso. Tutta la tua vita è rossa, Bellatrix.
Sapevo da settimane, che i tuoi capelli sarebbero stati raccolti con questa crocchia. Nostra madre ti ha chiesto esplicitamente il favore, almeno per i tuoi diciassette anni, di non lasciarli liberi al vento come fai sempre. Di adeguarti alle regole. E mentre tu ti adegui alle regole della perfezione, io cerco ancora una volta di abituarmi all’idea di non poterti raggiungere mai.
Di abituarmi alla consapevolezza che la corsa che ho fatto per tutta la vita, non mi ha portata da nessuna parte, mi ha solo fatta perdere, ed io non riconosco più il sentiero.
 
 
C’è Rodolphus. Ci sono tutti. Tutti gli illustri rappresentanti del nostro comodo mondo. I cristalli dei lampadari, dei bicchieri, dei gioielli, scintillano alla luce tenue dell’immensa sala da ballo inaugurata solo per te. Fiori, fiori di ogni tipo. Sulle balaustre delle scalinate, sui tavoli imbanditi a festa, nei vasi di fianco alle vetrate che danno sulle terrazze. Le tende bianche ondeggiano pigramente al vento. Non è più freddo, un incantesimo lo trasforma appena in brezza leggera, in modo che nessuno si prenda un raffreddore e che le tende possano continuare a danzare, continuando a giocare con tutta questa perfezione.
-Dov’è tua sorella?-
Lentamente mi volto, Rodolphus mi sorride, si aggiusta più volte il nodo della cravatta. Scioccamente, penso che è diverso, è cambiato dall’ultima volta in cui l’ho visto. Eppure, non riesco a capire in cosa. Gli occhi vispi e caldi sono rimasti gli stessi, i capelli ricci anche. Forse mi appare diverso solo perché non lo incrocio più tutti i giorni a scuola.
Mentre mi perdo nelle mie riflessioni e studio il suo aspetto, mi scordo di rispondere alla sua domanda.
Lui sbatte perplesso le palpebre, poi mi prende la mano destra ed educatamente la bacia.
-Perdonami, Andromeda, sono stato scortese. Non ti ho neppure salutata.-
Mi riscuoto dal mio torpore, mentre lui rialza la testa e mi stringe affettuosamente la stessa mano. Gli sorrido anch’io, e mi avvicino di qualche passo.
-Ma no, perdonami tu. Sono un po’ distratta. Sai, tutti questi preparativi, questo trambusto … -
Alzo per un attimo gli occhi al cielo. Lui ride. Noto solo ora l’immenso mazzo di rose rosse che stringe con l’altro braccio.
Rodolphus intercetta il mio sguardo,  precede la mia domanda.
-Oh, lo so. Personalmente Non avrei scelto di portarle delle rose, ma ho dovuto per forza rispettare la tradizione. Non potevo fare altrimenti … so che non sono le sue preferite. Ma …- Si stringe nelle spalle e si passa una mano fra i capelli, a mo’ di scusa.  
-Magari stavolta verrai graziato. Mai disperare, Rod.-
Ridiamo entrambi. Io prendo un bicchiere di champagne da un vassoio che mi volteggia accanto e sorseggio avidamente. Le bollicine frizzanti sembrano volersi prender gioco di me. Quasi le sento scoppiare, una ad una. Anche Rodolphus beve  e continua a ridere alla mia battuta, pur se in realtà sappiamo entrambi due cose. Il nostro mondo è proprio come una bolla di sapone. Trasparente, all’apparenza privo di ombre e di angoli scomodi. Il prezzo da pagare, per restarci dentro, è vivere con l’eterno terrore che qualcuno, dall’esterno, in un niente, giocando, possa romperlo. Con Ted è successo così. La bellezza è entrata nel mio mondo perfetto, rompendolo, scoppiandolo. La bellezza non è perfezione. Neppure l’amore lo è.
E tu, Bellatrix, mentre scendi le scale, sei talmente perfetta da far girare la testa. La bellezza non s’azzarderebbe mai a competere con una tale perfezione. Perché la bellezza è effimera, la bellezza è leggera. La perfezione invece è sofferenza. Il cristallo taglia.
 
-Andromeda! Potresti smetterla? C’è un fotografo a disposizione, non è compito tuo. Almeno per questa sera, evita di startene con quella macchinetta al collo, per cortesia.-
Nostra madre mi sibila queste parole all’orecchio, ma io sollevo comunque la macchinetta. Giusto in tempo per immortalare Rodolphus che ti porge il suo mazzo di rose rosse. E il tuo disappunto, che solo io riesco a cogliere. Perché stai sorridendo troppo. Tu Bella, non sorridi mai così. Sorridi così solo quando con quel sorriso vuoi dire tutt’altro. Ma lui ovviamente non lo sa. Sorride ancora più di te. Gli tremano quasi le braccia, mentre tu prendi quel mazzo rosso e tra quelle spine imprigioni tutte le speranze di Rodolphus, proprio come io feci con la prima foto che vi scattai tanti anni fa.
E non è la perfezione. Non è la bellezza e non è neppure un sogno. E’ solo un tradimento. E solo ora mi accorgo che in effetti il sorriso e le lacrime del tradimento si assomigliano. Sono l’immagine speculare l’uno delle altre.
 
La naturalezza con cui ti muovi in pubblico e con cui catturi e poi metti in fuga tutti gli sguardi che si posano su di te sono doni che non mi appartengono. Detesti essere fotografata o ritratta, ma se c’è una moltitudine di gente a guardarti, acquisti sicurezza. I nostri genitori ti baciano delicatamente le guance. Ti scosti appena solo quando si avvicina nostra madre. I tuoi occhi si accendono di un bagliore sinistro. E’ quel bagliore che mi incute  terrore. Rodolphus ti cinge la vita e tu serri la mascella. E’ un attimo. Proprio nel momento in cui le vostre guance e i capelli biondi di nostra madre ti sfiorano il viso, la tua stretta attorno al mazzo si rafforza. La tua mano si serra attorno agli steli. Ti ferisci un dito. La lettera che Rodolphus vi ha legato accuratamente con un nastro di raso si macchia di sangue. Nostra madre si scansa, e tu vieni verso di me. Io ho ancora la macchina fotografica tra le mani. L’abbasso. Noto soltanto adesso che non ti sei vestita di rosso.
 
-Non dovevi mettere il vestito di velluto bordeaux?-
Alzi le sopracciglia e getti indietro la testa, mentre Rodolphus riprende i fiori e li porge all’elfo domestico ordinando di metterli in un vaso.
-Ho cambiato idea.- Ribatti semplicemente. - D’altronde è  la mia festa, no?-
Rodolphus ti prende per mano, poi la esamina e nota la piccola ferita. D’istinto la porta alle labbra e la bacia. Hai di nuovo quel bagliore sinistro negli occhi. Non li distogli dai miei, e non degni della minima attenzione lui, che ora sfiora le tue dita e le bacia una ad una.
-Che cosa c’è, Andromeda? Non ti piacciono le decorazioni?-
-Non mi piace il vestito.- Ribatto, e la mia voce flebile non ha il coraggio di sovrastare la musica alta, le risate della gente. Ma tu sei abituata a spingermi più in alto, l’hai sempre fatto. Da bambine, mi spingevi così in alto sulle altalene fino a farmi urlare. E quando finalmente urlavo, per farti smettere, solo allora ti fermavi. Dicevi che mi mancava il coraggio, e che se non l’avessi tirato fuori, non sarei mai arrivata da nessuna parte. Ma io non volevo arrivare in alto, Bella. Mi bastava che tu mi porgessi una mano. Che saltassi da quelle altalene insieme a me, con me. E anche se lo sapevi, se coglievi ogni mia muta richiesta, aspettavi il mio urlo. Sull’altalena, in una stanza quando mi spingevi a sfidare il buio, a camminare alla cieca con le mani protese in avanti. Aspettavi sempre un mio urlo. Non capivi quanto coraggio ci volesse a non fiatare.
 
-Non ti piace il mio vestito?- Ripeti quindi, a voce più alta.
Rodolphus smette di baciarti la mano. Narcissa smette di conversare educatamente con gli ospiti e si volta a guardarci. Io sono di nuovo in alto, di nuovo stringo le mani attorno alla corda dura e tesa dell’altalena.
-Esatto. Non mi piace. Perché ti sei vestita di nero? E’ un funerale, forse?-
Tu mi sorridi. Assottigli lo sguardo.
-E tu perché sei vestita di bianco? E’ un matrimonio, forse?-
Qualcuno ridacchia. Con un’ alzata di sopracciglia mi fai capire che la conversazione è terminata. Prendi il braccio che ti porge Rodolphus, e insieme a lui ti sposti verso il centro del salone. Sorridi rispettosamente e chini il capo verso gente che non sa, a cui nulla interessa. Una miriade di sorrisi finti e di colori accecanti turbinano davanti ai miei occhi. Se sparissi, in questo istante, probabilmente nessuno lo noterebbe. Finché durano i balli e i vestiti colorati danzano, la bolla di sapone può restare intatta e galleggiare nel vuoto, la musica l’accompagnerà. Una musica lenta e dolce può accompagnare tutto, Bella. Devi solo saperci ballare su. Io non ho mai saputo farlo. Da bambina, mi rintanavo sulla scalinata e guardavo la mamma. Ne seguivo i passi instancabili,  ore ed ore. Ed ero contenta così. Anche se restavo nell’ombra, in cima alle scale. E anche con lei, dall’alto non riuscivo ad urlare. Non riuscivo a dirle di venire a prendermi, di farmi danzare  in mezzo ai colori. Mi intrufolavo dappertutto, pur di restare a guardarla. Lei ci distingueva a malapena. Confondeva i nostri nomi, ci vestiva alla stessa maniera. E ci fotografava. Nostra madre, che ora trova disdicevole il mio comportamento, ci fotografava in continuazione. Per metterci in mostra sulle mensole, assieme ai ritratti. Io lo adoravo. Adoravo quelle attenzioni effimere. Adoravo il modo in cui scattava la foto, il modo in cui si chinava verso di noi e si scostava i capelli dal viso. Tu ricordi nostra madre con i capelli sciolti, Bella? Io sì. Tu li scosti dalla fronte esattamente alla stessa maniera. Non è vero che non hai nulla di nostra madre. Tu hai fin troppo, di nostra madre.
 
Rodolphus ti guarda, e in quello sguardo non c’è ragione. Ecco, cos’è cambiato. Se prima ti guardava come ti guardo io, vedendo in te luce ed ombra,  ora si è arreso, non vuol sentire e non vuol vedere più nulla. Ti stringe a sé, ti stringe con ardore, con coraggio. La tua pelle chiara e i tuoi capelli ebano sciolti sulle spalle invitano gli occhi a sfidarti, Bella. Non ci sono sfumature in te, sei il bianco e il nero. Assorbi, sottrai, e poi rifletti e riverberi con violenza tutto. Sei il contrasto, non c’è confine con te, sei l’incontro di due opposti. Nessuno può raggiungerti. Ci si può solo sedere sul punto di confine con te, sperando che la frattura non faccia troppo male. Il sorriso di Rodolphus, le sue labbra vicino al tuo orecchio, le sue mani sulla tua schiena, hanno coraggio. Ma non so se saranno in grado di fermarsi. Perché tu conduci al buio, e proprio quando si spera di essersene abituati, allora accechi, ed il coraggio accecato dalla follia, non può portare
all’ amore, solo ad un’ossessione. E nell’ossessione, ti perdi. Un’ossessione è perfetta, è pressoché irraggiungibile, puoi solo sfiorarla. Esattamente nello stesso modo in cui lui sfiora te. E proprio mentre io penso a tutto questo, mentre le note struggenti permeano l’aria, lui solleva la testa, m’invita a scendere in pista con un cenno d’incoraggiamento.
Tu non lo ami, non lo amerai mai. Eppure, tu puoi stringerlo fra le braccia. Non abbiamo neppure una foto, io e Ted. Non ne voglio. Non voglio doverle nascondere, applicare incantesimi di disillusione, vivere nell’angoscia che qualcuno possa trovarle. Io non voglio foto bugiarde. Non voglio dover ammettere che anche una foto, come tutto il resto, è in grado di mentire. Mi stai sorridendo, mi hai capita, ancora una volta. Nessuno al mondo, paradossalmente, può capirmi meglio di te. Tu sai già. Non c’è bisogno che io parli. Sai che questo pomeriggio non ero in camera, sai che il mio gufo sta facendo più viaggi del solito. Sai che mi sto perdendo. Sai che voglio urlare, ma non posso farlo. Perché cala il buio. Ed io rimango terrorizzata, immobile, non ti vedo più. Un sipario violento, nero, tagliente, ci separa.
C’è silenzio. Lo stesso silenzio assordante di tanti anni fa. Per un attimo, prima che le candeline della tua torta scendano con grazia dall’alto ad illuminare la platea dei nostri ospiti, prima che i cori d’approvazione raggiungano le mie orecchie, prima che mi ricordi che questa è una festa e non ho più nove anni, per un attimo, mentre c’è solo il buio, tutto quello che riesco a pensare è ‘’ Vienimi a prendere. ‘’  Non posso muovermi, non posso urlare, non posso respirare. Ma tu sei mia sorella. Tu mi tiri sempre fuori. Tu mi spingi in alto. Vienimi a prendere.
 
La debole luce dorata rischiara il tuo viso sorridente, i tuoi occhi brillano. La torta a tre piani aleggia davanti a te, tutti applaudono. Dovrei applaudire anch’io. Dovrei muovermi, spostarmi. Sono ingombrante. Spazio vuoto fra me e te. Spazio vuoto fra me e la folla alle mie spalle.
Quanti passi occorrono, Bella, per saltare il vuoto ed arrivare finalmente ad una decisione? Ci hai mai pensato? Ogni nostro passo, fin dal primo, tremante e incerto, è già indirizzato verso la nostra scelta. Ma noi non potremo mai accorgercene, perché non prestiamo mai attenzione a nessuno dei nostri passi. Camminare ci appare scontato. E’ naturale come respirare. Non prestiamo mai attenzione neppure ai nostri respiri, fino a quando non ci vengono sottratti.
-Dovresti dirle, che l’ami così tanto. Lo sai questo?-
Rabastan prende il mio gomito,  mi tira indietro. Solo ora mi rendo conto delle lacrime che rigano le mie guance. Tu alzi gli occhi ai miei. Ci incontriamo, forse, per l’ultima volta. E’ una caduta. Una sbucciatura, un taglio su un mio ginocchio. Il mio morso sulle labbra, di nuovo il mio coraggio, il mio urlo trattenuto, e tu che ti chini e pazientemente ci soffi sopra.
-Andromeda?-
-Io non amo lei. Io amo l’idea di lei. Amo il suo riflesso.-
I tuoi occhi brillano. Le mie ginocchia vacillano. E tu, di nuovo,  soffi. Soffi sulle candeline che si spengono, lasciando rivoli di fumo che saliranno in alto.
 
-Signorina Black, se vuol fotografare, lo faccia ora, dopo dovrà comparire lei, nelle foto con sua sorella. Signorina, si sente bene?-
Mollo la macchinetta in mano all’anziano mago, il fotografo vero.
Io non scatto, Bella. Non posso. Non ti ho mai fotografata, neppure una volta. Non saprei regolare la luce, scegliere l’esposizione adatta. Non so scegliere, perché i miei passi hanno sempre seguito i tuoi. Ne sono sempre stati l’eco. Io non ho mai deciso dove andare con le mie gambe, i miei passi senza i tuoi sono smarriti, non sanno trovare la giusta direzione. A fatica mi faccio largo fra la folla che si appresta a farti gli auguri. Nessuno mi nota, del resto ci sono abituata, è il prezzo da pagare per chi non ha coraggio, me l’hai insegnato tu. Corro verso la porta principale. Ci sono quasi arrivata, non manca nulla. Due passi e sono in corridoio. Potrei scappare ora, mandargli una lettera, dirgli di correre, venire a portarmi via. Potrei salirci io, su quella bicicletta. Ma la mano di Narcissa afferra la mia. Mi strattona e mi spinge a voltarmi.
-Sei impazzita?-
Mi guarda con sincero stupore. E’ sempre stato questo, che ho amato in lei. Tutto quello che faceva, sembrava farlo per la prima volta. Non riusciva a credere alla cattiveria del mondo, specialmente alla tua. Non aveva remore nel fidarsi ciecamente di te, ti adorava senza timore. Non ho mai saputo cosa vedesse in me. Questa sera, mentre mi tiene la mano e mi fissa sbigottita, capisco solo d’aver rinunciato da tempo a proteggerla. Capisco che proprio ora, in questo istante, la mia scelta l’ho fatta. E vedo che è sempre stata lì, dietro ogni angolo, a pochi passi da me.
Ogni mio senso si amplifica. Avverto  il vento leggero che mi accarezza piano i capelli. Le tende bianche che toccano appena la gonna del mio vestito. I colori sono più vividi, i suoni più forti. Le parole, le risate e la musica giocano, pare che vogliano rincorrermi, accerchiarmi, dirmi di non andare. Gli accordi accompagnano l’eco lontana e irraggiungibile delle nostre risate da piccole, tutto ciò che mi rimarrà e rimarrà a queste fredde pareti. Il profumo dei fiori, dei dolci, solletica le mie narici. Riporta indietro ricordi, immagini vivide di noi, talmente tanto che se tendo la mano, potrei quasi riuscire a toccarle. Ma prima che possa farlo, le dita calde e affusolate di Narcissa si stringono attorno alle mie, la sua spalla minuta preme contro il mio braccio. Con l’indice, raccoglie una mia lacrima sulla guancia, mentre io, immobile, do le spalle alla sala e fisso le stelle nel cielo notturno, rischiarato improvvisamente.
-Meda, ti si rovina il trucco se piangi.-
Mi volto verso di lei, sorridendo.
 
Ha di nuovo quattro anni. Ha il musetto imbrattato di crema bianca e zucchero a velo, gli occhi azzurri e vispi e le guance rosse. Tu, pazientemente, la stai pulendo con un tovagliolino di carta. Io non trovo le mie scarpette, ho indossato le tue, mi stanno grandi. Mentre vi corro incontro, inciampo nel lembo della tovaglia lunga e rovescio il bel servizio di porcellane e cristalli, già pronto per la cena della sera. S’infrangono sul pavimento, io mi porto le mani alle orecchie mentre capitombolo a terra.
 
-Tu ti sporcavi sempre, alle feste, con lo zucchero a velo delle paste. Lo sai, Cissy?-
Lei sorride a sua volta.
-Scommetto che tu eri pronta a pulirmi subito, non è vero?-
Poi, ridendo, mi fa fare una giravolta e ho di nuovo la sala gremita davanti ai miei occhi. Basta una giravolta.
-Perché ti sei commossa?-
Guardo ancora te. E guardo Rodolphus, che ancora guarda te, e mai se ne stancherà. Altre mani mi cercano, mi spingono verso il tavolo, senza realmente badare a me, perché come sempre, la mia unica funzione è quella di completare un quadretto, una foto che finirà fra le mensole dei nostri salotti. Nessuno fa caso ai miei occhi lucidi. Anche Narcissa lo ha già scordato. Non devo più rispondere alla domanda. E mi lascio spingere, trascinare, aggiustare l’acconciatura. Lascio che mi sistemino vicina a te, lascio che il tuo profumo si mischi di nuovo al mio. Non ti tocco, non ci riesco. Ho la gola dolente, arsa di parole che vorrebbero solo venire alla luce, essere impressionate come colori su una pellicola e restare vive, parlare per sempre. Parole che non vogliono lottare più contro i confini del bianco e del nero, perché le mie parole ti racconterebbero migliaia di sfumature diverse. Racconterebbero il mio mondo, per farti capire che anche una bolla di sapone ha il suo lato oscuro, e che tu ci stai finendo contro. Racconterebbero di come coraggio e paura siano alla fine due amici, perché Bella, ci vuole davvero tanto coraggio ad avere sempre paura e ad abbracciarla quella paura, a plasmarla in silenzio. Le mie parole ti racconterebbero com’è  innamorarsi, restar sveglia tutta la notte a pensare che ciò che più desideri al mondo è la cosa che più ti farà del male, perché è anche la cosa più innocente e pura di tutte, e come un bambino dispettoso ed irruente, si prenderà ogni difesa che ti rimane e la trasformerà in un’arma a suo vantaggio, perché l’amore è così, è annullamento di qualsiasi distanza, di qualsiasi difesa, è  affidarsi ciecamente alle braccia di qualcuno e lasciare che ti guidi attraverso una stanza buia. Le mie parole ti racconterebbero di come la bellezza sia in grado di distruggere tutto. Perché  se la perfezione è inarrivabile, la bellezza è disarmante. E se non hai più armi, Bella, puoi solo arrenderti.
 
Richiamano la mia attenzione. Tu mi strattoni un braccio, con prepotenza. Questa foto la porterò via con me, ma non posso ancora saperlo.
Nostra madre si passa un fazzoletto di raso sulla guancia.
Il mio tradimento che non può parlare, tra due giorni verrà incorniciato in salotto. Tutti l’ammireranno. Ammireranno la nostra somiglianza, ancora una volta. Il mio sorriso educato e timido, i miei occhi ambrati. Narcissa mi farà notare che avrei potuto sorridere di più, che sembrava stessi guardando qualcosa che solo io riuscivo a vedere. Dirà proprio così. Non lo saprà mai neppure lei, ma avrà ragione. Stavo guardando la perfezione del mio mondo e stringendo l’idea di te per l’ultima volta. Sarà la foto che in realtà non mente, la nostra foto più vera. Non si ama mai qualcosa come quando si ha la necessità di doverla lasciare, quando si sceglie di dovervi rinunciare. Non si ama mai qualcosa come quando si comprende che proprio il nostro amore, in realtà, è ciò che più ci ha traditi.
 
Sono nei sotterranei. Ci giocavamo qui, da bambini. Sono di nuovo davanti al mio specchio, e non capisco come possa essere arrivato quaggiù. Guardo il mio vestito rosso, passo le mani sui miei capelli e intreccio ancora le dita attorno alle ciocche raccolte. Sono l’unica cosa che però riesco a vedere. Il vestito, i miei capelli. Perché il mio volto, non riesco a scorgerlo. E’ del tutto sfocato. Mi alzo traballando dalla sedia, sento una risata di scherno alle mie spalle, e mi volto. Ma non c’è nessuno qui. Ho freddo. Mi guardo attorno, cercando la porta per uscire e tornare finalmente di sopra. Poi mi accorgo di essere sugli ultimi gradini e che la porta è proprio alle mie spalle. Potrei aprirla in un niente, eppure i miei muscoli non possono muoversi. E’ colpa del freddo. Sì, dev’essere così. Sono atrofizzata, incapace anche del minimo movimento. Incapace, ancora una volta, di urlare. Abbasso lo sguardo, fisso le scale pensando a cosa potrei fare, ed ecco che le vedo. Orme infangate, come quelle di questo pomeriggio. Impronte sporche che mi circondano. Sollevo la testa e mi accorgo che l’intero pavimento di pietra ne è pieno. Corrono disegnando un percorso confuso attorno ai mobili accatastati e impolverati, attorno ai miei stessi piedi. Non seguono nessuna traiettoria, non hanno una destinazione, neppure una forma, un disegno ben preciso. Sono persino troppo grandi, eppure sono mie, ne ho l’assoluta certezza, e ne sono terrorizzata. I miei respiri inframmezzati si fanno ancora più lievi, mi domando perché non ricordo di averle fatte, e soprattutto come mai, se guardo, non riesco a vedere i miei piedi e le decolleté rosse che dovrei indossare. E proprio mentre sbircio sotto al mio vestito, mentre lo scosto, noto che ci sono altre impronte. Queste sono più piccole, sono grigie, sembrano fatte di polvere e sembra che brillino di luce propria. Anche queste , non so come, sono mie. Provo a chinarmi per osservarle meglio, e vedo che sotto all’intricata rete di fango, c’è un altro percorso. E’ lineare, chiaro e semplice. Parte da me e arriva dritto alla finestra in fondo all’immensa stanza. Proprio sotto al tappeto di fango delle altre orme. E’ un percorso pallido, quasi impossibile da scorgere, eppure c’è. Vorrei percorrerlo subito, aprire immediatamente quella finestra, dalla quale filtra una debole luce. Ho però scordato di non potermi muovere, e nell’istante in cui provo a scendere il gradino, cado. La risata di scherno, unita questa volta a dei bisbigli concitati, ricompare. Improvvisamente mi sento osservata, capisco che la mia prima impressione era corretta, non sono sola. Sollevo la testa con immensa fatica, è proprio come sollevarsi dal fango. Vedo le mie mani. Sono sporche, sono imbrattate di terra, e non sono le mie.
Che cosa ho fatto, con queste mani? Non posso lavarle.
Non posso lavare il pavimento, non posso cancellare le orme.
La risata maligna è entrata nella mia testa.
Ed ecco che un’altra mano, forte, brusca e fredda, mi tira i capelli. Mi spinge in alto, mi spinge a guardare, mi solleva la faccia dal pavimento.
E sui muri, su tutte le pareti, compaiono quadri.
Dapprima sono solo cornici dorate, elaborate, che circondano tele vuote.
Ma poi il fango inizia a colare, a sporcare il bianco.
Ed appaiono i volti.
Non hanno colori, non hanno vita, mai l’avranno. Sono loro, che ridono, e sono loro che bisbigliano parole senza via di fuga. Non possono parlare, non hanno labbra per farlo. Non possono vedermi, perché anche le orbite oculari sono vuote. Sono solo pezzi, brandelli di anima condannati a restare attaccati queste fredde mura, per l’eternità. Come gli echi perduti delle nostre risate, Bella.
 
-Andromeda!-
La tua voce ferma, mi scuote. Mi stai chiamando, hai il tono fermo e deciso, è quello degli ordini.
-Andromeda!-
Uno schiaffo violento mi centra la guancia. Sento le tue mani addosso a me, fra i miei capelli, sulla mia schiena. Lentamente, ritrovo il controllo del mio corpo. Piano, sbatto le palpebre. Sono nella mia stanza, nel mio letto. Mi afferri il viso e mi volti verso di te.
-Stai urlando come un’ossessa.-
Sei in camicia da notte, in ginocchio sulla mia trapunta.
-Era… era un sogno?-
Mi guardi con odio, ma io ti getto le braccia al collo.
Mi spingi via, provi a fare resistenza, mi afferri i capelli sulla nuca, mi ripeti di smetterla e io continuo a piangere, affondando la testa sul tuo collo, chiedendoti con ogni singhiozzo di scacciare via le orrende immagini del mio incubo.
-C’erano … c’erano solo impronte infangate …- Balbetto, quasi strappandoti i vestiti di dosso. Tu smetti di opporre resistenza. Rimani in silenzio e miracolosamente la tua presa ferrea si trasforma in lente ed esitanti carezze.
-Mi viene … mi viene da vomitare …  -
-Non vomiterai. Calmati. Sai farlo. Avanti. Come quand’eri piccola. Lo sai fare. Respira. Devi respirare. Avanti, una cosa che ricordi bene. Andiamo. Sei sveglia, non c’è nessuno qui. Siamo solo tu ed io. Non ti sentirai male, stai benissimo.-
Io serro le mie braccia attorno a te, non riuscendo a ricordare quand’è stata l’ultima volta che ti ho abbracciata. I miei singhiozzi pian piano si calmano, i battiti accelerati provano a seguirli. Riapro gli occhi. Guardo i cuscini in disordine, le lenzuola fradice di sudore. Le mie gambe sulle tue, i miei piedi vicini ai tuoi.  Mi accorgo che il tuo braccio mi sta cingendo, che la tua testa è proprio sulla mia, il tuo respiro calmo, che sta aiutando il mio, gioca sui miei capelli.
 
-Andromeda era una principessa, figlia di Cassiopea e del re Cefeo. Sua madre era convinta d’essere perfetta, anzi lo era. Un giorno si vantò troppo della propria bellezza, con le ninfe Nereidi. Queste si offesero e chiesero a Poseidone di punirla severamente. Poseidone allora mandò un mostro marino a far razzie delle coste del re, e quest’ultimo disperato chiese ad una veggente cosa potesse fare per salvare la sua terra. Costei gli disse che per porre fine alle ire del mostro, avrebbe dovuto acconsentire a sacrificare la sua unica figlia. Fu così che Andromeda venne incatenata ad una roccia, in mezzo al mare in burrasca. In attesa che il mostro la divorasse. Mentre sua madre la guardava dalla riva. La guardava e non si muoveva di un solo passo, non faceva niente. Era tutta colpa sua, e lei non faceva niente, niente. E poi, proprio quando Andromeda aveva chiuso gli occhi e aveva rinunciato per sempre a parlare, allora arrivò Perseo. Un eroe, un combattente. Che la vide, e se ne innamorò perdutamente. Fra tante, fra tutte quelle che aveva visto, proprio di lei. Andò a parlarle. Le chiese cosa fosse accaduto, perché era incatenata a quella roccia, perché i suoi genitori fossero stati così meschini e crudeli. E Andromeda gli raccontò ogni cosa. Capisci, Bella, ogni cosa. Parlò, come non aveva mai fatto. E lui chiese ai suoi genitori di sposarla. I suoi genitori non volevano, non era nobile … ma alla fine capirono. E piuttosto che perdere una figlia, ecco, acconsentirono … e lui la liberò da quelle catene, uccise il mostro, e la trasse in salvo, la portò con sé, volarono via… -
-Brava.-
La tua voce è incrinata. Graffia, sembra slittare, proprio come i piani di un solido cristallino prima che si fratturi.
-Bella?-
-Mh.-
-Bella. Ma secondo te, si può entrare nella vita degli altri con le scarpe infangate?-
Ti liberi dal mio abbraccio. Mi prendi le spalle e mi volti verso di te.
-Meda. Ma quanto hai bevuto stasera?-
-Perché mi hai chiusa nei sotterranei, a cinque anni? Perché hai inventato tutte quelle storie orribili? Perché mi hai costretta per anni a giocare al buio? Perché hai letto il mio diario? Perché mi hai fatto così male? Perché l’hai fatto? Perché?-
I tuoi occhi si accendono. E’ di nuovo quel bagliore sinistro, perverso. Reclini la testa di lato, placidamente.
-Perché lo chiedi soltanto adesso? Te ne rendi conto, sì, che lo chiedi soltanto adesso?-
-Io ero una bambina, ero solo una bambina … -
-Errore, stella.- Ti riavvicini a me, a carponi, fino a sussurrare a pochi centimetri dalle mie labbra.
-Non c’entra nulla, Andromeda. Non c’entra, e tu lo sai. Perché non ti sei mai opposta, allora? Se ti facevo realmente male, perché mi imploravi di dormire al tuo fianco, di notte? Se ero io la causa dei tuoi incubi, perché mi cercavi? Perché continui a farlo? Ora non sei più una bambina. Perché mi guardi così, vuoi farmi del male? Avanti, fallo. Hai voluto farlo per anni. Credi che non lo sappia? Pensi non lo ricordi? Prendimi a schiaffi, affatturami, saltami addosso. Perché non lo fai?-
Fisso le tue labbra vermiglie. Sono identiche alle mie.
Mi sporgo in avanti, ti afferro la nuca e le bacio.
 
Tremo. Aspetto di nuovo la tua spinta verso l’alto, e per la prima volta, invece, tu mi spingi giù, e ridi.
E’ talmente strano per me sentirti ridere così che mi domando se non stia ancora sognando. Mi rigiri e mi butti il cuscino sulla faccia, più volte. Provo istintivamente a difendermi, ma tu ti lanci addosso a me e inizi a farmi il solletico, dappertutto. I tuoi capelli mi cadono sul viso, le tue labbra mi baciano le guance e  i miei occhi sono spalancati,  vogliono catturare tutta la luce che inonda la stanza in un solo istante, ma non ci riescono.  Quando mi lasci andare e crolli affannata di fianco a me, ecco che tutta la perfezione se n’è andata. Sei solo bella. Semplicemente bella. Hai gli occhi stanchi, arrossati dal sonno interrotto, come quelli di una bambina piccola. Mi accorgo che sto ridendo anch’io, che forse non ho mai riso così tanto, che gli ultimi echi mi hanno raggiunta, si sono fatti strada persino nella rete intricata delle orme infangate. Restiamo ferme, con le teste sui cuscini di piume, a guardarci.
-Io ti istigo a farmi del male e tu mi baci sulla bocca, Meda? Chi è messa peggio, fra le due?-
La stanza è azzurra, l’alba che spunta timidamente chiede il permesso per entrare.
La tua mano stringe il bordo del lenzuolo, ci si aggrappa come fosse un salvagente, la tua ultima spiaggia. Ora sei tu a tremare, ed io penso che dovrei coprirti, dirti almeno di accendere il fuoco, perché si gela.
-Copriti, Bella.-
-Rodolphus ed io ci sposiamo. Vuoi fare cambio, sorellina? Vuoi scendere dalla rupe, vuoi essere salvata? Io ne sarei felice. Magari riusciamo a ingannare persino il caro Rod, da quanto mi assomigli. Che ne dici, ti va? Io mi faccio ingoiare dal mostro. Lo preferirei.-
Il mio stomaco si rivolta. Le ginocchia salgono su, provano a tenerlo fermo.
Hai gli occhi bagnati, le tue ciglia lunghe e folte cercano di trattenere quelle lacrime che come me, vogliono scappare. Cercano di non tradirti, di farti restare aggrappata al lenzuolo bianco.
Le tue ciglia somigliano a quelle di Ted.
-Mi ha scritto una lettera.- Continui a dire, in un sussurro soffocato, appena percettibile, perché nessuno, neppure le pareti, lo devono sentire. E se non lo sente nessuno, non è mai esistito.
-E cosa ti ha scritto?-
-Non ne ho idea. Probabilmente che mi ama e che vuole che sforni una decina di figli. L’ho gettata nel camino ancora chiusa, dopo la festa. L’ho guardata bruciare.-
-Hai gettato anche la mia?-
Ridi, invece di piangere. Perché tu non sai piangere.
-Non è che ci fosse scritto molto. Buon compleanno e basta?-
Allunghi il braccio e mi dai un pizzico, mi tiri la guancia e non so come sento che tra le dita stringi il mio pezzetto di pergamena. Fruscia contro il mio orecchio.
-Perché mi hai regalato uno specchio?-
-A te piace specchiarti.-
-Che ne è dei tuoi regali carichi di significati reconditi e delle tue lettere filosofiche? Me lo sarei aspettato da Cissy.-
-Chi ti dice che quello specchio non nasconda un significato recondito, eh?-
-Oh, ne sono convinta.-
Deglutisco piano. Le parole salgono di nuovo, premono sul mio palato, cercano di uscire fuori, cercano spazio, vogliono riempire il vuoto fra i miei occhi ed i tuoi, cancellare ogni sfumatura, renderli uguali.
-Bella, io … -
Mi tappi la bocca.
-Basta, Meda. Direi che ci siamo calmate abbastanza.-
 
Ti sollevi a sedere, afferri la bacchetta che avevi posato sul comodino e la agiti appena. Un astuccio metallico compare di fronte a te. Lo apri e ne estrai due sigarette. Le afferri delicatamente, poi me ne porgi una, e con la punta della bacchetta accendi la tua. Ti guardo mentre la posi delicatamente fra le tue labbra e aspiri, aspiri come se cercassi una risposta inafferrabile.
Guardi verso la finestra, senza realmente vederla, mentre io rigiro la sigaretta fra le dita.
-C’è un incantesimo per far sparire il fumo e anche l’odore, in un attimo. Andiamo.-
Poggi la testa sulle tue ginocchia e ti giri a guardarmi, arricciando appena le labbra. Poi me la rubi dalle mani, l’accendi con la tua e me la porgi di nuovo.
-Come si fa?-
Ti metti a ridere.
-Non vedo chi possa farlo meglio di te. Avanti, aspira piano.-
Eseguo. Aria calda mista a vago sapore di cioccolata.
-Adesso trattieni, fai un respiro. Tieni … e ora butta fuori.-
Espiro. Guardo il fumo denso giocare davanti a me. Sorrido.
-Hai visto? Non hai neppure tossito.-
Ridacchio, mi rigiro verso di te.
-Perché, in genere si tossisce?-
-Tossiscono solo quelli che non sanno trattenere niente. Ti ho insegnato bene a non urlare, Meda. Perciò, promettimi che quando andrai via, lo farai in silenzio, scalza. Dalla vita degli altri, si esce a piedi scalzi.
 Senza far rumore.-
Poi mi baci la fronte, svelta. E a piedi scalzi, scendi dal mio letto e lasci la mia stanza. Dalle lenzuola, cade leggero il mio pezzo di pergamena. Tremante, lo riprendo.
Delicatamente lo srotolo. Ma non è la mia calligrafia. E’ molto meno armoniosa, disordinata, spigolosa.
Guardati e ricordami.
L’hai scritto tu. L’hai indovinato, ancora una volta. Hai infranto tutto, ancora una volta.
 
Ci sono giorni, in cui lascio che il mio corpo esegua gli ordini del mio cervello meccanicamente, senza porsi domande. Fisso l’immenso cielo di novembre, e aspetto pazientemente che si rischiari, che l’alba fredda appaia dietro le montagne. Il blu notte lascia velocemente il posto all’azzurro più tenue, poi al violetto pallido. Il fumo della mia sigaretta sale in alto, mi dà ai nervi. Mi stringo nella sciarpa che porto al collo. Le mie lacrime calde si raffreddano velocemente a contatto con l’aria pulita e tersa. In un posto del genere, non dovrebbe esserci bisogno di versare lacrime, Bella. Sollevo la testa, e ti saluto, come faccio sempre, a quest’ora, ogni notte, da innumerevoli notti. E da qualche notte mi consolo pensando che magari, da quelle sbarre, forse il cielo è l’unica cosa che ti è rimasta, e forse, se lo guardo anch’io, se guardiamo nello stesso istante  la tua stella, è come essere di nuovo insieme. Mio marito ha smesso di provare a dissuadermi dall’uscire in terrazza all’alba, in qualunque stagione. Sa che tanto mi bastano dieci minuti e poi, con i piedi freddi, nel letto ritorno sempre.
Mi rialzo, con un’ultima occhiata alla campagna ancora fredda di rugiada e chiazzata dai colori d’autunno. Delicatamente  riapro la portafinestra, scosto le tende e rientro nella mia camera da letto. Tendo istintivamente le orecchie. Da quando Ninfadora è nata, ogni mio gesto è cadenzato in sua funzione. Mi tolgo la vestaglia e mi volto a guardarla. Dorme placidamente nel suo lettino. Ha le braccia attorno alla testa, il ciuccio ancora in bocca e stringe fra le dita attorno alla copertina i suoi due anni innocenti e colmi di speranza. A piedi nudi, vado in bagno a lavarmi il viso e la bocca. I miei capelli ora sono lisci, tendo a tenerli al naturale sempre di meno. Ted dapprima ne era quasi contrario, adesso ci scherza su, dice che così ho un’aria ancora più seria. A me piacciono molto di più, Bella. Non devo stare a spazzolarli, non devo perderci tempo con inutili acconciature. Non mi pesano sulle spalle, e quando Ted ci passa le dita, non corre il rischio di farmi male.
 
Tampono il viso con un asciugamano di cotone, con le mie nuove iniziali ricamate sopra. Sebbene siano passati più di tre anni, devo ancora farci l’abitudine. Questa casa è piccola, ha pareti sottili, costruite su misura attorno a me. Le stanze da letto sono soltanto due, il soggiorno è solo uno, il salotto serve a Ted solo per guardare le sue partite di calcio, e quando la televisione è accesa, io da qui riesco a sentirla, mi addormento con quel rassicurante brusio in sottofondo. Non ho mai sentito il rumore del vuoto, da quando abito in questa casa. Ripiego l’asciugamano sul lavabo, quando lo scalpiccio assonnato di mia figlia mi distrae. E’ in piedi davanti alla porta, si strofina con foga una manina davanti agli occhi, bisbiglia concitata e i suoi capelli, normalmente castani come i miei, sono di un azzurro intenso.
Mi chino piano  per non spaventarla e la prendo in braccio. Trema e piagnucola, deve avere avuto un incubo. Le bacio ripetutamente la guancia morbida.
-Dora, c’è la mamma con te. -
Non mi risponde, affonda le sue mani nella mia pelle, i suoi piedi contro il mio ventre. Le scosto la frangetta, le tolgo il ciuccio dalla bocca e le sento la fronte. Mi sembra che scotti.
Le mie mani corrono sulle sue, poi sui suoi piedini. Torno in camera e m’infilo nel letto con lei, mettendola fra me e Ted. Lo scuoto piano, lui borbotta assonnato e si gira verso la bambina.
-Il riccio è sveglio ed è rotolato fuori dal suo letto?- Scherza, mentre le dà un bacio.
-Ted, è calda.-
Mio marito apre subito gli occhi, si tira su un gomito, e posa la mano sulla fronte di Ninfadora. I suoi capelli sono diventati rosa, lo sguardo è corrucciato, fissa il soffitto con aria contrariata perché le ho tolto il cuccio di bocca.
-Non è calda, sta bene.-
-Ted, ma non senti che è calda, è caldissima, è raffreddata da giorni, ieri le colava il naso e ... -
Lui mi sorride, prende la mia mano.
-Sei tu che sei ghiacciata, Amore. Non la bambina che è calda. Ma se vuoi esserne sicura, prendi pure la mia borsa.-
I primi, pallidi raggi di sole rischiarano la stanza. Io riscendo dal letto, corro verso l’armadio e prendo la sua borsa professionale. Me la trascino dietro.
-Potevi fare un incantesimo d’ appello.-
-Sta’ zitto.-
Ted ride, poi si stiracchia, e io mi sento in colpa. Soltanto lui ride e mi bacia quando gli dico seccamente di starsene zitto. Soltanto lui ha quest’infinita pazienza, questo amore incondizionato.
-Allora?-
Ne aveva talmente tanta di pazienza, d’amore, di rispetto e gentilezza, che dedicarsi solo a me non gli bastava. Finiti gli studi ad Hogwarts, ha deciso di studiare Medicina all’ università babbana, e contemporaneamente lavora al San Mungo. Vorrebbe cercare di unire i nostri mondi, di riuscire ad annullare, come dice sempre con gli occhi pieni di speranza, le distanze. Molti dei maghi che frequentiamo, scherzando gli danno del pazzo. Non riescono a capire perché voglia curare dei semplici e pericolosi babbani, perché abbia scelto di sacrificarsi tutta la vita mettendo in pericolo persino se stesso, persino la sua stessa famiglia. Di certo,dicono, con i tempi che corrono fraternizzare con i babbani non è la cosa migliore. Ma a lui non importa. Ripete sempre che è proprio quando hai meno da dare che bisogna lottare, che è nella diversità la vera ricchezza. Sono anni che sta dietro ai suoi libri, che mi tiene seduta sulle sue ginocchia e mi mostra i suoi atlanti, tra un bacio e l’altro. Sono anni che lo sento borbottare fra sé e rido quando impreca a mezza voce se non ricorda un concetto. Poi mi rincorre per casa, mi prende, facciamo l’amore. Prima mi faccio ripetere tutti quei nomi meravigliosi, ogni muscolo, ogni osso, ogni parte di me che sfiora con le sue mani. Poi lascio che mi sussurri all’orecchio che in realtà è il nostro amore la sua medicina.
 
Ted mi ha insegnato i sussurri, Bella. Ha scacciato via l’eco, il silenzio e il buio. Ted mi ha insegnato i sussurri di un corpo umano, la meraviglia delle piccole cose, di ogni singola cellula che contribuisce alla meravigliosa architettura di un corpo. Mi ha portata con sé, di nascosto, nei suoi laboratori. Mi ha spinta contro uno dei suoi microscopi, un pomeriggio in cui ero in lacrime, ha punto il mio e  il suo indice e mi ha fatto vedere una goccia del nostro sangue mischiato, o come diresti tu, impuro. Ed è stato allora, Bella, che ho visto, capito che tutto ciò che ci hanno inculcato è menzogna. Quelle piccole sferette attraversate da un fascio di luce, o come mi ha insegnato lui, globuli rossi, sono stati tutto ciò che, per un’ora, sono riuscita a guardare. E Ted è rimasto fermo, a tenermi stretta, a baciarmi la nuca, per tutto quel tempo. Mentre io pensavo che non avevo mai guardato davvero qualcosa, mai in tutta la mia vita. Non ero mai stata travolta dalla meraviglia delle piccole cose. Ero sempre stata costretta a lottare contro tutto ciò che era più grande di me.
 
Mentre gli porgo lo stetoscopio turchese, ripenso al nostro primo ballo. E’ stato proprio con quell’affare al collo, che mi ha chiesto di sposarlo. Tu non lo sai, del resto come potresti, nessuno ne è a conoscenza. Ero all’ultimo anno di scuola, lui aveva già finito. Lo stavo aspettando dietro alle scuderie, nascosta come sempre, sulle punte dei piedi, tesa come una corda di violino, pronta a sorridere allo scorgere dei colori sgargianti di quel suo rottame, che alla fine era riuscito a farsi regalare. Quel pomeriggio è arrivato trafelato, ha buttato la bicicletta per aria, mi ha sollevata, ridendo. Io sono rimasta impalata, con gli occhi sgranati. Mi ha rimessa a terra, ha allargato le braccia, ha agitato la bacchetta e di colpo gli è apparso indosso un camice bianco.
-Ted, che stai facendo?-
Non mi ha risposto, ha messo le mani in tasca e ne ha estratto quello che mi sembrava solo un tubicino di gomma colorato, con un fiocco appuntato su.
-Che cos’è?-
-Avvicinati, fattelo mettere.-
-Ma dove?-
-Nelle orecchie. Vieni. Non ti fa male.-
-Ted, è un’altra delle tue diavolerie babbane … perché mai ci hai messo una coccarda? -
-Si chiama stetoscopio. Amore, non ti fa niente, vedrai che ti piacerà un sacco, non avere paura.-
Ha messo quelle due strane olivette nelle mie orecchie.
-Mi dà fastidio, non …-
-Non toglierlo, aspetta … -
Si è sollevato il maglione e ha poggiato l’arnese sotto ai suoi vestiti. Stavo per urlargli contro quando l’ho sentito. Il battito del suo cuore. Pulsare nitidamente, meravigliosamente,  nelle mie orecchie.
In quel momento si è messo in ginocchio.
-Mi sono iscritto all’università, a Londra. Voglio studiare la Medicina babbana, anche se sono un mago. Voglio aiutare le persone che soffrono, ma non possono usare la magia per guarire. Voglio capire i sottili meccanismi della scienza, e  voglio vedere la sofferenza, ogni tipo di sofferenza. Non mi basta ciò che faccio al San Mungo, non mi basta la magia, Meda. C’è un mondo condannato a vivere senza magia, e io voglio aiutarlo. Sfidarlo.-
 Mi ha preso le mani, le ha portate sul suo torace, all’altezza di quel curioso bottone metallico che stava compiendo la più stupefacente delle magie.
-Ma non posso farlo, se tu non sei con me. Non posso farlo, se non ho la mia medicina accanto, ogni giorno. Perché tu, Andromeda, sei la mia medicina. E io … io posso essere la tua cura, posso curarti, starti vicino, ogni giorno della tua vita. Posso stringerti, e cullarti, e tenerti con me tutto il tempo del mondo. Perché vedi, questo cuore non batte, se tu non ci sei. Io capirò, se non vuoi. So che ti sto chiedendo troppo. So a quante cose ti sto chiedendo di rinunciare. Ma devo farlo, altrimenti non avrei più pace. Tu sei tutto ciò che desidero,  tu mi rendi migliore.  E’ grazie a te, alle tue lacrime, alla tua sofferenza, alla tua dolcezza, al tuo sorriso, che ho capito di voler fare questo. Vuoi sposarmi? Vuoi essere, per sempre, la mia medicina? E mi permetterai, di essere la tua cura?-
 
Non gli risposi. Mi abbandonai semplicemente fra le sue braccia, singhiozzando e annuendo. Con i suoi battiti forti e sicuri che ancora carezzavano le mie orecchie. E lui che mi teneva stretta, sollevata da terra, e mi faceva ballare. La musica più bella di tutte. In un abbraccio bianco.
 
Ninfadora ha ripreso sonno. Lo stesso stetoscopio, ora lo poso su nostra figlia. Ted sbadiglia.
-Ti sembra accelerato? Vuoi anche il termometro?-
Scuoto appena la testa.
-No, è normale.-
Lui la stringe, poi richiude gli occhi. Io rimango in silenzio ad ascoltare  quei battiti delicati come le ali di una farfalla in volo. E’ il suono che ha il potere di commuovermi, ogni volta. Passo la mano fra quei capelli colorati. Lentamente ritornano castani, e a me scappa una risata. I capelli di nostra figlia, come il nostro amore, hanno tutte le sfumature del mondo. E’ stata questa la prima cosa che ci siamo detti, tenendola fra le braccia. Ho giurato di amarla e proteggerla da tutto, Bella. E se riuscirò a farlo, basterà questo. Se te la ritrovassi davanti, probabilmente non avresti un attimo di esitazione. La uccideresti, anche se è solo una bambina con i capelli che sembrano zucchero filato.
Penso a questo, e piango ancora. Le mie lacrime cadono sul suo pancino morbido, sul suo pigiamino con gli orsacchiotti. Lo asciugo delicatamente. Poso la testa sul mio guanciale, ancora con lo stetoscopio nelle orecchie. Non mi dà fastidio, non più. Ted l’ha usato innumerevoli volte, con me. Ad ogni mio attacco d’ansia, mi bastava metterlo e sentire il suo respiro, il suo cuore. Quello di nostra figlia.
E che cosa c’è di diverso, Bella, fra questo cuore, e tutti gli altri? Cosa c’è di diverso fra questo mondo, ed il mondo perfetto, il tuo mondo puro?
Tu, che torturi e uccidi in nome della perfezione, che disprezzi la vita, l’hai mai ascoltato un cuore che batte, Bella? Hai mai provato a scandire il tuo tempo, ogni tuo secondo, pensando alle sue camere che si contraggono e si rilassano, che ballano la loro cadenzata e meravigliosa musica, Bella? Forse, se solo l’avessi fatto, avresti capito che la perfezione non è altro che questo. Ed ogni essere umano, dentro di sé, custodisce un cuore che danza. Non vi è differenza, in questo. Tutti quanti, sanno ballare, Bella. La musica è già dentro ognuno di noi. Nasce con noi, cresce con noi. Devi solo saperla ascoltare. Ballarci su, se solo l’ascolti, verrà naturale.
-Dromeda, perché stai piangendo?-
Ted si solleva, mi toglie lo stetoscopio dalle orecchie e afferra prontamente la mia mano.
-Il cuore di Bella non funziona bene, non ha mai funzionato.-
Si irrigidisce. Sono anni che in questa casa non si pronuncia il tuo nome, quello della nostra altolocata e temuta famiglia. Si mette a sedere. Vedo che getta un’occhiata alla stanza. Sta cercando il giornale di questa mattina, quello che annuncia l’esito del tuo processo, la tua condanna.
-Che cosa vuoi dire?- Mi chiede nel frattempo.
Io invece cerco l’aria. Provo a respirare e non ci riesco. E’ come per le urla. I miei polmoni sono chiusi. Rantolo, spasimo, il panico mi serra la gola, mi immobilizza.
-Dromeda, respira. Così vai in iperventilazione, fai dei respiri profondi e…-
-Basta con questa solfa! Io non devo respirare, devo parlare! Non lo sai, che devi farmi parlare? Almeno lei mi faceva parlare, quando succedeva, mi faceva parlare sempre!-
Distolgo i miei occhi bagnati dai suoi, torno a fissare il cuscino bianco, mi aggrappo a quella morbidezza, fino a quando anche quella riesce a farmi male. Ted cerca un contatto, io bruscamente mi scosto. Neppure le sue mani da medico, ferme, calde, sicure e forti, potranno mai guarire il dolore della tua assenza, Bella. Né voglio che lo facciano. La tua assenza è solo Mia, nessun altro deve toccarla, né provare a colmarla o a raccoglierne i frantumi.
 
 -I due atri, in un cuore, sono separati dal setto interatriale, me l’hai detto tu. Giusto?-
Lo sento annuire, in silenzio aspetta che vada avanti.
-Fino alla nascita, il setto interatriale è reso pervio da un piccolo foro, per permettere al sangue di affluire dall’atrio destro al sinistro, mentre i polmoni sono in via di sviluppo. Alla nascita, quando il bambino piange e i polmoni si espandono, il foro progressivamente dovrebbe chiudersi. E’ corretto, no?-
Annuisce ancora.
-Sostanzialmente sì, ma non capisco cosa … -
-Con Bellatrix non ha funzionato, Ted.-
-Dromeda, Amore, non è possibile questo, perché … -
-Bella non sapeva piangere, Ted. Non ha mai pianto, mai, neppure una volta. Sono convinta non abbia pianto neppure quando è nata. Perciò … perciò, vedi, non è colpa di Bella. E’ colpa di quel soffio. Magari, ecco, magari, che ne sai, non ha preso il giusto respiro, Ted. Non l’ha preso, perché nessuno l’ha stretta. Perché nostra madre non l’ha poggiata addosso a sé. Perché nostra madre non ha mai fatto niente. Il setto è rimasto aperto. Proprio come una ferita mai cicatrizzata. L’amore che in quel momento avrebbe dovuto fermarsi nel suo cuore, non ci è restato. E’ passato, proprio come un soffio di vento. Non si è lasciato riconoscere, non ha lasciato un’impronta. Ha attraversato quelle camere proprio come le attraversava lei, correndo, a piedi scalzi. Ha lasciato solo una debole eco su quelle pareti. Ecco perché Bella non può ascoltare  il suono di un cuore che batte. Ecco perché non può amare. L’amore è stato la prima cosa che l’ha tradita. Non si è fermato, lei ne ha solo visto un riflesso, e basta. Come … dimmi, come puoi biasimarla per questo?-
 
Nostra figlia mi tira un calcetto. Mi riscuoto.
-Mamma. Che favola è? Me la racconti di nuovo? Chi è che ha soffiato? Non ho capito.-

 
Buon compleanno, C.
Con ritardo e con affetto, F.

 

  
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