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Autore: Lienne    05/12/2012    0 recensioni
Chiunque metta piede a Granada non può far a meno di percepire il peso dell’energia, della passione e della storia dell’ultimo stato arabo spagnolo che prosperò per quasi 800 anni, prima d’essere riconquistato dai cattolici nel lontano 1492. L’incontro fra la cultura araba e la cultura andalusa ivi sfociò in un’ibridazione seducente, avviluppante e ingannatrice, che provoca la sensazione di vivere a cavallo di due realtà. [ .... ]
Genere: Generale, Introspettivo, Mistero | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Salve a tutti! 
 

Volevo proporvi questo piccolo racconto che ho scritto quest'estate in ricordo della mia vacanza in Spagna del 2011, per condividere con voi l'emozione che ho provata in questo luogo magico che è la città di Granada, nel cuore della pura Andalucia. Avevo mandato il racconto ad un Premio Letterario Nazionale, ma purtroppo non sono nemmeno entrata fra i primi 10... però vorrei comunque sapere se la mia storia risulta interessante oppure no. Dunque...

Que lo paseìs bien! 

Aurora



Sospiro Andaluso




 
L’istinto è estremamente effimero. Talvolta riempie di un’urgenza irrefrenabile, che annichilisce la razionalità e blocca il respiro. Non è sempre facile riconoscerlo e seguirlo, anzi il più delle volte risulta impossibile, ma quando viene assecondato è capace di condurti a esperienze inaspettate. Forse il termine istinto, da solo, non rende l’idea; forse è d’obbligo accostarlo al concetto di destino. C’è chi non crede a queste illazioni e le ritiene solo un’impressione. Beh, non io, signori miei! Non avete mai provato un’irresistibile attrazione verso un luogo, una persona o un oggetto? Un interesse tale, per cui nulla avrebbe potuto distrarvi dal raggiungimento del vostro obiettivo? Un pensiero fisso, strisciante, insistente. A me è capitato, più di una volta, e ognuna mi ha segnata profondamente. L’ultima riguardò un viaggio da me compiuto nell’assolata terra andalusa e, precisamente, a Granada, il cuore dell’antica Al-Ándalus. Scelsi quella meta senza colpo ferire, con la sicurezza di chi sceglie il cammino della sua vita. Lì avrei vissuto, gioito, pianto e studiato per un mese intero, immergendomi in persone e luoghi che si sarebbero insinuati sotto la mia pelle. Credo che potrei riassumere la mia permanenza nella città con una sola parola: magia.
Chiunque metta piede a Granada non può far a meno di percepire il peso dell’energia, della passione e della storia dell’ultimo stato arabo spagnolo che prosperò per quasi 800 anni, prima d’essere riconquistato dai cattolici nel lontano 1492. L’incontro fra la cultura araba e la cultura andalusa ivi sfociò in un’ibridazione seducente, avviluppante e ingannatrice, che provoca la sensazione di vivere a cavallo di due realtà. Visitai innumerevoli posti sia laici che religiosi. Uno, che mi suscitò un’emozione
fortissima, fu la tomba dei Re Cattolici. Una piccola alcova, sormontata da volte e navate riccamente adornate, accoglieva i sarcofagi e, all’affacciarsi per osservarli, si percepiva subitamente il puzzo agrodolce della decomposizione. Mi chiesi se fossero realmente gli unificatori della Spagna coloro che riposavano a pochi metri da me, o solo dei sostituti collocati per attirare turisti. Sta di fatto che un brivido mi corse lungo la schiena all’idea di poter quasi toccare un pezzo di storia.
Ma, com’è d’aspettarsi da una giovane sulla ventina, non mi limitai a svaghi di tipo culturale. Grazie al breve soggiorno di una mia compagna dell’Università di Milano e del suo ragazzo, potei concedermi una serata di follie. Inoltre, a fine serata sperimentai le abilità amatorie di un esemplare maschile olandese che s’era accodato al nostro gruppetto. E dire che credevo che gli abitanti del nord Europa fossero degli amanti freddi e distaccati! Confesso che in quella serata mi lasciai traviare dai fumi dell’alcool. Suscitandomi subdoli sensi di colpa per il mio essere quasi astemia, i miei compagni mi convinsero a ingurgitare due cañas, birre piccole, e tre mojito. L’abbassamento del livello delle inibizioni, mi portò a trovarmi addosso il suddetto olandesino. Dopo tale notte di bagordi e malessere, mi alzai miracolosamente alle 8.30, in tempo per partecipare a un evento che attendevo con ansia: la visita all’Alhambra. Riuscì a scacciare i postumi della sbornia nel tragitto dalla mia residenza a Plaza Nueva, dove dovevo incontrarmi con gli altri studenti della mia scuola di spagnolo.
Quando il gruppo si fu riunito, una delle nostre insegnanti ci guidò verso l’ingresso di Torre de la Vela. Saranno state le 10.00 del mattino, e la fantomatica calura andalusa iniziò ad assalirci. Dopo un’introduzione sommaria sulle origini del monumento, ci incamminammo per un ripido sentierino in terra battuta, costeggiato da lampioni, ai cui lati scorrevano due piccoli rigagnoli d’acqua limpida. La vegetazione era folta, le chiome degli alberi ci fornivano un fortunato rifugio dai raggi solari e al
rimirare la rigogliosa flora che mi circondava, la nausea mi passò istantaneamente. Alla fine della prima salita c’era un piccolo spiazzo ove era collocata una statua commemorativa di Washington Irving, diplomatico nordamericano che nel 1800 soggiornò per qualche tempo nei palazzi arabi. Mi soffermai a scrutare l’effigie, mentre la nostra guida ci spiegava alcuni fatti biografici. Generalmente io non ho una buona opinione degli statunitensi, li ritengo superficiali e ignoranti, ma sentire come uno di loro sia riuscito a riconoscere la magnificenza di due antiche culture, l’araba e la spagnola, senza troppi pregiudizi, migliorò vagamente la mia impressione su di loro. Qualche metro più avanti ci fermammo di nuovo per commentare la fontana di Carlo V, nei pressi di Puerta de la Justicia. Questo ingresso è oggetto di un aneddoto molto affascinante, a cui pare sia legato il destino dell’Alhambra. Chi non l’ha mai visitata non può neanche lontanamente immaginare quale meraviglia d’ingegno umano essa sia, e quanto i racconti popolari contribuiscano al suo fascino. L’entrata in questione è costituita da un enorme arco arabo a forma di ferro di cavallo, sulla cui parte superiore è incisa una gigantesca mano, mentre su quella inferiore, una chiave. Secondo la leggenda, questi due simboli sono legati ad un sortilegio protettivo lanciato da un grande mago mussulmano; l’incanto si spezzerà quando la mano s’abbasserà per serrarsi attorno alla chiave. Allora tutti i monumenti si polverizzeranno ed i tesori dei
mori verranno alla luce. Grandioso, non trovate? Dopo aver scarpinato per altri 10 minuti raggiungemmo la biglietteria, ci registrammo, ritirammo i biglietti prenotati ed entrammo. Prima d’arrivare al piccolo palazzo del Generalife, nostra prima meta, percorremmo un vialetto costeggiato da alti alberi, che credo fossero cipressi, ma non essendo un’esperta di botanica posso solo azzardare. Esso era attraversato da un fiumiciattolo, il cui scorrere, nell’antichità, aveva la duplice funzione di sostentare gli abitanti della cittadella murata e di rilassare i nervi attraverso il gorgoglìo dell’acqua, che produceva un effetto pacificante. Immaginate quanta fatica ci volle per deviare il corso del torrente per portarlo dalla valle alla collina! Seguitamente costeggiammo un bellissimo punto panoramico, posto a fianco dell’anfiteatro all’aperto, da cui si poteva vedere tutta Granada. Alla fine dello stesso si accedeva all’ingresso del Generalife, residenza di svago dei regnanti arabi, innanzi al quale s’estendevano i magnifici Jardines Bajos. Al centro, e per tutta la loro lunghezza, v’erano una serie di piscinette isolate l’una dall’altra da un piccolo camminamento, al cui centro era posta una bassa fontana rotonda. Ai lati vennero piantate delle siepi molto alte, formanti uno strano labirinto, con piccole impalcature adornate da rose rampicanti multicolori che trasmettevano la sensazione d’essere stati catapultati in un giardino delle meraviglie. Mi domandavo dove fossero Alice ed il Bianconiglio. Entrando nel primo cortile del
palazzo, detto Patio del Descabalgamiento, avemmo la sensazione di trovarci in una corte rurale, ma all’essere introdotti nelle sale interne, cogliemmo immediatamente le influenze arabe nelle greche e nelle architravi a mezza luna. Ma non era ancora niente! Le parole ci vennero meno quando uscimmo nel Patio de la Acequia. Di fronte a tanta grazia un pensiero rozzo, e vagamente razzista, m’attraversò la mente. I costruttori e gli ideatori di un tale paradiso erano veramente gli antenati di coloro che oggi, per ignoranza e paura, ci ostiniamo a chiamare terroristi?
Il secondo cortile interno era il Patio del Ciprés de la Sultana, nella cui pianificazione si fusero lo stile occidentale e orientale, accostando colonnati perfettamente simmetrici a giochi d’acqua. L’intonacatura delle pareti riportava brani del Corano, un motivo iconografico che avremmo ritrovato nei Palacios Nazaries. Sulla parte sinistra del giardino era stata scolpita la Escalera del Agua, collegamento con i Jardines Altos, i cui corrimano non erano altro che canali di raccolta dell’acqua che, in piccole cascatelle, finiva col raccogliersi nella vasca sottostante. Erano le 11.00 passate, e tutti iniziavamo a boccheggiare visibilmente, per cui rinfrescarsi almeno le mani fu un autentico sollievo. Ci dirigemmo a rotta di collo verso l’Alcazaba, attigua all’ingresso dei palazzi reali veri e propri. La nostra visita era programmata per le 13.00 e se avessimo mancato l’orario assegnatoci ci avrebbero rispedito a casa con le pive nel sacco. Attraversammo di sfuggita l’Alhambra Alta, nella quale il capitalismo aveva colpito duramente con la trasformazione del grazioso Convento de San Francesco in un lussuoso hotel cinque stelle. Scempio o abile manovra commerciale? Finalmente arrivammo nella piazza che s’affacciava sul Palacio de Carlo V, sull’Alcazaba e sui Palacios Nazaries. Sorvolerò sul primo, che giudicai solamente un’orrida rivendicazione di potere di un sovrano spagnolo megalomane e insicuro, oltre che uno squadrato e butterato pugno in un occhio nell’estetica del complesso.
Passerò, invece, all’Alcazaba, nucleo dell’apparato militare, e nella cui piazza d’armi avevano riposato le truppe. La posizione favorevole permetteva, dalla Torre de la Vela, di godere di una vista a 360° sulla città e sulle montagne retrostanti. Un ottimo punto strategico, su cui sconsiglio caldamente di salire nelle ore più calde della giornata, soprattutto d’estate. In quindici minuti riuscii a scottarmi completamente le spalle! Poco dopo scendemmo per accodarci alla fila di turisti che attendeva
l’ingresso al complesso arabo e io ne approfittai per intavolare una conversazione con una studentessa di Cambridge, che si lamentava dell’aumento delle tasse universitarie. Por fín superammo tutti i controlli necessari e c’immergemmo nell’edificio più antico, El Mexuar. La prima sala non era molto grande, e la sua conformazione ricordava un bagno termale; diverse colonnine scolpite sorreggevano il soffitto, soppalcato con del legno intarsiato. Si notavano immediatamente i dettagli artistici dei mosaici formati dalle piastrelle blu, ocra, rosso e verde e le arcate finemente lavorate simili a tele di ragno. La sensazione che provai m’era estremamente famigliare: un miscuglio di meraviglia, rispetto, familiarità e soggezione. Forse mi venne anche da piangere… se non all’inizio, sicuramente quando proseguii. Segue il Cuarto Dorado, un piccolo cortiletto lastricato di marmo chiuso fra quattro pareti, con al centro una fontanella tondeggiante, che ricordava un fiore. Da quella visita ho iniziato ad adorare quel particolare tipo di forma, mi comunica un profondo senso di comunanza con la natura… Le prime cose che mi colpirono di quell’ambiente ristretto furono la pulizia e l’ordine. L’origine del suo nome derivava dal suo scopo difensivo. In sintesi, data la disposizione del caseggiato rispetto al percorso del sole, nelle ore centrali della giornata i riflessi di luce, rimbalzando nel piccolo spazio, avrebbero abbagliato e rallentato i nemici, permettendo di mettere in salvo la famiglia reale. Che dritti gli arabi, eh?
Il luogo, invece, ove si rese omaggio alla religione nel modo più bizzarro e mistico, fu il Patio de los Arrayanes, la cui particolarità consisteva nelle sette arcate costituenti i porticati. Sette, un numero che, da quanto ci venne spiegato, è molto importante per la religione mussulmana, poiché è legato alla buona fortuna e ad Allah. Gli arabi, per moltiplicare il valore della loro invocazione, sfruttarono il riflesso dell’acqua per dare l’illusione che il numero delle arcate fosse doppio. Il Salon de Embajadores s’affacciava direttamente sul patio e provocava un forte contrasto fra la luce abbagliante dell’esterno e l’oscurità dell’interno. Le sistematiche aperture romboidali, collocate soprattutto sulla volta, davano la sensazione di trovarsi sotto un cielo stellato. Tramite un piccolo passatoio, affacciato sull’Albaycín, si raggiungeva la Torre de Comares, in cui fu collocata una lastra commemorativa dedicata a Irving che, testualmente, riporto:
 
Washington Irving
Escribió en estas habitaciones sus
Cuentos de la Alhambra
En el año de 1829.
 
Sfacciatamente fortunato, no? Scrisse un libro, che acquistai alla fine del tour, dove raccolse la sua esperienza e gli aneddoti legati all’Alhambra. Il salone seguente è avvolto da un alone tetro e minaccioso a causa di una leggenda sanguinosa, di cui esistono numerose versioni letterarie e popolari che si contraddicono per quanto riguarda i nomi, i ruoli e l’ambientazione cronologica. Io mi limiterò a riportare quanto appreso nel momento della narrazione in loco. La tradizione orale tramanda che all’interno della cittadella araba risiedessero due famiglie rivali, gli Abencerrajes e gli Zenetes. I secondi, volendo al contempo liberarsi dei loro avversari e indebolire il sultano, ordirono una cospirazione, inventando una relazione adulterina fra la sultana ed un appartenente alla fazione avversa. Il sultano Boabdil, l’ultimo che avrebbe regnato su Granada, indignato fece riunire tutti e 37 i cavalieri della famiglia nelle sue stanze private e, si dice, li fece decapitare tutti. A causa della grande quantità di sangue versato, il canale di scolo, collegato al Patio de los Leones, si tinse di un’indelebile sfumatura rossastra. In più, qualche custode sostiene d’aver sentito, nottetempo, dei lamenti provenire da spettrali figure riccamente vestite, che s’aggiravano nei pressi del salone ribattezzato Sala de los Abencerrajes. Erano le anime di quella nobile famiglia assassinata, incapaci di trovare pace. Colpita da questo epilogo violento, chiusi per un attimo gli occhi per immaginarmi come potessero essere andate le cose.
 
♦♦
 
Era una calorosa giornata di primavera e il ventiduesimo sultano della dinastia Nasrí, Abu 'Abd Allāh Muhammad, posteriormente conosciuto come Boabdil, per sfuggire all’afa andalusa decise di concedersi una passeggiata nei giardini del Generalife. Egli era sensibile alle bellezze artistiche e naturali che sempre riuscivano ad alleviare le sue pene in momenti delicati come quello attuale, in cui i sovrani cattolici spagnoli gli procuravano così tanti grattacapi. Sospirando si chinò su una bellissima rosa rossa, per inspirarne il delicato profumo. A qualche metro di distanza sostavano i servi, pronti a rispondere a qualsiasi capriccio del loro padrone, e le guardie reali, agghindate con lunghe scimitarre per poterne garantire la sicurezza. All’improvviso Boabdil, sentendo del trambusto alle sue spalle, si drizzò lentamente per coglierne la causa. Un cavaliere, riccamente vestito, marciò nella sua direzione, s’inchinò innanzi a lui rispettosamente e attese un suo cenno per sollevarsi e parlare.
- Cosa vi porta qui, figlio dei Zenete? -
- Maestà… io e la mia famiglia siamo venuti a conoscenza di un fatto increscioso riguardante la vostra persona… - disse il giovane, riprendendo la posizione eretta.
- Di che genere? - domandò il sultano inarcando un sopracciglio.
- Riguarda la vostra consorte… - rispose l’altro timorosamente, mentre con la coda dell’occhio scrutava i dintorni sospettosamente.
- Che cosa ha fatto la sultana?- chiese con tono imperioso Boabdil, dimostrando la sua impazienza.
- Sire…- esordì il cavaliere, avvicinandosi con aria da cospiratore.- Un membro fidato della mia famiglia riferisce d’aver assistito ad un incontro compromettente fra la sultana ed un cavaliere nel patio de los Arrayes.-
- Come!? Non può essere…!- risposte il sultano sconvolto. Dopo qualche secondo riprese il controllo delle proprie emozioni e soggiunse con voce grave.- Sono accuse pericolose quelle che fate. Dovrete portarmi delle prove affinché io vi creda.-
- Maestà, vi giuro sul mio onore che ciò che vi sto dicendo corrisponde a verità. Se, tuttavia, non mi credete, mandate un vostro uomo a sorvegliare il cortile, questa notte stessa. Lì incontrerà mio cugino Abdallah, il quale lo condurrà nel luogo prestabilito dai due amanti per incontrarsi.- Si bloccò per qualche istante, infine percuotendosi fieramente il petto, fissò i profondi occhi neri in quelli dell’interlocutore aggiungendo.- Se ritenete che la mia sia solo una menzogna, mi taglierò la lingua
personalmente e ve la consegnerò, Altezza!-
La convinzione del messaggero era tale che il dubbio s’insinuò nella mente dello sposo. Si prese qualche secondo per riflettere e alla fine acconsentì ad accertare il fatto. Il giovane s’inchinò di nuovo, per accommiatarsi, e se ne andò, lasciando il sovrano alle sue pene. Ciò che quest’ultimo, ed il suo entourage, non riuscirono a vedere, fu il sogghigno soddisfatto sul volto imberbe di Ahmed Zenete. Quando giunse alla residenza di famiglia venne interrogato dal padre, dallo zio e dai fratelli, ai quali confermò la risposta del re. Suo padre, uomo prestante, dalla barba folta e dagli occhi penetranti, si congratulò con lui. 
- Ben fatto, Ahmed. Grazie al piano che hai ideato riusciremo, con un colpo solo, ad abbattere gli odiati Abencerrajes e ad infliggere una ferita mortale al cuore del sultano. Non ci resta che attendere ormai.-
Venne così la notte e con essa l’infausto incontro. Boabdil incaricò della missione un servo fidato, il quale fu condotto da Abdallah Zenete al luogo esatto del tradimento. Attesero per circa un ora e, quando la mezzanotte scoccò, ecco che i due protagonisti della messinscena entrarono in azione. L’uomo e la donna che si scambiavano
effusioni sotto la luce della luna avevano le esatte sembianze degli incriminati, ma in realtà erano membri della famiglia Zenete camuffati. Il travestimento e l’oscurità della notte non permisero al servitore d’accorgersi dell’inganno, perciò ciò che riportò alle orecchie del padrone fu esattamente la storia imbastita dai Zenete. Egli, profondamento ferito dal tradimento della moglie e di un suo fedele suddito, si fece guidare dalla rabbia e decise di convocare tutti gli uomini della famiglia colpevole. I 37 cavalieri Abencerrajes furono attirati a palazzo con un convocazione falsa, fatta redare da Boabdil in persona, in cui si richiedeva la loro presenza per il conferimento di un’onorificenza. Il giorno seguente gli uomini si presentarono puntualmente e vennero accompagnati nelle stanze private del sovrano, dove vennero disarmati prima d’entrare. Uno ad uno furono introdotti nella sala principale, straripante di guardie e alla cui estremità nord sedeva Boabdil, spalleggiato da Ahmed e da altri membri del clan Zenete. Quando l’ultimo cavaliere entrò nella stanza, le porte d’uscita furono sprangate con un tonfo sordo. I convocati, ignari del proprio destino, iniziarono a sentirsi a disagio a causa della presenza dei loro acerrimi nemici, ma si inchinarono comunque di fronte al loro signore. Questi, infine, prese la parola.
- Miei cari sudditi, oggi siete stati convocati per rispondere delle vostre azioni.- cominciò con voce imperiosa e cipiglio severo.- Sono stato messo a parte di un complotto deplorevole, che mina la mia autorità e che non può rimanere impunito.- I presenti si guardarono l’un l’altro, non capendo cosa stesse succedendo. Il sultano continuò.-  Un membro della vostra famiglia ha corrotto la virtù della sultana ed infangato il mio onore…- Boabdil, stringendo i pugni con rabbia malcelata, con freddezza glaciale, così estranea alla sua indole gentile, soggiunse.- Per lavare l’onta commessa da uno di voi, vi condanno tutti seduta stante alla pena di morte! Guardie procedete!-
Tali parole scatenarono un coro di proteste, molti cavalieri si buttarono in ginocchio chiedendo pietà, proclamando la propria innocenza. Altri cercarono di forzare inutilmente il capannello di soldati che li circondava, e altri ancora maledissero i rivali che s’ergevano, sornioni, ai lati del trono. A nulla valsero le suppliche, i richiami
accorati e le richieste di grazia. Boabdil fu implacabile, e una ad una le teste degli Abencerrajes rotolarono sul pavimento di marmo, tingendolo di un potente rosso sanguigno. Le urla dei condannati si sovrapposero agli incitamenti degli aguzzini, e ben presto tutti gli uomini della famiglia Abencerraje furono sterminati.
♦♦
Poco dopo riaprii gli occhi e mi ritrovai insieme ai miei compagni. Chiaramente gli avvenimenti e alcuni nomi sono stati inventati da me sul momento, quindi non cercate nel mio resoconto fantasioso alcuna traccia di verità. Non la troverete. 
Mano a mano che ci avvicinammo al Patio de los Leones l’intrico di finte ragnatele scolpite sembrò infittirsi sempre più. Sfortunatamente il più celebre cortiletto dell’Alhambra era deturpato da lavori di manutenzione e la fontana con le statue leonine era stata smembrata per procedere al suo restauro. Ciò tolse un poco di fascino al luogo, ma mentirei se dicessi che la delicata perfezione delle proporzioni e delle sfumature bianche e dorate non mi mozzò il fiato. Non m’era difficile immaginare ricche principesse e sultani mentre passeggiavano oziosamente all’ombra di quei suntuosi porticati. Ci riempimmo gli occhi ancora per qualche istante, poi fummo costretti a concludere la nostra visita. Erano le tre del pomeriggio e l’afa era ormai insopportabile. Quando tornai nel mio dormitorio, non riuscì a non ripercorrere il vissuto della mattinata. Ero totalmente rapita. L’Alhambra m’aveva avviluppato nel suo incantesimo, e nelle settimane successive tornai più volte a ripercorrere i suoi giardini pubblici e la sua piazza principale, cercando di coglierne il più possibile i segreti. Quando mi recai al teatro del Generalife, per assistere alla rappresentazione notturna dello spettacolo di flamenco Federico Según Lorca, narrante la storia di Federico García Lorca, capì che l’oscurità era la chiave di tutto. Non so se siano state le luci artificiali a suggestionarmi oppure la mia stessa mente, ma non appena calò il sole, dalla cittadella antica iniziò a traspirare mistero. Assistetti alla rappresentazione con una profonda commozione, conscia d’avere il privilegio di trovarmi in uno dei luoghi più belli del pianeta. Calato il sipario, io e il mio accompagnatore Roberto scendemmo per il sentiero principale e ci ritrovammo innanzi alla Puerta de la Justicia. Volli fermarmi per immortalarla con la macchina fotografica, mentre il mio compagno mi precedeva di qualche passo. Una volta scattata la foto, la riesaminai nell’archivio, poi rialzai lo sguardo per imprimermi il soggetto nella mente senza la mediazione dell’obbiettivo. Fu allora che… vidi qualcosa. Chiamatemi pazza se volete, ma quando osservai di nuovo la porta vidi ai suoi piedi, distintamente, un guerriero a cavallo. Le si ergeva innanzi maestoso, il profilo fiero, una mano sulle redini e l’altra sul pomo della sua scimitarra. Le sue vesti erano immancabilmente arabeggianti, così come la razza della sua cavalcatura. Sentì i suoi occhi puntati su di me e io, sebbene concepissi razionalmente che non poteva essere reale, non provai paura. Chinai leggermente il capo nella sua direzione e lui, per ricambiarmi, sfoderò la lama e la posizionò verticalmente innanzi al viso. Passarono pochi secondi, poi la voce di Roberto mi richiamò alla realtà.
- Vieni, torniamo giù. Inizia a rinfrescare. -
Mi voltai verso di lui per rispondergli e quando lanciai una nuova occhiata al cavaliere, questi era sparito. Rimasi attonita, interrogandomi sulla mia sanità mentale, quando improvvisamente colsi un nitrito lontano. Allora sorrisi e mi dissi che poco importava se avessi visto o meno quell’entità. Ciò che contava era che da quel momento sapevo che avrei portato l’Alhambra nel mio cuore, per sempre.






 

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