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Autore: Silvar tales    01/12/2012    2 recensioni
Tramortito, Deidara tentennò due passi in avanti e trovò sostegno nel tronco di una quercia.
Aveva gli occhi sbarrati e il respiro corto, come se stesse fuggendo dalla carica di una belva aizzata.
Era bagnato dalla testa ai piedi, i vestiti gli si appiccicavano addosso, l'acqua gli gocciolava dalla testa al naso e lungo il mento.
Incapace di sostenere oltre la forza con cui quel torrente di ricordi l'aveva investito, si accasciò a terra, incurante di sporcare i jeans nel fango.
“Deidara, ti senti bene?”
[Seconda classificata al contest "Naruto... All Stars!" indetto da Shark Attack]
[15° classificata al contest "Shock Me Now!" indetto da RedLolly]
Genere: Malinconico, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Yaoi | Personaggi: Akasuna no Sasori, Deidara | Coppie: Sasori/Deidara
Note: AU, Lime | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Nessun contesto
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La Valse







Capitolo 1. Le Monde




All'inizio era rimasto un po' interdetto, titubante e restio a muovere un altro passo.
Ma poi non aveva più saputo resistere ai gingilli appesi dietro la vetrina.
Due minuti dopo quei pochi spiccioli che gli rimanevano erano buttati al vento, e un collare in pelle nera con borchie di ferro si era aggiunto al suo vestiario.
Se Lucy avesse saputo che sprecava denaro in quel modo l'avrebbe come minimo cacciato di casa, o peggio avrebbe meditato su come porre fine alla sua esistenza parassitaria.
Ricordava ancora nitidamente la sua reazione quando, un'ora dopo aver ricevuto la magra paghetta settimanale, era tornato dal parrucchiere e al posto dei suoi bei capelli biondi le aveva fatto trovare una cresta alta dieci centimetri, di un verde elettrico, inutilmente nascosta sotto il cappuccio della felpa.
Lucy Lùtair, di origini britanniche, isterica premurosa e soprattutto umile impiegata al ricovero di scartoffie delle poste centrali, era sua madre, ovvero l'unico parente che aveva al mondo.
Non che gli altri fossero morti o scomparsi in qualche modo, semplicemente ignorava chi fossero. Un bel giorno, lei si era vista la pancia gonfiarsi gradualmente, i seni ingrossarsi e i capelli farsi più belli e forti. E infine, aveva messo alla luce un bambino, un maschietto biondo e sano di nome Deidara. Così gli aveva raccontato, finché la storia poteva reggersi in piedi, sostenuta dall'ingenuità di un bambino di cinque anni. Ma crescendo, Deidara si era messo a fare domande sempre più dirette, perplesso del fatto che la mamma avesse fatto tutto in solitaria, quella mamma con una crespa capigliatura rossiccia e due piccoli occhi grigi.
“Come mai, Lucy?” Chiedeva pieno di curiosità, con le mani legate dietro la schiena. “Perché ti ha fatto un angelo”, rispondeva lei colma di un affetto prorompente. “Gli angeli non hanno forse quell'aspetto?”
Deidara scuoteva la testa, per nulla convinto.
“No, non è vero”, scappava via e non si faceva più acchiappare per il resto della giornata.
Ma i bambini crescono fin troppo velocemente, nel giro di pochi attimi passa una vita e si ritrovano con diciott'anni alle spalle, belli formati, sbadati, con gli ormoni alle stelle e uno spiccato desiderio di distruzione.
Così questo ragazzo, che ha sempre nome Deidara, si sedette sul bordo scrostato di una panchina e si accese una sigaretta, riparando la fiamma dell'accendino con una mano.
Con una smorfia, gettò una nuvola grigia fuori dal naso e dalla bocca, per poi aspirare altra nicotina. Strizzò gli occhi per il sole forte, l'accecante luce bianca di mezzogiorno gli aveva rovesciato una pesante stanchezza addosso.
Nessuno l'avrebbe rimproverato se si fosse coricato un momento, e anche nel caso qualcuno l'avesse fatto, l'avrebbe molto semplicemente mandato a quel paese.
Il Bois de Boulogne era come sempre zeppo di visitatori e macchine fotografiche, e di bambini urlanti ed eccitati. Qualche volta avrebbe preferito la quiete di una qualche casupola immersa nella campagna francese, piuttosto che la frenesia di Parigi.
Ma a Parigi si trova la droga a poco prezzo, ma Parigi è zeppa di muri bianchi da imbrattare, ma a Parigi trovi sempre un angolo buio dove pisciare dopo esserti sbronzato, gli fece nell'orecchio la classica voce coscienziosa. Qualche volta le passava il mal di gola.
Sì è vero, le rispose Deidara non riuscendo a contenere uno sbadiglio, nessuno mi porterà via da qua.
Aprì le labbra screpolate di una fessura per soffiare nuovamente via il fumo.
Era un'altra di quelle cose che faceva fatica a sostenere economicamente, il fumo, così come altri attentati alla sua pelle quali piercing e tatuaggi, il classico binomio del classico sfattone barra drogato di strada - secondo gli impettiti che mangiavano pregiudizi e respiravano solo per storcere il naso.
Di quel passo avrebbe dovuto trovarsi un lavoro, il tempo libero certamente non gli mancava.
Non era interessato allo studio, ma non avrebbe potuto abbandonare del tutto l'istruzione.
Per avere qualche speranza lavorativa più dignitosa di quella della madre, avrebbe dovuto raggiungere almeno il traguardo del diploma. Tuttavia, si sentiva autorizzato a svagarsi liberamente nei pomeriggi e nei fine settimana, ed a saltare ore di lezione quando e quanto più gli aggradava. Essere maggiorenni prima del tempo era una gran comodità.
Scacciando questi e altri pensieri che gli assediavano la mente, raggiunse con una mano il lettore scassato riposto nella tasca dei jeans, azionò la modalità random e tentò di rilassarsi, stendendo meglio la spina dorsale sul pianale rugoso della panchina. I tasti di quell'aggeggio si inceppavano e lo schermo era graffiato, ma non aveva certo i soldi per comprarne un altro. Quello l'aveva trovato per terra, proprio nei dintorni. Probabilmente aveva visto almeno un acquazzone e una grandinata.
Ascoltando il ronzio di quegli accordi strozzati Deidara finiva per giungere a tante conclusioni, una più o meno azzardata dell'altra.
La vita era una turbina. Una turbina che faceva rumore e basta.
Girava a vuoto per far funzionare qualcosa di più grande, ma alla fine non arrivava da nessuna parte. Era solo un ciclo, perpetuamente fermo al principio e alla fine.
L'unica soluzione possibile era coprire il rumore con qualcos'altro di più rumoroso, e che fosse anche un minimo melodico.
Soddisfatto delle proprie ridicole pillole, Deidara spinse il dito sul tasto del volume per portarlo al massimo.
L'artista - o meglio, il ciarlatano che crede di esserlo - deve almeno avere la coerenza di vivere orientato sulla linea delle proprie coordinate.

L'orologio segnava le sei, e la playlist era ricominciata da capo per la terza volta.
Deidara si esibì in un vistoso sbadiglio, stropicciando gli occhi e drizzandosi a sedere. Mosse gli anfibi nella ghiaia mettendo in fuga due passerotti che zampettavano lì vicino, e inaspettatamente un ciao ovattato gli raggiunse le orecchie.
“C-ciao”, disse d'istinto voltando la testa, e trovandosi faccia a faccia nientemeno che con Sasori. Era seduto sulla sua stessa panchina, probabilmente in attesa che uscisse di letargo.
Deidara si affrettò a togliersi le cuffie dalle orecchie e a rispondere più dignitosamente.
“Ciao”. Non era entusiasta di vederlo.
Sasori era un suo compagno di classe, e tutto ciò che aveva a che fare con l'ambiente scolastico suscitava in Deidara una discreta antipatia.
Il guaio di Deidara era che lui non frequentava una scuola di poveracci, dove invece sarebbe dovuto stare; gli studenti dell'istituto Molière erano per la maggior parte riccastri e figli di papà, che avevano in testa solo carriera e studio, studio e carriera.
Due parole che Deidara avrebbe ben volentieri eliminato dal vocabolario.
“Che ascoltavi?”
God save the... sì, quella”, rispose lui soprappensiero, come fosse la cosa più ovvia del mondo.
E in effetti, anche se comunemente si dice che non bisogna giudicare dalle apparenze, bastava dargli un'occhiata per capire che gusti avesse.
I piercing visibili gli bucavano il viso sul sopracciglio destro e sul labbro, e assediavano entrambe le parti superiori delle orecchie; con quest'approccio lasciava vivamente intendere che ne avesse altri, da qualche altra parte.
Infatti, i primi che Deidara aveva portato a casa erano stati quelli che avrebbe potuto nascondere facilmente.
Fin quando si dimenticò di tenere la bocca chiusa, e si lasciò andare ad uno dei suoi sbadigli preferiti proprio davanti agli occhi di Lucy.
Quella pallina argentata, che spiccava sul rosa spugnoso della lingua, saltava fin troppo facilmente alla vista. Anzi, diciamo pure che persino una talpa senza occhiali l'avrebbe notata.
E così, fuori uno.
Non ricordava per quanto mamma avesse sbraitato e saltellato in preda a carenze d'ossigeno alternate ad urla isteriche, ma ricordava nitidamente che, una volta calmatasi, lui aveva sperato in un armistizio duraturo. Nulla di più sbagliato.
La sera stessa era entrata con fare minaccioso in quello sgabuzzino che lei chiamava la camera del suo bimbo, e con ansia evidente e malcelata gli aveva ringhiato un “Tirati. Giù. Le mutande”.
E così, fuori due.
Dopo aver perso parzialmente l'udito, essersi beccato un piatto in testa, ed essere stato messo a digiuno per tre giorni, Deidara si convinse di aver toccato il fondo, e che peggio di così non poteva andare. Perciò, finito il periodo di reclusione, tornò dalla sua bottega di fiducia, una di quelle low-cost che si permetteva di risparmiare sulle norme igieniche.
Quando si ripresentò sulla soglia di casa, con quegli anelli che gli spuntavano sul viso, Lucy semplicemente sospirò scoraggiata, prima di lasciarsi andare in un pianto isterico chiedendosi cosa mai avesse sbagliato nella vita per aver cresciuto un figlio così duro di comprendonio.
Ma ormai il danno era fatto.
A cosa sarebbe potuta servire un'altra punizione?
Dopo essersi guadagnato due miseri schiaffi in faccia, Deidara semplicemente continuò a combinare i suoi guai preferiti, e a spendere soldi dove li aveva spesi prima.
Continuò a modificare, intagliare, bucare e colorare il suo corpo, come fosse una tela bianca da dipingere.
Sai perché fai tutto questo? lo aveva provocato una volta Erik, un suo compagno di classe con poco sale in zucca, perché non hai uno straccio di personalità, frocio!
Deidara aveva reagito con diplomazia e compostezza, esattamente com'era abituato a fare.
Vuoi una mia prova di personalità? aveva urlato al povero Erik, più piccolo e più mingherlino di lui, che in un battibaleno si era ritrovato appeso al muro per la collottola, e per poco non aveva incassato un pugno sul naso.
Cadde un silenzio pressante.
Naturale, pensò infastidito Deidara. Anche sforzandosi, non riusciva a trovare un solo argomento di conversazione che non risultasse ridicolo o fuori luogo.
Sasori era un anonimo compagno di scuola, non capiva il motivo per cui dovesse stargli appresso, cercarlo o tentare di parlargli. Ed era ormai un mese che si comportava in quel modo.
“Va bene, allora ciao”, disse infine lui tirando su col naso, e fece un gesto inaspettato.
Si piegò verso Deidara e gli appoggiò le labbra sulla guancia, toccando la pelle ruvida di quel poco di barba che gli stava crescendo. Il suo odore di deodorante misto a fumo non era cambiato, fece appena in tempo a percepirlo prima di venire respinto.
“Che fai?” lo aggredì Deidara, lasciandosi sfuggire una smorfia di disgusto.
“Scusa, non l'ho fatto apposta”.
Sul suo viso comparve un sorrisetto antipatico ma profondamente malinconico. Era sincero.
Deidara lo guardò allontanarsi, sentendo una strana sensazione invaderlo. Era come se in testa gli ronzassero delle voci che non riusciva a distinguere tra loro.
Eppure il suo lettore musicale era spento.

La sera tornò a casa tardi, distratto dai suoi stessi pensieri. Trafficò con le chiavi per due minuti prima di riuscire ad aprire la porta, le mani gli tremavano. Lucy doveva essere in pensiero, non si era nemmeno curato di avvisarla con una telefonata.
“Mamma?”
Non ricevette risposta. Stava per chiamarla una seconda volta, quando si fermò. Udì dei singhiozzi, un lamento sommesso colmo di angoscia e di ricordi, e intravide una lama di luce sbucare da sotto la porta della cucina. Incuriosito e con il cuore in gola, si avvicinò e vide attraverso il vetro opaco la figura della madre, china sul tavolo.
Non seppe ben definire la sensazione che provò, era qualcosa di inaspettato. Non era abituato a vedere Lucy in una condizione di debolezza, lei era sempre stata una sagoma forte, decisa ai suoi occhi. Se le lacrime erano arrivate a bagnare persino il suo viso, allora il loro mondo doveva essere sul punto del crollo. Era un gemito, ma sufficiente ad abbattere le colonne d'Ercole dell'universo fittizio nel quale Deidara viveva.
Incapace di affrontare il dolore - qualunque esso fosse - della madre, e sentendosi in colpa per questo, Deidara si rifugiò nella propria camera, ritrovandosi a tu per tu con i suoi libri e la sua penombra. Uno scaffale intero di volumi che non aveva mai letto, ma che eppure erano consumati ed avevano le orecchie alle pagine. Questo era un altro dei particolari a cui non dava importanza, oppure era un'altra di quelle voci che si rifiutava di ascoltare.
Prese un libro a caso dalla mensola, e gli capitò tra le mani la Coscienza di Zeno, uno di quei romanzi noiosi con doppie e triple interpretazioni che gli erano stati commissionati dal professore di francese.
Lo scartò senza farsi troppi problemi, appoggiandolo sul comodino.
In quel momento Lucy fece irruzione nella sua camera, e per la foga con la quale entrò Deidara si aspettò subito un rimprovero. Invece no.
“Quando sei tornato?” chiese con voce leggermente stridula.
“Cinque minuti fa”, rispose il figlio alzando le spalle. Studiò circospetto il viso della donna, cercando occhi rossi, righe secche, tracce di quell'insensato pianto che era certo di aver udito.
“Hai mangiato? Ti preparo qualcosa?”
“No sono a posto, grazie”, concluse Deidara afferrando il libro che aveva appena scartato ed iniziando a leggerlo al contrario.
Lucy non aggiunse altro ed uscì dalla stanza, accompagnandosi la porta dietro di sé.
“Sai, mamma, oggi un ragazzo mi ha baciato... è stato stranamente normale, come se lo avessi già fatto un milione di volte, come se lo conoscessi a pelle, eppure io di lui so a malapena il nome”, disse fra sé Deidara non appena fu solo, aprendo le labbra di una fessura.
Era diventato incapace di comunicare con il mondo esterno.





Continua...

   
 
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