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– Hit the ground
Non
aveva granché voglia di uscire: anche se finalmente
il sole aveva fatto capolino da dietro le nubi, l’aria era
satura d’umidità e
le sue povere ossa scricchiolavano fastidiosamente. Aveva dormito male,
un po’
per i tuoni, un po’ per i pensieri che continuavano ad
ossessionarla: rivedeva
la figura di sua madre stesa sul letto, pallida come un cencio.
Risentiva le
parole vuote dei colleghi di lei, le loro pacche sulla schiena. E non
era
riuscita a chiudere occhio.
Suo
padre l’aveva convocata per le 10: lei non
sapeva neanche se sentirsi onorata perché le aveva riservato
un posto in agenda
o offesa per essere trattata a quel modo. Comunque, ora che mancava un
quarto
d’ora all’appuntamento, non aveva proprio voglia di
presentarsi.
Erika
Lenher si guardò allo specchio e decise di
avere un aspetto orribile: probabilmente suo padre non
l’avrebbe voluta vedere in
quelle condizioni. Avrebbe detto che gettava una cattiva luce
sull’azienda. Non
poteva dargli torto, si faceva paura da sola. Proprio per quello
sarebbe andata
da lui: l’idea di fare una pessima impressione ai suoi soci
non le dispiaceva
affatto.
Sua
madre l’aveva sempre detto, fin da quando lei
era piccola: il papà lavorava troppo, il papà non
pensava ad altro che all’azienda
e alla sua reputazione. E, fin da quando ne aveva memoria, Erika aveva
sempre
visto suo padre come un estraneo, sempre lontano da casa, sempre preso
in mezzo
ai suoi affari. Se le andava bene poteva vederlo per Natale e per il
suo
compleanno. Sempre che, ovviamente, non ricevesse una chiamata
urgentissima nel
bel mezzo dei festeggiamenti.
<
Signorina, Suo padre L’aspetta.>
Il
tono del capo della scorta era gentile, ma in
quel momento Erika l’avrebbe mandato volentieri a quel paese.
Afferrò
l’orologio da taschino che teneva sulla scrivania, si
alzò, controllò che la
maglietta che aveva indossato fosse abbastanza presentabile e
uscì.
I
tre uomini della scorta le si accostarono
immediatamente, ben vigili che nessuno si avvicinasse a lei. La ragazza
era
abituata ad averli attorno, era sempre stato così. Era come
se suo padre
cercasse di nascondere la sua assenza assicurandosi che lei fosse
sempre al
sicuro, ogni volta che usciva di casa. Erika non poteva dire se le
seccasse o
meno, quegli uomini erano simpatici, ma la loro presenza la lasciava
indifferente: il suo rapporto con loro si limitava ad un semplice
scambio di
parole cortesi quando venivano da lei e quando la lasciavano. Per il
resto lei
era miglia e miglia lontana da loro.
Ascoltò
come da dentro una bolla d’aria il rumore
delle portiere che sbattevano, la macchina che si metteva in moto, le
ruote che
sollevavano schizzi d’acqua dalle pozzanghere.
Pensò ad altro: a com’era tutto
più facile prima che la malattia si portasse via sua madre,
a come non era
stata costretta a sopportare i commenti acidi di suo padre, a come si
era
sentita libera di essere se stessa.
Ora
era tutto un altro paio di maniche: a lui non
andavano bene i capelli corti, voleva che indossasse qualcosa di
diverso dai
soliti jeans informali e dalle t-shirt, voleva che
s’impegnasse in politica,
andasse a circoli culturali e si facesse conoscere nella
società. A lei non
poteva importare di meno: i suoi unici interessi erano i libri e la
danza. Non
quella classica, tutù e scarpette come avrebbe voluto suo
padre, ma quella di
strada, break e hip-hop, attività che facevano accapponare
la pelle al suo
beneamato genitore. Inutile dire che gli scontri tra i due erano
all’ordine del
giorno.
L’automobile
si fermò davanti ad un grattacielo che,
in mezzo al grigio della strada, risaltava tremendamente per le enormi
vetrate
senza neanche una macchiolina di sporco. Era pulito fuori
com’era pulito
dentro. Erika camminò lungo corridoi interminabili e
ascensori splendenti. Non
le era mai piaciuto quel posto, sapeva di disinfettante.
Si
aspettava di trovare suo padre in ufficio, seduto
dietro la sua scrivania ricoperta di scartoffie. Invece lui
uscì, tutto
impettito nel suo nuovo completo blu, da una porta laterale, con tre
collaboratori alle calcagna che ripetevano numeri e altre frasi per lei
incomprensibili. Lo osservò sconvolta mentre le si
affiancava e le appoggiava
una mano sulla spalla: qualcosa in quel gesto le diede tremendamente
fastidio
e, se non fossero stati davanti a tutti, si sarebbe volentieri scansata.
*
<
Sei pronto?>
Spense
la sigaretta sul muricciolo di cemento e
riprese in mano il binocolo: erano quasi al punto segnato, solo pochi
metri più
in là. Avevano preparato tutto con cura in quegli ultimi
giorni e, lo sapevano
entrambi, non ci sarebbero stati errori.
<
Vodka, ci sei?>
<
Sì, aniki… tutto pronto.>
Gin
sorrise. Sapeva che anche il suo compare stava
sorridendo come lui. Stava andando tutto alla perfezione: un passo, un
altro
ancora, tre metri, due…
<
Ora.>
Dall’altro
capo della linea sentì il “click” del
dispositivo che veniva azionato. E poi venne il finimondo.
*
<
Oh, eccola là! Non è carina? Eh, Jigen?
Eh?>
Se
non avessero dovuto mantenere un basso profilo,
Daisuke avrebbe volentieri preso a calci quell’idiota del suo
collega.
<
L’hai già vista, quella ragazza. E’ da
giorni
che non fai altro che sventolare la sua foto e a sbavarci
sopra.> rispose
brusco, chiedendosi come facesse a sopportare quel lato da maniaco del
suo
compare.
<
Ma dal vivo è diverso! Guardala, che cara, non
ha un faccino adorabile?>
<
Smettila, Lupin! Ci sentiranno.> Non si
sarebbe messo in quel momento a discutere sul fatto che qualsiasi
donna, per il
più famoso ladro del mondo, era una sorta di dea, sapeva di
aver già perso in
partenza. Ma già stavano camminando come se nulla fosse in
quel maledetto
grattacielo, l’ultima cosa che voleva in quel momento era
trovarsi di fronte la
security o quegli omaccioni che scortavano la nuova inconsapevole
fiamma di
Lupin.
<
Di chi è che stai parlando?!> La voce acuta
di Fujiko colpì dritto al timpano attraverso
l’auricolare e l’uomo
s’immobilizzò d’un tratto, passandosi
nervosamente la mano dietro la testa.
<
Ma di nessuno, cherì, cosa vai a pensare?>
Jigen
non ascoltò l’irritante risposta della donna.
Non seppe mai se aveva effettivamente risposto; c’era stato
un movimento, sul
palazzo di fronte, un qualcosa che aveva luccicato dal tetto
dell’edificio
dirimpetto al loro. Aggrottò le sopracciglia e di nuovo il
brutto presentimento
fece la sua comparsa.
Si
voltò d’un tratto e un pensiero gli
attraversò la
mente: Lenher e i suoi uomini erano una ventina di metri davanti a
loro. Un
nuovo movimento alla sua sinistra, di nuovo quel luccichio.
Guardò Lupin e vide
che ricambiava il suo sguardo, improvvisamente serio. Poi quella lucina
rossa
lampeggiò tre volte e Jigen capì. Troppo tardi.
*
Lasciò
andare avanti suo padre, stanca di quella
mano che le pesava sulla spalla. Rallentò un poco,
avvicinandosi all’ultimo
uomo della sua scorta, giusto per scambiare due parole. Poi non
capì più
niente.
L’esplosione
fu tanto violenta quanto improvvisa.
Erika si sentì sbalzare contro un muro, picchiò
di schiena, cadde in avanti. Un
secondo boato e qualcosa la colpì alla testa. Le ci volle un
attimo per capire
che quella cosa era il pavimento: sentiva un rigagnolo di sangue
colarle tra i
capelli, lungo la fronte, davanti ad un occhio, il mondo che diventava
rosso.
C’era un corpo che l’ancorava al suolo, forte,
muscoloso e terribilmente
immobile.
Il
boato continuava ad echeggiare nelle sue
orecchie, ma attorno a lei tutto era d’una calma irreale: il
corridoio, così
impeccabilmente pulito fino a qualche minuto prima, era completamente
coperto
di bianco, calcinacci, intonaco e materiale di vario genere.
C’erano corpi lì
attorno, pozze rosse che s’allargavano sulle piastrelle, urla
che le sembravano
lontane mille miglia.
Finché
qualcuno non spostò il corpo che le pesava
addosso e la prese per un braccio. Fece in tempo a riconoscere
l’uomo della
scorta che le era accanto mentre camminava, poi cacciò un
urlo e girandosi
verso quella mano estranea colpì il più forte
possibile. Il suo gomito urtò
contro quelle che verosimilmente erano costole.
<
Ahio!> Guardò stupita quell’uomo con la
faccia da scimmia che si teneva lo stomaco con le braccia. Non sapeva
cosa
stava facendo, ma prima che qualcosa, qualsiasi cosa, accadesse, si
alzò e
cominciò a correre. Saltò due corpi ammassati uno
affianco all’altro, due dei
collaboratori che stavano parlando con suo padre.
Lui
era lì, un metro più avanti. Lo riconobbe per un
lembo della giacca, l’unica parte dell’abito che
non fosse ricoperta di una
patina bianca: era blu, il colore del completo nuovo di suo padre. Il
resto del
suo corpo era davvero difficile riconoscerlo. Non ci provò
neppure. Superò
anche lui, una morsa che le stringeva lo stomaco, la testa che pulsava
all’impazzata. La gamba sinistra le faceva male, come la
ferita che si era
procurata sbattendo il capo contro il pavimento e che continuava a
sanguinare.
Dietro
di lei sentiva urla di uomini. Non osò
guardarsi indietro neanche per controllare se la stavano seguendo o
meno. Poi
qualcosa fischiò accanto al suo orecchio e per poco lei non
cadde in avanti.
Un’altra pallottola partì nella sua direzione, la
sentì sfrecciare a pochi
centimetri dal suo ginocchio; una parte del suo cervello la
informò che gli
spari non venivano da dietro di lei, ma dalla sua sinistra. Non
guardò neanche
in quel momento. A dieci metri da lei si trovava la porta che dava
verso le
scale d’emergenza.
Altri
due proiettili cercarono di colpirla, ma prima
che il tiratore potesse aggiustare la mira, lei era già
oltre la porta e
scendeva le scale due a due, la sua gamba che implorava
pietà, il mondo attorno
a lei che girava all’impazzata.
Poi,
senza rendersene conto, sbatté contro qualcosa
di duro, sentì delle braccia che le stringevano la vita.
Urlò fino a che tutta
l’aria che aveva nei polmoni non uscì. Poi
sentì le forze venirle meno ed Erika
s’accasciò, priva di sensi.