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Autore: SAranel    02/12/2012    6 recensioni
A Sherlock, i bambini proprio non piacciono e ha giurato solennemente che, da grande, si guarderà bene dal rischio di anche solo affrontare l'argomento 'figli'. Peccato che non abbia considerato una variabile inaspettata. Cosa succederà?
"A Sherlock Holmes i bambini non erano mai piaciuti, o almeno, non particolarmente.
E più lui si ostinava a dire che non gli interessavano poi tanto, che avrebbe potuto tranquillamente evitare di andare a trovare la zia Ginny, che aveva appena partorito uno splendido maschietto di tre chili e mezzo, risparmiandosi quindi di conoscere il tanto atteso cuginetto, più i suoi genitori si ostinavano a volercelo trascinare.
Inoltre, e quello avrebbe rappresentato sempre un enorme mistero per Sherlock, non capiva perché una notizia semplice come la nascita di un bambino portasse con sé tutto quel trambusto e quel chiasso immane; nascevano bambini ogni giorno e in ogni parte della Terra, ma non per questo sei miliardi di persone sentivano la necessità di riversarsi sulle strade facendo quel baccano infernale e annunciando in giro la lieta novella.
Nemmeno scervellandosi con tutta la sua buona volontà ci sarebbe mai arrivato, nemmeno da grande, neppure da adulto.
O almeno, così Sherlock aveva sempre creduto."[...]
Genere: Commedia, Sentimentale, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: John Watson , Sherlock Holmes
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno
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Buonasera mio unico e impareggiabile fandom!
Grazie un mondo a tutte per le recensioni alla MorMor, appena riuscirò risponderò a tutte, giuro!
Questa cosa è una sdolcinata, zuccherosa, pienadiamoreuniversale storiella senza pretese, scritta in un momento allegro. E sì, scritta anche per ‘colpa’ (altro che colpa, li amo tanto) del mare di bambini da cui sono circondata, quando sono in famiglia.

Inoltre, questa fic è per Jessie che mi ha ispirata con le sue bellissime storie fluff, e Nat che ho troppo a lungo tormentato con angst in tutte le sue forme!
Sperando in bene, vi auguro buona lettura!


S.


Turnabout
*


 

A Sherlock Holmes i bambini non erano mai piaciuti, o almeno, non particolarmente.
E più lui si ostinava a dire che non gli interessavano poi tanto, che avrebbe potuto tranquillamente evitare di andare a trovare la zia Ginny, che aveva appena partorito uno splendido maschietto di tre chili e mezzo, risparmiandosi quindi di conoscere il tanto atteso cuginetto, più i suoi genitori si ostinavano a volercelo trascinare.
Inoltre, e quello avrebbe rappresentato sempre un enorme mistero per Sherlock, non capiva perché una notizia semplice come la nascita di un bambino portasse con sé tutto quel trambusto e quel chiasso immane; nascevano bambini ogni giorno e in ogni parte della Terra, ma non per questo sei miliardi di persone sentivano la necessità di riversarsi sulle strade facendo quel baccano infernale e annunciando in giro la lieta novella.
Nemmeno scervellandosi con tutta la sua buona volontà ci sarebbe mai arrivato, nemmeno da grande, neppure da adulto.
O almeno, così Sherlock aveva sempre creduto.

 

Londra
St. Mary’s Hospital
Primavera 1990


Alla fine, dalla zia Ginny ci era stato portato con la forza.
La stanza d’ospedale, ovviamente privata perché ‘un Holmes è sempre un Holmes’, era un tripudio di fiocchetti azzurri, orsacchiotti merlettati e palloncini bianchi su tutto il soffitto: un insieme talmente zuccheroso che Sherlock sentì un principio di nausea solleticargli fastidiosamente lo stomaco, appena entrato.
“E’ stato un parto meraviglioso!” sua zia squillò all’improvviso, battendo le mani come una di quelle scimmiette giocattolo esposte da Hamleys. “Così emozionante!”.
Sherlock storse il naso appena udì quel particolare, cercando di immaginare cosa ci fosse di così idilliaco in un parto. Sapeva come funzionava, era stata un’agghiacciante scoperta di qualche mese prima, e non pensava esistesse termine meno adatto di ‘meraviglioso’ per definire una cosa del genere. Sherlock avrebbe voluto chiudere gli occhi e tornare a quand’era convinto che i bambini venissero trasportati da grossi uccelli direttamente alla finestra della mamma predestinata.
Il clou dell’azione però, era in corso attorno alla culla del bambino. Oh, Sherlock avrebbe avuto quell’immagine stampata in testa per il resto della sua intera vita.
C’era un gruppo assortito di gente raggruppata sulla culla del nuovo arrivato, tutti chini sul pargolo, che Sherlock non era ancora riuscito nemmeno a scorgere, e tutti intenti nello straziare le povere orecchie di Sherlock emettendo una specie di miagolio stridulo, un sibilo molto ma molto simile alle sue prime esercitazioni al violino, quando era molto più piccolo. Un’infinità di mani accarezzava guanciotte, stuzzicava nasini e scompigliava ciuffi di capelli e Sherlock si domandò per quale grazia divina quel povero bambino non si fosse ancora messo a piangere dalla disperazione. Meditò la possibilità di infilarsi sotto le gambe di qualcuno, la stanza si era ulteriormente riempita negli ultimi cinque minuti, e scappar via a gambe levate. Non gli sarebbe dispiaciuto dare un’occhiata ai laboratori, magari.
Peccato che sua zia, arzilla e rubiconda in volto –non era per nulla affaticata o stanca, ovviamente- avesse per lui piani decisamente diversi.
“Facciamo spazio a quel piccolo genietto del mio nipotino!” la voce squillante della zia sovrastò quella dei presenti, che puntarono, naturalmente, tutti gli occhi sul povero Sherlock.
“Facciamogli conoscere il cuginetto!” aggiunse, afferrandolo per una mano e portandolo verso la culla drappeggiata di nastrini azzurri. Lo esortò poi a salire sul letto, Sherlock cercò di ignorare completamente gli sguardi puntati su di sé, e a sporgersi oltre il comodino per guardare meglio.
Il bambino era…un bambino.
Era sul punto di addormentarsi, almeno questo spiegava la sua scarsa reattività a quel continuo stuzzicarlo, e aveva uno dei due pugnetti paffuti appoggiato sulle labbra piccole e socchiuse. Il naso era piccolo e leggermente all’insù e le gambette grassottelle fasciate in una tutina bianca si muovevano pigramente su e giù. Gli occhietti vispi e neri del piccoletto si fissarono in quelli di Sherlock, curiosi.
“Dolcissimo, vero?”.
Sherlock non capiva cosa ci fosse di tanto emozionante o tanto dolce in quell’esserino urlante e sempre affamato che presto o tardi sarebbe diventato un bambino, un ragazzo e poi un uomo come chiunque altro. Insomma, da lì a poco avrebbe cominciato a strillare fino a infrangere la barriera del suono, ad aver fame a ogni ora della notte e ad aver bisogno di un cambio pannolini almeno dieci volte al giorno. Dov’era, tutta quella dolcezza? Al solo pensiero di cambiare un pannolino, Sherlock rabbrividì.
“Dolce, sì” Sherlock si costrinse a dire, con un sorriso fintissimo che per fortuna convinse sua zia.
“Non è un amore, eh? Un piccolo e tenero amorino della mamma?” sua zia si avvicinò a lui e prese a solleticare il pancino del piccolo, con un sorrisetto beato in viso.
Sherlock si domandò perché si ostinasse a non lasciar dormire in pace quel povero innocente, e restò a guardare sua zia con espressione ebete e una voglia sconfinata addosso di evaporare. I presenti lo guardavano come se fosse un gigantesco orsacchiotto rosa di peluche, aspettando la sdolcinata reazione da parte sua che sembrava d’obbligo in quella situazione.
“Sì, sì, proprio un… amore” Sherlock disse tra i denti, senza nemmeno dare tanto peso al significato della parola. Non era stato convincente per niente, ne era consapevole, e la sua espressione si era avvicinata più a una diffidente tolleranza, più simile a un contentino che a un sincero apprezzamento, ma Sherlock non poteva farci nulla.
La cosa importante era che l’attenzione su di lui si placasse il più in fretta possibile così che lui potesse sgattaiolare lontano e tornare a far finta di trovarsi nella Ammiraglio Benbow in cerca della mappa di un tesoro¹, invece che in quell’affollata stanza d’ospedale.
Sua zia distolse per un secondo l’attenzione da suo figlio e tornò a Sherlock, guardandolo con un misto di circospezione e stupore, come se si stesse domandando se magari suo nipote la stesse leggermente prendendo in giro. Alla fine, sembrò non prendere la cosa troppo sul serio.
Guardò Sherlock, allungando una mano per scompigliargli i capelli già disordinati e gli sorrise, melensa, gli occhi illuminati da un luccichio che Sherlock non poté fare a meno di trovare vagamente inquietante.
“Non vedo l’ora di esserci, quando avrai un bambino tutto tuo, Sherlock caro” la donna esordì, e Sherlock ammutolì, guardandola atterrito come se l’avesse appena minacciato di chissà quale atroce crudeltà. Boccheggiò, non riuscendo nemmeno a pensare a un’eventualità simile, e ancor prima che Sherlock potesse dire qualcosa, uno strano stridio soffocato interruppe i suoi pensieri.
Il ragazzo guardò in fondo alla stanza, già prevedendo chi avrebbe incontrato, e vide Mycroft intento a trattenere con tutte le sue forze una grassa e sarcastica risata.
La madre di Sherlock lo fulminò con gli occhi e gli diede un calcio nello stinco da dietro il tavolo, che sembrò bastare a Mycroft per tornare semi-serio e abbozzare un’espressione pentita. Sherlock però sapeva dentro di sé che Mycroft se lo sarebbe legato al dito.
“Cosa c’è di così divertente, Myc?” sua zia chiese, ingenuamente. Lo fissava, sinceramente curiosa.
Mycroft chiuse gli occhi, concentrandosi con più forza di volontà per non rimettersi a ridere e guardò la zia con lo sguardo innocente più fasullo che Sherlock avesse mai visto.
“Oh nulla, cara zia” Mycroft rispose, con un sorriso zuccheroso che costrinse Sherlock a distogliere lo sguardo. “Stavo solo immaginando quali meravigliosi e teneri bambini potrebbero nascere da uno come Sherlock”.
Il fratello più piccolo tornò a fissare il maggiore, con uno sguardo tagliente che avrebbe potuto facilmente spaccare in due il comodino di legno accanto al letto, se solo ci si fosse concentrato.
“Oh, Myc sei adorabile” la povera Ginny non sembrò accorgersi di nulla, nonostante l’espressione esasperata di sua cognata, la madre dei due, fosse più che eloquente. “E’ vero. Saranno davvero carini. E intelligentissimi” preda della stretta della zia, quella volta fu lo zigomo paffuto del povero nipote.
“E con un carattere meraviglioso” aggiunse ancora Mycroft, guardando suo fratello con un’occhiata acida. “Adorabile”.
Zia Ginny annuì nuovamente mentre Sherlock continuò a tener fissi gli occhi in quelli di suo fratello, meditando la miglior vendetta che avrebbe potuto attuare una volta tornati a casa.
“Ovviamente” Sherlock rispose. Non sarebbe rimasto zitto a subire. “Ma mai quanto quelli che avrai tu, Mycroft”.
Suo fratello si mise sulla difensiva, digrignando i denti e socchiudendo le palpebre, con gli occhi di un felino di fronte alla sua cena.
“Naturalmente” rispose suo fratello, come se fosse ovvio, come se Sherlock stesse sottolineando qualcosa di scontato.
“Chissà, magari prenderanno tutto da te” Sherlock continuò. Fosse mai che subisse una presa in giro senza reagire in alcun modo, figurarsi poi, se la provocazione era ad opera di suo fratello.
“Troppo buono…” Mycroft sibilò, dando l’impressione di volergli saltare al collo da un momento all’altro. Come se non avesse cominciato lui, poi!
“Chissà se nasconderanno anche loro la scorta di muffin sotto la-“ Sherlock non fece in tempo a finire la frase che Mycroft fu su di lui, prendendolo in braccio e sollevandolo di peso dal letto.
“Forse è ora di andare a casa, fratellino, cosa dici?” Mycroft esclamò, fintamente allegro. “Non avevi un po’ di… compiti da fare?” la voce di Mycroft lasciò la sua bocca più stridula e comica del solito, come se volesse obliare completamente il discorso di poco prima concentrando l’attenzione dei presenti su tutt’altro.
“E’ stato bello, zia Ginny, e il cuginetto è stupendo” Mycroft aggiunse e la donna sorrise, incerta su cosa pensare. “Prendiamo il bus, mamma. Arrivederci a tutti!”.
Lo sguardo di Mamma Holmes si rilassò, come se si fosse tolta un gigantesco peso dal cuore.
Sherlock, nonostante stesse lasciando l’ospedale trasportato in spalla come un gigantesco sacco di patate, tirò un sospiro di sollievo per aver trovato una scusa, o meglio per aver stuzzicato tanto suo fratello da spingerlo a manovre drastiche, per lasciare quel posto.
“Beh, fratellino” Mycroft finalmente parlò, mettendolo giù soltanto alla fermata del bus di fronte all’Ospedale. “Sei mai ti riprodurrai, io espatrierò in qualche altro stato”.
Sherlock gli diede una gomitata nelle costole, che Mycroft parò con un braccio. Sbuffò, per nulla incline a continuare quella conversazione, ma non potendo rimanere in silenzio davanti alle provocazioni di suo fratello.
“Non reggeresti all’eventualità che un bambino possa rivelarsi molto più intelligente di te addirittura appena nato?”.
Mycroft gli sorrise, acido.
“Oh no. Più che altro perché sono costretto già a sopportare un solo te adesso, e non so se la mia mente e il mio corpo reggerebbero un’altra tua copia in miniatura”.
Mycroft parò in corner un altro colpo, bloccando il pugno di Sherlock con la sua mano, con un’agilità che lascio Sherlock interdetto.
Il più piccolo puntò i piedi sull’asfalto e lo guardò, imbronciato.
“Sempre meglio di quei bacchettoni, noiosi ed egocentrici poveretti che verrebbero fuori da te” rincarò la dose, per nulla deciso a dargliela vinta.
Mycroft si sporse ad aspettare il bus, con un’espressione spazientita in viso che lo faceva sembrare al limite della sopportazione.
“Che visione pittoresca, Sherlock” Mycroft lo canzonò. “Ma magari prenderanno tutto dalla donna meravigliosa che sposerò”.
Sherlock si morse il labbro per non scoppiare a ridere a crepapelle nel bel mezzo di una strada e tra il viavai di pazienti, parenti e medici in pausa.
“Penso ci siano più probabilità che la Terra cominci a girare al contrario” il fratello minore infilò le mani in tasca e fissò suo fratello negli occhi.
Mycroft alzò una mano, probabilmente intenzionato a selezionare mentalmente su quale parte del corpo di suo fratello lasciarla atterrare, quando cambiò idea e la lasciò a mezz’aria, portandola a scompigliarsi i capelli impomatati. Una strana espressione comparve sul volto di Mycroft, come una sorta di vittoriosa consapevolezza, come se avesse improvvisamente trovato un’arma di rivincita contro le battute velenose di suo fratello.
“Oh beh, se proprio vuoi saperlo io ho una ragazza interessata, a scuola” Mycroft disse, strafottente. “Ed è molto carina”.
Sherlock trattenne ancora un risolino sarcastico.
“Oh sicuro” assecondò Mycroft. “Tenendo conto che, secondo i tuoi canoni di bellezza, una ragazza carina assomiglia più o meno a Margaret Thatcher nei suoi tempi d’oro, è tutto dire”.
Mycroft lo guardò a bocca spalancata e Sherlock si salvò da un sicuro e sonoro schiaffo in piena faccia soltanto dallo spuntare improvviso del loro bus rosso in fondo alla strada.
Mentre occupavano posto, ahimè l’uno accanto all’altro, Mycroft porse il suo biglietto a Sherlock lanciandoglielo in malo modo, poi incrociò le braccia.
“Almeno qualcuno ce l’ho, Sherlock” continuò, e Sherlock gettò gli occhi al cielo, esasperato. “Tu invece, non avrai mai nessuno a causa di quel carattere che ti ritrovi. Men che meno bambini”.
Sherlock fece spallucce, guardando fuori dal finestrino la sua Londra sfrecciare stancamente in un baluginio di luci al neon e fari d’auto. Le parole di Mycroft non gli provocarono assolutamente nessun disagio, anzi, non lo toccarono minimamente. Aveva un’idea dell’amore, aveva un’idea sui bambini e aveva anche, suo malgrado, ben chiaro il procedimento di come l’amore tra due persone portasse ad avere poi bambini. Lo aveva letto, cercando tutt’altro, su un vecchio manuale medico in biblioteca, ed era rimasto talmente sconvolto da rovinarsi l’appetito per tre giorni di fila. Al solo pensiero gli si accapponava la pelle.
“Beh, sai cosa ti dico?” Sherlock disse a suo fratello, certo di coglierlo alla sprovvista. “Non m’interessa minimamente di trovare qualcuno. Sto bene così e sto bene solo”.
Mycroft ridacchiò.
“E i bambini?”.
“Nemmeno per i bambini” Sherlock incrociò le braccia, scivolando in fondo al suo sedile. Il bus si fermò a un semaforo. “Non so perché pensiate che io li trovi tanto interessanti. Non mi piacciono”.
“Nemmeno un po’?”.
Sherlock tornò a guardare fuori dal finestrino.
“Nemmeno un po’. Urlano, sporcano, mangiano in continuazione e ti fanno diventare matto” sbottò. “Ed io giuro solennemente che non ne avrò mai”.
Mycroft ridacchiò ma rimase in silenzio, probabilmente non trovando nuovi input per stuzzicare suo fratello.
Il bus, qualche secondo più tardi, ripartì.

 
 

Londra
Inverno
2014

 
“Non mi piacciono i bambini, John” fu il semplice commento di Sherlock alla richiesta di John. Il povero dottore non gli aveva chiesto poi tanto, solamente se gli andava di accompagnarlo alla piccola festicciola organizzata da Sarah per il terzo compleanno del suo bambino, ma Sherlock l’aveva presa come un invito a salire sul patibolo.
“Ma cosa c’entra? Dovrai solo fargli gli auguri, magari dargli un bacio se il Cielo vorrà concedermi un miracolo, e poi andare per i fatti tuoi”.
Sherlock si rannicchiò in posizione fetale sul divano e distolse lo sguardo da John, come offeso dalla sola richiesta.
“No, John. Non è così semplice” fu la sola secca risposta. John si massaggiò le tempie con due dita.
“E potrei sapere il perché?” domandò, imponendosi di rimanere calmo.
Sherlock sembrò perdere attrattiva per quel qualcosa dietro John che aveva catturato la sua attenzione fino a dieci secondi prima e tornò a fissare il dottore negli occhi, con un lampo assassino nelle iridi azzurre.
“Perché è una festa di bambini, John, per quanto Sarah si ostini a dire che ci saranno anche adulti” spiegò, come se il sottointeso in quella frase fosse la cosa più chiara del mondo.
John respirò profondamente per infondersi la pazienza necessaria per arrivare alla fine di quella conversazione.
“E quindi?”.
Sherlock si alzò di scatto, piombando davanti John come un rapace sulla sua povera preda innocente e lo afferrò per le spalle.
“Quindi ci saranno adulti, ma saranno genitori di altri bambini, con tutte le probabilità” disse, trafelato. “Ergo, la festa sarà piena, anzi strapiena di bambini dai tre anni in giù!” il tono di voce di Sherlock era indignato come se stesse parlando di qualcosa d’inconcepibile e fuori dal mondo.
John, senza poterlo evitare e già immaginando l’occhiata truce che Sherlock gli avrebbe rivolto, scoppiò a ridere.
“E allora, Sherlock?” domandò, tenendosi la pancia. “Che c’è, hai paura dei bambini?”.
L’occhiataccia, ovviamente, arrivò. Inutile, John lo conosceva come le proprie tasche.
“Ovvio che no, John” sibilò Sherlock, aggrappandosi allo schienale di legno della sedia del dottore. Lo sguardo minaccioso di Sherlock lo fece meditare sulla possibilità di scappare e chiudersi a chiave in camera sua, giusto per sicurezza.
“E allora?” tentennò, guardando Sherlock sottecchi.
“E’ solo che…” Sherlock incominciò e per un secondo sembrò perdersi in vecchi ricordi. “Non mi piacciono e basta”.
John rimase in silenzio a guardarlo, tranquillizzandosi enormemente ma senza riuscire a fermare un tuffo al cuore di lieve delusione. Aveva pensato a delle cose negli ultimi tempi, già immaginando di dover combattere comunque con Sherlock su alcuni aspetti, ma vedersi riempire la strada di ulteriori ostacoli non gli rendeva certo la cosa più semplice.
“Ma non ti faranno nulla, Sherlock” provò nuovamente John, già conscio però del probabile fallimento. “Insomma… non dovrai starci tutta la sera. Hai affrontato cose molto peggiori!”.
Lo sguardo sul viso di Sherlock e il suo cereo pallore, raccontarono a John una storia diversa. Nella mente di Sherlock, molto probabilmente, il partecipare a una festicciola di bambini era giusto un posto sotto a passare un’intera giornata in compagnia di Anderson.
“Farnetichi, John” fu il commento del detective. “Cominceranno a volerci coinvolgere in stupidi giochetti di gruppo ed io sentirò ognuna delle mie povere cellule cerebrali morire tra atroci sofferenze”.
“Non ti sembra di esagerare?”.
“Esagerare? Sto minimizzando” Sherlock rispose. “Ho avuto esperienze, da giovane. Come con mia zia…” trattenne un brivido di terrore.
John lo fissò stranito.
“Tua zia?”.
“Quando nacque mio cugino, John” Sherlock spiegò, seccato, come se John dovesse per forza saperlo. “Palloncini, fiocchi e merletti ovunque…per non parlare dei…cioccolatini, dei cuscini ricamati e dei…discorsi agghiaccianti”.
John fece schioccare le labbra, guardando altrove. Non valeva la pena crucciarsi ancora per convincerlo di qualcosa che non avrebbe mai accettato.
“Va bene Sherlock. Va bene” disse, rassegnato.
Sherlock emise un versetto di vittoria e affondò nuovamente nel divano, riprendendo in mano una delle riviste di John.
Il dottore sospirò, annuendo in segno di sconfitta, e pensando al determinato argomento che avrebbe voluto introdurre al ritorno dalla festicciola.
Aveva elaborato un intelligentissimo piano, programmato le parole giuste da dire e addirittura le espressioni facciali da assumere. Peccato però, che non avesse fatto i conti con Sherlock: chi gli aveva mai assicurato che, anche se ora erano assieme, il detective si sarebbe piegato ad ogni sua volontà?
Sbuffò, impotente, strofinando le mani tra loro e pensando a un piano alternativo.
Cominciò ad accarezzare l’idea di farlo lo stesso, nonostante non sembrasse proprio l’occasione opportuna, ma Sherlock sembrava essersi calmato e aver completamente rimosso la conversazione di nemmeno due minuti prima.
Lo osservò attentamente sfogliare la sua rivista medica, giocherellando contemporaneamente con la cintura della vestaglia, e si ritrovò a sorridere, immaginando la sua risposta. Magari non era il momento adatto, magari –anzi, sicuramente- la sua reazione non sarebbe stata delle migliori visto come gli aveva risposto poco prima, ma poiché erano in argomento –e soprattutto per ritardare il più possibile il momento in cui avrebbe dovuto avvisare Sarah della loro assenza- John decise di provare ugualmente. Non aveva senso aspettare un momento buono con Sherlock, imprevedibile com’era.
“Quindi non… non ti piacciono per niente, eh?” John buttò lì fingendo indifferenza. Sherlock si ridestò dalla lettura e punto gli occhi azzurri in quelli blu di John.
“Non li odio. Ma li trovo…troppo impegnativi” pensò un momento. “E…piangono e…sporcano ovunque”. John aprì la bocca, sconvolto, puntandogli contro il dito con fare accusatore.
“Tu sporchi in continuazione, se è per questo!”.
Sherlock si sventolò col giornale, gettando gli occhi al cielo.
“Ma io lo faccio per uno scopo John!” spiegò, come se fosse la cosa più semplice del mondo. “I bambini… beh, i bambini lo fanno per puro…divertimento”.
John gli lanciò addosso un cuscino.
“Sei stato bambino anche tu”.
“Mi sento in colpa per la mia povera madre, infatti”.
John ridacchiò sommessamente alla sincera pena sul viso di Sherlock e si tormentò l’unghia del pollice destro, in attesa di introdurre l’argomento agognato. Si fece forza, e prese un respiro profondo.
“Quindi non hai mai pensato a… ad avere bambini?” finalmente chiese, tutto d’un fiato.
La reazione che arrivò da Sherlock, poco dopo, fu indefinibile ma molto meno indignata di quanto John si sarebbe aspettato. Sembrò…pensieroso più che inorridito o spaventato, come se non si fosse aspettato una domanda del genere da John. Lo fissò a lungo, studiando ogni particolare del suo viso, esattamente come il giorno del loro primo bacio e della loro prima volta, come se volesse imprimere a fuoco nella sua mente l’espressione di John in quel determinato momento. Il dottore sperò fosse per un buon motivo.
“Figli?” Sherlock domandò, con voce flebile. Si vedeva chiaramente quanto fosse combattuto, diviso tra le convinzioni di una vita e quella nuova inaspettata domanda.
Era tutta un’altra storia, rispetto ad una semplice festa.
“Figli, Sherlock” John asserì, con il sorriso più dolce che Sherlock avesse mai visto.
Il detective abbassò lo sguardo, chiudendo gli occhi.
“Mi è stato detto che non sarebbe una buona cosa” Sherlock sussurrò, con un tono di voce che John non aveva mai sentito. “E poi io te l’ho detto, non… non mi piacciono” esclamò, ostentando sicurezza. “Se mi piacerebbe un figlio…io… non lo so”.
Voleva sicuramente e a tutti i costi sembrare convincente, peccato però che desse l’impressione di essere tutt’altro, al momento.
John annuì comprensivo e si avvicinò a Sherlock, sedendosi accanto a lui sul divano e prendendogli una mano nella sua, teneramente. Guardò il detective, ancora sorridendo, e pian piano gli si avvicinò, poggiando la fronte su quella dell’altro e invitandolo ad alzare nuovamente il viso per guardarlo negli occhi.
“C’è una cosa che vorrei chiederti, anche se sembra folle dopo la conversazione di poco fa” John esordì e Sherlock lo osservò con attenzione. “Ti piacerebbe ascoltarla?”.
L’uomo più giovane guardò un punto indefinito oltre la finestra, pensieroso, e sospirò.
L’espressione di Sherlock era spaventata, tesa, estremamente combattuta come se nella sua mente fosse in corso una guerra all’ultimo sangue, ma allo stesso tempo era palpabile la voglia di ascoltare ciò che John aveva da dire. Anche se sarebbe andato contro i suoi saldi –almeno fino a quel giorno- principi.
Alla fine, strinse a sua volta la mano di John forte, fortissimo, tornando a guardarlo e sporgendosi a baciarlo teneramente.
Poi, annuì.

 

 


Londra
St. Mary’s Hospital
Inverno
2015

 
“Siete pronti?” un’infermiera dal camice bianco e una zazzera di capelli d’argento sorrise a Sherlock e John, tenendo aperta la porta della stanza. “La madre sta bene, benissimo ma non ha voluto…” si bloccò, con un sorriso comprensivo. “Ha detto che meritavate di vederlo subito”.
John annuì condiscendente e guardò Sherlock, sorridendo per l’evidente nervosismo del detective, che mai nella loro vita insieme aveva visto tanto agitato quanto in quel momento. Saltellava continuamente sul posto, prima su un piede e poi sull’altro, infilandosi le mani in tasca per poi sfilarle, ravvivandosi i capelli o sistemandosi convulsamente la fodera della giacca.
“Prontissimi” John disse, sicuro, anche lui emozionato come raramente gli era successo in tutta la sua vita. Prese una mano del suo Sherlock e la strinse nella sua, cercando di calmarlo e di rassicurarlo sulla buona riuscita di quella giornata.
La verità era che Sherlock non era nervoso. Era semplicemente terrorizzato.
Sherlock non voleva che John rimanesse deluso e, soprattutto, non voleva che rinunciasse a qualcosa per causa sua. Il detective aveva accettato senza che il dottore avesse dovuto faticare più di tanto, perché in fondo era John e perché sicuramente sarebbe stato diverso, perché John sarebbe stato un padre meraviglioso e Sherlock non avrebbe mai voluto privarlo di una gioia del genere.
Era andato contro ogni sua convinzione, quando aveva sentito dalla voce di John quanto avrebbe rappresentato per lui. Lui aveva ceduto per amore di John ad un passo così grande, lui che aveva fatto storie per una festicciola di bambini.
Si era domandato più volte che fine avesse fatto lo Sherlock di una volta, anche se non era affatto certo di voler tornare quello che era, cercando di aggrapparsi ad un pensiero razionale, tentando di trovare tutti gli svariati –perché ce n’erano, vero?- lati positivi di quella novità.
Aveva passato notti insonni, il povero Sherlock, a pensare al lato buono della faccenda, al fatto che probabilmente in passato fosse stato ingiustamente prevenuto sulla questione, senza realmente sapere cosa si provasse ad allevare un bambino, senza avere alcuna prova effettiva che fosse nel giusto. Aveva passato ore a convincersi che sarebbe stato bellissimo e che, magari, sarebbe stata una soddisfazione enorme poter crescere un figlio con John. Dopotutto, non si credeva nemmeno capace di relazionarsi a qualcuno fino a qualche anno prima, e adesso era sposato; cosa sarebbe potuto andare male, con un bambino?
Sì, sarebbe stato decisamente capace di crescerne uno, magari dopo qualche ricerca e con l’aiuto della loro nongovernante Mrs. Hudson.
Ma la questione che più premeva Sherlock era un’altra, pressante e terribile.
Il bambino gli sarebbe… piaciuto?
Non in un senso estetico ovviamente, ma per lo più nella sfera affettiva. E se non avesse provato niente? Il vuoto assoluto? Il totale piattume dei sentimenti?
Cosa sarebbe successo, se fosse accaduto e non fosse riuscito a fingere? E se John lo avesse abbandonato? E se quel bambino ne avesse dovuto subire le conseguenze?
Mentre Sherlock ancora si crucciava, quasi sradicandosi l’unghia del suo indice destro dalla tensione, un’altra infermiera entrò nella stanza lasciata aperta.
Era più giovane della prima, con un sorriso tenero in viso e un fagottino bianco e azzurro tra le braccia.
John strinse ancora di più la mano di Sherlock, che al momento era decisamente pallido in viso e rigido come una statua di pietra. John aveva l’impressione che, se solo lo avesse toccato con un dito, il detective sarebbe caduto come un birillo in una pista da bowling.
“Forza” John sussurrò, infondendogli coraggio, proprio nel momento in cui la ragazza si fermò di fronte a loro, raggiante.
Scostò leggermente il lenzuolino bianco che ancora separava Sherlock e John dal piccolo, e infranse finalmente ogni barriera tra gli sguardi eccitati dei due genitori e gli occhi grandi, vispi e curiosi del loro bambino.
Appena quegli occhi incrociarono quelli di Sherlock, il detective sentì il suo cervello scollegarsi da tutto quanto ci fosse intorno a lui che non fosse suo figlio.
Dimenticò dove si trovasse, dimenticò i tratti della donna che teneva in braccio in piccolo e di quella davanti alla porta, tanto che dubitava le avrebbe riconosciute se mai si sarebbe ripreso da quella trance.
Rimosse dalla mente l’arredo di quella stanza dove aveva atteso per ben tre ore memorizzandone ogni dettaglio, rimosse anche la propria presenza quasi, focalizzandosi solo sul viso del bambino, sul naso perfetto, sulle labbra sottili e schiuse in un’espressione quasi sorpresa, sugli occhi, grandi scuri e bellissimi e sulle mani piccole ma graziose che il piccolo apriva e chiudeva intorno ad un lembo del suo lenzuolo.
Era… meraviglioso.
Non poteva credere di avere anche solo per un momento concepito l’idea che non gli sarebbe piaciuto: il sentimento che lo pervadeva da capo a piedi in quel momento lo faceva sentire elettrizzato ed euforico come solo un caso, John o una soluzione 7% erano riusciti a farlo sentire in passato.
In quell’istante, Sherlock riusciva a malapena a pensare a qualcosa che fosse più importante di John e di quel frugoletto fragile e bellissimo che ancora lo guardava vispo dalle braccia dell’infermiera.
“Sherlock?” sentì John ridestarlo dai suoi pensieri. “Sherlock vuoi tenerlo?”.
Gli occhi di John erano lucidi, come se si stesse trattenendo dallo scoppiare a piangere con tutte le sue forze. Anche la sua voce era incerta, commossa. Sprizzava felicità da tutti i pori ma quella non tentava assolutamente di mantenerla, nemmeno un po’.
Era raggiante, un sorriso enorme sul viso, al settimo cielo. Era bello come non lo aveva mai visto.
“Sì” Sherlock disse esitante, e John annuì, lasciando la presa sulla sua mano.
L’infermiera porse delicatamente il fagottino tra le braccia tremanti di Sherlock, sistemando la coperta e posizionando le mani di Sherlock adeguatamente per far sì che il detective lo reggesse senza rischi.
“Stia sempre attento alla testa” la ragazza si raccomandò.
Il calore che adesso Sherlock aveva tra le mani, la consapevolezza che quel passo fosse ormai compiuto e che quel bambino era vero, reale, loro, fece battere il cuore di Sherlock all’impazzata.
“Siete proprio una bella coppia” John sussurrò, spalla a spalla con Sherlock, sfiorando piano una manina del piccolo, che questi gli strinse con dolcezza. John non riuscì a fermare ulteriormente una lacrima. “Davvero stupendi”.
Sherlock guardò John e poi il bambino, sorridendo davanti alla scoperta del miracolo a cui stava assistendo.
Quel bambino era il ritratto di John, in tutto e per tutto. Sherlock non aveva voluto sentire ragioni, quando la decisione era stata presa. Sarebbe dovuto essere John, sempre.
Aveva i suoi occhi, i suoi tratti, il suo viso. Era lo splendore più assoluto, l’essenza stessa della perfezione fatta bambino.
Improvvisamente, si accorse di quanto fosse stato sciocco in passato.
Sherlock aveva sempre parlato senza davvero sapere, proprio lui che era il maggior sostenitore delle prove fisiche e scientifiche prima di giungere a una conclusione, parlando a mente chiusa e totalmente prevenuto su una questione di cui aveva avuto soltanto un’infarinatura superficiale e senza fondamenti.
Fino a quel momento non aveva mai capito davvero quale meraviglia portasse con sé un bambino, con la persona giusta accanto. Prima di quel giorno non aveva fatto altro che vedere lati negativi nelle cose più semplici, senza neppure considerare quanto sarebbe potuto essere splendido coltivare una piccola vita insieme all’uomo o la donna amati, per poi riflettersi entrambi negli occhi di lui, fra anni e anni.
C’era voluto l’intervento di John perché Sherlock aprisse gli occhi, ma il detective non ne era affatto sorpreso. John gli aveva aperto le porte di tutta un’altra vita, in fondo.
Hamish” Sherlock sussurrò, guardando John e sorridendo. “John”.
Il dottore annuì, accarezzando il viso di suo figlio e i capelli di Sherlock allo stesso tempo, come a sottolineare il legame indissolubile tra loro tre, come a rendere salda un’indistruttibile connessione che esisterà per sempre.
A Sherlock tornò alla mente il discorso in autobus con Mycroft, quando aveva nove anni, e, incredibilmente, si accorse che non gli importava nulla di quella piccola vendetta su suo fratello. Era incredibile come le priorità, in quel momento, avessero subito una drastica trasformazione.
“Hamish” John ripeté, posando un bacio sulla fronte liscia del piccolo. “La cosa più bella che io abbia mai visto”.
Sherlock annuì, incapace di fare altrimenti. Non poteva che essere totalmente d’accordo con lui.
“Però, sai, John…” Sherlock improvvisamente esordì, catturando l’attenzione del dottore, che con difficoltà distolse gli occhi dal bambino. “Sento un bisogno strano al momento”.
John per un secondo assunse un cipiglio sconvolto, come spaventato che Sherlock potesse aver cambiato atteggiamento e idea nel giro di un minuto. Non sarebbe stata la prima volta, dopotutto.
“Sherlock…” John balbettò, terrorizzato.
“Sento un irrefrenabile bisogno di chiamare Molly” Sherlock si finse anch’egli spaventato. Fosse mai che perdesse occasione per prendere un po’ in giro suo marito. “Voglio che corra al primo negozio aperto a comprare tutto l’occorrente per tappezzare questa stanza di addobbi dal soffitto al pavimento”.
John, dopo un minuto di totale smarrimento, riprese a respirare e rilassò tutti i muscoli tesi. Scoppiò a ridere, scuotendo la testa.
“Magari palloncini bianchi e azzurri sì? Cuscini…e cos’altro poi?” John si finse pensoso. “Fiocchi, merletti e cioccolatini?”.
Sherlock ridacchiò, allegro.
“Hai una memoria perfetta John” si complimentò. “Bisogna adeguatamente festeggiare”.
John rise ancora e si mise in punta di piedi, per scompigliare i capelli di suo marito e per incontrare la sua bocca, baciandolo con dolcezza e amore infiniti.
Sherlock tenne salda la presa sul loro bambino, che dopo un profondo sbadiglio ora sonnecchiava nel calore delle braccia di Sherlock, e ricambiò il bacio con trasporto, sorridendo sulle labbra di John teneramente.
John si separò a malincuore dalla bocca di Sherlock e sussurrò un flebile ma forte ‘ti amo’ sulle sue labbra.
Rimasero in silenzio per qualche secondo, senza bisogno di parole ma cibandosi di soli sguardi, prima che Sherlock decidesse di parlare di nuovo.
“Sai John, sono emozionato” esordì e John rimase sorpreso dall’inconsueta scelta di parole. “Non vedo l’ora di insegnargli ad accendere un becco bundsen”.
John ebbe una chiara visione di Sherlock e un ragazzino di circa dieci - undici anni alle prese con fiamme ossidriche, mascherine, boccette colme di strani intrugli e immancabili teste, dita e piedi sparsi un po’ per tutta la cucina. Al solo pensiero si sentì letteralmente rabbrividire, ma non poté fare a meno di ridacchiare sommessamente.
“Oh Sherlock, che splendido futuro si prospetta per me” John scherzò, fingendo di pregustare un’immagine particolarmente gradevole. “Passare il resto dei miei anni a sedare incendi, a evitare esplosioni chimiche e a pulire coltivazioni di muffa dal mobile del lavello”.
Sherlock schioccò le labbra, alzando le spalle e guardando John con esagerato entusiasmo.
“Oh sapevo che avresti gradito” si complimentò. “Dillo che sei un uomo fortunato, John”.
John scosse la testa e guardò ancora suo marito e suo figlio, adesso profondamente addormentato e rannicchiato contro il petto di Sherlock, le piccole manine strette intorno al risvolto della sua giacca. Forse non sarebbe stato poi tanto male, John pensò, anzi, non lo sarebbe stato per niente.
Un altro piccolo genio non sarebbe stato un problema, lui era stato un soldato e il convivente di Sherlock Holmes per anni e anni, ed era preparato a tutto, davvero ad ogni cosa.
E in fondo, la vita con il detective aveva reso John veramente felice come mai in tutta la sua vita, anche con esplosioni, teste nel frigo ed esperimenti vari annessi.
Il dottore annuì, fingendo un sospiro rassegnato.
“Hai ragione, Sherlock. Hai ragione da vendere” John sussurrò, fissando ancora il bellissimo quadretto. “Il più fortunato sulla Terra”.

 




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