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Autore: Nezu    01/12/2012    3 recensioni
[Gin/Shiho, Jigen/Fujiko] Gin e Vodka hanno una missione: eliminare il ricco signor Lenher e la sua figliola. Lupin ha puntato gli occhi sul tesoro di quella famiglia e non ha intenzione di farselo soffiare. Jigen è inevitabilmente tirato dentro allo scontro, mentre Shiho Miyano è inquieta per la presenza di Gin e Crazy Mash, dopo anni di silenzio, torna a tormentare il suo vecchio collega.
Genere: Angst, Azione, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Ai Haibara/Shiho Miyano, Gin
Note: Cross-over, Movieverse, What if? | Avvertimenti: nessuno
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2 – Hit the ground

Non aveva granché voglia di uscire: anche se finalmente il sole aveva fatto capolino da dietro le nubi, l’aria era satura d’umidità e le sue povere ossa scricchiolavano fastidiosamente. Aveva dormito male, un po’ per i tuoni, un po’ per i pensieri che continuavano ad ossessionarla: rivedeva la figura di sua madre stesa sul letto, pallida come un cencio. Risentiva le parole vuote dei colleghi di lei, le loro pacche sulla schiena. E non era riuscita a chiudere occhio.

Suo padre l’aveva convocata per le 10: lei non sapeva neanche se sentirsi onorata perché le aveva riservato un posto in agenda o offesa per essere trattata a quel modo. Comunque, ora che mancava un quarto d’ora all’appuntamento, non aveva proprio voglia di presentarsi.

Erika Lenher si guardò allo specchio e decise di avere un aspetto orribile: probabilmente suo padre non l’avrebbe voluta vedere in quelle condizioni. Avrebbe detto che gettava una cattiva luce sull’azienda. Non poteva dargli torto, si faceva paura da sola. Proprio per quello sarebbe andata da lui: l’idea di fare una pessima impressione ai suoi soci non le dispiaceva affatto.

Sua madre l’aveva sempre detto, fin da quando lei era piccola: il papà lavorava troppo, il papà non pensava ad altro che all’azienda e alla sua reputazione. E, fin da quando ne aveva memoria, Erika aveva sempre visto suo padre come un estraneo, sempre lontano da casa, sempre preso in mezzo ai suoi affari. Se le andava bene poteva vederlo per Natale e per il suo compleanno. Sempre che, ovviamente, non ricevesse una chiamata urgentissima nel bel mezzo dei festeggiamenti.

< Signorina, Suo padre L’aspetta.>

Il tono del capo della scorta era gentile, ma in quel momento Erika l’avrebbe mandato volentieri a quel paese. Afferrò l’orologio da taschino che teneva sulla scrivania, si alzò, controllò che la maglietta che aveva indossato fosse abbastanza presentabile e uscì.

I tre uomini della scorta le si accostarono immediatamente, ben vigili che nessuno si avvicinasse a lei. La ragazza era abituata ad averli attorno, era sempre stato così. Era come se suo padre cercasse di nascondere la sua assenza assicurandosi che lei fosse sempre al sicuro, ogni volta che usciva di casa. Erika non poteva dire se le seccasse o meno, quegli uomini erano simpatici, ma la loro presenza la lasciava indifferente: il suo rapporto con loro si limitava ad un semplice scambio di parole cortesi quando venivano da lei e quando la lasciavano. Per il resto lei era miglia e miglia lontana da loro.

Ascoltò come da dentro una bolla d’aria il rumore delle portiere che sbattevano, la macchina che si metteva in moto, le ruote che sollevavano schizzi d’acqua dalle pozzanghere. Pensò ad altro: a com’era tutto più facile prima che la malattia si portasse via sua madre, a come non era stata costretta a sopportare i commenti acidi di suo padre, a come si era sentita libera di essere se stessa.

Ora era tutto un altro paio di maniche: a lui non andavano bene i capelli corti, voleva che indossasse qualcosa di diverso dai soliti jeans informali e dalle t-shirt, voleva che s’impegnasse in politica, andasse a circoli culturali e si facesse conoscere nella società. A lei non poteva importare di meno: i suoi unici interessi erano i libri e la danza. Non quella classica, tutù e scarpette come avrebbe voluto suo padre, ma quella di strada, break e hip-hop, attività che facevano accapponare la pelle al suo beneamato genitore. Inutile dire che gli scontri tra i due erano all’ordine del giorno.

L’automobile si fermò davanti ad un grattacielo che, in mezzo al grigio della strada, risaltava tremendamente per le enormi vetrate senza neanche una macchiolina di sporco. Era pulito fuori com’era pulito dentro. Erika camminò lungo corridoi interminabili e ascensori splendenti. Non le era mai piaciuto quel posto, sapeva di disinfettante.

Si aspettava di trovare suo padre in ufficio, seduto dietro la sua scrivania ricoperta di scartoffie. Invece lui uscì, tutto impettito nel suo nuovo completo blu, da una porta laterale, con tre collaboratori alle calcagna che ripetevano numeri e altre frasi per lei incomprensibili. Lo osservò sconvolta mentre le si affiancava e le appoggiava una mano sulla spalla: qualcosa in quel gesto le diede tremendamente fastidio e, se non fossero stati davanti a tutti, si sarebbe volentieri scansata.

*

< Sei pronto?>

Spense la sigaretta sul muricciolo di cemento e riprese in mano il binocolo: erano quasi al punto segnato, solo pochi metri più in là. Avevano preparato tutto con cura in quegli ultimi giorni e, lo sapevano entrambi, non ci sarebbero stati errori.

< Vodka, ci sei?>

< Sì, aniki… tutto pronto.>

Gin sorrise. Sapeva che anche il suo compare stava sorridendo come lui. Stava andando tutto alla perfezione: un passo, un altro ancora, tre metri, due…

< Ora.>

Dall’altro capo della linea sentì il “click” del dispositivo che veniva azionato. E poi venne il finimondo.

*

< Oh, eccola là! Non è carina? Eh, Jigen? Eh?>

Se non avessero dovuto mantenere un basso profilo, Daisuke avrebbe volentieri preso a calci quell’idiota del suo collega.

< L’hai già vista, quella ragazza. E’ da giorni che non fai altro che sventolare la sua foto e a sbavarci sopra.> rispose brusco, chiedendosi come facesse a sopportare quel lato da maniaco del suo compare.

< Ma dal vivo è diverso! Guardala, che cara, non ha un faccino adorabile?>

< Smettila, Lupin! Ci sentiranno.> Non si sarebbe messo in quel momento a discutere sul fatto che qualsiasi donna, per il più famoso ladro del mondo, era una sorta di dea, sapeva di aver già perso in partenza. Ma già stavano camminando come se nulla fosse in quel maledetto grattacielo, l’ultima cosa che voleva in quel momento era trovarsi di fronte la security o quegli omaccioni che scortavano la nuova inconsapevole fiamma di Lupin.

< Di chi è che stai parlando?!> La voce acuta di Fujiko colpì dritto al timpano attraverso l’auricolare e l’uomo s’immobilizzò d’un tratto, passandosi nervosamente la mano dietro la testa.

< Ma di nessuno, cherì, cosa vai a pensare?>

Jigen non ascoltò l’irritante risposta della donna. Non seppe mai se aveva effettivamente risposto; c’era stato un movimento, sul palazzo di fronte, un qualcosa che aveva luccicato dal tetto dell’edificio dirimpetto al loro. Aggrottò le sopracciglia e di nuovo il brutto presentimento fece la sua comparsa.

Si voltò d’un tratto e un pensiero gli attraversò la mente: Lenher e i suoi uomini erano una ventina di metri davanti a loro. Un nuovo movimento alla sua sinistra, di nuovo quel luccichio. Guardò Lupin e vide che ricambiava il suo sguardo, improvvisamente serio. Poi quella lucina rossa lampeggiò tre volte e Jigen capì. Troppo tardi.

*

Lasciò andare avanti suo padre, stanca di quella mano che le pesava sulla spalla. Rallentò un poco, avvicinandosi all’ultimo uomo della sua scorta, giusto per scambiare due parole. Poi non capì più niente.

L’esplosione fu tanto violenta quanto improvvisa. Erika si sentì sbalzare contro un muro, picchiò di schiena, cadde in avanti. Un secondo boato e qualcosa la colpì alla testa. Le ci volle un attimo per capire che quella cosa era il pavimento: sentiva un rigagnolo di sangue colarle tra i capelli, lungo la fronte, davanti ad un occhio, il mondo che diventava rosso. C’era un corpo che l’ancorava al suolo, forte, muscoloso e terribilmente immobile.

Il boato continuava ad echeggiare nelle sue orecchie, ma attorno a lei tutto era d’una calma irreale: il corridoio, così impeccabilmente pulito fino a qualche minuto prima, era completamente coperto di bianco, calcinacci, intonaco e materiale di vario genere. C’erano corpi lì attorno, pozze rosse che s’allargavano sulle piastrelle, urla che le sembravano lontane mille miglia.

Finché qualcuno non spostò il corpo che le pesava addosso e la prese per un braccio. Fece in tempo a riconoscere l’uomo della scorta che le era accanto mentre camminava, poi cacciò un urlo e girandosi verso quella mano estranea colpì il più forte possibile. Il suo gomito urtò contro quelle che verosimilmente erano costole.

< Ahio!> Guardò stupita quell’uomo con la faccia da scimmia che si teneva lo stomaco con le braccia. Non sapeva cosa stava facendo, ma prima che qualcosa, qualsiasi cosa, accadesse, si alzò e cominciò a correre. Saltò due corpi ammassati uno affianco all’altro, due dei collaboratori che stavano parlando con suo padre.

Lui era lì, un metro più avanti. Lo riconobbe per un lembo della giacca, l’unica parte dell’abito che non fosse ricoperta di una patina bianca: era blu, il colore del completo nuovo di suo padre. Il resto del suo corpo era davvero difficile riconoscerlo. Non ci provò neppure. Superò anche lui, una morsa che le stringeva lo stomaco, la testa che pulsava all’impazzata. La gamba sinistra le faceva male, come la ferita che si era procurata sbattendo il capo contro il pavimento e che continuava a sanguinare.

Dietro di lei sentiva urla di uomini. Non osò guardarsi indietro neanche per controllare se la stavano seguendo o meno. Poi qualcosa fischiò accanto al suo orecchio e per poco lei non cadde in avanti. Un’altra pallottola partì nella sua direzione, la sentì sfrecciare a pochi centimetri dal suo ginocchio; una parte del suo cervello la informò che gli spari non venivano da dietro di lei, ma dalla sua sinistra. Non guardò neanche in quel momento. A dieci metri da lei si trovava la porta che dava verso le scale d’emergenza.

Altri due proiettili cercarono di colpirla, ma prima che il tiratore potesse aggiustare la mira, lei era già oltre la porta e scendeva le scale due a due, la sua gamba che implorava pietà, il mondo attorno a lei che girava all’impazzata.

Poi, senza rendersene conto, sbatté contro qualcosa di duro, sentì delle braccia che le stringevano la vita. Urlò fino a che tutta l’aria che aveva nei polmoni non uscì. Poi sentì le forze venirle meno ed Erika s’accasciò, priva di sensi.

   
 
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