Autore:
RaspberryLad
Titolo: Flying
Paese
scelto:
Danimarca
Fandom/Originale/RPF: Originale
Tipologia: One-shot
Rating:
Giallo
Genere:
Introspettivo, Generale
Avvertimenti:
Slash, linguaggio un po’
colorito
Introduzione: Dire
di
cambiare sembra molto facile,
cambiare davvero no. Ma Søren
vivrà sulla sua
pelle quanto ciò sia falso e solo un’apparenza,
complici un buon amico, una
girandola e una bottiglia di birra.
NdA: A fine capitolo.
Flying
Layers of dust and
yesterdays
Shadows fading in the haze
of what I couldn’t say
And though I said my hands
were tied
Times have changed and now I
find I’m free for the first time
Feel so close everything now
Strange how life makes sense
in time now.
– Flying, Anathema –
Sometimes I feel like throwing my hands up in
the air
I know I can count on you.
– You’ve Got The Love,
Florence + The Machine –
Io
ed Emil siamo amici da tanti anni. Nella nostra
amata København1 non è
necessariamente facile conoscersi, neanche
tra coetanei: vedi te, in una città popolosa come la nostra.
Nonostante ciò,
abbiamo avuto la fortuna di conoscerci già al
børnehave2 e a creare
un legame molto forte. È stata una vera e propria fortuna
conoscerlo:
nonostante abitassimo nello stesso quartiere, non era detto che ci
saremmo
conosciuti. Se non ci fosse stato già il nostro legame,
avremmo rischiato di
non vederci mai, visto che, crescendo, siamo diventati molto diversi.
Lui è il
classico secchione che ha sempre preferito star da solo (o con me) a
leggere
libri piuttosto che uscire e andare in un pub con qualche compagno. Ha
amici,
ovviamente, ma sono molto simili a lui – per il famoso
criterio del chi va con lo zoppo impara a
zoppicare –
tanto che, circa una volta a settimana, si chiudono in casa a fare una
partita
a Risiko! Che stress.
Tanto
lui non ama la vita mondana, tanto io ci sguazzo
dentro. Non sono mai stato uno preciso e organizzato come lui, molto
spesso il
cervello me lo dimentico spento. Potrei definirmi un artista:
se c’è un’arte
creativa, si può essere certi che mi piaccia o che la
pratichi. Mi piace
l’arte, mi piace la musica, che sia classica o moderna, pop o
rock, elettronica
o metal, che differenza fa! E sono sempre stato un animale da
compagnia. È
difficile vedermi da solo a leggere, a meno che non sia a casa, o con
Emil,
appunto. Per la scuola mi fermo ovunque a chiacchierare con qualcuno,
alla fin
fine mi basta poco per conoscere gente. Non trovo, però,
tutte le persone
stimolanti, anzi. Forse è anche per questo che gli voglio
così bene, perché è
lui a stimolarmi.
Ricordo
ancora quando ho iniziato a suonare il
basso, avevo dodici o tredici anni e avevo iniziato ad ascoltare
assiduamente
rock. Diciamo che ero entrato nella mia fase da adolescente
“devo distinguermi
da chiunque ho intorno”, benché possa sembrare
prematuro. Emil anche è un buon
ascoltatore di musica, lo concentra e lo rilassa, ma forse questo anche
per
merito mio, detto col senno del poi. Gli avevo raccontato di come mi
piacesse
il basso, di come mi
sembrasse che desse
il ritmo, ben più della batteria, di come riempisse il
suono. Tra l’altro, il
basso è uno degli strumenti meno suonati, forse è
reputato troppo di nicchia. Lui,
candidamente, mentre leggeva Guerra e
Pace – ecco, io a dodici anni non ci sarei
riuscito, e in realtà non ce la
farei neanche ora! – mi disse, candidamente: – Beh,
se lo reputi tanto
interessante, perché non lo inizi a suonare?
Ecco,
forse il ruolo di Emil nella mia vita è sempre
stato quello di mettere ordine alle mie idee. Il mio, invece, era
scombinare i
suoi piani. L’estate scorsa, ho preparato a sua insaputa un
weekend a
Stoccolma, solo io e lui. Lui si era fatto un piano di letture e
ascolti
musicali per una recensione – è redattore in una
webzine, tra le altre cose, ed
è bravissimo, ha proprio un senso critico mostruosamente
preciso, ma non ci si
poteva aspettare niente di diverso – ma lo tirai fuori dalla
sua stanza, gli
preparai una valigia davanti al suo viso perplesso e lo portai a
prendere
l’aereo. Tra l’altro, ricordo ancora il dialogo con
la madre, una donna rude e
forte, ma solo all’apparenza, visto come passasse sopra ai
miei colpi di matto.
La signora Stefansson era in cucina, intenta a preparare il
Røgrod, per
cucinarci una torta – mi sono sentito anche discretamente in
colpa, in quel
momento – quando ci sentì scendere le scale con
una certa fretta. Si affacciò
sul corridoio e ci chiese: – Emilchen, Søren, dove
state andando? Quando
tornate?
–
På søndag! Andiamo
a Stoccolma!
Uscimmo
così, davanti al viso esterrefatto della
signora Stefansson, e iniziammo a correre verso la stazione, per
prendere il
treno per l’aeroporto. Appena seduti su quello, scoppiammo a
ridere come due
ragazzini, come se fossimo ancora stati ai tempi in cui avevo iniziato a
suonare il
basso. Tra l’altro, Stine non la prese per niente bene: al
figlio disse poco,
ma più perché mi presi tutta la
responsabilità della situazione. Aveva ragione,
forse avevo esagerato, ma la felicità che avevo provato quei
due giorni assieme
al mio migliore amico era indefinibile.
Tante
volte siamo stati scambiati per fidanzatini. Emil
è sempre stato un ragazzo timido o comunque poco propenso
allo scherzo, ma
quando si trattava di me, iniziava a parlarmi con una lingua biforcuta
per
prendermi in giro, al che io iniziavo a rispondere a tono e
cominciavamo a
spintonarci e a sfotterci. La sua metamorfosi in mia presenza
incuriosiva
tutti, a scuola, ma sembrava strana addirittura a me, pur conoscendolo
molto
bene. Probabilmente aveva solo bisogno di tanto tempo per sciogliersi e
con me
aveva superato la fase di timidezza e riserbo. Persino la signora
Stefansson si
domandava se stessimo insieme o se avessimo fatto sesso, ma non aveva
capito
che Emil era, anzi è, completamente eterosessuale e che il
nostro rapporto
poteva anche essere d’amore, sì, ma puramente
fraterno. Avevamo fatto qualcosa –
seghe in coppia,
sostanzialmente – ma più per curiosità
che per attrazione, e comunque non c’eravamo
spinti oltre. Persino io, che a differenza sua apprezzo i maschi e
molto, non
riuscivo a trovare la cosa eccitante. Cioè, eccitava, ma
solo dal punto di
vista dell’adrenalina, per aver fatto qualcosa di molto
intimo insieme, ma non
era qualcosa che mi arrapasse, detto in termini spiccioli. Non sarei
mai
riuscito a farci qualcosa in più, neanche se lui mi avesse
chiesto di provare.
A
tal proposito, era la mia spalla ed io la sua. È
stato con due o tre ragazze col mio aiuto, mentre lo rendevo
interessante – come se non lo fosse
già stato di suo! –
agli occhi della lei del caso, e lui aveva necessariamente voluto
ricambiare,
cercando di trovarmi un ragazzo. Era divertentissimo, perché
lui cercava di
tastare il terreno per me e una o due volte si ritrovò i
ragazzi che provava a
rimorchiarmi – sicuramente uno alla festa di Linda
dell’anno scorso, un altro
al mare l’estate prima – che invece erano ben
più interessati a lui. E non gli
avrei mai dato torto, visto il suo metro e ottanta e il suo aspetto
così
terribilmente danese, ma con i capelli neri. Un figo, non penso ci
sarebbe
altro termine per definirlo. Gli occhiali, tra l’altro, lo
rendevano più
gnocco, neanche fosse una segretaria. O un nerd. Tra l’altro,
con il tizio alla
festa di Linda, ci pomiciò pure, senza ritegno. Forse non
era così tanto etero,
ma era un puro e
semplice dettaglio.
Con
tutto il piacere che mi facesse il suo aiuto per
trovarmi un tipo, però, mi è stato senza dubbio
più d’aiuto quando finivano per
mollarmi. È successo varie volte, prima con
quell’altro Emil tre anni fa, poi
con Oliver qualche mese dopo, poi con Mikkel. Ma soprattutto con
Mathias, pochi
giorni fa.
Definirmi
di pessimo umore era un puro e semplice
eufemismo. Non sono mai stato uno troppo fortunato in amore, diciamo
anche che
la mia vita sentimentale è sempre andata uno schifo. La
colpa è anche mia, ma
non perché penso di
richiedere troppo, a livello di attenzioni e tutto. Boh, sembro
diventare
insopportabile, senza volerlo; che poi, a dirla tutta, neanche mi
sembra di
esserlo. Forse sono poco interessante, forse sono uno che dà
troppo – o troppo poco –
ma sicuramente non so
qual è il problema. Il fatto è che me la prendo
regolarmente in quel posto – e
non come vorrei – e tutto ciò mi frustra, anche
perché non riesco a capire cosa io
faccia di preciso, per
ritrovarmi in una situazione del genere. Dopo tre storie serie finite a
donne
di facili costumi, dopo un arco di tempo simile (qualche mese, otto o
nove) tra
l’altro, è anche normale che inizi a pormi delle
domande. Con Mathias sembrava
andare diversamente, e ritrovarmi punto e daccapo mi ha massacrato,
senza mezzi
termini. Eravamo a pranzo fuori, in un ristorante, avevamo deciso di
uscire per
festeggiare assieme il suo primo esame
all’università, ma era strano, avevo
quasi pensato non si sentisse appagato. Cercai di fargli discretamente
– a modo
mio – compagnia, senza chiedergli cosa lo affliggesse. Avevo
imparato con Emil
che non si possono costringere le persone a dire ciò che non
vogliono e che
conviene aspettare che sia l’altro a confidarsi. Troppe volte
avevo fatto
quest’errore, e, infatti, con Oliver c’eravamo
lasciati per la mia troppa
insistenza – che aveva preso per gelosia, peraltro
– tanto che avevo deciso di
dare più spazio.
Effettivamente,
poi, mi ha detto qual era il motivo
per cui era nervoso: me. Mi ha mollato appena prima di pagare il conto
– ed io
son convinto che l’avesse fatto per pagare separatamente, ma
sono io malfidato
– dicendomi che si era innamorato di un quattordicenne e che,
per non farmi
soffrire, aveva deciso di lasciarmi. Non ho chiesto niente: se fosse
gay, se ci
stava (il tipo), quanto tempo era che ci pensasse. Niente, non ho avuto
il
coraggio di chiedere niente, o, comunque, non avevo la voglia
di farlo. Non importavano i se e i ma, l’unica cosa
importante era che mi stava mollando. Sembrava proprio che non fossi
interessante,
anche Mikkel mi aveva lasciato per la stessa motivazione, e so anche
per certo
che col tizio ci stava già scopando, ma meglio non pensarci.
Io e Mathias ci
siamo salutati là: lui era imbarazzatissimo, cercava di non
guardarmi – non
riuscendoci – e preferiva non parlare. Mi ha detto che era
meglio se non ci
fossimo visti per un po’ – ma
dai! Non ci
sarei mai arrivato senza che tu me lo dicessi! – e
che mi augurava di
essere felice. Ha avuto la decenza di non darmi un bacio
d’addio, ma penso che
così facendo non abbia aiutato me a sfogare quello che
sentivo. Forse aveva
paura, non so, ma non m’interessa nemmeno. Sono tornato a
casa, son riuscito a
evitare gli sguardi di mia madre, che altrimenti mi avrebbe sicuramente
chiesto
cosa fosse successo, almeno a giudicare dal mio aspetto allucinato allo
specchio. Mi misi a studiare, tutto con apparente
tranquillità. Sapevo bene,
però, che era tutta apparenza e che fosse dovuto
più al trauma – visto che il
cambiamento sembrava essere
avvenuto
da un giorno all’altro – piuttosto che reale
indifferenza. Lo capii quando,
finito di studiare, mi ritrovai a osservare il soffitto della mia
stanza, che
avevo dipinto con mio padre di celeste, visto che in bianco mi metteva
troppa
ansia. Era un momento troppo riflessivo per essere normale, penso che
avessi lo
sguardo vacuo e sono sicuro che la mia testa si rifiutasse di pensare.
Sentivo
solo le lancette dell’orologio muoversi, per il resto non
sentivo rumori, né
provavo sensazioni. Mi sembrava di essere in trance, e il pensiero
–
successivo, in realtà – che fosse per un ragazzo
mi spaventava da morire,
perché voleva dire che mi stavo annullando o che, peggio,
provavo sentimenti
solo in funzione di qualcuno. Per dire, sentirsi in trance per una
canna o aver
bevuto – un po’ –
troppo era normale
e anche plausibile, ma il pensiero che fosse per un altro individuo in
quanto
fosse lui era parecchio
inquietante.
Il mio tentativo di reazione fu blando, va detto: mi misi a suonare Without You I’m Nothing dei
Placebo al
basso, tanto per essere un po’
più
felici. Per carità, bellissima canzone, ma non era proprio
il massimo per
l’occasione, no. Anche se, effettivamente, meglio triste che
catatonico, anche
cercare di uscire dall’impasse nel
male
è una forma di reazione, d’altro canto.
Le
note scorrevano, la stavo ormai quasi suonando
meccanicamente, e le parole mi s’imprimevano in testa. You
never see the lonely me at all. I, take your plan, spin it sideways. Neanche
mi accorsi, quasi, di
essere scoppiato a piangere, e più suonavo, più
piangevo. Non mi sentii meglio,
ma senza dubbio mi accorsi di essere di nuovo in me.
Ho
sentito cosa suonavi prima. Alle sette vieni a casa mia e non tollero
rifiuti.
E.
Non
so come Emil abbia fatto a capire che stessi
male. O meglio, non so come abbia sentito che suonavo Without
You I’m Nothing, visto che ero certo che non fosse
in casa
in quel momento. Forse si era accorto che non avevo passato il
pomeriggio a
provocarlo e a disturbarlo e che tutto ciò non significasse
niente di buono. O
forse era solo empatico nei miei confronti, e in tal caso mi
preoccupava farlo
star male. Capii che non ci fosse alcuna possibilità di
scampare all’invito –
bel coraggio a chiamarlo in quel modo, ma
vabbè, a questo punto poteva direttamente puntarmi una
pistola alla tempia – di
Emil, anche perché sapeva essere molto ostinato. Volendo
anche metterla su un
piano di coppia – noncipensare –
lui
non sapeva coprire il mio ruolo di cazzone così facilmente.
O, ancora meglio,
non voleva vedermi in un ruolo che non era il mio e che non mi si
addicesse.
Mi
feci forza e mi preparai a uscire, con mio grande
disappunto. Uscire di casa voleva dire notare come non cambia il mondo
perché
due persone si lasciano. Lo so, è un pensiero terribilmente
deprimente e anche
immaturo, volendo, ma in quel momento, mollato per la quarta volta in
relativamente poco tempo, e con la stessa scusa, uno deve porsi qualche
domanda
e cercare di cambiare. Vedere tutto uguale a come lo si è
lasciato non aiuta,
perché ti fa credere che il problema sia fuori, non dentro di te, oppure che tutto
ciò che fai sia inutile, tanto da
indurti a non far nulla e a non sprecare energia. Per esperienza
personale,
l’immobilismo non aiuta. Mai.
Il
giorno era il 12 dicembre 2011, per cui faceva
parecchio freddo. In Danimarca fa sempre freddo, più che in
Germania, ma basta
farci l’abitudine e non c’è problema.
Scendo ogni estate in Germania, da dei
cugini di mia madre che abitano vicino ad Ansbach, ché lei
dice che è
necessario che io sappia il tedesco,
perché “senza
lingue non si va da
nessuna parte”. Bellissimo, ma sotto costrizione io
non riesco a fare le
cose, perché mi annoio, m’innervosisco. Forse sono
un po’ limitato, è vero,
però non è niente che non si possa cambiare.
Lì, pur essendo comunque in mezzo
al continente, fa più caldo e tira molto meno vento. Io non
sto tranquillo
quando qui in città, soprattutto sul lungomare, indosso un
cappello, per il
terrore di vederlo volare via con una folata più forte.
M’infilai le scarpe, mi
chiusi il cappotto e uscii, diretto dal mio amico, che speravo non
avrebbe
fatto domande precise, poiché il dover rispondere seccamente
sarebbe potuto
essere non facile, né soprattutto divertente. Mi sfregai le
mani: avevo
dimenticato i guanti proprio a casa sua il giorno prima ed era una
bella scusa
per andare a recuperarli. Ero un po’ in anticipo,
però, troppo preso dai
pensieri per poter aspettare seduto sul letto – e magari
rischiare di arrivare
in ritardo senza accorgermi dell’ora. Decisi di fare un giro
sull’Amager
Strandvej3, a osservare un po’ se ci
fosse gente. In realtà ne
trovai davvero poca: per la maggior parte si trattava di studenti
universitari
intenti ad andare, in gruppo, a casa di qualcuno di loro.
C’è anche da dire che
fosse un po’ tardi per girare, considerando che tante
persone, magari, stavano
ancora cenando.4 Mi sedetti su una panchina
sotto ad un tiglio – spoglio
– ad osservare le poche
biciclette passare, come se fossi in attesa di qualcosa di non ben
definito.
Col senno di poi, mi viene da dire che fossi una sorta di riproduzione
di Waiting for Godot di Beckett,
visto che
attendevo così, senza neanche troppo senso e senza voglia,
stavo aspettando giusto
per aspettare. Quando mi accorsi che era forse ora di alzarsi e di
andare da
Emil – prima che chiamasse, nell’ordine, un
investigatore privato, la polizia e
un’ambulanza, che ci sta sempre bene – mi
incamminai per Italiensvej,
costeggiando tante case di mattoni, così simili
l’una all’altra. Poteva quasi
sembrare un’illusione ottica, poteva sembrare quasi infinita
la strada…
Søren, ti sei bevuto il cervello? Ma ti rendi
conto di come stai pensando? Te ne rendi conto? Non sembri neanche tu.
Dov’è
finito il cazzone che fa casino? Questo tipo riflessivo non sei tu.
Questo non
è riflettere, è subire passivamente la vita.
Sveglia!
Ci
mancava solo la mia coscienza a farmi la predica.
In
tutta quell’atmosfera fatta di mattoni, arrivò
quasi dal nulla – chissà
quanto tempo è
passato, mentre ascoltavo la mia coscienza – un
ragazzo. Portava in mano
una maschera di un coniglio, aveva una bombetta e una camicia in tartan
e
camminava a velocità sostenuta. Non so il perché
ma lo seguì da lontano. Il
cielo ormai era buio e l’atmosfera era rischiarata
semplicemente dai lampioni e
dalle lampade accanto agli ingressi delle case. Lo sentivo canticchiare
una
canzone, mi accorsi di riconoscerla ma non mi veniva il titolo. Non so,
era
piacevole che qualcosa riuscisse a fermare quell’immobilismo
che traspariva
dalla via deserta. Mi misi a cercare, a testa bassa, la canzone sul mio
mp3,
continuando a camminare. Dopo qualche minuto la trovai, era Eyes on Fire dei Blue Foundation. Me la
ricordavo bene, mi era stata consigliata da Emil un pomeriggio di
qualche mese
fa, anzi, forse anche di più, ma comunque appena dopo che mi
aveva mollato
Mikkel. Ero di pessimo umore ed Emil, dopo il mio rifiuto di parlare,
aveva
cercato questa canzone su Youtube per farmela passare, andando, nel
frattempo,
in salotto ad aspettarmi per quando avrei – testuali parole
– “finito di fare il
coglione”. La finezza, insomma.
And just in time
In the right place
Suddenly I will play my ace.
Ricordo
che, dopo averla sentita, mi alzai per
andare da Emil a chiedergli scusa, con una domanda in mente: quando?
Quand’è
che avrei dimostrato di non essere veramente
quello che traspariva da me stesso? Come far capire il mio tentativo di
essere
migliore, una persona diversa? Come fare a spiegare di saperlo essere?
Non lo
sapevo allora, e dico la verità, non lo so
tutt’ora. Però può essere presa come
speranza, no?
Rialzai
gli occhi, ma non rividi più il ragazzo.
Probabilmente era ormai scappato via, o forse era entrato dentro una
delle
case. Poco male, mancava ormai poco per arrivare da Emil. Sperai
vivamente che
non avesse avvertito la madre che ero di cattivo umore o sarebbe stata
la fine.
Mi avrebbe fermato con tè, biscotti, chiacchiere da tavola e
altre cose che,
per carità, carine, piacevoli, la signora Stefansson era
gentilissima, ma erano
leggermente fuori luogo in quel
momento. Arrivato lì davanti, suonai, guardandomi intorno,
ed ero finalmente
più tranquillo. Forse era la compagnia in arrivo a mettermi
di buon umore? Boh.
Mi aprì proprio la signora Stefansson, tra l’altro.
–
Caro, ben arrivato? Vuoi un tè? Dei biscotti?
Dimmi pure!
Appunto.
Fortunatamente,
prima che potessi aprire bocca,
arrivò il mio amico a salvarmi.
–
Mamma, lascia stare, Søren deve venire con me. Non
venire a portare tè o biscotti che andiamo in balcone, ok?
Grazie. – Emil mi afferrò
per un braccio e mi trascinò su per le scale, incurante
dell’occhiata
sbigottita della madre. Era troppo strano anche per i miei gusti, mai
era stato
così attivo.
Mi
trascinò in balcone e m’indicò la
sedia, in
attesa di parlare. C’erano due birre sul tavolo e le luci
erano rigorosamente
spente. Speravo di aver un po’ di calore, ma
evidentemente…
–
Perché non dentro? – gli chiesi, sedendomi
comunque. Immaginavo la risposta, e comunque mi aspettavo che non mi
sarebbe
stato a sentire.
–
Perché va meglio così. – fu la laconica
risposta.
Sembrava quasi alterato, e anche questa era una novità.
–
Come hai fatto a sentirmi?
–
Passavo sotto casa tua, semplicemente. – sbuffò,
prima di sedersi anche lui, di fronte a me. Aprì anche le
birre per darci una
lunga sorsata. – Ed io lo so che significa. Mathias ti ha
mollato.
Brutale.
In
ogni caso, tacqui.
–
Perché non me l’hai detto? Perché sei
stato una
giornata a macerarti? E a cosa hai pensato? –
continuò, avvicinando la sedia a
me e sedendosi accanto. Potevo sentire la sua gamba destra contro la
mia.
Sbuffai.
– Ho pensato al fatto di essere sbagliato.
–
E che non lo sapevo? – si alzò e iniziò
a
camminare sul balcone con la birra in mano, cercando di trovare
– palesemente –
il modo più adatto per
esprimersi. – Søren, mi spieghi perché
continui a farti del male così? Perché
cerchi di trovare negli altri quello che non credi
di trovare in te? Me lo spieghi?
–
Credi? – riuscii solo a replicare.
–
Sì, credi. Tu credi di essere sbagliato quando,
cazzo, non lo sei.
Si
avvicinò a me, mi prese il viso tra le mani
perché lo guardassi dritto negli occhi. Soffriva e tanto,
per come stavo, ed
era l’ultima cosa che avrei voluto vedere. Lo invitai a
sedersi di nuovo e gli
presi una mano, per farlo calmare. Era fuori di sé e si
vedeva. Voleva vedermi
felice, e il fatto che a renderlo furioso fossi io, mi faceva
vergognare come
un cane.
–
Sarà vero. Ma perché allora vengo mollato tutte
le
volte per lo stesso motivo? Perché?
–
Sai, caro, non tutti vedono i cambiamenti, anche
perché cambiare, non è radicale, ma è
un pezzettino che si aggiunge ogni
singolo giorno, e per lo più senza che si veda. Dire che si
cambia è facile, a
posteriori, ma durante si sembra sempre gli stessi. Un giorno ti
accorgerai che
non sei la stessa persona che eri prima, e che neanche oggi sei la
stessa
persona che eri ancora prima. Si cresce anche in questo. Sai
perché si dice che
niente è per sempre?
–
For… – cercai di intromettermi, ma lui
proseguì
imperterrito. Ma che bravo, mi sta
facendo la predica a monologo.
–
Perché nella vita qualcosa cambia, che lo si
voglia o meno. Che accada a noi, o ad altri. Se qualcosa potesse
rimanere davvero immobile,
potremmo immaginare
che esista anche il moto perpetuo in natura, no? Ma si sa che non
è possibile,
ergo è sempre possibile che si cambi.
–
Interessante. – borbottai, non perché non fossi
convinto, ma perché sembrava un… cattedratico,
ecco la parola più giusta.
Quando aveva i suoi attacchi da saccentone, lo ammetto,
m’innervosiva
abbastanza. Però non erano atteggiamenti che potessero
rompere il nostro
rapporto, anche perché era raro, e quando lo faceva, era
tendenzialmente perché
era molto infervorato. Se era infervorato, era qualcosa cui teneva. E
in quel
caso si parlava di me. Lo perdonai prima ancora di rendermi conto che
mi stava
innervosendo, quasi quasi. – Lo so che si può
cambiare, ma non è detto che si
cambi in tutto. Ci sono cose in movimento e altre stazionarie, no?
–
Vero, ma è anche vero che può sembrare
che siano ferme. È tutta percezione. Magari ciò
che sembra
stia cambiando non lo sta facendo. Ti faccio un esempio: hai presente
le
girandole? – mi disse, indicandone una che avevamo messo
insieme su quel
balcone.
–
Certo, ne ho una davanti agli occhi! – ridacchiai,
avvicinandomi a essa.
–
Ti sei mai accorto che si muovono, anche senza che
tu percepisca vento? Beh, è un po’ come con gli
esseri umani. I veri
cambiamenti non si percepiscono, non si comprendono. Un po’
come la Rivoluzione
Francese. – ancora con questo
atteggiamento da professore. Terrificante.
–
Stai divagando. Ancora. – gli risposi,
appoggiandomi alla ringhiera del balcone.
–
Voglio dire che deve solo arrivare qualcuno che ti
scopra e che ti faccia capire che non sei quello che pensi di essere, e
che
magari, addirittura, non lo sei mai stato. Tutto qui. – si
avvicinò a me,
appoggiandosi, ancora con la birra in mano, alla ringhiera. –
Ci vuole calma.
Punto. Anche se mi dispiacerà, quando qualcuno ti
scoprirà, perché vorrà dire
che non sono l’unico a sapere la persona speciale che sei.
Non
l’aveva detto davvero.
–
Cosa?
–
Sei speciale, Søren. E ne sono fermamente
convinto, solo tu non te ne rendi conto.
Mi
porse la mia birra, brindammo e ci mettemmo a
bere. Fu quella sera che capii davvero che lui credeva in me. Fu sempre
quella
sera che capii fin nel profondo che la nostra vita sarebbe proseguita
insieme,
ovunque saremmo andati. Ma fu solo una sera di pochi anni dopo quella
in cui
capii che aveva ragione, cazzo, se aveva ragione. Non potevo capirlo in
quel
momento: non quando ancora ero un liceale, non prima di vivere da solo
– con lui – e
sicuramente, non prima di
aver accettato che stare con una persona può far male,
chiunque essa sia. Ed
era questo il messaggio che Emil, il mio Emil,
mi stava lasciando in quel momento. Rimanemmo lì, in
balcone, a vedere le
stelle, sdraiandoci sulle mattonelle per terra, e sti cazzi del freddo.
In quel
momento, mi sentii veramente in pace con me stesso.
After the war we said we
fight together
I guess we thought that’s
just what humans do
– Anything Could Happen,
Ellie Goulding –
I’m looking in the space
This time, this void
I’m making my way through the muddy
minutes
The pull is in my muscle
The ache is in my bones.
–
Breathe, Kylie Minogue –
1
Penso si
capisse, ma il nome originale di Copenaghen, capitale della Danimarca.
2
Asilo, in
danese. Nota più in generale: per il danese mi sono affidato
– argh – a
GoogleTranslate, ché, mio malgrado, non so (ancora) il
danese. Sono proprio
cosette minuscole, una parola qua e là o una frase
stupidissima. Non son
convinto della correttezza grammaticale, ma visto che mi è
stato comunicato da
chi lo studia che la grammatica danese non è troppo diversa
da quella tedesca,
ho tradotto Tedesco–Danese, nella speranza che sia
più corretta possibile.
Scusate lo sproloquio, ma era necessario.
3
La
strada è di
fronte ad una sorta di parco–spiaggia (Strand in tedesco, e
sembra anche in
danese, significa spiaggia) ed era adatta al tipo di atmosfera che mi
stavo
immaginando, cioè davanti al mare
“aperto” su una strada.
Non è proprio mare aperto perché dà sul canale
(l’Øresund)
che separa København
(e quindi la Danimarca) da Malmö (e quindi la Svezia). Ho
finito di fare il
geografico pedante. Tra l’altro, è divertente per
me immaginare che proprio lì
passi Italiensvej, cioè Via Italia. ;)
4
Non so dire a
che ora di preciso si ceni in Danimarca, ma dalle esperienze che ho di
Paesi un
po’ più a sud (Germania e Paesi Bassi), ho i miei
forti dubbi che si ceni alle
sette. Paese che vai, ora di cena che trovi.
Note
dell’Autore!
Uhm.
Non sono soddisfatto, dico la verità. Diciamo
che doveva venire in maniera un po’ diversa, nelle mie
intenzioni, ma Søren (ho
fatto copia incolla di questa maledetta ø
tutto sto maledettissimo tempo e sono snervato, tra l’altro.
Ma farle facili le
cose, mai, eh.) ha deciso di seguire la sua strada. Vabbè,
non son riuscito a
impedirlo, anche perché ho avuto scadenze a fermarmi. Nel
caso di specie, la
shot partecipa al “Worldwide Contest” indetto da
Yuki sul forum di EFP e c’ho
messo veramente TROPPO. La storia è basata su un Paese (la
Danimarca, non ci
sareste mai arrivati, vero?) e su un’immagine, una canzone e
un piatto tipico
scelti dalla stessa Yuki e che ho messo sparsi in queste nove pagine di
storia.
Tra l’altro, per l’occasione, ho fatto abuso di
citazioni canore (a tal
proposito, senza analizzare caso per caso che sono troppe, nessuna
delle
canzoni citate mi appartiene e non è utilizzata a scopo di
lucro, e a buon
rendere per gli autori), anche questo sotto influsso di sta sciagura di
personaggio.
Non
son soddisfatto, perché volevo fosse una cosa
più riflessiva, e invece mi sembra molto un
“tendiamo a segamentalizzare,
yeeeeeeeeeeah”. Vabbè, che ci posso fare? Le cose
non vanno mai come credi.
(cit. Giorgia). E si vede anche da queste note di fine capitolo. Tra
l’altro mi
sento terribilmente in colpa perché non aggiorno niente da
eoni e perché sono
lentissimo a scrivere, ma l’uni mi snerva. Anzi che
l’abbia finita questa. Sto
scrivendo anche altro, eh, ma vediamo quando pubblicherò.
Comunque volevo
avvisarvi che Soren (mi sono rotto, perdonatemi) ed Emil
ricompariranno, quando
meno ve lo aspettate, ma torneranno. Spero anche in qualcosa
più intellegibile
di ciò.
Comunque
vi saluto, che anche ste note sono senza
capo né coda. Santa pace.
Alla
prossima!
–RaspberryLad–