Buonasera mio unico e
impareggiabile fandom!
Grazie un mondo a tutte per le recensioni alla MorMor, appena
riuscirò
risponderò a tutte, giuro!
Questa cosa è una
sdolcinata,
zuccherosa, pienadiamoreuniversale
storiella senza pretese, scritta in un momento allegro. E
sì,
scritta anche per ‘colpa’
(altro che
colpa, li amo tanto) del mare di bambini da cui sono circondata, quando
sono in
famiglia.
Inoltre, questa fic
è per Jessie
che mi ha ispirata con le sue bellissime storie fluff, e Nat
che ho troppo a lungo tormentato con angst in tutte le sue forme!
Sperando in bene, vi auguro buona lettura!
S.
Turnabout
*
A Sherlock Holmes i
bambini non erano mai piaciuti, o almeno, non particolarmente.
E più lui si ostinava a dire che non gli interessavano poi
tanto, che avrebbe
potuto tranquillamente evitare di andare a trovare la zia Ginny, che
aveva
appena partorito uno splendido
maschietto
di tre chili e mezzo, risparmiandosi quindi di conoscere il tanto
atteso
cuginetto, più i suoi genitori si ostinavano a volercelo
trascinare.
Inoltre, e quello avrebbe rappresentato sempre un enorme mistero per
Sherlock,
non capiva perché una notizia semplice come la nascita di un
bambino portasse
con sé tutto quel trambusto e quel chiasso immane; nascevano
bambini ogni
giorno e in ogni parte della Terra, ma non per questo sei miliardi di
persone
sentivano la necessità di riversarsi sulle strade facendo
quel baccano infernale
e annunciando in giro la lieta novella.
Nemmeno scervellandosi con
tutta la sua buona volontà ci sarebbe mai arrivato, nemmeno
da grande, neppure
da adulto.
O almeno, così Sherlock aveva
sempre creduto.
Londra
St. Mary’s Hospital
Primavera 1990
Alla fine, dalla zia Ginny ci era stato portato con la forza.
La stanza d’ospedale, ovviamente privata
perché ‘un Holmes
è sempre un Holmes’,
era un tripudio di fiocchetti azzurri, orsacchiotti merlettati e
palloncini
bianchi su tutto il soffitto: un insieme talmente zuccheroso che
Sherlock sentì
un principio di nausea solleticargli fastidiosamente lo stomaco, appena
entrato.
“E’ stato un parto
meraviglioso!” sua zia squillò
all’improvviso, battendo le mani come una di
quelle scimmiette giocattolo esposte da Hamleys.
“Così emozionante!”.
Sherlock storse il naso appena udì quel particolare,
cercando di immaginare
cosa ci fosse di così idilliaco in un parto. Sapeva come
funzionava, era stata
un’agghiacciante scoperta di qualche mese prima, e non
pensava esistesse
termine meno adatto di ‘meraviglioso’
per definire una cosa del genere. Sherlock avrebbe voluto chiudere gli
occhi e
tornare a quand’era convinto che i bambini venissero
trasportati da grossi
uccelli direttamente alla finestra della mamma predestinata.
Il clou dell’azione
però, era in
corso attorno alla culla del bambino. Oh, Sherlock avrebbe avuto
quell’immagine
stampata in testa per il resto della sua intera vita.
C’era un gruppo assortito di gente raggruppata sulla culla
del nuovo arrivato,
tutti chini sul pargolo, che Sherlock non era ancora riuscito nemmeno a
scorgere, e tutti intenti nello
straziare le povere orecchie di Sherlock emettendo una specie di
miagolio
stridulo, un sibilo molto ma molto simile alle sue prime esercitazioni
al
violino, quando era molto più piccolo.
Un’infinità di mani accarezzava
guanciotte, stuzzicava nasini e scompigliava ciuffi di capelli e
Sherlock si
domandò per quale grazia divina quel povero bambino non si
fosse ancora messo a
piangere dalla disperazione. Meditò la
possibilità di infilarsi sotto le gambe
di qualcuno, la stanza si era ulteriormente riempita negli ultimi
cinque
minuti, e scappar via a gambe levate. Non gli sarebbe dispiaciuto dare
un’occhiata ai laboratori, magari.
Peccato che sua zia, arzilla e rubiconda in volto –non era
per nulla affaticata
o stanca, ovviamente- avesse per
lui
piani decisamente diversi.
“Facciamo spazio a quel piccolo genietto del mio
nipotino!” la voce squillante
della zia sovrastò quella dei presenti, che puntarono,
naturalmente, tutti gli
occhi sul povero Sherlock.
“Facciamogli conoscere il cuginetto!” aggiunse,
afferrandolo per una mano e
portandolo verso la culla drappeggiata di nastrini azzurri. Lo
esortò poi a
salire sul letto, Sherlock cercò di ignorare completamente
gli sguardi puntati
su di sé, e a sporgersi oltre il comodino per guardare
meglio.
Il bambino era…un bambino.
Era sul punto di addormentarsi, almeno questo spiegava la sua scarsa
reattività
a quel continuo stuzzicarlo, e aveva uno dei due pugnetti paffuti
appoggiato
sulle labbra piccole e socchiuse. Il naso era piccolo e leggermente
all’insù e
le gambette grassottelle fasciate in una tutina bianca si muovevano
pigramente
su e giù. Gli occhietti vispi e neri del piccoletto si
fissarono in quelli di
Sherlock, curiosi.
“Dolcissimo, vero?”.
Sherlock non capiva cosa ci fosse di tanto emozionante o tanto dolce in
quell’esserino urlante e sempre affamato che presto o tardi
sarebbe diventato
un bambino, un ragazzo e poi un uomo come chiunque altro. Insomma, da
lì a poco
avrebbe cominciato a strillare fino a infrangere la barriera del suono,
ad aver
fame a ogni ora della notte e ad aver bisogno di un cambio pannolini
almeno
dieci volte al giorno. Dov’era, tutta quella dolcezza? Al
solo pensiero di
cambiare un pannolino, Sherlock rabbrividì.
“Dolce, sì” Sherlock si costrinse a
dire, con un sorriso fintissimo che per
fortuna convinse sua zia.
“Non è un amore, eh? Un piccolo e tenero amorino
della mamma?” sua zia si
avvicinò a lui e prese a solleticare il pancino del piccolo,
con un sorrisetto
beato in viso.
Sherlock si domandò perché si ostinasse a non
lasciar dormire in pace quel
povero innocente, e restò a guardare sua zia con espressione
ebete e una voglia
sconfinata addosso di evaporare. I
presenti lo guardavano come se fosse un gigantesco orsacchiotto rosa di
peluche, aspettando la sdolcinata reazione da parte sua che sembrava
d’obbligo
in quella situazione.
“Sì, sì, proprio un…
amore” Sherlock disse tra i denti, senza nemmeno dare tanto
peso al significato
della parola. Non era stato convincente per niente, ne era consapevole,
e la
sua espressione si era avvicinata più a una diffidente tolleranza, più simile a un
contentino che a un sincero
apprezzamento, ma Sherlock non poteva farci nulla.
La cosa importante era che
l’attenzione su di lui si placasse il più in
fretta possibile così che lui
potesse sgattaiolare lontano e tornare a far finta di trovarsi nella Ammiraglio Benbow in cerca della mappa
di un tesoro¹, invece che in quell’affollata stanza
d’ospedale.
Sua zia distolse per un
secondo l’attenzione da suo figlio e tornò a
Sherlock, guardandolo con un misto
di circospezione e stupore, come se si stesse domandando se magari suo
nipote la
stesse leggermente prendendo in giro. Alla fine, sembrò non
prendere la cosa
troppo sul serio.
Guardò Sherlock,
allungando una mano per scompigliargli i capelli già
disordinati e gli sorrise,
melensa, gli occhi illuminati da un luccichio che Sherlock non
poté fare a meno
di trovare vagamente inquietante.
“Non vedo l’ora di
esserci, quando avrai un bambino tutto tuo, Sherlock caro” la
donna esordì, e
Sherlock ammutolì, guardandola atterrito come se
l’avesse appena minacciato di
chissà quale atroce crudeltà.
Boccheggiò, non riuscendo nemmeno a pensare a
un’eventualità
simile, e ancor prima che Sherlock potesse dire qualcosa, uno strano
stridio
soffocato interruppe i suoi pensieri.
Il ragazzo guardò in fondo
alla stanza, già prevedendo chi avrebbe incontrato, e vide
Mycroft intento a
trattenere con tutte le sue forze una grassa e sarcastica risata.
La madre di Sherlock lo
fulminò con gli occhi e gli diede un calcio nello stinco da
dietro il tavolo,
che sembrò bastare a Mycroft per tornare semi-serio e
abbozzare un’espressione
pentita. Sherlock però sapeva dentro di sé che
Mycroft se lo sarebbe legato al
dito.
“Cosa c’è di così
divertente, Myc?” sua zia chiese, ingenuamente. Lo fissava,
sinceramente
curiosa.
Mycroft chiuse gli occhi,
concentrandosi con più forza di volontà per non
rimettersi a ridere e guardò la
zia con lo sguardo innocente più fasullo che Sherlock avesse
mai visto.
“Oh nulla, cara zia”
Mycroft rispose, con un sorriso zuccheroso che costrinse Sherlock a
distogliere
lo sguardo. “Stavo solo immaginando quali meravigliosi e
teneri bambini
potrebbero nascere da uno come Sherlock”.
Il fratello più piccolo
tornò a fissare il maggiore, con uno sguardo tagliente che
avrebbe potuto
facilmente spaccare in due il comodino di legno accanto al letto, se
solo ci si
fosse concentrato.
“Oh, Myc sei adorabile” la
povera Ginny non sembrò accorgersi di nulla, nonostante
l’espressione
esasperata di sua cognata, la madre dei due, fosse più che
eloquente. “E’ vero.
Saranno davvero carini. E intelligentissimi” preda della
stretta della zia,
quella volta fu lo zigomo paffuto del povero nipote.
“E con un carattere
meraviglioso” aggiunse ancora Mycroft, guardando suo fratello
con un’occhiata
acida. “Adorabile”.
Zia Ginny annuì nuovamente
mentre Sherlock continuò a tener fissi gli occhi in quelli
di suo fratello,
meditando la miglior vendetta che avrebbe potuto attuare una volta
tornati a
casa.
“Ovviamente” Sherlock rispose.
Non sarebbe rimasto zitto a subire. “Ma mai quanto quelli che
avrai tu,
Mycroft”.
Suo fratello si mise sulla
difensiva, digrignando i denti e socchiudendo le palpebre, con gli
occhi di un
felino di fronte alla sua cena.
“Naturalmente” rispose suo
fratello, come se fosse ovvio, come se Sherlock stesse sottolineando
qualcosa
di scontato.
“Chissà, magari
prenderanno tutto da te” Sherlock continuò. Fosse
mai che subisse una presa in
giro senza reagire in alcun modo, figurarsi poi, se la provocazione era
ad
opera di suo fratello.
“Troppo buono…” Mycroft
sibilò, dando l’impressione di volergli saltare al
collo da un momento
all’altro. Come se non avesse cominciato lui, poi!
“Chissà se nasconderanno anche
loro la scorta di muffin sotto la-“ Sherlock non fece in
tempo a finire la
frase che Mycroft fu su di lui, prendendolo in braccio e sollevandolo
di peso
dal letto.
“Forse è ora di andare a
casa, fratellino, cosa dici?” Mycroft esclamò,
fintamente allegro. “Non avevi
un po’ di… compiti da fare?” la voce di
Mycroft lasciò la sua bocca più
stridula e comica del solito, come se volesse obliare completamente il
discorso
di poco prima concentrando l’attenzione dei presenti su
tutt’altro.
“E’ stato bello, zia
Ginny, e il cuginetto è stupendo” Mycroft aggiunse
e la donna sorrise, incerta
su cosa pensare. “Prendiamo il bus, mamma. Arrivederci a
tutti!”.
Lo sguardo di Mamma Holmes si rilassò, come se si fosse
tolta un gigantesco
peso dal cuore.
Sherlock, nonostante
stesse lasciando l’ospedale trasportato in spalla come un
gigantesco sacco di
patate, tirò un sospiro di sollievo per aver trovato una
scusa, o meglio per
aver stuzzicato tanto suo fratello da spingerlo a manovre drastiche,
per
lasciare quel posto.
“Beh, fratellino” Mycroft
finalmente parlò, mettendolo giù soltanto alla
fermata del bus di fronte
all’Ospedale. “Sei mai ti riprodurrai, io
espatrierò in qualche altro stato”.
Sherlock gli diede una
gomitata nelle costole, che Mycroft parò con un braccio.
Sbuffò, per nulla
incline a continuare quella conversazione, ma non potendo rimanere in
silenzio
davanti alle provocazioni di suo fratello.
“Non reggeresti
all’eventualità che un bambino possa rivelarsi
molto più intelligente di te addirittura
appena nato?”.
Mycroft gli sorrise,
acido.
“Oh no. Più che altro
perché sono costretto già a sopportare
un solo te adesso, e non so se la
mia
mente e il mio corpo reggerebbero un’altra tua copia in
miniatura”.
Mycroft parò in corner un
altro colpo, bloccando il pugno di Sherlock con la sua mano, con
un’agilità che
lascio Sherlock interdetto.
Il più piccolo puntò i piedi
sull’asfalto e lo guardò, imbronciato.
“Sempre meglio di quei
bacchettoni, noiosi ed egocentrici poveretti che verrebbero fuori da
te”
rincarò la dose, per nulla deciso a dargliela vinta.
Mycroft si sporse ad
aspettare il bus, con un’espressione spazientita in viso che
lo faceva sembrare
al limite della sopportazione.
“Che visione pittoresca,
Sherlock” Mycroft lo canzonò. “Ma magari
prenderanno tutto dalla donna
meravigliosa che sposerò”.
Sherlock si morse il
labbro per non scoppiare a ridere a crepapelle nel bel mezzo di una
strada e tra
il viavai di pazienti, parenti e medici in pausa.
“Penso ci siano più
probabilità che la Terra cominci a girare al
contrario” il fratello minore
infilò le mani in tasca e fissò suo fratello
negli occhi.
Mycroft alzò una mano,
probabilmente intenzionato a selezionare mentalmente su quale parte del
corpo
di suo fratello lasciarla atterrare, quando cambiò idea e la
lasciò a
mezz’aria, portandola a scompigliarsi i capelli impomatati.
Una strana
espressione comparve sul volto di Mycroft, come una sorta di vittoriosa
consapevolezza, come se avesse improvvisamente trovato
un’arma di rivincita
contro le battute velenose di suo fratello.
“Oh beh, se proprio vuoi
saperlo io ho una ragazza interessata, a scuola” Mycroft
disse, strafottente.
“Ed è molto carina”.
Sherlock trattenne ancora un
risolino sarcastico.
“Oh sicuro” assecondò
Mycroft. “Tenendo conto che, secondo i tuoi canoni di
bellezza, una ragazza carina
assomiglia più o meno a Margaret
Thatcher nei suoi tempi d’oro, è tutto
dire”.
Mycroft lo guardò a bocca
spalancata e Sherlock si salvò da un sicuro e sonoro
schiaffo in piena faccia
soltanto dallo spuntare improvviso del loro bus rosso in fondo alla
strada.
Mentre occupavano posto,
ahimè l’uno accanto all’altro, Mycroft
porse il suo biglietto a Sherlock
lanciandoglielo in malo modo, poi incrociò le braccia.
“Almeno qualcuno ce l’ho,
Sherlock” continuò, e Sherlock gettò
gli occhi al cielo, esasperato. “Tu
invece, non avrai mai nessuno a causa di quel carattere che ti ritrovi.
Men che
meno bambini”.
Sherlock fece spallucce,
guardando fuori dal finestrino la sua Londra sfrecciare stancamente in
un
baluginio di luci al neon e fari d’auto. Le parole di Mycroft
non gli
provocarono assolutamente nessun disagio, anzi, non lo toccarono
minimamente.
Aveva un’idea dell’amore,
aveva
un’idea sui bambini e aveva anche, suo malgrado, ben chiaro
il procedimento di come
l’amore tra due persone portasse ad
avere poi bambini. Lo aveva letto, cercando tutt’altro, su un
vecchio manuale
medico in biblioteca, ed era rimasto talmente sconvolto da rovinarsi
l’appetito
per tre giorni di fila. Al solo pensiero gli si accapponava la pelle.
“Beh, sai cosa ti dico?”
Sherlock disse a suo fratello, certo di coglierlo alla sprovvista.
“Non
m’interessa minimamente di trovare qualcuno. Sto bene
così e sto bene solo”.
Mycroft ridacchiò.
“E i bambini?”.
“Nemmeno per i bambini”
Sherlock incrociò le braccia, scivolando in fondo al suo
sedile. Il bus si
fermò a un semaforo. “Non so perché
pensiate che io li trovi tanto
interessanti. Non mi piacciono”.
“Nemmeno un po’?”.
Sherlock tornò a guardare
fuori dal finestrino.
“Nemmeno un po’. Urlano,
sporcano, mangiano in continuazione e ti fanno diventare
matto” sbottò. “Ed io
giuro solennemente che non ne avrò mai”.
Mycroft ridacchiò ma
rimase in silenzio, probabilmente non trovando nuovi input per
stuzzicare suo
fratello.
Il bus, qualche secondo più tardi, ripartì.
Londra
Inverno
2014
“Non mi
piacciono i
bambini, John” fu il semplice commento di Sherlock alla
richiesta di John. Il
povero dottore non gli aveva chiesto poi tanto, solamente se gli andava
di
accompagnarlo alla piccola festicciola organizzata da Sarah per il
terzo
compleanno del suo bambino, ma Sherlock l’aveva presa come un
invito a salire
sul patibolo.
“Ma cosa c’entra? Dovrai
solo fargli gli auguri, magari dargli un bacio se il Cielo
vorrà concedermi un
miracolo, e poi andare per i fatti tuoi”.
Sherlock si rannicchiò in
posizione fetale sul divano e distolse lo sguardo da John, come offeso
dalla
sola richiesta.
“No, John. Non è così
semplice” fu la sola secca risposta. John si
massaggiò le tempie con due dita.
“E potrei sapere il
perché?” domandò, imponendosi di
rimanere calmo.
Sherlock sembrò perdere attrattiva
per quel qualcosa dietro John che aveva catturato la sua attenzione
fino a
dieci secondi prima e tornò a fissare il dottore negli
occhi, con un lampo
assassino nelle iridi azzurre.
“Perché è una festa di
bambini, John, per quanto Sarah si ostini a dire che ci saranno anche
adulti”
spiegò, come se il sottointeso in quella frase fosse la cosa
più chiara del
mondo.
John respirò profondamente
per infondersi la pazienza necessaria per arrivare alla fine di quella
conversazione.
“E quindi?”.
Sherlock si alzò di
scatto, piombando davanti John come un rapace sulla sua povera preda
innocente
e lo afferrò per le spalle.
“Quindi ci saranno adulti,
ma saranno genitori di altri
bambini, con tutte le probabilità” disse,
trafelato. “Ergo, la festa sarà
piena, anzi strapiena di bambini
dai
tre anni in giù!” il tono di voce di Sherlock era
indignato come se stesse
parlando di qualcosa d’inconcepibile e fuori dal mondo.
John, senza poterlo
evitare e già immaginando l’occhiata truce che
Sherlock gli avrebbe rivolto,
scoppiò a ridere.
“E allora, Sherlock?”
domandò, tenendosi la pancia. “Che
c’è, hai paura dei bambini?”.
L’occhiataccia, ovviamente, arrivò. Inutile, John
lo conosceva come le proprie
tasche.
“Ovvio che no, John” sibilò Sherlock,
aggrappandosi allo schienale di legno
della sedia del dottore. Lo sguardo minaccioso di Sherlock lo fece
meditare
sulla possibilità di scappare e chiudersi a chiave in camera
sua, giusto per
sicurezza.
“E allora?” tentennò, guardando Sherlock
sottecchi.
“E’ solo che…” Sherlock
incominciò e per un secondo sembrò perdersi in
vecchi ricordi. “Non mi
piacciono e basta”.
John rimase in silenzio a guardarlo, tranquillizzandosi enormemente ma
senza
riuscire a fermare un tuffo al cuore di lieve delusione. Aveva pensato
a delle cose negli ultimi tempi,
già immaginando
di dover combattere comunque con Sherlock su alcuni aspetti, ma vedersi
riempire la strada di ulteriori ostacoli non gli rendeva certo la cosa
più
semplice.
“Ma non ti faranno nulla, Sherlock”
provò nuovamente John, già conscio
però del
probabile fallimento. “Insomma… non dovrai starci
tutta la sera. Hai affrontato
cose molto peggiori!”.
Lo sguardo sul viso di Sherlock e il suo cereo pallore, raccontarono a
John una
storia diversa. Nella mente di Sherlock, molto probabilmente, il partecipare a una festicciola di bambini
era giusto un posto sotto a passare
un’intera giornata in compagnia di Anderson.
“Farnetichi, John” fu il commento del detective.
“Cominceranno a volerci
coinvolgere in stupidi giochetti di gruppo ed io sentirò
ognuna delle mie
povere cellule cerebrali morire tra atroci sofferenze”.
“Non ti sembra di esagerare?”.
“Esagerare? Sto minimizzando” Sherlock rispose.
“Ho avuto esperienze, da
giovane. Come con mia zia…” trattenne un brivido
di terrore.
John lo fissò stranito.
“Tua zia?”.
“Quando nacque mio cugino, John” Sherlock
spiegò, seccato, come se John dovesse
per forza saperlo. “Palloncini, fiocchi e merletti
ovunque…per non parlare
dei…cioccolatini, dei cuscini ricamati e
dei…discorsi agghiaccianti”.
John fece schioccare le labbra, guardando altrove. Non valeva la pena
crucciarsi ancora per convincerlo di qualcosa che non avrebbe mai
accettato.
“Va bene Sherlock. Va bene” disse, rassegnato.
Sherlock emise un versetto di vittoria e affondò nuovamente
nel divano,
riprendendo in mano una delle riviste di John.
Il dottore sospirò, annuendo in segno di sconfitta, e
pensando al determinato
argomento che avrebbe voluto introdurre al ritorno dalla festicciola.
Aveva elaborato un intelligentissimo
piano, programmato le parole giuste da dire e addirittura le
espressioni
facciali da assumere. Peccato però, che non avesse fatto i
conti con Sherlock:
chi gli aveva mai assicurato che, anche se ora erano assieme, il
detective si
sarebbe piegato ad ogni sua volontà?
Sbuffò, impotente, strofinando le mani tra loro e pensando a
un piano
alternativo.
Cominciò ad accarezzare l’idea di farlo lo stesso,
nonostante non sembrasse
proprio l’occasione opportuna, ma Sherlock sembrava essersi
calmato e aver
completamente rimosso la conversazione di nemmeno due minuti prima.
Lo osservò attentamente sfogliare la sua rivista medica,
giocherellando contemporaneamente
con la cintura della vestaglia, e si ritrovò a sorridere,
immaginando la sua risposta.
Magari non era il momento adatto, magari –anzi, sicuramente-
la sua reazione
non sarebbe stata delle migliori visto come gli aveva risposto poco
prima, ma poiché
erano in argomento –e soprattutto per ritardare il
più possibile il momento in
cui avrebbe dovuto avvisare Sarah della loro assenza- John decise di
provare
ugualmente. Non aveva senso aspettare un momento
buono con Sherlock, imprevedibile com’era.
“Quindi non… non ti piacciono per niente,
eh?” John buttò lì fingendo
indifferenza. Sherlock si ridestò dalla lettura e punto gli
occhi azzurri in
quelli blu di John.
“Non li odio. Ma li trovo…troppo
impegnativi” pensò un momento.
“E…piangono e…sporcano
ovunque”. John aprì la bocca, sconvolto,
puntandogli contro il dito con fare
accusatore.
“Tu sporchi in continuazione, se è per
questo!”.
Sherlock si sventolò col giornale, gettando gli occhi al
cielo.
“Ma io lo faccio per uno scopo John!”
spiegò, come se fosse la cosa più
semplice del mondo. “I bambini… beh, i bambini lo
fanno per puro…divertimento”.
John gli lanciò addosso un cuscino.
“Sei stato bambino anche tu”.
“Mi sento in colpa per la mia povera madre,
infatti”.
John ridacchiò sommessamente alla sincera pena sul viso di
Sherlock e si
tormentò l’unghia del pollice destro, in attesa di
introdurre l’argomento agognato.
Si fece forza, e prese un respiro profondo.
“Quindi non hai mai pensato a… ad avere
bambini?” finalmente chiese, tutto d’un
fiato.
La reazione che arrivò da Sherlock, poco dopo, fu indefinibile ma molto meno indignata di
quanto John si sarebbe aspettato.
Sembrò…pensieroso
più che inorridito
o spaventato, come se non si fosse aspettato una domanda del genere da
John. Lo
fissò a lungo, studiando ogni particolare del suo viso,
esattamente come il
giorno del loro primo bacio e della loro prima volta, come se volesse
imprimere
a fuoco nella sua mente l’espressione di John in quel
determinato momento. Il
dottore sperò fosse per un buon motivo.
“Figli?” Sherlock domandò, con voce
flebile. Si vedeva chiaramente quanto fosse
combattuto, diviso tra le convinzioni di una vita e quella nuova
inaspettata
domanda.
Era tutta un’altra storia,
rispetto ad una semplice festa.
“Figli, Sherlock” John asserì, con il
sorriso più dolce che Sherlock avesse mai
visto.
Il detective abbassò lo sguardo, chiudendo gli occhi.
“Mi è stato detto che non sarebbe una buona
cosa” Sherlock sussurrò, con un
tono di voce che John non aveva mai sentito. “E poi io te
l’ho detto, non… non
mi piacciono” esclamò, ostentando sicurezza.
“Se mi piacerebbe un figlio…io…
non lo so”.
Voleva sicuramente e a tutti i costi sembrare convincente,
peccato però che desse l’impressione di essere
tutt’altro, al momento.
John annuì comprensivo e si avvicinò a Sherlock,
sedendosi accanto a lui sul
divano e prendendogli una mano nella sua, teneramente.
Guardò il detective,
ancora sorridendo, e pian piano gli si avvicinò, poggiando
la fronte su quella
dell’altro e invitandolo ad alzare nuovamente il viso per
guardarlo negli
occhi.
“C’è una cosa che vorrei chiederti,
anche se sembra folle dopo la conversazione
di poco fa” John esordì e Sherlock lo
osservò con attenzione. “Ti piacerebbe
ascoltarla?”.
L’uomo più giovane guardò un punto
indefinito oltre la finestra, pensieroso, e
sospirò.
L’espressione di Sherlock era spaventata, tesa, estremamente
combattuta come se
nella sua mente fosse in corso una guerra
all’ultimo sangue, ma allo stesso tempo era palpabile la
voglia di ascoltare
ciò che John aveva da dire. Anche se sarebbe andato contro i
suoi saldi –almeno fino a
quel giorno- principi.
Alla fine, strinse a sua volta la mano di John forte, fortissimo,
tornando a guardarlo e sporgendosi a baciarlo
teneramente.
Poi, annuì.
St. Mary’s Hospital
Inverno
2015
John annuì condiscendente e guardò Sherlock,
sorridendo per l’evidente nervosismo
del detective, che mai nella loro
vita insieme aveva visto tanto agitato quanto in quel momento.
Saltellava
continuamente sul posto, prima su un piede e poi sull’altro,
infilandosi le
mani in tasca per poi sfilarle, ravvivandosi i capelli o sistemandosi
convulsamente la fodera della giacca.
“Prontissimi” John disse,
sicuro, anche lui emozionato come raramente gli era successo in tutta
la sua
vita. Prese una mano del suo Sherlock e la strinse nella sua, cercando
di
calmarlo e di rassicurarlo sulla buona riuscita di quella giornata.
La verità era che Sherlock non
era
nervoso. Era semplicemente terrorizzato.
Sherlock non voleva che John rimanesse deluso e, soprattutto, non
voleva che
rinunciasse a qualcosa per causa sua. Il detective aveva accettato
senza che il
dottore avesse dovuto faticare più di tanto,
perché in fondo era John e perché sicuramente
sarebbe stato diverso, perché John sarebbe stato un padre
meraviglioso e
Sherlock non avrebbe mai voluto privarlo di una gioia del genere.
Era andato contro ogni sua convinzione, quando aveva sentito dalla voce
di John
quanto avrebbe rappresentato per lui. Lui aveva ceduto per amore di
John ad un
passo così grande, lui che aveva fatto storie
per una festicciola di bambini.
Si era domandato più volte che fine avesse fatto lo Sherlock
di una volta,
anche se non era affatto certo di voler tornare quello che era,
cercando di
aggrapparsi ad un pensiero razionale, tentando di trovare tutti gli
svariati
–perché ce n’erano, vero?- lati positivi
di quella novità.
Aveva passato notti insonni, il povero Sherlock, a pensare al lato
buono della
faccenda, al fatto che probabilmente in passato fosse stato
ingiustamente prevenuto sulla
questione, senza
realmente sapere cosa si provasse ad allevare un bambino, senza avere
alcuna
prova effettiva che fosse nel giusto. Aveva passato ore a convincersi
che
sarebbe stato bellissimo e che, magari, sarebbe stata una soddisfazione
enorme poter crescere un figlio con
John. Dopotutto, non si credeva nemmeno capace di relazionarsi
a qualcuno fino a qualche anno prima, e adesso era sposato; cosa sarebbe potuto andare
male, con un bambino?
Sì, sarebbe stato
decisamente capace di crescerne uno, magari dopo qualche ricerca e con
l’aiuto
della loro nongovernante Mrs.
Hudson.
Ma la questione che più premeva Sherlock era
un’altra, pressante e terribile.
Il bambino gli sarebbe… piaciuto?
Non in un senso estetico ovviamente, ma per lo più nella
sfera affettiva. E se
non avesse provato niente? Il vuoto assoluto? Il totale piattume dei
sentimenti?
Cosa sarebbe successo, se
fosse accaduto e non fosse riuscito a fingere? E se John lo avesse
abbandonato?
E se quel bambino ne avesse dovuto subire le conseguenze?
Mentre Sherlock ancora si crucciava, quasi sradicandosi
l’unghia del suo indice
destro dalla tensione, un’altra infermiera entrò
nella stanza lasciata aperta.
Era più giovane della prima, con un sorriso tenero in viso e
un fagottino
bianco e azzurro tra le braccia.
John strinse ancora di più la mano di Sherlock, che al
momento era decisamente
pallido in viso e rigido come una statua di pietra. John aveva
l’impressione
che, se solo lo avesse toccato con un dito, il detective sarebbe caduto
come un
birillo in una pista da bowling.
“Forza” John sussurrò, infondendogli
coraggio, proprio nel momento in cui la
ragazza si fermò di fronte a loro, raggiante.
Scostò leggermente il lenzuolino bianco che ancora separava
Sherlock e John dal
piccolo, e infranse finalmente ogni barriera tra gli sguardi eccitati
dei due
genitori e gli occhi grandi, vispi e curiosi del loro bambino.
Appena quegli occhi incrociarono quelli di Sherlock, il detective
sentì il suo
cervello scollegarsi da tutto quanto ci fosse intorno a lui che non
fosse suo figlio.
Dimenticò dove si trovasse, dimenticò i tratti
della donna che teneva in braccio
in piccolo e di quella davanti alla porta, tanto che dubitava le
avrebbe
riconosciute se mai si sarebbe ripreso da quella trance.
Rimosse dalla mente l’arredo di quella stanza dove aveva
atteso per ben tre ore
memorizzandone ogni dettaglio, rimosse anche la propria presenza
quasi, focalizzandosi solo sul viso del bambino, sul naso
perfetto, sulle labbra sottili e schiuse in un’espressione
quasi sorpresa,
sugli occhi, grandi scuri e bellissimi e sulle mani piccole ma graziose
che il
piccolo apriva e chiudeva intorno ad un lembo del suo lenzuolo.
Era… meraviglioso.
Non poteva credere di
avere anche solo per un momento concepito l’idea che non gli
sarebbe piaciuto:
il sentimento che lo pervadeva da capo a piedi in quel momento lo
faceva
sentire elettrizzato ed euforico come solo un caso, John o una soluzione 7% erano riusciti a farlo
sentire in passato.
In quell’istante, Sherlock
riusciva a malapena a pensare a qualcosa che fosse più importante di John e di quel frugoletto
fragile e bellissimo che
ancora lo guardava vispo dalle braccia dell’infermiera.
“Sherlock?” sentì John ridestarlo dai
suoi pensieri. “Sherlock vuoi tenerlo?”.
Gli occhi di John erano lucidi, come se si stesse trattenendo dallo
scoppiare a
piangere con tutte le sue forze. Anche la sua voce era incerta,
commossa.
Sprizzava felicità da tutti i pori ma quella non tentava
assolutamente di
mantenerla, nemmeno un po’.
Era raggiante, un sorriso enorme sul viso, al settimo cielo. Era bello
come non
lo aveva mai visto.
“Sì” Sherlock disse esitante, e John
annuì, lasciando la presa sulla sua mano.
L’infermiera porse delicatamente il fagottino tra le braccia
tremanti di Sherlock,
sistemando la coperta e posizionando le mani di Sherlock adeguatamente
per far
sì che il detective lo reggesse senza rischi.
“Stia sempre attento alla testa” la ragazza si
raccomandò.
Il calore che adesso Sherlock aveva tra le mani, la consapevolezza che
quel
passo fosse ormai compiuto e che quel bambino era vero, reale, loro, fece battere il cuore di Sherlock
all’impazzata.
“Siete proprio una bella coppia” John
sussurrò, spalla a spalla con Sherlock,
sfiorando piano una manina del piccolo, che questi gli strinse con
dolcezza.
John non riuscì a fermare ulteriormente una lacrima.
“Davvero stupendi”.
Sherlock guardò John e poi il bambino, sorridendo davanti
alla scoperta del miracolo a cui
stava assistendo.
Quel bambino era il ritratto di John, in tutto e per tutto. Sherlock
non aveva
voluto sentire ragioni, quando la decisione era stata presa. Sarebbe
dovuto
essere John, sempre.
Aveva i suoi occhi, i suoi tratti, il suo viso. Era lo splendore
più assoluto,
l’essenza stessa della perfezione fatta bambino.
Improvvisamente, si accorse di quanto fosse stato sciocco
in passato.
Sherlock aveva sempre parlato senza davvero sapere, proprio lui che era
il
maggior sostenitore delle prove fisiche
e scientifiche prima di giungere a
una conclusione, parlando a mente chiusa e totalmente prevenuto su una
questione di cui aveva avuto soltanto un’infarinatura
superficiale e senza
fondamenti.
Fino a quel momento non aveva mai capito davvero
quale meraviglia portasse con sé un bambino, con la persona
giusta accanto.
Prima di quel giorno non aveva fatto altro che vedere lati negativi
nelle cose
più semplici, senza neppure considerare quanto sarebbe
potuto essere splendido coltivare
una piccola vita insieme
all’uomo o la donna amati, per poi riflettersi entrambi negli
occhi di lui, fra
anni e anni.
C’era voluto l’intervento di John perché
Sherlock aprisse gli occhi, ma il
detective non ne era affatto sorpreso. John gli aveva aperto le porte
di tutta
un’altra vita, in fondo.
“Hamish”
Sherlock sussurrò, guardando
John e sorridendo. “John”.
Il dottore annuì, accarezzando il viso di suo figlio e i
capelli di Sherlock
allo stesso tempo, come a sottolineare il legame indissolubile tra loro
tre,
come a rendere salda un’indistruttibile connessione che
esisterà per sempre.
A Sherlock tornò alla mente il discorso in autobus con
Mycroft, quando aveva
nove anni, e, incredibilmente, si accorse che non gli importava nulla di quella piccola vendetta su suo
fratello. Era incredibile come le priorità, in quel momento,
avessero subito
una drastica trasformazione.
“Hamish” John ripeté, posando un bacio
sulla fronte liscia del piccolo. “La
cosa più bella che io abbia mai visto”.
Sherlock annuì, incapace di fare altrimenti. Non poteva che
essere totalmente
d’accordo con lui.
“Però, sai, John…” Sherlock
improvvisamente esordì, catturando l’attenzione
del
dottore, che con difficoltà distolse gli occhi dal bambino.
“Sento un bisogno strano
al momento”.
John per un secondo assunse un cipiglio sconvolto, come spaventato che
Sherlock
potesse aver cambiato atteggiamento e idea
nel giro di un minuto. Non sarebbe stata la prima volta, dopotutto.
“Sherlock…” John balbettò,
terrorizzato.
“Sento un irrefrenabile bisogno di chiamare Molly”
Sherlock si finse anch’egli
spaventato. Fosse mai che perdesse occasione per prendere un
po’ in giro suo
marito. “Voglio che corra al primo negozio aperto a comprare
tutto l’occorrente
per tappezzare questa stanza di addobbi dal soffitto al
pavimento”.
John, dopo un minuto di totale smarrimento, riprese a respirare e
rilassò tutti
i muscoli tesi. Scoppiò a ridere, scuotendo la testa.
“Magari palloncini bianchi
e azzurri
sì? Cuscini…e cos’altro poi?”
John si finse pensoso. “Fiocchi, merletti e
cioccolatini?”.
Sherlock ridacchiò, allegro.
“Hai una memoria perfetta John” si
complimentò. “Bisogna adeguatamente
festeggiare”.
John rise ancora e si mise in punta di piedi, per scompigliare i
capelli di suo
marito e per incontrare la sua bocca, baciandolo con dolcezza e amore
infiniti.
Sherlock tenne salda la presa sul loro bambino, che dopo un profondo
sbadiglio
ora sonnecchiava nel calore delle braccia di Sherlock, e
ricambiò il bacio con
trasporto, sorridendo sulle labbra di John teneramente.
John si separò a malincuore dalla bocca di Sherlock e
sussurrò un flebile ma
forte ‘ti amo’
sulle sue labbra.
Rimasero in silenzio per qualche secondo, senza bisogno di parole ma
cibandosi
di soli sguardi, prima che Sherlock decidesse di parlare di nuovo.
“Sai John, sono emozionato”
esordì e
John rimase sorpreso dall’inconsueta scelta di parole.
“Non vedo l’ora di
insegnargli ad accendere un becco bundsen”.
John ebbe una chiara visione di Sherlock e un ragazzino di circa dieci
- undici
anni alle prese con fiamme ossidriche, mascherine, boccette colme di
strani
intrugli e immancabili teste, dita e piedi sparsi un po’ per
tutta la cucina.
Al solo pensiero si sentì letteralmente rabbrividire, ma non
poté fare a meno
di ridacchiare sommessamente.
“Oh Sherlock, che splendido futuro si prospetta per
me” John scherzò, fingendo
di pregustare un’immagine particolarmente gradevole.
“Passare il resto dei miei
anni a sedare incendi, a evitare esplosioni chimiche e a pulire
coltivazioni di
muffa dal mobile del lavello”.
Sherlock schioccò le labbra, alzando le spalle e guardando
John con esagerato
entusiasmo.
“Oh sapevo che avresti gradito” si
complimentò. “Dillo che sei un uomo
fortunato, John”.
John scosse la testa e guardò ancora suo marito e suo
figlio, adesso
profondamente addormentato e rannicchiato contro il petto di Sherlock,
le
piccole manine strette intorno al risvolto della sua giacca. Forse non
sarebbe
stato poi tanto male, John pensò, anzi, non lo sarebbe stato
per niente.
Un altro piccolo genio non
sarebbe stato un problema, lui era stato un soldato e il convivente di
Sherlock
Holmes per anni e anni, ed era preparato a tutto, davvero ad ogni cosa.
E in fondo, la vita con il detective aveva reso John veramente felice come mai in tutta la sua vita,
anche con esplosioni, teste nel frigo ed esperimenti vari annessi.
Il dottore annuì, fingendo un sospiro rassegnato.
“Hai ragione, Sherlock. Hai ragione da vendere”
John sussurrò, fissando ancora
il bellissimo quadretto. “Il più fortunato sulla
Terra”.